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Messaggi - Phil

#2236
Questa teoria metafisica (una rivisitazione di Hegel?) mi pone alcuni interrogativi:
Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMPenso che l'Essere semplicemente è e corrisponde allo spirito. ma di questo spirito nulla si può dir altro perchè non esiste non ha predicazioni
Probabilmente c'è un refuso che è sfuggito alla rilettura: se "l'Essere semplicemente è e corrisponde allo spirito", com'è possibile che "di questo spirito nulla si può dir altro perchè non esiste"?
L'Essere corrispondente allo spirito (sinonimi?!) dovrebbe essere postulato come esistente, altrimenti ne conseguirebbe che l'Essere non è (che è una prospettiva impraticabile nel tuo orizzonte, da quel che ho capito...).

Se poi l'Essere-spirito non ha predicazioni e nulla se ne può dire, come possiamo sostenere che tale Essere emani un'anima? Allora, c'è qualcosa di predicabile riguardo l'Essere-spirito... e com'è possibile ascrivergli tale compito? L'autocoscienza ce lo rivela?


Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMAvviene allora che dall'eterno lo spirito emana un'anima che si incarna nel divenire
Questa emanazione è come l'ipostasi plotiniana o è di altro tipo?

Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMl'autocoscienza che a sua volta ha coscienza di un'anima
L'autocoscienza dunque porge l'idea di anima alla coscienza/ragione tramite... non può essere conoscenza razionale-empirica, quindi suppongo sia tramite intuito, giusto?

Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMQuell'autocoscienza può benissimo sbarrare la porta, in quanto incapace di risolvere il momento del contraddittorio e quindi si risolve e si dissolve SOLO nel divenire e lo accetta come proprio destino. [...] L'angoscia potrei definirlo come il momento in cui l'anima non può più suggerire all'autocoscienza la presenza ontologica dell'Essere da cui viene, per cui ora l'autocoscienza chiude lo sguardo all'anima e rivolge l'attenzione ,la propria volontà,  alla ragione chiedendo continua conoscenza, illudendosi che il momento contraddittorio possa svanire con la sola ragione applicata al sensibile del mondo
Quindi l'anima, emanata dall'Essere, può essere così "difettosa" da non poter indirizzare l'autocoscienza, oppure così "soggetta al caso" al punto da poter anche produrre un'autocoscienza che si lascia intrappolare dalle contraddizioni della ragione anziché guidarla?
La fallibilità al livello dell'autocoscienza, forse non adeguatamente "sollecitata" dalla ragione, come può (se può) essere ri-orientata verso l'anima?

P.s. I miei riferimenti allo "spirito" e alla "cultura" erano un commento alla citazione da Davintro che avevo riportato...
#2237
Citazione di: paul11 il 12 Settembre 2016, 01:26:20 AML'autocoscienza personalmente la intendo dopo l'anima e prima della ragione [...] in realtà è ancora quell'autocoscienza che agisce in quanto il luogo del contraddittorio non ha trovato essenze da parte della ragione che conosce nel mondo sensibile e di nuovo replica le contraddizioni.Fin quando le essenze non hanno trovato le significazioni che diano il senso all'esistenza e di andare oltre al mondo sensibile
Quindi, se ho ben capito, l'autocoscienza per te non è "auto" in quanto "riflessiva" (come autoconsapevolezza, autodiagnosi, etc.), ma in quanto meccanismo automatico (ma non autonomo, perché "è ispirato dall'anima"(cit.), giusto?), che fa da intermediario (da "ingranaggio" intermedio) fra l'anima e la ragione, risolvendo tutto ciò che per la regione è inconciliabile o aporetico (non concordo, ma ho riassunto per farti verificare se ho afferrato la tua prospettiva).
Mi/ti chiedo: l'autocoscienza può comunicare con la ragione? Ovvero, se l'autocoscienza è risolutiva di tutte le apparenti incongruenze che la ragione riscontra intorno a lei, l'autocoscienza può fornire le sue soluzioni alla ragione in modo che l'individuo ne sia cosciente, e quindi la realtà gli risulti meno confusa?
Questo processo di emancipazione dall'apparenza, è eventualmente ancora razionale-mentale oppure è una sorta di "conoscenza superiore", di "illuminazione" (ispirata dall'anima?) che avviene oltre la semplice coscienza "standard"?

Citazione di: davintro il 12 Settembre 2016, 23:21:00 PMPer "spirito" intendo quel modo d'essere di un ente che lo rende non la risultante passiva di una causalità esterna, ma lo porta a rivolgersi verso il mondo in modo attivo, intepretandolo, valutandolo, dandogli un senso e un valore. [...] Appare evidente come intesa in questo modo la spiritualità finisce per corripondere nell'uomo con la razionalità. E ci riagganciamo al tema dell' Universale
Lo spirito sarebbe dunque una ragione ordinatrice dell'esperienza, che allo stesso tempo interpreta e produce senso; ovvero la intendi più come un'attitudine culturale (ogni senso e figlio della sua cultura: "sua" perché la fonda, o "sua" perchè ne deriva, come ha già notato Sariputra) piuttosto che come un'inclinazione verso una trascendenza che prescinde dalla fattualità degli (avvenim)enti. Giusto?
#2238
Due gentili richieste di chiarificazione terminologica, per poter seguire meglio il dibattito:

@davintro
cosa intendi per "spirito"?

@paul11
cosa intendi per "autocoscienza"?

P.s. Se ho ben capito, sono i due termini portanti delle vostre prospettive, e non vorrei fraintenderne il significato...
#2239
Citazione di: paul11 il 11 Settembre 2016, 01:40:52 AMPhil, non stiamo parlando di intellettuali al tempo di Euripide, ma di meno di una generazione fa e praticamente quasi tutti francesi almeno d'adozione.Vuoi che parliamo del livello culturale attuale in Francia? Che cosa hanno prodotto nelle prassi, che testimonianza ci hanno lasciato? Sono persone intelligenti che hanno detto cose anche interessanti: punto.
Non credo che il peso filosofico di un contributo teoretico vada valutato in base al livello culturale del popolo connazionale all'autore... l'elite, l'avanguardia non è la massa (e, ovviamente, il successo culturale non è indice attendibile della "qualità teoretica" di una proposta...). 
La filosofia non è solo politica, economia e società, è anche interpretazione, ermeneutica della vita, per cui i suddetti pensatori forniscono chiavi di lettura che ognuno può cercare di utilizzare, ma che non sono certo destinate a unificare la visione del mondo di uno o più popoli (per fortuna, direi...).

Hanno detto "cose interessanti"(cit.) che hanno aperto nuovi orizzonti, hanno forgiato nuovi strumenti concettuali, e, se si è disposti ad ascoltarli/leggerli con attenzione, si scoprirà che non hanno banalmente ricordato la fallibilità dell'uomo, ma hanno dato un contributo  ulteriore che va oltre (non solo "dopo") la filosofia precedente... il che non toglie che si possa serenamente e legittimamente essere hegeliani o tomisti o aristotelici anche nel 2016 (anzi, proprio in base a tutti i contributi successivi, critici ed ermeneutici, si può esserlo anche in modo differente...).
#2240
Citazione di: paul11 il 10 Settembre 2016, 11:14:44 AMQuasi tutti gli uomini di pensiero da Deridda a Foucoult, Deleuze, Sartre, ecc. sono "dentro" il meccanismo culturale e nella forma della conoscenza in uso, anche quando esercitano la critica E' quella cultura che è stata riassorbita dal sistema con molta tranquillità, perchè porsi anti-sistema o decostruirlo significa ancora essere "dentro" quel sistema. Tutti hanno fallito e si sono arresi, culturalmente, umanamente, predicando l'inanità umana. Io vedo oggi le conseguenze di un secolo di contraddizioni culturali.
Non sminuirei l'apporto di quegli autori, mettendoli sul piano del "fallimento": in filosofia (ma non solo) non c'è semplice distruzione, ma piuttosto "archiviazione storiografica", delle posizioni non più "fungenti" e ormai teoreticamente desuete (così come i computer attuali non hanno distrutto quelli precedenti, li hanno solo rimpiazzati...). 
Proporre una complicazione, una prospettiva dissonante, una decostruzione, non ha l'obiettivo ingenuo di spazzare via lo scenario precedente (di cui tale "nuovo" si alimenta, seppur criticamente...), ma di concepire nuove posizioni nell'"abitarlo", nell'"usarlo" o, più semplicemente, nel pensarlo. Il che può produrre un altro sistema fruibile, per chi è disposto ad abbandonare il vecchio (vedi possibilità del pensiero "debole" postmoderno...). 
Comunque, anche "restare dentro" un sistema, dopo Derrida & co., può assumere nuove posizioni, prima impensate, e questa mi pare una conquista per il pensiero, non un fallimento... 

P.s. Credo che il pensiero post-metafisico non sia stato affatto riassorbito dalla metafisica (non gli sta più "dentro", ma ha prodotto un nuovo "fuori"), anche se non è stato ancora assorbito dal senso comune ed è ancora snobbato in molte accademie... è stata una tappa "evolutiva" della filosofia di cui ci si renderà conto diffusamente forse fra un decennio...
#2241
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 23:38:29 PMPhil, come ho scritto a Maral rischi di perderti nelle infinite molteplicità in divenire linguistico che infatti hai colto giustamente, Il problema è che così non individui la Forma come raccoglimento delle astrazioni per giungere alle essenze delle sostanze sensibili, empiriche e fisiche, ma continuamente cercherai differenze, dualità, contrapposizioni e in quanto tali le sintesi saranno sempre parziali.

In un orizzonte di ricerca post-metafisico (postmoderno, etc.) il mito dell'Essenza, dell'Essere, della Verità, etc. di obiettivi assoluti, risolutivi e perfetti può essere (non "deve essere") sostituito proprio dal continuo, "rizomatico" (Deleuze), parziale (ingrato ma appassionante) lavorio di interpretazione, di coniugazione, di "aggiornamento" e ristrutturazione/decostruzione (che vanno di pari passo...). 

Si tratta, come da sempre, di scegliere se orientare la ricerca affidandosi al divenire oppure inseguendo l'immutabilità eterna... una delle due possibilità è abbastanza riscontrabile, quindi fornisce elementi concreti su cui "lavorare"; l'altra, nonostante l'imperituro fascino "classico", vive di tradizioni e "nobili" concettualizzazioni, che tuttavia iniziano ad arrancare con il progredire delle scienze:

Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 22:24:57 PMLe teorie filosofiche moderne hanno portato acqua al mulino del buon Phil che pone un problema linguistico e infatti la sua posizione è nella non trascendenza
Qui al mulino (non sono Banderas, ma solo uno "stagista"  ;D ), finché le ricerche filosofico-scientifiche scorreranno sul fiume del linguaggio, l'acqua non mancherà di certo... e non è comunque facile fare manutenzione a degli ingranaggi che non si fermano mai...
#2242
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 09:11:15 AMTu non pensi che l'universalità nasca già in un ragazzo, nel momento in cui confrontando gli oggetti nel mondo e imparando a denotare linguisticamente quella "cosa" e chiamandola casa costruisce un insieme che li accomuna? 
Secondo me l'universalità è un attributo derivato dall'astrazione ("astrazione negativa"), per cui fra l'esperienza sensibile di quel ragazzo e l'universalità dei casi linguistici possibili, il passaggio cardine è l'azione dell'astrazione. 
Su tutto il resto sono d'accordo, discernerei soltanto fra il concetto di "universalità" e l'operazione di "astrazione" (troppo cavilloso?). 

Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 09:11:15 AMNon è che cambiano i metodi sperimentali in funzione degli oggetti fisici da studiare e determinare. la regola di base è universale.Se analizzo un tessuto di un malato non cambio metodo in funzione della persona, così come non muto il procedimento step by step di un'analisi chimica. ma attenzione, qualunque metodo applicato alle varie discipline scientifiche , che si tratti di scoprire il bosone di Higgs oppure di analizare un tessuto organico o di procedere all'analisi chimica con reagenti è a sua volta nella regola universale della repitibilità della sperimentazione affinchè siano avvalorati i dati finali. 
Se non erro, i metodi sperimentali di studio non cambiano in funzione degli oggetti (x1, x2, x3...), ma cambiano in base al tipo di oggetto (x, y, z...): è vero che ci sono alcune linee guida generiche (una sorta di "buon senso" scientifico), fra cui la ripetibilità, la formalizzazione, etc. ma ogni disciplina di studio (chimica, etologia, fisica, linguistica, etc.) ha dei metodi personalizzati ad hoc, ed è proprio questo essere calibrati sull'oggetto di studio che li rende applicabili. Quindi i principi generali del buon metodo scientifico vanno poi declinati in base al campo d'applicazione, diventando metodi (al plurale).

Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 09:11:15 AMOra se le leggi e procedure a loro volta sono state formulate grazie alla logica/ matematica, se quello stesso procedere nella correttezza formale con l'analisi fosse portata a isoli concetti estrapolati dal mondo attraverso il segno e simbolo dell'astrazione, non capisco dove sia il problema? 
Più che un problema, c'è un rischio: quello dei falsi problemi... quanto più un ragionamento è lontano dall'esperienza (autoreferente nel suo formalismo), tanto più diventa non-falsificabile (e qui Popper storcerebbe il naso) con le conseguenze aleatorie che ne derivano... finché si tratta di gareggiare con una tartaruga, è facile riportare la teoria alla realtà (e fare i conti con i fatti), se invece non si tratta di formalizzazioni verificabili, allora l'episteme rischia di diventare dotta doxa scientista...

Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 09:11:15 AMBasta vedere la prova dimostrativa logica di'esistenza di Dio da parte di un certo Godel.
... e questo potrebbe essere uno dei casi a cui mi riferivo prima (dotta doxa non-falsificabile); ma lascerei i discorsi religiosi all'apposita sezione  ;)

Citazione di: sgiombo il 09 Settembre 2016, 12:47:57 PM
noto che l'osservazione empirica (superficialmente, acriticamente assunta -anzi: interpretata- sembrebebbe dare sonori ceffoni anche a chi sotenesse che il bastone immerso parzialmente nell' acqua non si piega, che la terra é sferica e non piatta, che il sole é realtivamente fermo e la terra relativamente in movimento intorno ad esso, ecc., ec., ecc. 
[corsivo mio]
Infatti la "qualità" dell'interpretazione dell'osservazione-sperimentazione non ha un ruolo affatto marginale. In fondo è la stessa esperienza concreta ad aver dimostrato che il bastone non si piega (basta toccarlo sott'acqua), che la terra è sferica (nave che scompare all'orizzonte e viaggi intorno al globo), che la terra si muove relativamente al cosmo (osservazione astronomica della posizione delle stelle, se non dico una blasfemia...). Quindi in questi casi c'è stata una prima esperienza ingannevole a cui è seguita un'esperienza più critica che ha svelato l'arcano.
Nel caso di Zenone, al contrario, l'esperienza non forniva nessun inganno o stranezza (Achille batte sempre la tartaruga senza intoppi!), ma l'elucubrazione astratta ha invece congetturato un (falso) problema delle distanze parziali, dei tempi intermedi, etc. Se lo scopo era confermare l'essere parmenideo con i suoi attributi, il buon Zenone ha impostato i suoi argomenti paradossali in modo controproducente (costruendo una pseudo-realtà, parodistica e virtuale, in cui si pone il problema della gara fra i due protagonisti e il vincente non è quello "reale"...). 
#2243
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 00:50:18 AMPhil, francamente non ho ancora capito la tua tesi, o se ne hai. 
Questa è l'onestà intellettuale di cui parlavo, apprezzo la tua sincerità, grazie! 

Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 00:50:18 AM1)che abbiamo innati dei meccanismi delle premesse che diverranno logica, come l'inferenza che permette di selezionare , differenziare e poi unire 
Concordo.

Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 00:50:18 AM2) il mondo fisico, empirico ci serve,dal punto di vista della sistematizzazione delle astrazioni. come esperienza di affinamento di quei meccanismi che diventano regole formali ampliandosi oltre all'inferenza. 
Concordo.

Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 00:50:18 AM3) l'universalità nasce prima ancora della razionalizzazione logica della forma dell'astrazione in concetti
Su questo non concordo, ma ne ho già discusso a lungo nelle pagine precedenti con Davintro (non voglio rendere il topic ridondante).

Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 00:50:18 AM4) la scienza moderna costruisce un metodo sperimentale a prescindere dall'applicazione, 
Un metodo sperimentale che prescinde dall'applicazione, non so se possa essere definito sperimentale (chi glielo spiega a Galileo?).

Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 00:50:18 AMlo stesso procedimento formale regolativo può essere utilizzato in diversi domini.
...e in questo essere "multiuso" si annida il rischio di falsi problemi di cui parlavo prima, che giustifica una riflessione epistemologica sul metodo del domandare (ancora prima che sull'"oggetto" della domanda).
#2244
Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PMPhil, il problema è tuo non mio. 
Scusami, ma non ho ben capito di quale problema parli...

Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PMTu riconosci la forza della ragione ,ma hai fede nella percezione della realtà
"Fede" non mi sembra la parola esatta  ;) ; se hai avuto modo di leggere i miei post precedenti, quelli sull'astrazione, avrai notato che ne faccio una questione di "linguaggio" (e di interpretazione), non di realtà...

Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PMla dicotomia è tua e genera incoerenza. 
Anche qui non colgo: quale incoerenza?

Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PMTu pensi che il mondo si offra a noi per essere conosciuto, 
In tutta onestà, non lo penso... dove hai letto qualcosa che ti ha spinto a interpretarmi così?
Per me, il mondo non "si offre", ma è l'uomo che gli si rivolge con tutto il suo apparato di (pre)concetti, teorie, forme astratte, esperimenti, etc. la conoscenza è una struttura formale (im)posta dall'uomo alla sua stessa visione del mondo (ecco l'autoreferenza!).

Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PMma l'uomo può sapere ancora prima di conoscere perchè i meccanismi sono innati
L'uomo prima di conoscere qualcosa, non "la sa"... ipotizza, teorizza, suppone, spera, intuisce, deduce ma non sa (per questo esistono le famigerate "eccezioni alla regola"...); proprio perché, come tu ricordi, i meccanismi sono innati, non la conoscenza (e anche il meccanismo innato è sottoposto a manutenzione, verifica, modifica, etc. da parte del singolo individuo...).


Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PMLa relatività era nella mente di Einstein, e non ancora dimostrata là fuori nel mondo 
Era già nella sua mente come idea platonica, oppure lui l'ha elaborata partendo da tutto l'apparato formale (matematico, etc) già  disponibile, modificandolo, completandolo, arricchendolo, grazie ad un ragionamento "originale"... non a caso, sul piano linguistico, ho già accennato ai "neologismi" come irruzione del "nuovo" che riformula, altera, stravolge il "vecchio"...
#2245
Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 21:26:23 PMphil, mi par di capire che se per te esiste una critica alla conoscenza è posta in funzione del dominio in cui si utilizza. Non so se ti fidi allora della forma, a te interessa la sostanza.Quindi ritieni che il mondo fisico giustifichi la verità formale e non la forma in sè, tanto meno quando la sua escursione è fuori dal dominio fisico. E' così?

Non la penso così. Provo a spiegarmi meglio: penso che la forma (astratta) sia imprescindibile per il ragionamento (che è anch'esso astratto), constato che esistono elementi formali e concetti che non hanno una dimensione empirica e proprio per questo possono regolare il mondo (sociale, scientifico, etc...), la stessa filosofia può occuparsi tenacemente e "doverosamente" di questioni non osservabili o esperibili... 

Ben vengano ricerche, intuizioni, supposizioni e "ipotesi di lavoro", ma ciò su cui porrei l'attenzione è anche la possibilità (non necessità!) di coinvolgere l'esperienza (come ci insegna la scienza classica: sperimentare!), almeno se è possibile... un esempio banale: posso anche congetturare una forza di gravità che spinge i corpi lontano dalla terra, cercare di matematizzarla, etc. ma se l'esperienza mi dimostra che non è così (v. Zenone), devo rinunciare a sostenere quella teoria e idearne una nuova, magari non a partire da quella "sbagliata", ma iniziando nettamente da capo. 

Se invece teorizzo un'interpretazione ermeneutica, non devo pormi il problema di cercare una verifica empirica, così come se propongo una chiave di lettura socio-politica della storia di una civiltà, non dovrò fare esperimenti, ma al massimo verificare le fonti su cui mi baso...

Per le questioni filosofiche più teoretiche si tratta, secondo me, di interrogare anzitutto la stessa interrogazione, domandarsi il "come" ci si pone la domanda (prima di rivolgersi al "cosa" ci si domanda), di tenere più aperto possibile l'orizzonte della ricerca e, per onestà intellettuale (come si diceva tempo fà), essere pronti a riconoscere le impasse, le delusioni e, soprattutto, i falsi problemi... 

P.s. In filosofia tutto è lecito? No, quella è la letteratura...  ;)
#2246
Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2016, 19:50:40 PMMa chi stabilirebbe la "proprietà" o meno del nostro domandare, ovvero "quando il domandare resta chiuso nell'autoreferenza formale della sua logica ma non ci apre al mondo o ad un ulteriore sapere" e quando no?
come suggerivo nella domanda citata:

Citazione di: Phil il 08 Settembre 2016, 15:57:47 PMLa consapevolezza che la razionalità non è la realtà, non è l'unico criterio che abbiamo per individuare gli usi impropri del nostro domandare[...]?
questo almeno come prima indicazione; il resto direi che è compito dell'epistemologia.


Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2016, 19:50:40 PMMi pare che i paradossi di Zenone (che ritengo logicamente errati e confutabili, ma questa é un' altra questione) non siano chiusi in una loro logica narcisistica e autoreferenziale, ma riguardino il mondo reale.  
Secondo me, sono chiusi nel loro narcisismo proprio perché non guardano (letteralmente) il reale che li circonda: l'osservazione empirica dà un sonante schiaffo a Zenone mostrandogli Achille che surclassa subito la tartaruga, falsificando di fatto l'apparente paradosso, e dimostrando che il problema si pone solo nell'autoreferenza del sofisma zenoniano, ma non nella realtà. 
A che giova allora speculare e confabulare su un problema che sembrerebbe essere reale, ma che in realtà è tale solo sulla carta? Ecco il narcisismo filosofico che, a caccia di problemi (come se non ne avesse già abbastanza!), va in "overdose" di speculazione e perde di vista i fatti, oppure li super-interpreta...

Restando al tema dell'osservare la realtà e parlando ancora di animali asserviti a scopi filosofici, direi che il gatto di Schrodinger, pur nella sua paradossalità, è molto meno "sofistico" della tartaruga zenoniana, perchè non pone una questione smentita palesemente da fatti comunemente osservabili... un maestro zen (che scomodo spesso in questi casi) avrebbe dato una sonora bastonata a Zenone, per riportarlo con i piedi per terra (e per non farlo travolgere da Achille in corsa...), ma probabilmente non avrebbe alzato un dito per Schrodinger (forse perché non avrebbe compreso il meccanismo radioattivo escogitato  ;D).

Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2016, 19:50:40 PM Le domande importanti per me [...] non sono solo quelle poste dalla pratica immediata del vivere "giorno per giorno", dei mezzi per conseguire scopi acriticamente assunti in determinate circostanze, ma anche quelle "teoriche (più o meno) pure" circa quali scopi porsi nella vita in generale [...] o com' é la propria vita e la realtà in cui ci si trova
Su questo non vorrei essere frainteso: mettere in guardia dai falsi problemi filosofici, non riduce tutta la ricerca filosofica alla soluzione di questioni pratiche, anzi... interrogarsi sui problemi ("decostruirli" si diceva) significa fare una filosofia critica rivolta proprio al domandare filosofico stesso, cercando di eliminare i "virus" del pensiero, le perdite di solidità nel ragionamento ed evitando che la ragione si incanti di fronte al suo specchio per contemplare i suoi sterili virtuosismi...
#2247
Citazione di: paul11 il 07 Settembre 2016, 18:51:39 PME' nella nostra natura chiedersi, visto che siamo arrivati ai concetti astratti dei numeri e parole segnici e la loro operazionalità che contribuisce a definire un sistema con delle proprietà postulate come fondativi, che cosa ci faccio al mondo, l'universo ha un principio e finirà, ecc. Pensare di non poter pensare, ovvero fermarsi alla sola coniugazione fra forma e sostanza fisica, significa mortificare la propria essenza e potenzialità umana.

Eppure, la constatazione che la matematica, la logica e il linguaggio siano convenzioni arbitrarie ed autoreferenti, non ci insegna anche che alcune delle questioni che esse pongono sono (in buona fede) altrettanto arbitrarie e autoreferenti? 
Se quelle discipline mediano fra il nostro intelletto e ciò che ci circonda (il mondo), tale mediazione non può essere anche mal impostata o distorta e produrre dei falsi problemi? 
La consapevolezza che la razionalità non è la realtà, non è l'unico criterio che abbiamo per individuare gli usi impropri del nostro domandare, ovvero quando il domandare resta chiuso nell'autoreferenza formale della sua logica ma non ci apre al mondo o ad un ulteriore sapere?

Per fare un esempio (a cui già mi sono riferito in precedenza): il problema zenoniano della competizione fra Achille e la tartaruga non è un forse un problema "serio" solo per la logica e per la matematica (ma non lo è affatto per l'esperienza)? Ciò non indica forse che quel problema era mal posto perchè risultava paradossale solo nella chiusura della sua logica narcisistica, ma perdeva di vista il mondo?


P.s. Mi scuso con Paul che, se non erro, ha già avuto la pazienza di discutere con me su questi temi... ma, richiamando il titolo del topic, mi sembrava opportuno ricordare come una "critica della conoscenza" (in entrambi i sensi!) può essere spesso quella di non (ri)conoscere i propri limiti (talvolta limitarsi è opportuno...) e di affrontare qualunque problema (soprattutto quelli ritenuti ormai "classici") con troppo entusiasmo, senza verificarne la legittimità o, visto che Maral ha citato Derrida, senza decostruirli prima di lanciarsi alla ricerca della risposta...
#2248
Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMMa cosa renderebbe possibile la "negazione"? 
Il ragionamento logico (che non ragiona solo in modo universalistico), basato sull'astrazione formale, basata sull'esperienza.

Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMAnche se, ammesso e non concesso, il concetto di universalità fosse ricavato per astrazione negativa da quello di particolarità, senza che esso sia il presupposto formale della possibilità di avere un concetto di "particolarità" come di qualunque altro concetto (come invece ritengo io) tuttavia occorrerebbe che il concetto di "particolarità" comprenda in sè la possibilità di essere negato, così da poterne derivare il concetto opposto, quello di "universalità".
La "possibilità di essere negato"(cit.) non è in nessun concetto (in sé), ma credo sia tutta nella logica della mente che ci si relaziona... 
Inoltre, secondo me, il concetto di particolarità non ha bisogno di un "presupposto formale"(cit.) che sia a sua volta un altro concetto, poiché può essere esperita, ed esperendola, una mente elucubrativa, dopo averne astratta la forma, può logicamente congetturare il suo opposto. 
[L'idea di universalità è innata? Eppure non mi stupirebbe scoprire che in alcune lingue-culture non esiste una parola per questo concetto (nonostante magari esistano invece parole descrittive, come "sempre", "mai"...).]

Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMDunque, la negazione presuppone un rapporto di opposizione e la coscienza dell'opposizione presuppone la coscienza della differenza dei termini che si oppongono. 
Le negazione non presuppone il rapporto di opposizione, la negazione è il rapporto di opposizione... altrimenti quale sarebbe la differenza fra negazione e opposizione? Se dico che il bello e il brutto sono "opposti", dico anche che uno è la negazione dell'altro...
"La coscienza della differenza dei termini che si oppongono"(cit.) è l'effetto, non la causa, della negazione: negando la bellezza di qualcosa, prendo coscienza della sua bruttezza... la negazione come mancato riscontro di alcune qualità (stando all'esempio della bellezza) viene prima cronologicamente della sua applicazione concreta fra due elementi.

Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMLa negazione di A non porta necessariamente a B, prima devo sapere in cosa consistono A e B per poi dire che una è la negazione dell'altra. Mi rendo conto che questa tesi ha un senso solo nel contesto in cui la formazione delle idee non coincide con la formazioni sintattiche del linguaggio, delle definizioni chi usiamo (per le quali si potrebbe tranquillamente dire che la differenza tra B e non-A è solo convenzionale, dunque non avrebbe senso pensare a un'intuizione di B oggettivamente distinta da non-A), ma è data dal complesso di rapporti non tra parole, ma tra vissuti intuitivi e concreti della nostra esperienza delle cose, considerata in uno stadio originario e diretto, non ancora mediato da un apparato simbolico comunicativo 
Nel momento in cui riflettiamo su quei "vissuti concreti" non possono non entrare in gioco il linguaggio e la logica; se non riflettiamo sui vissuti, non si pone nemmeno il problema della universalità, perché ogni vissuto e individuale hic et nunc.
Credo dunque che non si possa postulare quella "B" (l'universale) senza identificarla prima cronologicamente con "non-A"(non-particolare): la relazione di negazione astrattiva innescata da A (il particolare) non produce certo alcuna "sostanza", ma solo una congettura (non-A, ovvero B) che attende di essere verificata (in questo caso ciò è impossibile, e questo può far riflettere molto...). 
Per questo citavo gli esempi di altri concetti inesperibili (assenza, nulla, eternità...) derivati dalla relazione di astrazione negativa... 


Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMIo posso, riflettendo sul processo di astrazione, rendermi conto della necessità per il costituirsi di tale processo dell'intuizione dell'idea di universalità [...] Dunque, l'intuizione dell'universalità prescinde dall'astrazione dal sensibile (anzi, rende possibile quest'ultima), ma alla luce del condizionamento dell'esperienza sensibile sulla nostra conoscenza, noi non possiamo raggiungere uno stadio della conoscenza totalmente intelligibile e dunque dobbiamo trovare nella sensibilità gli aspetti che rendono possibile l'esperienza di questa, e possiamo riconoscere la necessità dell'intuizione dell'univeralità, non in sè stessa, ma come condizione trascendentale di tale esperienza sensibile. 
[grassetti miei]
Quel "dobbiamo trovare" ciò che rende "necessaria" l'intuizione dell'universalità, è un dovere epistemologico o il sintomo di una petitio principii? Ovvero: se non riuscissimo a trovare qualcosa che fonda l'innatismo dell'universalità, questo verrebbe smentito, e allora (per evitare ciò) postuliamo un circolo (vizioso) fra l'intuizione dell'universale nel particolare e la necessità del particolare di rimandare all'universale... ma ciò non dimostra l'innatismo dell'universalità (solo l'evidente presenza del particolare).
Inoltre. tale intuizione non partirebbe forse dal sensibile, esattamente come l'astrazione? ;) 
Se invece è un'intuizione di origine divina, non posso che azzittirmi di fronte alla fede altrui...


Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMSe si vuole, è un processo di riconoscimento "retroattivo", dagli effetti alle cause.
Soltanto che per me la causa è il particolare, per te l'universalità: percorriamo la stessa strada in due direzioni opposte (per te, l'universalità, innata ed intuitiva, è la condizione di possibilità dell'astrazione; per me l'astrazione formale può anche non essere universale, e l'universale è solo uno dei risultati concettuali del processo di astrazione...); praticamente, io scommetto sull'uovo, creato per "fecondazione eterologa" dal/nel linguaggio, tu sulla gallina  ;D
#2249
Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:37:17 AM
Citazione di: Phil il 01 Settembre 2016, 21:49:04 PMse riconosco e definisco qualcosa come "bello" o "duplice" o "astratto" è perché mi è stato precedentemente insegnato e spiegato cosa significa "bello" e "duplice" e "astratto", e come individuare queste caratteristiche nell'esperienza (oppure, in alternativa, creerò dei neologismi...).
[...]Certamente questi significati, come ogni significato, è dato dalla cultura in cui si cresce, ma ogni cultura come lo ottiene? Dove lo trova?
[corsivo mio]
Non a caso accennavo ai neologismi: il "vocabolario" è dinamico, non è un insieme chiuso e statico... e nel "vocabolario" (uso le virgolette perché non mi riferisco solo all'esemplare cartaceo o informatico, ma anche a quello "vivo", culturale, sociologico, etc.) ci sono anche concetti astratti, concetti recenti e tanto spazio (infinito!) per concetti nuovi. 
Come mai oggi possiamo parlare di "virtuale" e due secoli fa non era possibile? Chi ce lo ha insegnato? Qualcuno che ha coniato e definito quel termine in risposta ad un'esigenza comunicativa, quindi il concetto di virtuale è a posteriori, anche se oggi può essere insegnato a priori a chi, come i bambini, non ha ancora avuto esperienza del virtuale.


Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:37:17 AMma nessuno insegna che esiste il bello o che una certa esperienza delle cose è bella come una diversa esperienza. Al massimo si insegna un vocabolo con cui poter comunicare il proprio sentire e non il sentire né il modo di sentire in esso la qualità
Credo invece che la bellezza, come gran parte delle parole-concetti "comuni", venga insegnata/appresa (a seconda della prospettiva) e sia la condizione di possibilità di ogni "esperienza bella" vissuta come tale: prima che la bellezza abbia una sua identità (logica, culturale, semantica...), l'esperienza non viene vissuta come "bella" dal soggetto, proprio perché egli non la può definire tale. Le sensazioni che prova non hanno un nome. Dopo che questo nome gli viene insegnato, le sensazioni sono le medesime ma hanno un'identità concettuale-linguistica, non sono più solo sensazioni (e qui c'è un bivio del discorso che porterebbe a discutere su quanto il linguaggio influenzi, condizioni e predetermini i paradigmi dell'esperienza umana, Korzybski docet... ma restiamo sulla strada principale).
Questa identità (la "bellezza") consente di distinguere il "bello", dal "simpatico", dall'"eccitante", dal "rassicurante", dal "sorprendente", etc. e da tutti quei concetti (di sensazione) che possono altrimenti essere confusi, come semplice "esperienza piacevole", prima che il soggetto in questione non li distingua ciascuno con il suo apposito termine (ben definito e che sarà il criterio delle individuazioni future del "bello", "simpatico", etc.).

Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:10:27 AMtanto assurdo quanto pensare che vi sia prima una bellezza ideale astratta senza le cose diversamente e concretamente belle.
Non sono d'accordo: può esserci un concetto astratto acquisito che non è stato ancora sperimentato estensionalmente (o che forse non lo sarà mai, v. divinità); può esserci, in teoria, bellezza senza il vissuto di "cose belle", così come si può avere il concetto di "amore" senza aver esperito vissuti "amorosi": quando te ne parlano, da bambino, magari non sei mai stato ancora innamorato, ma quando ti capiterà assocerai quella sensazione-esperienza a quella definizione che già ti era stata insegnata (e se questo meccanismo di deduzione funziona con qualcosa di estremamente aleatorio e soggettivo come l'amore, direi che può ben funzionare anche con concetti meno sfuggenti  ;) ).

Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 12:19:23 PM
Citazione di: paul11 il 01 Settembre 2016, 22:11:55 PML'utopia di riuscire a costruire un sistema formale esatto, certo, vero è esploso a cavallo fra fine Ottocento e inizi Novecento grazie alla fisica soprattutto. Il risultato è l'implosione della verità nei sistemi formali,esattamente l'opposto di quello che si voleva ottenere.Aporie, antinomie paradossi logici sono solo la punta dell'iceberg dell'ambiguità nel rapporto relazionale fra forma e sostanza e fra forme stesse.
Certo, poiché l'utopia di un sistema formale esatto e logicamente fondato esige la completa autoreferenzialità non contraddittoria ai presupposti (postulati definiti) di quel sistema, ma è proprio questa assoluta autoreferenzialità definitoria astratta che, interpretata in modo formalmente corretto, rivela la sua inevitabile autocontraddizione formale.
Qui sarei un po' più ottimista, leggendo Godel come "giustificatore" del pluralismo logico e distinguendo la concreta funzionalità della logica dai casi in cui invece
Citazione di: Phil il 03 Settembre 2016, 17:41:17 PMalcune astrazioni creano falsi problemi e paradossi che "concretamente" non sussistono (Zenone docet!)
#2250
Citazione di: davintro il 03 Settembre 2016, 16:29:14 PMPerchè il principio di corrispondenza per cui il concetto di "albero" e "casa" sono ricavati da realtà che corrispondono al significato del concetto, cioè alberi e case, non varrebbe più per l'universalità che invece andrebbe ricava dall'esperienza di una realtà che universale non è?
Credo che la risposta a questa domanda sia l'"astrazione negativa" a cui accennavo in precedenza (e che, per inciso, non è una mia invenzione!): alcuni concetti non appartengono a realtà esperibili, ma sono stati comunque derivati dalla negazione di ciò che è esperibile. 
Come posso sapere cos'è l'"assenza", se sperimento solo presenze? E il concetto di "eternità"? E il "nulla"? Sono tutti concetti definiti (oltre che da una tradizione che ce li insegna e da un vocabolario che ce li spiega) logicamente dalla negazione di un'astrazione che possiamo basare sull'esperienza. 
Per questo alcune astrazioni creano falsi problemi e paradossi che "concretamente" non sussistono (Zenone docet!).

L'universalità (una volta acquisita per astrazione dalla particolarità), secondo me, è come l'"esponente" matematico, la "potenza" che moltiplica i risultati della singola astrazione; ad esempio: guardo una cavallo - astraggo alcune caratteristiche - ottengo la "forma astratta di quel cavallo" ("FC") - negando l'individualità (dell'esperienza conoscitiva di quel singolo cavallo), ottengo una non-individualità dell'esperienza, detta universalità (n) - coniugo la "forma astratta" di cavallo (FC) con la congetturata universalità (n) - inizio a pensare quella "forma astratta" valida per un numero infinito di cavalli (FCn). 
Salvo poi dover verificare se in quella forma ho considerato qualcosa che invece è solo una contingenza particolare di quel singolo cavallo...

Citazione di: davintro il 03 Settembre 2016, 16:29:14 PMNon è piuttosto più coerente pensare che l'apprensione dell'universale sia qualcosa dipendente dall'esperienza di qualcosa di realmente universale
[corsivo mio]
Se anche esperissimo qualcosa di universale non lo sapremmo mai con certezza, perché non potremmo verificarne l'universalità, quindi non potrebbe essere quella l'esperienza che fonda l'universale come concetto (salvo crederci per fede... ma tale credenza tuttavia presuppone già l'acquisizione del concetto di universalità da una tradizione o da un "vocabolario", per cui tale concetto di universalità sarebbe semplicemente "ricevuto" e presupposto...).