Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AM
La necessità delle essenze è dimostrabile analiticamente: cioè a partire dalla definizione stessa che ne diamo: se intendiamo l'essenza come la componente necessaria di un ente, quella che rende un ente quell'ente determinato e non un altro, allora l'essenza non può non essere presente in ciascun ente, altrimenti il concetto stesso di "essenza" sarebbe autocontraddittorio e dunque insensato. Senza la propria essenza ogni ente smarrirrebbe il suo "quid" che gli attribuisce una qualsivoglia determinazione e lo contraddistingue da altri enti: cioè l'essere cadrebbe nella pura indeterminazione, verso il nulla. Tutto sta nel non concepire le essenze come idee idealisticamente separate dagli enti a cui si riferiscono, ma, pur mantenendo la loro conntotazione ideale, porle come immanenti ai loro enti di riferimento, cioè identificarle con il loro "quid" che ne specifica il senso determinato, rendendo anche possibile, in seconda battuta la definibilità linguistica.CitazioneCome tu stesso affermi questi sono giudizi analitici a priori; cioé deduzioni da premesse stabilite per definizione (o postulate, comunque arbitrariamente), quindi certe, ma che nulla dicono di come la realtà é/diviene o non é/non diviene, di ciò che realmente accade o meno.
Non dicono quali enti determinati esistono realmente, quali eventi determinati accadono realmente e quali no, da quali essenze enti ed eventi reali sono caratterizzati e da quali no.
Etichettare come "antropocentrismo" qualunque attribuzione da parte di un intelletto soggettivo di categorie formali applicate poi alla realtà oggettiva dovrebbe coerentemente far ricondurre in questa etichetta qualunque forma di conoscenza razionale, comprese le scienze naturali sperimentali, dato che ogni conoscenza presuppone l'organizzazione del flusso di dati sensibili, di per sé informe e caotico, in un sistema di concetti, di forme intelligibili. Anzi, forse proprio nella riconduzione della natura in termini matematici, quantitativi, operata dalle scienza naturali, se si vuole, è riscontrabile un'astrazione e una formalizzazione maggiore che in una visione del mondo fondato sull'apprensione delle concrete qualità fenomeniche materiali delle cose, colori, suoni ecc. nel loro porsi come oggetti di un'esperienza vissuta, una visione che non squalifica le qualità primarie rispetto a quelle secondarie, e quindi in tale più rigida formalizzazione dovrebbe riconoscersi un carattere antropocentrico più forte... in realtà credo che il rischio di cadere in un'antropocentrismo che ostacola la conoscenza della realtà oggettiva, possa essere scongiurato nel momento in cui una sana epistemologia individui dei criteri della conoscenza solidi, come il complesso dei princìpi logici universali, che nella loro trascendentalità, sono regole necessarie del pensiero, a prescindere dal tipo di realtà determinata in possesso di tale pensiero. In questo senso che A sia uguale ad A e non potrebbe mai essere non-A, è una norma che ogni pensiero presuppone necessariamente per non cadere nell'assurdità, sia il pensiero dell'essere umano, che di un ipotetico alieno sceso da Marte, cosicché un complesso di deduzioni ricavate da princìpi originari come questo sarebbe svincolato dall'antropocentrismo. La razionalità che garantisce la corrispondenza di una tesi con la realtà oggettiva è l'argine contro ogni antropocentrismo relativista. Lo stessa fenomenologia husserliana pur riconoscendo un'attività delle noesi, espressione di una soggettività (però l'Io puro, trascendentale, non l'essere umano con le sue proprietà determinate) nella formazione dei noemi, non mi pare consideri l'attività formante come arbitraria proiezione dell'umano, ma fondato sull'apprensione passiva, la sintesi passiva, di un mondo ulteriore di sensazioni, che incidono sulla formazione degli schemi percettivi, in un'intenzionalità "al contrario" ,che va dall'oggetto al soggetto.CitazioneIl fatto che qualsiasi giudizio, qualsiasi conoscenza é propria di un soggetto che (anche) in qualche modo "agisce", considera attivamente la realtà oggettiva (se si tratta di conoscenze di fatti oggettivi) e non ne é soltanto passivamente agito non equipara giudizi oggettivamente veri a proiezioni antropomorfe (false) di qualità soggettive umane (come é il finalismo) sulla realtà naturale oggettiva (extraumana), la quale invece non ne presenta.
Il complesso dei princìpi logici universali, che nella loro trascendentalità, sono regole necessarie del pensiero, a prescindere dal tipo di realtà determinata in possesso di tale pensiero (evidenziazione in grassetto mia) consente di per sè (se non applicato all' empiria) per l' appunto la formulazione di giudizi analitici a priori certi ma "gnoseologicamente sterili", che nulla consentono di conoscere su ciò che realmente é/accade o meno.
Per un' effettiva conoscenza della realtà sono necessari anche dati empirici, sui quali si possono affermare giudizi a sintetici a posteriori, i quali possono costituire (anche, non solo) conoscenze vere, comunque a mio parere inevitabilmente incerte, se non nell' effimero istante presente di una constatazione immediata particolare concreta.