Menu principale
Menu

Mostra messaggi

Questa sezione ti permette di visualizzare tutti i messaggi inviati da questo utente. Nota: puoi vedere solo i messaggi inviati nelle aree dove hai l'accesso.

Mostra messaggi Menu

Messaggi - davintro

#226
Citazione di: Jacopus il 06 Maggio 2019, 23:49:35 PMLa pena nei secoli ha avuto una evoluzione non indifferente. Davintro ha scelto una posizione virata fortemente verso la posizione "utilitaristica". La pena deve assolvere ad un compito economico, di restituzione e di gestione della società nel suo complesso. Va bene, per carità, ma è solo una forma un po' raffinata della lex talionis. Un'altra grande tradizione è quella "retributiva". Hai fatto del male, ti restituisco del male, possibilmente in un modo talmente geometrico da essere inattaccabile. Poi c'è la tradizione "social-preventiva": punisco il reo come esempio, per impaurire e controllare tutti i possibili rei. Accanto a queste tradizioni che accettano la pena, vi sono quelle critiche nei confronti della pena, a partire da quella marxista, per cui il diritto penale non è altro che il cane da guardia dei rapporti di classe. Per passare ad altre interpretazioni più sofisticate per le quali ad esempio la pena serve per distinguere "paranoicamente" i buoni dai cattivi. Penso che non potremmo, sul breve-medio termine fare a meno del diritto penale, per motivi difficili da sintetizzare ma che chiamano in causa anche la trasmissione genetica, ma occorrerebbe sentirci, di fronte ad un reato sempre come co-responsabili, e in quanto tali promotori di un mondo meno violento e più giusto e questo mondo non si può cercare né voltandoci dall'altra parte, né condannando persone fragili ad un ruolo che finisce per diventare identità e perpetuare il male e i reati. Contemporaneamente dobbiamo interrogarci sui nostri comportamenti, spesso altrettanto illegali come quelli della delinquenza comune, ma coperti dalla patina della rispettabilità da "colletto bianco". Nulla di nuovo in fondo. È già stato tutto detto da Gesù Cristo in termini magari più semplici ma che colpiscono il cuore della questione, con buona pace di tutti i cristiani-crociati.

solo per un chiarimento... a quanto ne so la legge del taglione è appunto basata sulla restituzione in termini "vendicativi" di una pena proporzionata all'offesa ricevuta, quindi dovrebbe ricadere pienamente nella tradizione "retributiva", che però è lontanissima da quella che ho provato a esporre... Nella mia posizione il fine della pena non è ristabilire alla "occhio per occhio, dente per dente" una sorta di equilibrio cosmico turbato dal reato che si intende sanzionare (che presupporrebbe l'idea dello stato come soggetto giudicante etico, in opposizione all'idea di stato liberale che ho espresso), ma solo un ruolo di prevenzione nei confronti di reati futuri. Danneggiare una persona, anche se criminale, privandolo della sua libertà va a mio avviso accettato solo come un male minore, entro i limiti in cui è necessario a evitare che i reati commessi possano perpetuarsi, mentre, estremizzando, nel caso che un autore di crimini, anche particolarmente efferati, subisse dopo averli commessi danni invalidanti che ne annullino del tutto la pericolosità sociale, non dovrebbe nella mia prospettiva subire la minima pena, perché in quel caso sarebbe solo un accanimento e una vendetta gratuita da parte dello stato che non fa altro che aumentare la sofferenza nel complesso della società, senza cancellare alcun danno in precedenza provocato. Cioè dal mio punto di vista la pena ha senso solo da un punto di vista pratico, un male minore funzionale a evitarne di peggiori, nulla di più lontano dal carattere moralistico di risarcimento vendicativo sottinteso alla legge del taglione. Tra le due posizioni non vedo davvero alcuna possibilità di confusione o identificazione, tale dal far considerare una la "forma un po' raffinata" dell'altra
#227
uno stato che presume di giudicare i casi in cui un criminale meriterebbe di continuare a vivere oppure di morire è uno stato che si arrogherebbe un'autorità morale, che, sulla base delle motivazioni essenziali del suo sorgere, non potrebbe avere. L'autorità morale di decidere quando una vita è degna di essere vissuta o meno. Lo stato di diritto esiste come mezzo, strumento di tutela della vita, non come fine a se stesso, ed è chiaro che eliminando una vita umana, senza che il male commesso possa essere cancellato e dando arbitrariamente per scontato l'impossibilità di un pentimento e di una rieducazione del reo, agirebbe in contraddizione con il senso del suo esistere, compiendo un abuso di potere: presumendo di essere depositario di parametri di giudizio sulla dignità della vita, si atteggia a soggetto etico (cosa impossibile, in quanto non essendo soggetto individuale, è privo di una propria autonoma sensibilità e coscienza morale, come tale), in una posizione di superiorità assiologica rispetto alle vite dei cittadini, che soggiacerebbe al suo giudizio. Assurdamente, ciò che è nato per essere mezzo diventa superiore al fine a cui doveva essere subordinato. La coerenza con il proprio compito impone allo stato di legiferare non sulla base di un meramente soggettivo ideale di giustizia moralistico, ma solo sulla base di un calcolo teso alla massimizzazione del livello di benessere della comunità, frutto della possibilità per gli individui di esprimere nelle loro scelte la loro personalità in modo libero. Non si incarcera un ladro o un assassino perché uccidere o rubare sarebbe "immorale" (giudizio soggettivo),ma solo sulla base di una valutazione per la quale la misura della libertà che verrebbe tolta ad essi, resterebbe pur sempre inferiore alla misura di benessere/libertà di tutti quei cittadini che verrebbe messa a repentaglio lasciando i criminali a piede libero. Somministrare la pena di morte vorrebbe dire operare un danno inutile, non considerando la possibilità di controllare un criminale anche lasciandolo in vita, o, ancora meglio, di poterlo rieducare. Da questo punto di vista personalmente potrei (ma anche in questo caso penso resterebbero comunque certe perplessità) considerare accettabile la pena di morte, solo nel caso in cui uccidendo un assassino si avrebbe magicamente il potere di resuscitare le sue vittime, ma siccome ciò non è possibile, resta qualcosa di assolutamente sproporzionato rispetto alle necessità di tutela delle esigenze che lo stato è chiamato a svolgere
#228
Citazione di: odradek il 05 Maggio 2019, 20:03:56 PMa Davintro citazione : un margine di apertura alla discussione è sempre possibile. si è vero però quando ho letto : citazione : il significato che si riferisce a una realtà, nella sua idealità, trascendente l'uomo, perfetta, eterna, infinita, un significato del tutto irriducibile alle proprietà degli enti mondani da cui il nostro pensiero ricava i concetti di questi enti. ho inteso questa realtà perfetta eterna e infinita come attribuzioni del "divino" e quindi non volevo questionare sul "divino", che è cosa personale. E continuando a questionare sul "divino" (se ho inteso giusto) avrei questionato sulla tua (presunta da me) fede nella realtà perfetta ed infinitaed immutabile; essendo anche non riducibile agli enti mondani, il mio margine di discussione si riduce a zero, o si ridurrebbe a cercare di attaccare una idealità trascendente (non trascendentale, trascendente) perfetta ed infinita, che penso non esista. In pratica non ho più nulla da obiettare se non che per me questa realtà non esiste, ma una negazione non è una argomentazione.

è vero che gli attributi di eternità, perfezione ecc. caratterizzano un'idea di Dio che è quella tipica del teismo cristiano, che è prima di tutto una fede, ma sarebbe un errore il passaggio dalla constatazione storica di come un certo modello teorico (il concetto di Dio) si sia sviluppato come interno a una religione, con la negazione della possibilità, in sede teoretica, non filologica/storiografica, di astrarre tale modello dal contesto storico religioso, per riconoscerne una legittimazione razionale, poi si può discutere sull'effettivo rigore delle argomentazioni razionali, ma senza arrivare al punto per cui ogni affermazione in tal proposito sia solo e unicamente frutto di una fede personale impossibile da discutere. Come chiarito nei messaggi precedenti, l'idea di Dio a cui faccio riferimento, quella la cui esistenza sarebbe ragionevolmente richiesta dalla presenza della sua idea all'interno delle possibilità del pensiero umano, non riguarda il Dio delle fedi rivelate, il Dio delle Sacre scritture, ma il "Dio dei filosofi", della metafisica, riprendendo la celebre distinzione pascaliana, Dio entro i limiti in cui la ragione può argomentarne l'esistenza, distinto dalle varie rappresentazioni delle confessioni (da qui le mie citazioni sul deismo, come filone a cui ispirarsi nella sua concezione di Dio razionale, sottratto alle varie confessioni). Quindi il Dio di cui parlavo rientra appieno nelle tematiche della filosofia razionale, nulla di "personale", sentimentale, fideistico. Detto questo, non pretendo di insistere nel momento in cui la discussione è ritenuta impossibile da ogni mio eventuale interlocutore, la mia è solo una puntualizzazione
#229
Citazione di: odradek il 03 Maggio 2019, 14:01:59 PMa Davintro : citazione : In questo senso, non creiamo i significati delle cose, bensì li riconosciamo. si apre il problema metafisico di rendere ragione dello scarto tra la finitezza ontologica del nostro pensiero e il significato che si riferisce a una realtà, nella sua idealità, trascendente l'uomo, perfetta, eterna, infinita, un significato del tutto irriducibile alle proprietà degli enti mondani da cui il nostro pensiero ricava i concetti di questi enti. Qua sta quello che ci divide, forse siamo giunti alla fine ed abbiamo trovato il punto oltre il quale ogni discorso sarebbe inutile, che tra l'altro è lo scopo del "parlarsi"; esaurito l'argomento si gioca a bocce o si va a prendere un caffè assieme. Non inutile perchè io\tu non riusciamo a capire le ragioni dell'altro ma inutile perchè sarebbe un tentare (ridicolo, penoso e strumentale) di trarre l'altro a sè. Lo snodo sta che per me il problema metafisico che poni non lo riesco nemmeno a scorgere. Io non riconosco e non concepisco in nessun modo una realtà perfetta, eterna ed infinita, trascendente l'uomo e nemmeno riesco ad immaginarla: io dico che non esiste -o esiste sullo stesso piano del paradiso e dell'ippogrifo- , e tu dici che esiste e che apre un problema metafisico. Per me esistono solo e soltanto enti mondani; null'altro. Raggiunto il punto dove continuare sarebbe inutile posso solo ringraziarti per la pazienza, la disponibilità a discorrere in modo "piano", non allusivo o insinuante. Datosi che è anche un "piacere" discorrere con te, continuerò a seguirti anche solo per avere l' opportunità di "infastidirti" nuovamente, e lo farò sicurissimo. :)


mi premeva solo ribadire che la posizione del problema metafisico non ha, almeno nelle mie intenzioni, nulla di fideistico o pregiudiziale, ma la conseguenza di valutazioni, che alla luce delle argomentazioni che ho provato a esporre, vogliono presentarsi come razionali. Quindi, fintanto che si ragiona e non si vincolano le proprie posizioni a dogmi, un margine di apertura alla discussione è sempre possibile, almeno, così vedo io la situazione, poi ovviamente non ho problemi a rimettermi alla disponibilità dell'interlocutore (che dovrei essere io a ringraziare per la pazienza...) a proseguire in tal senso, come è corretto che sia. Al di là di questa precisazione, aggiungo che il piacere è reciproco
#230
Citazione di: odradek il 02 Maggio 2019, 00:19:23 AMa Davintro Prefazione : quando dico (per brevità) " va bene" non significa che hai passato un qualche tipo di esame o che siamo d'accordo completamente, ma che non vedo argomenti determinanti che "fermino" il discorso; in quel senso. cit : L'ateismo non è affatto assenza dell'idea di Dio nella loro mente, ma negazione della corrispondenza a tale idea di un'esistenza. Va bene, si può coindividere; facciamo il punto qui. Questione chiusa sull'ateismo cit : "Gli atei sono così noiosi... parlano in continuazione di Dio" niente polemiche su chi dice cose intelligenti. cit : Ma anche ipotizzando l'idea di una persona, che al di là dell'essere credente o ateo, creda di non aver mai avuto l'idea di Dio, perché mai quell'idea è stata oggetto di attenzione o riflessione, questo non ne implicherebbe l'assenza nella sua mente. Quando parlo di "presenza" intendo la comprensione dell'idea all'interno delle possibilità latenti del pensiero, la pensabilità, diciamo, e il complesso del pensabile non si esaurisce negli atti effettivi nei quali sottoponiamo alla nostra attenzione determinati contenuti. Va bene, e coindivido anche il concetto di presenza; per me questa presenza consiste nel fatto che son cresciuto circondato da una famiglia ed un nucleo sociale "normalmente " cattolico, ed ho sempre avuto a che fare con Dio; è un concetto che sento ripetere e "leggo" da decenni. In ogni caso la "presenza" si può coindividere. cit : Proprio sulla base della critica fenomenologica allo psicologismo, va distinta l'oggettività del significato logico di un'idea dalla soggettività psicologica degli atti con i quali eventualmente gli rivolgiamo attenzione, non sono questi ultimi a produrre il significato. Questa è davvero una frase "densa" ed occorre un post intero per "decrittarla" e discuterla; contiene diversi assunti che vanno discussi con pignoleria perchè sollevano altre questioni nascoste. A domani, o poi, ma è un punto centrale. Come anche il riferimento al professore (che potrei nominare, per rispetto nei suoi confronti, solo in bibliografia) merita ancora due parole di giustificazione e chiarimento da parte mia. cit : Quando, sulla base di determinati stimoli di tipo culturale, la nostra mente comincia esplicitamente a riflettere sull'idea di Dio, come su ogni altra idea, non stiamo arbitrariamente creando il significato, ma lo riconosciamo come contenuto logico di un'idea già presente in modo latente in noi, nel senso che la sua pensabilità non è stata posta nel momento in cui ci accorgiamo di esso, ma è una possibilità già prefigurata all'interno della nostra coscienza, anche se non esplicitata in una attuale tematizzazione, possibilità che però non potrebbe essere immanente al nostro pensiero umano, inadeguato a pensare l'idea di qualcosa che per definizione trascende l'uomo, e che dunque rimanda al contatto per il nostro pensiero con una realtà adeguata al significato dell'idea. a) ma lo riconosciamo come contenuto logico di un'idea già presente in modo latente in noi b) nel senso che la sua pensabilità non è stata posta nel momento in cui ci accorgiamo di esso, ma è una possibilità già prefigurata all'interno della nostra coscienza c) e che dunque rimanda al contatto per il nostro pensiero con una realtà adeguata al significato dell'idea. Tutto questo invece secondo me è dottrina delle idee (dottrina in senso platonico, le idee platoniche proprio) applicata al concetto di Dio. Proprio questa frase : "possibilità già prefigurata all'interno della nostra coscienza" che non riesco ad accettare: quel prefigurato ci divide per ora. Le domande che dovrei porti sono : esistono altre idee prefigurate ? Quando invece che l'"idea prefigurata di Dio" gli uomini avevano l'" idea prefigurata degli dei" esisteva una differente prefigurazione ? Gli egizi sono andati avanti tremila anni con il faraone divino e per svariati secoli han pensato pure che il "dio" fosse un emanazione del faraone, che è solo un esempio tra i tanti di "idee prefigurate" che han durato secoli e secoli. Le "idee prefigurate" sono una "brutta bestia" da trattare. "Bisogna parlarne", non è più attestazione di fede, è teoria delle idee.


"prefigurata" è effettivamente un termine equivocabile, in quanto il prefisso "pre" può di per sé lasciar intendere il riferimento a una precedenza temporale, per la quale il pensiero potrebbe in una fase temporale precedente a quella in cui man mano diviene consapevole dei suoi atti espliciti di attenzione e riflessione sulle idee aver avuto intuizione di esse, rientrando effettivamente nelle visioni platoniche nelle quali l'anima, sostanzialmente separata dal corpo, avrebbe pensiero delle idee, perché pensate in vite precedenti alla sua infusione nel corpo. Però quel "pre" nelle mie intenzioni, implicava una precedenza meno "forte" e piena di riferimenti religiosi/mitologici. Era intesa come prefigurazione di possibilità del pensiero implicite rispetto alle loro esplicitazioni negli atti in cui i contenuti del pensiero divengono oggetto di una tematizzazione da parte dell'Io. Anche precedentemente a tali tematizzazioni, i significati devono essere adeguati a l' essere intesi dalla nostra mente, indipendentemente dal fatto che tale intenzione sia o meno attuata. In questo senso, non creiamo i significati delle cose, bensì li riconosciamo. E qua, credo, si apre il problema metafisico di rendere ragione dello scarto tra la finitezza ontologica del nostro pensiero e il significato che si riferisce a una realtà, nella sua idealità, trascendente l'uomo, perfetta, eterna, infinita, un significato del tutto irriducibile alle proprietà degli enti mondani da cui il nostro pensiero ricava i concetti di questi enti. L'adeguazione tra significato e realtà producente la possibilità di rendere tale significato pensabile per noi, è ciò in base cui le idee originarie, o "prefigurate" coincidono con le cosiddette idee "astratte" (che chiaramente sarebbero astratte solo in base al pregiudizio materialista di associare il concreto con il fisico), cioè il significato è riferito a entità spirituali, (Dio, anima, libertà, giustizia, essere...)che essendo prive di estensioni spaziali, non potrebbero essere prodotto di una unificazione fantastica da parte del pensiero, che le apprende invece direttamente nella loro unità "semplice", primitiva e immediata. Questo penso sia il nucleo di verità del platonismo, una distinzione tra sfera spirituale, indivisibile, incorruttibile, la cui conoscenza sarebbe originaria in noi, e una materiale, estesa, divisiva, la cui idea è prodotta empiricamente. Questo senza necessariamente ammettere tutto lo sfondo mitologico di Platone, espressione di un dualismo intelligibile-sensibile portato all'eccesso, visto come separazione sostanzialistica tra anima e corpo. La distinzione delle origini non implicherebbe, a mio avviso negare l'interrelazione fra i due momenti nel corso concreto in cui queste dimensioni convivono, Quindi, che le rappresentazioni storiche (egizi, greci, cristianesimo, islam...) di Dio per l'uomo abbiano riflettuto la componente fantastica dovuta alla sua sensibilità, e che dunque si diversifichino sulla base delle sue vicende storiche, le sue esperienze del mondo materiale, non toglie, che oltre questi strati interpretativi, un nucleo semantico di Dio inteso in termini rigorosamente metafisici come Causa prima, Essere coincidenze con essenza ecc., resti presente, implicitamente nelle nostre potenzialità cognitive, al di là del fatto che nella sua tematizzazione esplicita nelle credenze religiose, su tale nucleo si siano proiettati i portati empirici delle nostre culture, senza che la semplicità semantica del nucleo ne sia inficiata
#231
Citazione di: odradek il 01 Maggio 2019, 10:23:46 AMa Davintro citazione : Deduzione dell'esistenza di Dio sulla base della presenza dell'idea originaria presente in "noi". Quando dici noi intendi tu e Green Demeter oppure noi come umanità ? Perchè io e moltissime altre persone non abbiamo mai avuto la minima presenza dell'idea di Dio; mai minimamente sfiorati. Non sono un ateo "di ragionamento"; io e moltissimi altri siamo nati così; mai minimamente sfiorati dall' idea di Dio; mai comparso sull'orizzonte delle possibilità. Sfortuna o malformazione genetica ? Una deduzione sulla base di una presenza. Si deduce una "esistenza" sulla presenza dell'idea originaria e primitiva. La presenza dell'idea originaria da dove viene? La presenza dell'idea primitiva come si forma? Sulla base di un idea si fonda (idealmente )una realtà esistente. L'idea di Dio diventa quindi "naturale", insita originariamente nella mente dell'uomo. Quindi l'ateismo è un disturbo della mente, mancandogli quell'idea originaria e primitiva insita in tutte le menti. Oppure una perversione dell' intelletto che "vuole" rifiutare la naturalità dell'idea primitiva di Dio. Sintantochè è un atto di fede nessuno deve permettersi rilievi, ma quando si introducono "idee originarie" (embedded nel cervello "implementate" come al robottino, perchè qualcosa o qualcuno gliele deve aver messe) o "idee primitive" allora siamo nel campo della pura speculazione. Che differenza passa tra un "idea originaria" ed una idea platonica ? P.s.: mi son ricordato che già precedentemente avevi chiaramente detto che la tua riflessione si fondava sulla base del pensiero di Rosmini, quindi la mia "ricordanza" avrebbe già dovuto rispondermi. Il riferimento ad "idee originarie" mi però ha dialetticamente "indispettito" e ho "dovuto" puntualizzare. Anche perchè se no di cosa si parla. :D

lungi da me considerare gli atei dei disturbati mentali o cose del genere. L'ateismo non è affatto assenza dell'idea di Dio nella loro mente,  ma negazione della corrispondenza a tale idea di un'esistenza. Ma la negazione della corrispondenza esistenziale consiste pur sempre in un giudizio sull'idea, che dunque deve essere necessariamente riconosciuta come presente anche nella loro mente (mi viene in mente la battuta che, mi pare fosse Chesterton ma non sono sicuro, diceva a tal proposito: "Gli atei sono così noiosi... parlano in continuazione di Dio"). Quello che contesto dell'ateismo non è la sua presunta negazione dell'idea di Dio, ma la ricostruzione genetica della sua pensabilità considerandola alla stessa stregua delle idee di qualunque oggetto fisico, ponendosi così illogicamente in contraddizione con il suo significato definitorio: considerandola come prodotto dell'immaginazione umana, la vedono come un sintetico assemblaggio di parti spaziali, ignorando la differenza che passa tra la semplicità, l'originarietà aspaziale dei contenuti intelligibili con la spazialità derivata di quelli materiali. Non essendo l'idea di Dio riferita a un ente spaziale, suddivisibile in parti, la sua formazione non può consistere una sintesi fantastica di vari pezzi, ma si deve a una diretta esperienza di una realtà corrispondente a quell'idea semplice e primitiva (ripeto, da intendersi al di là delle varie rappresentazioni confessionali). Ma anche ipotizzando l'idea di una persona, che al di là dell'essere credente o ateo, creda di non aver mai avuto l'idea di Dio, perché mai quell'idea è stata oggetto di attenzione o riflessione, questo non ne implicherebbe l'assenza nella sua mente. Quando parlo di "presenza" intendo la comprensione dell'idea all'interno delle possibilità latenti del pensiero, la pensabilità, diciamo, e il complesso del pensabile non si esaurisce negli atti effettivi nei quali sottoponiamo alla nostra attenzione determinati contenuti. Proprio sulla base della critica fenomenologica allo psicologismo, va distinta l'oggettività del significato logico di un'idea dalla soggettività psicologica degli atti con i quali eventualmente gli rivolgiamo attenzione, non sono questi ultimi a produrre il significato. Quando, sulla base di determinati stimoli di tipo culturale, la nostra mente comincia esplicitamente a riflettere sull'idea di Dio, come su ogni altra idea, non stiamo arbitrariamente creando il significato, ma lo riconosciamo come contenuto logico di un'idea già presente in modo latente in noi, nel senso che la sua pensabilità non è stata posta nel momento in cui ci accorgiamo di esso, ma è una possibilità già prefigurata all'interno della nostra coscienza, anche se non esplicitata in una attuale tematizzazione, possibilità che però non potrebbe essere immanente al nostro pensiero umano, inadeguato a pensare l'idea di qualcosa che per definizione trascende l'uomo, e che dunque rimanda al contatto per il nostro pensiero con una realtà adeguata al significato dell'idea. Che noi ce ne accorgiamo o meno, lo scarto tra il significato dell'idea e quello della realtà che lo riceve resta.


p.s. "Conosco" il da te citato prof. Basti, avendo in un paio di occasioni ascoltato i suoi interventi proprio sul tema dell'ontologia formale e il problema della riferenza con quella materiale. Sono questioni estremamente interessanti, purtroppo per me estremamente difficoltose da seguire, perché l'uso di una terminologia così tecnicamente logica crea problemi a chi come me pur ritenendo la logica strumento fondamentale di ogni pensiero, predilige utilizzarla in un contesto meno autoreferenziale e più legato alla realtà intuitiva, concreta in cui si applica. Evidentemente ancora non riesco a essere così astratto e metafisico come vorrei essere, sono ancora troppo "empirico"...
#232
Citazione di: green demetr il 29 Aprile 2019, 01:54:42 AM
Citazione di: davintro il 29 Aprile 2019, 01:46:47 AMper Odradek la mia dovrebbe appartenere a quella ontologista, mentre ho sempre condiviso la critica alla visione psicologista della logica, già contestata da Husserl nelle Ricerche Logiche
e come si giustifica dio in questa dimensione? è una aporia se non sbaglio.


In una posizione per così dire "ontologista" nella quale la verità dei principi logici non si limita a una valenza formale, ma ha ripercussioni nell'ontologia concreta e intuitiva, la questione dell'analisi del significato logico dell'idea di Dio non è più separabile da quella "psicologica" della genesi causale della presenza di tale idea nella mente umana, riguardante la relazione concreta, ontologica, tra uomo e realtà da cui il pensiero umano trae le corrispondenti idee. Dall'analisi del significato essenziale, formale, di un'idea si risale all'origine della tipologia di realtà dalla cui esperienza l'idea ha preso forma. Il che non implica arrivare alle esasperazioni ontologiste per cui è sufficiente riconoscere l'essere di un'idea per dedurne un'esistenza corrispondente, che arriverebbero all'assurdo di concepire come realmente esistenti ogni frutto dalla fantasia, come draghi o unicorni, abusando dello stesso meccanismo argomentativo della prova ontologica con cui Anselmo argomentava l'esistenza di Dio, ma riconoscere quel legame di adeguatezza tra realtà attivamente responsabile dell'origine della corrispondente idea nel nostro pensiero, e l'idea stessa. Qui torna appropriata la distinzione tra idee complesse e primitive. Se un'idea complessa, riferito a significati materiali, a contenuti spaziali, divisibili in parti, per le quali è possibile la riconduzione della loro presenza alla nostra mente al gioco sintetico dell'immaginazione (per cui un drago è la composizione di vari elementi  fisici  spaziali, "semplici" che ricaviamo da una esperienza diretta ed effettiva, formata dall'immaginazione), un'idea primitiva come quella che si riferisce a un contenuto spirituale, privo di spazio, come "libertà", "giustizia", "Dio", non potrebbe essere appresa per immaginazione sintetica, un'unificazione di parti fisiche che nella loro singolarità individuale rispecchierebbero invece dei contenuti reali, ma sono coglibili nella loro unità qualitativa immediata, semplice, non possono essere frutto fittizio di un'immaginazione, bensì la loro pensabilità riflette l'esperienza di una realtà effettivamente adeguata al significato di quei concetti, realtà che si riconosce come tale nel momento in cui è causa attiva della produzione dell'idea ad essa corrispondente nel nostro pensiero. Questo non vuol dire che ogni interpretazione umana, storica, fallibile con cui rappresentiamo tale idea debba essere compresa in questa deduzione di verità, non vuol dire che ogni rappresentazione religiosa di Dio (che in qualche modo inevitabilmente lo "materializza", considerandolo nelle forme sensibili in cui si sarebbe rivelato agli uomini, che come "sensibili" sono inficiate dalla componente immaginativa-fantastica) ne colga l'esistenza, ma che oltre questi livelli interpretativi, restererebbe comunque un nucleo essenziale, l'idea di Dio considerata nella pura e perfetta spiritualità, astratta dalle rappresentazioni sensibili, e in questo nucleo la realtà coinciderebbe con l'idea primitiva presente in noi, poi "camuffata" con le rappresentazioni arbitrarie. Quindi la deduzione dell'esistenza di Dio sulla base della presenza dell'idea originaria e primitiva presente in noi, varrebbe per una sua dimensione "minimale" (minimale, nel senso di un riempimento predicativo con vari attributi o mitologie), puramente trascendente ogni rivelazione, che invece sarebbe gravata dal peso della componente sensibile con cui lo si rappresenta, col suo carico di immaginazione. Mi pare una prospettiva di cui sono personalmente convinto e che credo si riallacci abbastanza al filone deista
#233
per Odradek

sì, il passo citato affronta i temi su cui stiamo discutendo e mi pare di condividerlo nel complesso, l'unico punto che mi lascia un attimo perplesso (ma sicuramente è dovuto a un mio limite di comprensione) è parlare delle ricerche ontologiche materiali intuitive come prolegomeni della logica, mentre a livello argomentativo direi che l'assunzione delle verità dei principi della logica formale non segue, bensì fonda nelle sue deduzioni l'applicazione all'ontologia materiale, l'essenza dei fenomeni. Si potrebbe invertire il processo, penso, solo  nel senso di vedere il momento intuitivo come stadio primitivo, spontaneo e ingenuo dell'esperienza del mondo, che attende l'utilizzo della logica come evidenziazione del nucleo di verità certe ed essenziali dei fenomeni, tramite analisi e sospensioni delle componenti accidentali. Per quanto riguarda il messaggio successivo, da quel che ho potuto intendere delle varie posizioni, la mia dovrebbe appartenere a quella ontologista, mentre ho sempre condiviso la critica alla visione psicologista della logica, già contestata da Husserl nelle Ricerche Logiche
#234
Citazione di: odradek il 28 Aprile 2019, 21:38:30 PMa davintro. Si, la logica è il fondamento di ogni discorso si possa pensare di poter fare ed è l'universale che io riconosco. Oltre a questo ne possiamo individuare altri o solo questo può essere ritenuto coindivisibile ?

gli altri sarebbero i corollari, le implicazioni deducibili dalla logica, che però resterebbe il perno argomentativo di ogni possibile sistema metafisico. Questi "altri" sono logica nella misura in cui il loro riconoscimento discende dai suoi principi, eppure non è a rigor di termini meramente "formale", perché riguardanti concreti modi d'essere delle cose, quindi è logica e al contempo ontologia. Ho fatto l'esempio dell'indubitabilità del cogito cartesiano come implicazione del principio di non contraddizione, per il resto non ha senso fare elenchi. Non si tratta di una serie di punti tra loro separati da elencare, ma un unico sistema fatto di interconnessioni, di ramificazioni provenienti dal fondamento centrale dell'evidenza degli assiomi logici. Ma di esporre sistemi di tal genere servono trattati di metafisica, non certo un post su un forum, o meglio io non ne sarei certo capace. Quello che mi interessava far notare era come ciò che è ricavabile dalla logica non è solo una coerenza interna di un discorso sconnesso dal reale, ma anche implicazioni riguardanti direttamente la struttura ontologica della realtà, cioè la componente essenziale delle cose, non quella accidentale
#235
Citazione di: odradek il 28 Aprile 2019, 18:28:24 PM a Davintro citazione : Al contrario la deduzione muove da verità universalmente poste come valide, cioè non acquisibili per esperienza sensibili Citane qualcuna perfavore. Saranno descritte da qualche parte. Io conosco i principi logici, come verità universalmente valide. Io non riesco mai a vederle scritte queste verità universali. Per favore scrivimele.

i principi logici sono il nucleo originario di ogni verità voglia presentarsi come certa e indubitabile, dunque il nucleo di ogni argomentazione metafisica, non è necessario andare oltre di essi. Ma considerare questi principi come nucleo sufficiente della metafisica non vuol dire relegare quest'ultima nell'ambito formalistico del giudizio di coerenza interna del discorso senza alcuna corrispondenza con una realtà oggettiva. Devo a questo punto scusarmi, so che non è elegante autocitarsi, ma di come a mio avviso esista questo legame di corrispondenza tra riconoscimento della validità formale degli assiomi della logica e riconoscimento di un piano di verità ad essi corrispondente nella realtà concreta delle cose stesse, avevo già esposto rispondendo a Phil nel messaggio 176, e non vorrei essere troppo ripetitivo. Qui mi limiterei a sintetizzare dicendo che nel momento il cui il nostro pensiero riconosce la verità dei principi logici, ne riconosce necessariamente l'aderenza alla verità del reale. Questo in quanto, se ogni pensiero pone i propri atti come intenzionalmente riferiti a rispecchiare la realtà, nel momento in cui pone i suoi principi logici come veri, allora li riconosce come verità riferita a un certo livello della realtà, cioè non solo verità logica ma anche ontologica. La verità dei principi logici presuppone nella realtà la presenza di un livello, il livello essenziale, per il quale le cose sono in aderenza con quei princìpi. Se la logica fissa le regole necessarie del pensiero, le fisse anche della realtà, nella misura in cui la realtà è vista come pensabile per un pensiero che non sia assurdo. Ogni atto di pensiero trae la sua sensatezza nelle modalità di rispecchiamento del reale, e dunque le condizioni immanenti di senso, la logica, implica che queste si applichino anche al reale. Ecco il passaggio che connette logica formale e ontologia. Questo è il passaggio che consente a un Cartesio di poter, utilizzando il principio di non contraddizione, dedurre dall'indubitabilità di un dubbio portato alle estreme conseguenze, l'esistenza indubitabile di un pensiero pensante, sulla base dell'analisi coerente del concetto di pensiero, comprendente, tra le sue possibili determinazioni di significato anche l'attività del dubbio, cosicché ogni dubbio è pur sempre pensiero e attività di un soggetto pensante. E dubitando, riconosco la realtà del pensiero, la coerenza interna non è autoreferenziale, ma pone come corollario verità riguardanti la mia realtà concreta, l'esistenza di me come soggetto pensante. In questo procedimento utilizziamo i principi logici riconoscendoli come veri, e se per definizione, verità è corrispondenza di un atto di pensiero alla realtà, allora la verità di questi principi implicano la verità anche della realtà delle cose, non limitandosi a essere criteri formali di riconoscimento di tautologie e discorsi internamente coerenti senza alcun appiglio ontologico.
#236
Citazione di: Phil il 27 Aprile 2019, 20:00:47 PM
Citazione di: davintro il 27 Aprile 2019, 16:35:24 PMdissento dall'idea di vedere l'impalcatura metafisica deduttiva come non falsificabile, in contrasto con la falsificabilità delle asserzioni ricavabili dall'induzione sperimentale.
La formalizzazione astratta delle logiche, le problematiche del loro aspetto compilativo (con contenuti "reali") e il controllo della coerenza di un'argomentazione, non credo siano responsabilità esclusiva della metafisica, quanto piuttosto della logica formale (che non è certo un fai-da-te). (Di nuovo sui vocabolari:) se per «metafisica» vogliamo intendere stavolta la logica formale (evitiamo il plurale per comodità), allora essa non è comunque falsificabile perché è ciò che pone le condizioni della falsificabilità stessa (si può falsificare un asserto, non una logica formale ben fatta). Non a caso, per la metafisica ho parlato di «concetti infalsificabili» riferendomi a «essenza , spirito, eternità, etc.». Pensiamo alle differenti metafische proposte nella storia: sono state falsificate? Se «si», per via metafisica oppure facendo appello all'induzione? P.s. A scanso di equivoci: mi interessa scoprire cosa può dare/dire oggi la metafisica di epistemologicamente fruibile, non metterne in discussione la funzionalità autoreferenziale o la coerenza logica interna o la "fertilità" dell'interesse che suscita.

deduzione e induzione non sono metodi applicabili allo stesso livello di questioni sulla realtà, in quanto entrambi poggiano su fondamenta che sono valide in relazione a una certa tipologia di contenuti di ricerca. L'induzione che fonda il metodo sperimentale delle scienze naturali generalizza a partire dall'osservazioni di eventi particolari, spaziotemporalmente delimitati, contenuto dell'esperienza sensibile, e ogni sua generalizzazione resta sempre relativa alle condizioni contingenti da cui l'osservazione ha preso piede. Al contrario la deduzione muove da verità universalmente poste come valide, cioè non acquisibili per esperienza sensibili, per poi esplicitare delle implicazioni che comunque resterebbero sempre riferite a quell'ambito di sovratemporalità in cui riferire il dato universale di partenza. La deduzione è falsificabile nel senso di poter contestare l'applicazione del metodo, la consequenzialità dei passaggi logici, ma ciò presuppone che chi contesta l'applicazione lo faccia sulla base di un modello di applicazione diverso, ma riferito allo stesso metodo. Contestare il metodo in sé implicherebbe anche contestare la validità del punto di partenza, l'universalità delle premesse di verità, che però a sua volta presupporrebbe una punto di vista a sua volta riferito all'universalità, quindi accettare gli stessi presupposti del metodo che si vuole contestare, cadendo in contraddizione con se stessi. Ed ecco la ragione per cui il metodo deduttivo della metafisica può essere contestato sensatamente solo sulla base di una diversa applicazione dello stesso metodo, cioè da un'altra metafisica, non sulla base dell'induzione sui cui poggiano le scienze naturali, in quanto la natura dell'induzione la fa poggiare su un livello della realtà qualitativamente distinto da quello metafisico, e non ad esso sovrapponibile, non i principi primi del pensiero e dell'essere, intelligibili, ma la realtà nella sua fisicità adeguata all'esperienza sensibile sui cui l'induzione fa presa, L'induzione sensibile non ha alcun strumento per contestare le tesi riferite a un piano ad esso trascendente, che richiede di essere indagato da una distinta metodologia
#237
Citazione di: Phil il 26 Aprile 2019, 12:30:32 PM
Citazione di: davintro il 25 Aprile 2019, 23:59:57 PMIl "fai da te" è un atteggiamento mentale, che non riguarda il fatto di aderire a una metafisica classica oppure di negarla, non implica un determinato contenuto delle proprie tesi, è forma mentis, non contenuto.
Accostando il «fai-da-te» all'«amatoriale», ne facevo anche una questione qualitativa di contenuto: una metafisica vagliata e diffusa in ambito accademico (pubblicazioni, etc.) probabilmente e solitamente è qualitativamente più coerente e "verificata" di una postata sul proprio blog auto-referenziale o su un forum. Riprendendo l'esempio, probabilmente e solitamente l'idraulico aggiusterà il rubinetto meglio di me; il che non significa screditare il fai-da-te, anzi, ripeto, lo trovo personalmente uno degli sbocchi più fertili di un approccio debole (non assolutistico, non reverenziale, postmoderno, etc.) alla filosofia fuori dalle accademie.
Citazione di: davintro il 25 Aprile 2019, 23:59:57 PMChe un pensiero sia o meno lineare con egemonie accedemiche, il suo valore teoretico resta nella capacità di mostrare la sua corrispondenza con la realtà sulla base delle argomentazioni.
Non intendo sostenere che la filosofia "seria" è fatta solo dalle accademie o dagli addetti ai lavori (vedi sopra), quanto piuttosto riconoscere che gli sviluppi di ricerca qualitativa è più probabile che accadano in quella sede, poi ciascuno può certamente redigere la sua filosofia e anche dal fai-da-te possono nascere spunti interessanti. Partendo da questi presupposti: un fai-da-te metafisico mi lascia perplesso (ma non ostile) come mi lascerebbe perplesso chiunque utilizzasse, per aggiustare un rubinetto, uno strumento o una tecnica che gli idraulici stanno, a quanto pare, abbandonando.
Citazione di: davintro il 25 Aprile 2019, 23:59:57 PMFedeltà all'esperienza della vita, certamente, ma non fermandosi al momento immediato, bensì comprendente il momento analitico in cui il discorso sembra farsi più rarefatto, formale, astratto, ma in funzione di uno sguardo sulla vita più razionale e attento a evitare sovrapposizioni e confusioni concettuali. Che riesca più o meno bene, solo questo dovrebbe importare in sede teoretica.
Nel caso della metafisica va tuttavia considerato che si tratta spesso di impalcature deduttive, relativamente verificabili, per cui, pur avendo coerenza logica interna (v. Godel), «la corrispondenza alla realtà» è spesso una questione di interpretazione infalsificabile («essenza», «spirito», «eternità», etc sono per definizione concetti logicamente fruibili seppur infalsificabili); per questo talvolta si può parlare di paradigmi incommensuraibli.


continuo a pensare che quello del "fai da te" o della fattualità storica per cui la metafisica classica abbia perso l'egemonia nel panorama culturale siano questioni irrilevanti dal punto di vista teoretico, che a me più interessa discutere, dove l'unica cosa che conta è quanto la razionalità sia legittimata a garantire la verità del discorso. Se ascolto, se leggo le argomentazioni con cui qualcuno espone un proprio discorso, nulla mi impedisce di potermi concentrare unicamente sul rigore logico consequenziale delle argomentazioni, senza pormi il problema di quanto il suo discorso sia il frutto di un "fai da te" o da un percorso  accademico. Rigore logico e acutezza intuitiva nel cogliere la realtà delle cose stesse a cui far corrispondere la verità del discorso, ecco le uniche cose da considerare teoreticamente.

dissento dall'idea di vedere l'impalcatura metafisica deduttiva come non falsificabile, in contrasto con la falsificabilità delle asserzioni ricavabili dall'induzione sperimentale. Per me è esattamente l'opposto. La falsificabilità presuppone una sorta di "giudizio terzo" come parametro di giudizio di cui sia chi espone la tesi su cui applicare la falsificazione che colui che falsifica riconoscono l'autorità, una piattaforma comune, quindi oggettiva. Ma il sapere appreso empiricamente non ha accesso a tale piattaforma, in quanto l'esperienza del mondo è sempre esperienza per un soggetto, sia l'esperienza in base cui formo una determinata tesi, sia quella che potrebbe falsificarla. Se qualcuno contestasse, sulla base di sue esperienze percettive, una mia tesi a sua volta costruita sulla base di mie esperienze percettive, resta impossibile per entrambi assumere un punto di vista terzo, oggettivo, imparziale che sancisca quale delle due esperienze sia quella adeguata a rispecchiare la verità delle cose. La sua tesi può falsificare come la mia può falsificare la sua, ma in questo caso le due falsificazioni si annullano, e ciascuna presunzione di verità in questo ambito resta infalsificabile, perché accettabile nella dogmaticità di pretendere che le proprie percezioni soggettive siano le più adeguate a rispecchiare la realtà oggettiva. Solo la sua parola contro la mia, ciascuno di noi può considerare le percezioni dell'altro come visionarie, senza un criterio oggettivo che possa stabilire quale delle due è quella adeguata. Al contrario, la ragione deduttiva a cui la metafisica si affida può disporre di questa terzietà, cioè le regole trascendentali della logica, che tutti noi, al di là del variare delle esperienze riconosciamo. Pensare che la valutazione della coerenza interna, fondata su tali regole, sia qualcosa del tutto scollegato a una valutazione sulla realtà è errore frutto dei pregiudizi empiristi/materialistici come quelli che a mio avviso ispirano una gnoseologia come ad esempio quella kantiana. Questi pregiudizi portano a pensare che l'unica forma di contatto con la realtà sia quella prodotta dai sensi corporei, mentre la sfera dell'intelligibile, di ciò che ha un senso al di là della contingenza degli oggetti individuali, come la verità degli assiomi della logica formale, resta solo una forma vuota, una struttura ordinatrice del soggetto, senza poterla far corrispondere a delle proprietà insite nelle cose della realtà. Questa impostazione dimentica il principio di intenzionalità, per cui ogni pensiero è sempre intenzione mirante a rappresentare stati di cose oggettive, e dunque anche il pensiero che ritiene indiscutibilmente vero il principio di identità o di non contraddizione, si rivolge intenzionalmente alla realtà, considerando tali assiomi come regole necessarie, non solo del pensiero, ma delle cose stesse. Se pensiero è sempre pensiero riferito alla realtà, le sue regole di sensatezza devono corrispondere a regole strutturanti anche il mondo reale, senza tale corrispondenza avremmo l'assurdo di un pensiero sensato, in quanto segue correttamente le regole logiche, e al tempo stesso insensato, in quanto totalmente assurdo nei suoi contenuti. Il fatto che un discorso di cui la logica sancisce la coerenza interna possa non rispecchiare la realtà delle cose (nel caso in cui le premesse siano erronee) non toglie però il fatto che i criteri di giudizio della coerenza sono tali in quanto corrispondenti a un effettivo livello reale delle cose, se così non fosse, il pensiero che riconosce la validità di tali criteri dovrebbe essere falso, in quanto la verità di un pensiero implica per definizione la corrispondenza con la realtà e annullando la validità dei propri criteri trascendentali, ogni pensiero cadrebbe nell'assurdo, senza poter affidarsi a condizioni minime di verità. Separare del tutto una astratta e formalistica verità della logica rispetto alla "concretezza" del reale, ridotto materialisticamente all'esperienza dei sensi, sarebbe possibile solo se le verità della logica fossero solo funzioni sempre unicamente lavoranti in modo implicito nella nostra mente, mentre la loro specifica pensabilità, la loro oggettivazione presuppone che il pensiero che riflette su di esse possa farlo nel momento in cui le tratta non solo come regole formali, ma oggetti intenzionali a cui attribuire un valore di verità, e dunque rispecchianti la realtà. La possibilità di trattare la logica come tema oggettivo, intenzionato dal pensiero è il canale entro cui essa esce da un mero astrattismo e si collega all'ontologia concreta. Certamente, il livello della realtà implicato nella certezze dei principi logici è minimale, perché tagliante fuori la maggior parte delle caratteristiche che alla realtà si attribuiscono sulla base dell'esperienza, eppure è fondativo di tutto il resto, perché complesso di condizioni necessarie della validità di ogni pensiero, e dunque di ogni realtà a cui il pensiero riferisce i suoi atti. Quindi la metafisica è a tutti gli effetti "scienza", è falsificabile, in quanto ciascuno di noi, in possesso di una comune razionalità, può controllare la linearità logica delle argomentazioni, e al contempo riferita alla realtà, a un nucleo di verità universali, la cui universalità esprime il carattere trascendentale e indubitabile dei principi necessari del pensiero, cioè la logica. Certo, non sarà una scienza della materia, ma l'associazione scienza-materialità contrapposta a quella spiritualità-fideismo è solo un pregiudizio che non tiene conto che l'atto di fede tramite cui considero le percezioni sensibili come rivelative della realtà oggettiva e non un mio sogno-allucinazione, non ha nulla di meno dogmatico della fede verso l'incarnazione di Cristo o la verità delle visioni mistiche, riferiti a una realtà spirituale. La maggior quantità di ripetute verifiche non toglie il carattere di fede delle credenze del primo tipo, la differenza tra arbitrarietà e fondatezza razionale è un salto qualitativo, nessuna quantità di verifiche operanti con lo stesso metodo, può operare questo salto, nessuna quantificazione produce un mutamento qualitativo
#238
per Ipazia

"durevole",  siache lo si usi per indicare qualcosa di eterno, che di finito, in entrambi i casi non potrebbe assurgere a terzo mediatore di una sintesi tra piano sovrasensibile eterno, metafisico, e quello sensibile contingente della fisica, sintesi costituente quel progetto di "fusione" tra filosofia e scienza naturale che viene auspicato. Nel primo caso, il durevole sarebbe collocabile nell'ambito di ricerca della metafisica, inattingibile dalla fisica, nel secondo, indicherebbe solo una certa gradazione quantitativa di permanenza che però non esce dalla finitezza: indica qualcosa che dura a lungo, ma comunque pur sempre destinato a terminare, quindi qualcosa incapace di rispondere a quei problemi tramite cui la metafisica ha avvertito la necessità di riconoscere una dimensione trascendente la finitezza e al contempo rendente ragione di essa. Il punto è che tra eternità e finitezza c'è uno scarto, un aut aut qualitativo: tutto ciò che non è eterno è finito e viceversa, non ci sono mediazioni terze da cui sfuggire dalla dicotomia. Questo però non esclude, stante la complessità ontologica delle cose, di poter ammettere distinti livelli, per cui all'interno della singola cosa convivono qualcosa di essenziale, eterno, la sua componente spirituale, unito al livello diveniente, contingente e mutevole. Due dimensione conviventi realmente, ma opposte concettualmente, in quanto ciascuna è presente nella misura in cui tende a escludere l'altra.


Per Phil

Il "fai da te" è un atteggiamento mentale, che non riguarda il fatto di aderire a una metafisica classica oppure di negarla, non implica un determinato contenuto delle proprie tesi, è forma mentis, non contenuto. Quindi non vedo come la riflessione autonoma sia ascrivibile all'adesione a un filone, anziché un altro. E questo, rispondendo anche a Green demetr (il cui giudizio verso di me non è da me ricambiato, dato che trovo il suo stile argomentativo molto interessante e affascinante, anche diverso, per sua fortuna, dal mio) vale anche per quanto riguarda l'egemonia accademica. Non ha senso pensare a una contrapposizione necessaria tra filosofia accademica e "filosofia della vita". L'accademia può rispecchiare più o meno tendenze di pensiero diffuse nel rapporto diretto con la vita, in ogni caso sono contrapposizioni che non dicono nulla del valore teoretico di un pensiero. Che un pensiero sia o meno lineare con egemonie accedemiche, il suo valore teoretico resta nella capacità di mostrare la sua corrispondenza con la realtà sulla base delle argomentazioni. Fedeltà all'esperienza della vita, certamente, ma non fermandosi al momento immediato, bensì comprendente il momento analitico in cui il discorso sembra farsi più rarefatto, formale, astratto, ma in funzione di uno sguardo sulla vita più razionale e attento a evitare sovrapposizioni e confusioni concettuali. Che riesca più o meno bene, solo questo dovrebbe importare in sede teoretica.

per Lou e Oxdeadbeef

apprezzo e condivido il vostro richiamo all'idea della vicinanza e dei legami tra metafisica e religione, che non ho mai negato, al tempo giusto mi sembrava opportuno sottolineare anche le decisive distinzioni, prima di tutto metodologiche, che poi si riflettono anche sulle distinzioni circa l'oggetto tematizzato, distinzioni che riflettono quelle circa la modalità (razionale per la metafisica, sentimentale per la religione) verso cui il punto di vista viene a strutturarsi
#239
Citazione di: Phil il 23 Aprile 2019, 20:07:38 PMConcordo con davintro sull'utilità argomentativa del distinguere metafisica e religione: la metafisica della/nella religione è teologia, che non è l'unico tipo di metafisica. Ad esempio, che l'ontologia filosofica (pilastro della metafisica classica, anche se oggi non si può quasi più affermare) si stia eclissando dietro le scienze naturali, non è una questione che chiami in causa necessariamente il divino; che il pensiero antropologico abbia imparato(?) anche a svilupparsi in modo meno deduttivo-assolutistico e un po' più induttivo-contestualistico, non ha a che fare semplicemente con "la morte degli dei" (idealismi e ideologie non sono solo di matrice religiosa). Credo che il "comune sentire" attuale abbia perlopiù (non sempre e non ovunque) introiettato la distinzione (e la possibile complementarietà) fra le proposte religiose-spirituali e le informazioni tecnico-scientifiche, metabolizzando e superando i dualismi escludenti e belligeranti del medioevo. Come già accennato, la differenza fra la meta-fisica in senso etimologico e la metafisica in senso filosofico, pare si stia attenuando sempre più (questo topic credo lo dimostri) e ciò è probabilmente uno dei sintomi "popolari" del cambiamento storico-semantico che sta attraversando la metafisica come disciplina (che poi i suoi contenuti peculiari e il suo vocabolario stiano perdendo la presa sul mondo, per sopravvivere principalmente come metafore ed estetica esistenziale, è solo una mia personale e discutibile opinione, così come quella di non voler "inquinare" lo statuto della metafisica classica avallando il parlare di metafisica pur in assenza di contenuti essenzialmente metafisici, con il risultato di assimilare riduttivamente «metafisica» a «riflessione astrattiva»). Resta comunque in sospeso la domanda che testa e tasta il "polso fisico" della metafisica in quanto filosofia:
Citazione di: Phil il 13 Aprile 2019, 12:33:31 PMqual'è lo "stato dell'arte" della ricerca metafisica, oggi, al di là delle sue analisi storicistiche e filologiche?
Se il fatto che le grandi correnti metafisiche sono oggi, se non erro, ridotte alla amatoriale metafisica fai-da-te (da forum o poco più) fa eco a quanto avviene spesso con la religione, ciò non giustifica comunque un'improvvida identificazione delle due. Se le risposte alla domanda sono: i paralogismi di Severino (avulsi dalla vita esperenziale); l'esigenza psicologica di rimuovere ad ogni costo il nichilismo (capro espiatorio tanto remissivo quanto inconscio); l'anelito monistico ad un "punto zero" (postulato ed infalsificabile) che spieghi la "matematica del mondo" e/o il suo "senso"; l'astinenza da analgesica panacea per schizofrenie e paranoie della cultura che ci circonda (e qui la religione ha effettivamente liberato un po' di spazio), etc. allora, tutto ciò significa che le metafisiche (se proprio ci teniamo a chiamarle così) hanno ancora il loro alveo in cui scorrere, anche se, come è noto, non è più lo stesso fiume in cui si bagnarono Aristotele, Kant e Bontadini.


la questione sullo stato dell'arte odierno della metafisica ha un significato storico-culturale, ma non teoretico. Sul piano teoretico non si deve badare che un certo indirizzo filosofico sia più o meno seguito nel tempo in cui si vive, ma unicamente sul rigore logico con cui si applicano dei criteri di giudizio ritenuti universalmente validi. Non è la conformistica adesione alle mode intellettuali del momento che fa il valore della filosofia, ma solo la forza argomentativa con cui mostra la sua verità, la sua corrispondenza con una realtà oggettiva, che resta tale al di là delle mode. Quindi che una certa modalità della metafisica rischi oggi di limitarsi a esprimersi in approcci fai-da-te privi di un supporto accademico strutturale organizzato, perché gli orientamenti filosofici dominanti andrebbero in tutt'altra dimensione, non dice nulla sulla sua validità teoretica, che è la cosa che più mi interessa. In questo senso, noto con dispiacere un certo tono spregiativo nel parlare di "fai-da-te", quando invece questo approccio esprime proprio il coraggio intellettuale della razionalità, di chi resta fedele alla ragione e alla verità, alle proprie idee fintanto che continua a reputarle valide e ben fondate, senza lasciarsi condizionare dogmaticamente dal timore di restare isolato rispetto a un clima culturale che percorre nella sua quasi totalità strade del tutto diverso. Se anche fossi oggi l'unica persona al mondo (comunque non penso di esserlo) a reputare validi alcuni assunti della metafisica classica, oggi fuori moda, ritengo dovrei aver tutto il diritto di continuare a portare avanti le mie idee, poi posso sbagliare, ma la contestazione in sede teoretica che potrei accettare, dovrebbe essere rivolta a evidenziare eventuali fallacie argomentative, ma non alla constatazione di isolamenti culturali vari. L'idea di sovrapporre la questione storica a quella teoretica, vincolando la seconda alla prima, la trovo comunque espressione di un approccio storicistico, per cui non esista verità che non muti temporalmente, cioè si nega il livello sovratemporale, sovrasensibile della metafisica cosicché si pone il problema dell' "aggiornatezza" storica da porsi come parametro di giudizio sulle verità stesse, Questo storicismo dei criteri è in fondo coerente con la squalifica della metafisica, ma da un lato presuppone tale squalifica fin dalle sue premesse (rendendosi così incapace di legittimarla invece come conseguenza critica, in quanto è già accettata come pregiudizio di partenza), dall'altro si autocontraddice, in quanto il divenire storico come metro di giudizio del valore teoretico di un pensiero, implica la sua assolutizzazione: nulla è oltre il divenire, nulla oltre la materia, di nuovo è implicito il giudizio sulla totalità, su un punto di vista che per definizione presume di comprendere in sé ogni contingenza, ogni tempo, ogni spazio, cioè un punto di vista espressione di quella metafisica dell'assoluto che si vuole contestare. Di nuovo, si ha la conferma che solo una metafisica può pretendere di contrapporsi a un'altra metafisica
#240
Per Odradek, a cui do il benvenuto

avrei difficoltà ad elencare con esattezza il complesso di questioni su Dio a cui la metafisica, intesa come speculazione razionale, può render conto, di contro a quelle questioni a cui si delega la fede personale del credente. In ogni caso, non vedo la metafisica come una tesi, quindi né come affermazione dell'esistenza di Dio, né come negazione di questa. Per me metafisica è da un lato disciplina, dall'altro ambito di ricerca, livello dell'essere. La metafisica come disciplina ne rispecchia il lato soggettivo, come livello o ambito di ricerca ne rispecchia il lato oggettivo, e i due lati si richiamano reciprocamente in nome del principio di intenzionalità: ogni pensiero è sempre pensiero di qualcosa, quindi a ogni modalità con cui la coscienza si relaziona al mondo, corrisponde una "regione" dell'essere reale, che si investiga sulla base della specifica metodologia che caratterizza quel tipo di relazione (e in questo senso mi pare di poter replicare a Phil, non ci può essere alcun alcun eclisse dell'ontologia filosofica sulla base dello sviluppo delle scienze naturali, perché la metodologia delle scienze sperimentali è adeguata in relazione a una certa dimensione del reale, diversa da quella che si presta a essere compresa da una distinta metodologia, di tipo deduttivo e speculativo, e dunque solo una filosofia può soppiantare una cattiva filosofia, come una fisica può soppiantare una cattiva, ma nemmeno la miglior fisica può avere gli strumenti per contestare una metafisica/filosofia, che proprio perché "oltre" la fisica, prende in esame un punto di visto irriducibilmente altro rispetto quello fisico). Quindi già solo la possibilità che l'uomo pensi metafisicamente implica, a livello generale, la presenza reale di un campo corrispondente a tale tipo di pensiero, al di là della varietà delle tesi che riguardo a quel campo possono essere formulate. La possibilità di pervenire a tesi veritativamente valide dipenderà dalla rigorosità argomentativa della ricerca da parte del singolo ricercatore, ma questo è un dato comune a ogni tipo di scienza: si può fare buona o cattiva metafisica nella stessa misura in cui è possibile fare buona o cattiva fisica, chimica ecc.



Non riesco a intendere la differenza che poni (se non è un problema, potremmo pure darci del tu, solitamente nei forum si usa) tra argomentare e discutere... argomentare vuol dire fare in modo di presentare il proprio discorso come adeguato alla realtà oggettiva, e quindi convincente non solo per chi lo presenta, ma anche per chi ascolta. Le argomentazioni sono così il materiale su cui ogni discussione è resa possibile. Questo al di là della materia su cui si argomenta: che l'argomento razionale riguardi qualcosa che accanto all'argomentazione si crede anche per fede non toglie di per sé validità all'argomentazione. Sta all'onestà intellettuale di chi argomenta stare attento a non lasciarsi condizionare dall'esigenza emotiva di conferma delle proprie credenze anche arrivando ad accettare razionalizzazioni forzate e arbitrarie

La lettura delle fonti storiche del deismo mi pare corretta e ben spiegata, io però volevo intendere il deismo in un'accezione più teoretica e generale, non circoscritta alla sua determinazione storica. Parlavo di deismo come modello di una "religiosità" nella quale l'idea di Dio viene accettata entro i limiti della razionalità, escludendo le attribuzioni dovute alle rivelazioni, rigettate proprio in quanto divisive. Proprio qua si riallaccia e trova un senso l'istanza pacifista giustamente da te evidenziata: Per far sì che un'idea di Dio sia condivisa e accettata dalle nazioni, occorre che la fonte legittimante sia un dato comune a tutti gli uomini, e questo non può essere altro che la razionalità, che definisce l'essere umano in quanto tale, in contrapposizione alle fedi rivelate, che invece esprimono le differenze storiche-culturali, da cui poi sorgono le divisioni e i conflitti. Non basta parlare di "Essere supremo" in generale, la sua esistenza va argomentata in modo razionale, altrimenti le diverse fedi potranno continuare a cercare di appropriarsene, considerando come ciascuna delle loro rappresentazioni fideistiche sia quella che rispecchia tale "supremità", a differenza delle altre. Va da sé che il deismo implichi la necessità che l'esistenza di questo Essere supremo sia dimostrabile con degli argomenti razionali, e in questo senso un deista può tranquillamente far propri in linea di principio gli argomenti anselmiani, tomisti ecc, solo stando attento a tagliar fuori le componenti delle loro dottrine legate alle fedi rivelate (personalmente, più che Spinoza, mi ispiro su questo soprattutto a Cartesio e poi Rosmini, sull'individuazione di una linea argomentativa razionalizzatrice del riconoscimento di un Principio primo). Quindi ritengo tutto sommato valido il mio esempio del deismo come posizione metafisica antifideista, chiunque, anche ai giorni nostri, ritenga possibile argomentare razionalmente su Dio o l'anima, mettendo da parte credenze sentimentali, può riconoscersi nella definizione di "deismo", al di là del fatto di non vivere più oggi le stesse condizioni storiche su cui il deismo è nato (cioè purtroppo le condizioni sussistono ancora, ma non è detto che le esigenze politiche debbano essere le motivazioni fondamentali del senso di appartenenza a questa corrente)

Sul conflitto scienza-religione, temo effettivamente di aver creato equivoci, e mi scuso. Chiarisco, personalmente non credo affatto che esista un conflitto scienza-religione, o meglio non è necessario che sorga, può accadere solo nel momento in cui religione e scienza pretendono di invadere il campo di pertinenza dell'altra, ma in questo caso il conflitto non sarebbe tra i due ambiti distinti, ma tra gli stessi ambiti utilizzanti metodologie contrapposte, una adeguata l'altra fuori-contesto. La scienza che pretenderà di interferire col piano della religione (spiritualità) si negherà in quanto scienza, diverrà scientismo, così come una religione che pretenderà di interferire con quello della scienza, ignorando la relativa autonomia della causalità fisica rispetto a quella metafisica, si degraderà a superstizione. In ogni caso non intendevo affermare l'esistenza del conflitto, ma siccome so che molti al contrario vedono questo conflitto, e poi fanno coincidere religione e metafisica, volevo far notare come si rischi a volte di proiettare il conflitto tra religione-scienza su quello metafisica-scienza, che poi a mio avviso è una contrapposizione ancora più arbitraria della prima, in quanto se la religione, intesa come puro sentimentalismo può svilupparsi in assenza di un controllo epistemologico che la preservi dall'invadere ambiti di questione che non la riguardano direttamente (bypassando la mediazione della causalità fisica interposta tra Dio e i fenomeni), la metafisica, come sapere razionale, dovrebbe avere gli strumenti per tener conto di quanto le proprie tesi restino su un piano adeguato ai propri strumenti metodologici, cioè controllo critico della validità dei propri fondamenti