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Messaggi - Apeiron

#241
Ciao @sgiombo,


CitazioneIl ragionamento mi sembra un po' contorto, ma se ben capisco ammette che ciò di cui abbiamo esperienza sono mere (inisemi - successioni di) sensazioni ovvero "apparenze (fenomeni) sensibili" (costituenti appunto la nostra coscienza).
Dunque non si tratta di cose in sé reali indipendentemente dalla nostra (eventuale) coscienza.
Ed invece eventuali (indimostrabili) oggetti delle sensazioni della nostra coscienza (in particolare delle nostre sensazioni materiali) non possono che essere altra cosa, ovvero cose reali in sé indipendentemente dalla nostra (eventuale: anche se e quando essa non é realmente in atto) coscienza, così come non possiamo non esserlo noi stessi, soggetti della nostra coscienza (ed eventualmente soggetti-oggetti riflessivamente nel caso delle esperienze fenomeniche coscienti mentali).

Da quanto ho capito io, il discorso è meno complesso. In pratica, per fare un esempio pensa ai colori. Il "colore" è una proprietà di oggetti esterni alla coscienza o, invece, sono contenuti mentali che caratterizzano l'esperienza cosciente? Se rispondi che i colori sono proprietà di oggetti esterni, non puoi giustificare il "salto" logico dovuto all'applicazione del principio di causa (o di altra spiegazione) per oggetti fuori dalla nostra esperienza - ovvero, a rigore, non puoi sapere che la tua percezione di colore è dovuto a "qualcosa di esterno". Se rispondi che i colori sono solamente contenuti mentali, invece, cadi in una sorta di "solipsismo" (anche perché, l'esempio dei colori si può estendere a tutta l'esperienza!).


CitazioneSecondo me il rapporto causa - effetto può essere postulato (ma non dimostrato: Hume) in termini rigorosi solo a proposito dei fenomeni materiali, in quanto misurabili quantitativamente e dunque passibili di astrazioni di caratteri generali del loro divenire esprimibili con certe determinate e precise equazioni matematiche.
Non può essere applicato in questi termini rigorosi, di calcolabilità matematica degli effetti dalle cause o viceversa, ai fenomeni mentali in quanto non misurabili quantitativamente, né tantomeno alla realtà in sé o noumeno, in quanto nemmeno percepibile con i sensi (e dunque a maggior ragione non misurabile).

Stranamente (dico "stranamente" perché ad entrambi piacciono filosofi come Kant, Berkeley, Hume  :) ), ritengo invece che noi possiamo in realtà utilizzare il rapporto di causa-effetto e anche le osservazioni quantitive alle sensazioni. In verità, se ci pensi, è quello che in pratica si fa. Esempio banale: prendi un righello e misuri la lunghezza di una linea. Quello che fai è prendere un righello che vedi, spostarlo e eseguire la misurazione della lunghezza. Come dicevo, anche un (idealista e) solipsista può eseguire le misure scientifiche. In tale scenario, tutti i risultati scientifici che si ottengono sono riferiti a sensazioni, a contenuti mentali. Non sono nemmeno pubbliche (un esempio meno "irreale" è una misurazione eseguita durante un sogno). Inoltre, rigorosamente, il rapporto causa-effetto è applicabile alle sensazioni. Perché? perché se diciamo che la materia è "esterna" a noi, cadiamo nel "paradosso" di prima. Infatti non possiamo giustificare l'uso del principio di causa-effetto su qualcosa che noi non conosciamo direttamente. Ad ogni modo, secondo me ci sono regolarità nella nostra esperienza cosciente sia di veglia che nel sogno. Per esempio, anche nel sogno si "vedono" linee di varie dimensioni, le quali si possono, in linea di principio "misurare". 
Con la ragionevole assunzione della materia, diventa ragionevole assumere che anche la materia abbia proprietà quantitative  :) ma non sono necessariamente d'accordo che i fenomeni mentali non possano essere sottoposti ad analisi quantitativa. Ovviamente non tutti. Ma in fin dei conti cos'è la lunghezza se non una quantità confrontando due fenomeni (righello e linea), che in linea di principio potrebbero essere immateriali, come nel sogno. In realtà, la "prova" Kantiana dell'esistenza della materia mi sembra uno dei punti deboli della sua filosofia. Infatti, in Kant c'è un ottimo equilibrio tra soggetto ed oggetto anche senza l'assunzione della materia. Perché? Il soggetto è la coscienza e l'oggetto è il contenuto fenomenico (ciò di cui la coscienza ha, appunto, "coscienza"...scusa il giro di parole ma penso che hai capito ;D ). Parlare della materia (intesa come qualcosa che "sta dietro" ai fenomeni dell'esperienza), secondo me, significa andar fuori dal mondo fenomenico. 


Spero di non averti frainteso  :-[ 


CitazioneNon vedo aporie nel fatto che abbiamo conoscenza [o meglio, secondo me, coscienza, sensazione empirica] degli oggetti dell'esperienza (mere percezioni).
Le percezioni sono dipendenti dalla nostra esistenza
, ma secondo me nulla impone (non é una deduzione cogente) che se escludiamo il solipsismo, dobbiamo ammettere che tali percezioni derivano da altro, qualcosa di esterno da noi
Questo lo possiamo solo credere (e personalmente lo credo) fideisticamente, indimostrabilmente.

Che significa che "gli oggetti dell'esperienza derivano da oggetti separati da noi"?
In realtà sono i "contenuti fenomenici" dell' esperienza (le sensazioni coscienti) che possono essere creduti (ma non dimostrati) "derivare" da, o meglio essere in corrispondenza biunivoca con (e non propriamente trovarsi in un rapporto di causazione rigorosamente inteso come espressione di una legge del divenire esprimibile mediante equazioni matematiche) oggetti in sé separati da noi e non costituiti dalle nostre sensazioni fenomeniche (noumeno)


Sul primo paragrafo posso essere anche d'accordo. Però si avrebbe la situazione assurda di soggetti completamente isolati l'uno dall'altro che hanno esperienze completamente private. In sostanza, ognuno vivrebbe per sé stesso. Tolto questo scenario, però, devi ammettere che non riesci a giustificare l'insorgere delle apparenze (se non derivano unicamente dalla nostra coscienza, cosa che però è stata esclusa).  Sul discorso della corrispondenza biunivoca, vedi dopo.

Sul secondo non vedo differenza tra ciò che dici tu e la frase che hai citato  ;)


CitazioneQui mi sembra che tu confonda i concetti di "mente" e di "esperienza fenomenica cosciente" o più brevemente "coscienza".

La nostra mente é la parte "di pensiero" (res cogitans: ragionamenti, calcoli, deduzioni, ricordi, immaginazioni, sentimenti, "stati d' animo", ecc. "interiormente avvertiti") nell' ambito dell' esperienza fenomenica cosciente; la quale, oltre ad essa comprende anche una parte materiale (res extensa: quanto percepito "esteriormente" con i cinque o sei sensi corporei).
Dunque colori, suoni, ecc. sono certamente cose che esistono solo in quanto apparenze; ma in quanto apparenze materiali (e non mentali) nell' ambito della nostra coscienza e non de- (quella parte della nostra coscienza che è) -la nostra mente.


Ok... quindi per te "coscienza" significa "mente" + "contenuti mentali"? Per me "coscienza" e "mente" (in questo caso)* sono sinonimi. Secondo me, la coscienza/mente ha consapevolezza delle sensazioni. 


* dico "in questo caso" perché a volte ho chiamato "mente" qualsiasi "cosa" che processa l'informazione. Ancora sto decidendo se tale utilizzo della parola "mente" è improprio. Ma tutto dipende dallo status ontologico dell'informazione, temo. 



CitazioneLa concettualizzazione si riferisce ai fenomeni (materiali o mentali), ma é diversa cosa dai fenomeni concettualizzati stessi: é costituita da altri, diversi fenomeni (esclusivamente mentali), cioé dai pensieri di fenomeni che ne sono oggetto (o "materia", "contenuto": "oggetto in un senso ben diverso da quello per cui le cose in sé sono "oggetto" -e/o soggetto- delle sensazioni fenomeniche).

Certo, se vogliamo usare la causalità per spiegare l'insorgenza dei fenomeni (ma ripeto che ritengo più corretto parlare di "relazione di coesistenza biunivocamente corrispondente", una causazione in senso rigoroso, nomologico essendo possibile postulare solo nell' ambito de i fenomeni materiali per via della loro misurabilità quantitativa), in fin dei conti, andiamo fuori dall'"isola fenomenica" (come la chiamava Kant); ma in questo non vedo alcuna aporia: le cose in sé, ben diverse, distinte dai fenomeni in un certo senso (lato, non rigoroso) "causano" i fenomeni (nel senso che necessariamente coesistono-codivengono in corrispondenza biunivoca con essi: dove starebbe mai il paradosso o al contraddizione?

Le scienze non vanno mai (non possono andare) alla inattingibile empiricamente cosa in sé, ma si limitano alla conoscenza dei fenomeni.


Allora... sì, faccio una precisazione. Il "noumeno" è un concetto-limite che introduciamo quando riconosciamo che i fenomeni della nostra esperienza cosciente sono, appunto, mere sensazioni. Siccome abbiamo esperienza delle nostre sensazioni, concetti come "causa-effetto" possono essere applicati, a rigore, solo lì perché "qualcosa di esterno" per noi è inconoscibile (a priori, ovviamente). Il "noumeno" entra, dunque, se rifiutiamo l'ipotesi idealistica (=la realtà è semplicemente, usando il tuo cerco, mente e sensazioni mentali) e del realismo naive (=le nostre sensazioni coincidono con oggetti esterni - oppure, ci è possibile conoscere gli oggetti esterni tramite le sensazioni). Se diciamo che oggetti esterni causano l'insorgere delle sensazioni fenomeniche cadiamo nel realismo naive, visto che le "cose esterne" pur non apparendo nella nostra esperienza vengono conosciute come causa di essa da noi (ovviamente, parlo sempre a livello quanto più "razionale" possibile e non "ragionevole"  ;) ). 
Se, invece, utilizziamo la corrispondenza biunivoca, la cosa è diversa perché, in questo caso, non abbiamo più la pretesa di conoscere il noumeno. Infatti, se non ci fosse nulla dietro l'esperienza fenomenica allora fenomeno e noumeno coincidono. 

Tuttavia, se "pretendiamo" di conoscere proprietà del noumeno utilizzando la nostra esperienza fenomenica + categorie mentali, finiamo nell'aporia. Come dicevo, secondo me questo è l'errore di Kant (e di Schopenhauer) nell'assunzione dell'esistenza della materia. Infatti, la materia non appare nella nostra esperienza (in fin dei conti, anche nel sogno tocchiamo muri, ma questi muri non sono materiali  :) ). Ammettere l'esistenza di oggetti della cognizione non richiede necessariamente l'esistenza della materia.


CitazioneQui credo di averti ben capito.

Concordo sulla falsità del realismo "naive" che identifica i fenomeni coscienti (il cui "esse est percipi") con le cose in sé reali indipendentemente dalle esperienze coscienti (il cui "esse non est percipi", per così dire).


Ottimo! Qui secondo me sta anche la grandezza di Berkeley  :) 



Citazione- Ripeto che in termini rigorosi non si può parlare di autentica causazione fra noumeno e fenomeni (lo si può fare ma sol in senso decisamente lato e a rigore improprio).


Ok, ma in senso lato sì  :)



Citazione-Se fosse vero il "realismo naive", il mondo fenomenico (comunque reale anch' esso, non meno del noumeno) coinciderebbe con il mondo in sé o noumeno. Per i realisti naive, infatti, noi conosciamo direttamente la realtà-così-come-è-in sé (che sarebbe autocontraddittoriamente costituita da sensazioni fenomeniche reali anche se, "dove" e quando non esistono-accadono realmente).

- Il solipsismo si potrebbe forse evitare (indimostrabilmente, per fede) anche senza noumeno (per esempio ammettendo una sorta di "leibniziana armonia prestabilita" fra la "propria" ed altre, diverse esperienze fenomeniche coscienti.


Qui concordo  ;)


Citazione- (Soprattutto) quanto scrivi qui é una sorta di descrizione con altre parole del fatto che i fenomeni sono una cosa, il noumeno o cose in sé sono altra cosa; ben diverse "cose" che (però) divengono in reciproca corrispondenza biunivoca: ad un' unica e sola certa determinata situazione in sé corrispondo unicamente e solamente certe terminate situazioni fenomeniche (una per ciascuna coscienza) e non altre. Anch' io in altri interventi nel forum ho scritto che in un certo senso un determinato cervello in un determinato stato funzionale é la stessa cosa in sé che si manifesta come tale (determinati fenomeni materiali cerebrali) "in qualità di oggetto di sensazioni fenomeniche*" ad altre cose in sé "soggetti di sensazioni fenomeniche*" e che si manifesta come un certo stato mentale** (come determinati fenomeni cogitativi**: pensieri, ragionamenti, sentimenti, ecc.) a se stessa riflessivamente "oggetto, oltre che soggetto", di sensazioni fenomeniche**".


Personalmente, concepisco la "corrispondenza biunivoca" in modo differente. Secondo me, invece, la corrispondenza biunivoca semplicemente è da concepirsi a livello soggettivo, ovvero ammettendo la possibilità che un soggetto riesca a capire pienamente la relazione fenomeno-noumeno. Cosa intendo con ciò? Il noumeno è un concetto-limite che introduciamo quando capiamo la natura della realtà fenomenica. Tuttavia non sappiamo se noumeno e realtà fenomenica coincidono (ovvero non sappiamo se è vero il realismo naive, l'idealismo, il solipsismo o quant'altro). Quello che sappiamo, però, è che vi è una relazione tra i due. Quale? il fenomeno è in pratica il noumeno-visto-da-noi. Quindi vi è una corrispondenza tra noumeno e fenomeno. Ed è "biunivoca" nel senso che a causa della nostra struttura mentale noi percepiamo il fenomeno e dobbiamo introdurre il noumeno mentre la mente "infallibile", di cui parlavo, "vede" il noumeno (e sa che nella nostra limitata condizione dobbiamo distinguerli). Però, questo è il massimo che possiamo dire, in realtà. Ergo, tra fenomeno e noumeno in realtà, per così dire, non c'è vera distinzione "ontologica". In realtà è una distinzione creata a causa della limitatezza delle nostre menti. Quindi, in ultima analisi, la distinzione tra fenomeno e noumeno si riconduce alla distinzione tra le nostre menti e quelle eventuali che conoscono la relazione tra fenomeno e noumeno.
Dire "ad un' unica e sola certa determinata situazione in sé corrispondo unicamente e solamente certe terminate situazioni fenomeniche (una per ciascuna coscienza) e non altre" è secondo me dire troppo, nel senso che assumi che il noumeno abbia determinate caratteristiche basandoti sull'osservazione fenomenica delle stesse.

CitazionePer me il mondo fenomenico non é propriamente una "costruzione" (arbitraria) della nostra coscienza, ma é ciò che accade nella nostra mente in relazione di ineludibile, necessaria, non arbitrariamente modificabile a piacere corrispondenza biunivoca con le cose in sé.

Mmm...forse "costruzione" non era la parola esatta. Ma non intendevo la costruzione come qualcosa di arbitrario, ma di condizionato dalle "proprietà" dalla nostra mente. 

FINE PARTE 1
#242
Citazione di: iano il 03 Settembre 2018, 01:14:36 AM
Apeiron: Per alcuni scienziati , la scienza ci permette di vedere la realtà-così- come è squarciando la limitazione data dal nostro mondo fenomenico.

Questo realismo ingenuo non è  necessariamente un ostacolo al loro lavoro.
Si può ugualmente immaginare che questa posizione possa funzionare sia da incentivo che da ostacolo al loro lavoro.
Mi sembra che vi siano due categorie di scienziati:quelli che abbracciano o semplicemente ereditano questa posizione,con dose variabile di impiego di coscienza,e chi la rifiuta , rifiuto che comporta una dose alta di coscienza.
In un certo senso non c'è bisogno di sapere cosa stai facendo.Basta sapere come farlo.
Questo mi pare crei un parallelo fra il mondo della scienza e quello della percezione.
La vera posizione naive è quella di credere che si tratti di due mondi separati,cosicché il mondo della percezione è prettamente umano, perciò fallace,come la scienza stessa può provare,mentre quello scientifico e' per contrapposizione perfetto.Quindi non umano,quindi non si sa' bene cosa sia.
Uno strumento esterno all'uomo capace di proiettare l'uomo oltre i propri limiti ?
Ciò che ad alcuni sembra una bella favola e ad altri un racconto dell'orrore, ma purtroppo comunque qualcosa che ci deresponsabilizza,cosicché possiamo criticare variamente la scienza senza che ciò valga come un autocritica.
Una critica seria della scienza non può che essere fondata sull'uomo.
Una critica utile della scienza deve dirci in che modo possa dimostrarsi che la scienza sia fallace , allo stesso modo che la scienza ci dice come la percezione sia fallace.
Fatto ciò al posto del termine fallace,che è il prodotto della suddetta posizione naive,occorrerà sceglierne un altro più adatto,o semplicemente eliderlo.
Sia una percezione che una teoria scientifica non è né giusta ne sbagliata,ma solo più o meno utile.
Ma ora mettiamoci nei panni di un promettente studente in fisica.
Come facciamo ad incentivarlo?
Gli diremo che le teorie fisiche sono utili favolette o gli diremo che ci dicono la verità e che sempre nuove verità sono da scoprire?
O cosa diremo invece all'uomo comune?
Sara' di qualche utilità per lui sapere che vive dentro una favola ben congegnata?
Quindi forse la posizione naive ha comunque un suo perché che spiega la sua diffusione maggioritaria.
Se però sia ha l'ambizione di navigare agevolmente fra le nuove teorie fisiche essa sembra solo un ostacolo,ma quest'ambizione non sembra essere maggioritaria,appunto.
Il pericolo è che un agevole navigazione si contrapponga ai motivi per cui ci siamo imbarcati.

Ciao @iano,
come dicevo, il lavoro scientifico è indipendente dalle convinzioni filosofiche che lo scienziato ha. Perfino il solipsista potrebbe ugualmente essere scienziato.
Ad ogni modo, il "mondo scientifico" strettamente parlando è il "mondo della percezione". Pensa all'illusione ottica: ci sembra di vedere, ad esempio, che un'immagine statica si muove. Come diciamo che ciò è una illusione? Studiando la nostra stessa esperienza e applicando le categorie intellettuali ad essa. Mi dirai, ma allora come fa un solipsista a riconoscere l'illusione dalla "realtà" se entrambe sono meri contenuti mentali? Lo fa, applicando il ragionamento alle sue percezioni.
La scienza ci dice verità sul mondo fenomenico. Possiamo verificare "per esperienza diretta" le sue predizioni. Però, dallo studio della nostra esperienza non possiamo risolvere l'aporia citata in precedenza. Strano, no? Con la conoscenza scientifica diciamo, ad esempio, che le impressioni sensoriali derivano dal contatto tra i nostri organi di senso e le influenze del mondo esterno e ciò crea segnali che verranno interpretati dal cervello. Però... però, se facciamo attenzione questo semplicemente ci dice che studiando la nostra esperienza possiamo prevederne altre, non abbiamo dimostrato la cosa. Inoltre, se le categorie intellettuali si applicano al mondo fenomenico possiamo usare la causalità per parlare di una causa del mondo fenomenico (e non solo usare la causalità per spiegare le relazioni tra i fenomeni)?
Questa è l'aporia. Non c'è nessun problema ad affermare che la scienza ci permette di conoscere (almeno parzialmente) i fenomeni, ma se la causalità è una categoria dell'intelletto perchè mai una "realtà esterna" slegata dalla mente dovrebbe seguire le leggi della mente? La scienza non riesce a spiegarlo. Inoltre la scienza, di per sé, non riesce a dimostrare che il solipsismo è falso o se la materia esiste (ad esempio, non riesce a dirci se l'idealismo di Berkeley è vero o no),
Ti sembra sensato quello che sto dicendo?

Ne aprofitto per chiarire un paio di cose del mio intervento precedente:
Citazionequindi se escludiamo uno scetticismo assurdo, ovvero che noi non possiamo in alcun modo conoscere direttamente i nostri contenuti mentali,
frase da sostituire con
Citazionequindi se escludiamo uno scetticismo assurdo, ovvero che noi non possiamo in alcun modo, almeno parzialmente, conoscere direttamente i nostri contenuti mentali,

Sul realismo indiretto, inoltre, la differenza è che mentre il realismo indiretto ci dice che il nostro mondo percettivo è una costruzione mentale senza spiegare in alcun modo la relazione con quello "esterno", secondo me invece se c'è una "realtà esterna" il nostro mondo percettivo ne è una approssimazione. Una conoscenza perfetta dei fenomeni equivarrebbe a conoscere tutte le loro caratteristiche e quindi anche se si riferiscono ad una realtà esterna e come. Anche perchè, una conoscenza perfetta "vedrebbe" direttamente la realtà-così-come-è (e quindi avrebbe una conoscenza diretta della realtà esterna, se c'è, o avrebbe la certezza che non c'è se non c'è) così come noi  "vediamo" direttamente la realtà-vista-da-noi :)
#243
Ciao @sgiombo,

CitazioneCasomai dalla (struttura -fenomenica- della) nostra mente dipende (dipendono i fenomeni interni o di pensiero costituenti) la conoscenza dei fenomeni esterni.

Il punto centrale è proprio questo. C'è un'aporia, in un certo senso. Da questo link in inglese: http://www.friesian.com/undecd-1.htm ti lascio questa discussione sull'aporia(traduco io) dal filosofo Kelley L. Ross che pone il problema in modo estremamente chiaro:
Citazione"Thesis: That the real objects of experience are separate from us.
Reductio ad absurdum: But, if they are separate from us, we can only be immediately acquainted with our own minds, not with external objects. Thus, we can only know about external objects inferentially, and these inferences, from effect to cause, are not logically compelling. Therefore, we cannot know, nor have sufficient reason to believe, that the real objects of experience are separate from us.
Corollary: But, if what we know is not separate from us (as concluded), and we have real perceptual knowledge (non-scepticism), then we are directly acquainted with the real objects of experience (the antithesis)."

Traduzione mia: "Tesi: gli oggetti reali dell'esperienza sono separati [ovvero: completamente slegati] da noi.
Reductio ad absurdum: Ma, se sono separati da noi, abbiamo conoscenza  della nostra stessa mente, non degli oggetti esterni. Quindi, possiamo solo conoscere gli oggetti deduttivamente, e queste deduzioni (inferences), dall'effetto alla causa, non sono logicamente inoppugnabili. Quindi, non possiamo conoscere, né avere ragione sufficiente per credere, che gli oggetti dell'esperienza sono separati da noi.
Corollario: Ma, se gli oggetti che conosciamo non sono separati da noi (come concluso), e noi abbiamo una reale conoscenza percettiva (non-scetticismo), allora conosciamo direttamente gli oggetti reali dell'esperienza (l'antitesi)."


"Antithesis: That we are directly acquainted with the real objects of experience.
Reductio ad absurdum: But, our perceptions are actually only contents of our own minds, dependent on our own existence, not on the existence of anything external to us. Thus, if we rule out solipsism, we must make inferences from our mental contents to real external objects. Therefore, we are not directly acquainted with the real objects of experience.
Corollary: But, if we are not directly acquainted with the real objects of experience (as concluded), and they exist (non-solipsism), then the real objects of experience are separate from us (the thesis)."


Traduzione mia: "Tesi: abbiamo conoscenza diretta degli oggetti dell'esperienza.
Reductio ad absurdum: Ma, le nostre percezioni sono in realtà solo contenuti della nostra mente, dipendenti dalla nostra stessa esisstenza, non dall'esistenza di altro di esterno da noi. Dunque, se noi escludiamo lo solpsismo, dobbiamo fare inferenze [deduzioni] dai nostri contenuti mentali agli oggetti reali [ed] esterni. Quindi, noi non abbiamo conoscenza diretta degli oggetti dell'esperienza.
Corollario: Ma, se non abbiamo conoscenza diretta degli oggetti reali dell'esperienza (come concluso), ed esistono (non-solipsismo), allora gli oggetti reali dell'esperienza sono separati da noi (la tesi)"

Per farla breve... se ammettiamo che gli oggetti dell'esperienza sono separati da noi dobbiamo ammettere inferenze logiche non "inoppugnabili" (compelling), anche perchè non abbiamo alcuna ragione (strettamente parlando!!! ovviamente lo facciamo per ragionevolezza) di affermare che ciò vale nelle nostre esperienze fenomeniche private (come le nostre categorie dell'intelletto, ad esempio il rapporto causa-effetto)* vale anche con supposti oggetti esterni. Quindi, gli oggetti dell'esperienza sono solo privati e quindi se escludiamo uno scetticismo assurdo, ovvero che noi non possiamo in alcun modo conoscere direttamente i nostri contenuti mentali, allora dobbiamo dedurre che abbiamo conoscenza degli oggetti dell'esperienza (mere percezioni). Ma le percezioni sono dipendenti dalla nostra esistenza e se escludiamo il solipsismo, dobbiamo ammettere che tali percezioni derivano da altro, qualcosa di esterno da noi. Quindi gli oggetti dell'esperienza derivano da oggetti separati da noi. Ergo, come si vede, abbiamo un'aporia.

E questa è una cosa. La seconda è che, a rigore, concetti come quello di causa-effetto vengono formati nel "mondo fenomenico", ovvero quello dell'esperienza. Quindi, quando tu scrivi:

Citazionema i modi in cui  vediamo le cose esterne (i fenomeni materiali) non  dipendono affatto dalla nostra mente

non sono d'accordo perchè, in fin dei conti, l'esperienza fenomenica è sicuramente condizionata dalla nostra mente. Colori, suoni ecc sono certamente cose che esistono solo in quanto apparenze. Inoltre, come dicevo, la concettualizzazione si riferisce sempre ai fenomeni. Se vogliamo usare, ad esempio, la causalità per spiegare l'insorgenza dei fenomeni cadiamo nell'aporia che descrive Kelley L. Ross, visto che, in fin dei conti, andiamo fuori dall'"isola fenomenica" (come la chiamava Kant). Nel lavoro scientifico si assume spesso e in modo ragionevole** che si possa andare oltre le apparenze. Assunzione che è ragionevole e che considero vera ma che è indimostrabile. Strettamente parlando, però, dobbiamo ammettere l'aporia.

Infine, sulla distinzione tra fenomeno e noumeno, vorrei far notare che, secondo me, da un certo punto di vista abbiamo ragione entrambi. Quando, ad esempio, considero l'apparenza di una mela la associo ad un oggetto esterno che causi tale apparenza, un oggetto noumenico congetturabile. Tuttavia, se evitiamo il solipsismo, dobbiamo ammettere che l'apparenza sia la rappresentazione del noumeno. Il problema è che questa apparenza non è, in realtà, una creazione della nostra mente slegata all'oggetto noumenico. Ma, in realtà, è l'oggetto noumenico che viene conosciuto dalla nostra mente, ovvero come si presenta a noi (visto-da-noi). Il fatto che tu vedi una "rappresentazione" è dovuto al fatto che non hai una conoscenza diretta e inerrante dell'oggetto noumenico (o almeno non credo che abbiamo tale conoscenza), ovvero non è vero il realismo "naive". Se la conoscenza fosse "non distorta" noi non avremmo nella nostra esperienza delle "rappresentazioni", bensì avremmo, per così dire, gli oggetti-così-come-sono. Se fosse vero il "realismo naive", il mondo fenomenico coinciderebbe con il mondo reale. Per i realisti naive, infatti, noi conosciamo direttamente la realtà-così-come-è. [Probabilmente, non mi sono fatto capire...chiedo scusa di ciò  :-[ ]
Ricapitolando: per i realisti naive il mondo fenomenico, la realtà-come-la-vediamo-noi, coinicide con la realtà-così-come-è;
Per i realisti indiretti il mondo fenomenico è una costruzione della nostra coscienza;
Nel mio "modello", idealmente mondo fenomenico e realtà-così-come-è potrebbero coincidere ma la fallibilità, la limitatezza ecc della nostra mente fa in modo che abbiamo una "rappresentazione" distorta. Ma possiamo comunque parlare tranquillamente di verità inter-soggettive perchè la distorciamo in modo simile (o almeno così credo in base ad argomenti ragionevoli)  ;D se non ci fossero distorsioni avremmo una conoscenza diretta ed esatta e potremmo fare sempre inferenze inoppugnabili;
Per gli scettici il mondo fenomenico è slegato completamente alla realtà esterna oppure non è possibile sapere se c'è una realtà esterna (che è vero, vista l'aporia  ;) );
Per i solipsisti esiste solo il mondo fenomenico;
Per i relativisti oguno ha il suo mondo fenomenico ma, non essendoci alcuna "realtà-così-come-è" e non essendoci una "gerarchia", ogni mondo fenomenico è esatto;
Per alcuni scienziati, la scienza ci permette di vedere la realtà-così-come-è squarciando la limitazione data dal nostro mondo fenomenico.

Altra cosa... il fatto che i nostri concetti si formano nella nostra esperienza, lo si nota ovunque. Siamo costretti a ricorrere a concetti famialiari basati sulla nostra esperienza e cerchiamo di ricondurre tutto in termini di tali concetti senza pensare che, probabilmente, hanno un ambito di validità  :)

*un punto importante della filosofia Kantiana è proprio che le categorie valgono nel mondo fenomenico. Lo scetticismo di Hume, per Kant, è superato perchè, ad esempio, la causalità vale nei fenomeni.
** in realtà, come sosteneva Wittgenstein da giovane (ci dice Russell), si potrebbe ancora parlare di verità scientifiche perfino con solipsismo. In realtà, l'attività scientifica non dipende in alcun modo dalla metafisica (non a caso, il positivismo logico e il fenomenalismo sono nati proprio nel tentativo di separare scienza e metafisica)
#244
Ciao Jess,

mi associo anche io ai ringraziamenti per la tua testimonianza.  Inoltre, concordo con Sariputra che la tua, secondo me, non è tanatofobia bensì è una profonda consapevolezza della realtà dell'impermanenza. Purtroppo, non è facile conviverci.

Anche io ho questo tipo di consapevolezza e mi faccio molto spesso le domande che ti fai sul "senso" delle azioni umani. Anche per me, la consapevolezza dell'impermanenza è una spinta fortissima alla spiritualità, alla filosofia e nel mio caso anche alla scienza. In fin dei conti, lo studio della matematica e della fisica, nel mio caso, nascono dalla volontà di contemplazione di verità a-temporali (matematica) e delle regolarità della natura (fisica), le quali permangono nel flusso degli eventi. Inoltre, la riflessione dell'impermanenza per me ha anche un'importanza etica, visto che notando l'inevitabilità della morte, ho la spinta a sfruttare il tempo che ho a disposizione nel modo migliore (l'etica ovvero, chiedersi "Come si fa a vivere?").

Faccio notare che condivido il tuo concetto di "morte" come qualcosa di pervasivo nella nostra esperienza. Perchè non solo c'è la morte fisica, la fine di questa vita. Ma tutte le nostre esperienze svaniscono via, inevitabilmente. In realtà, cos'è il "divenire", il "flusso del tempo" se non un continuo sorgere e svanire di esperienze - ovvero una continua sequenza di nascite e morti. La morte è veramente una "realtà" della nostra esperienza. Il presente diventerà passato. Come non vedere che impermanenza e dolore sono intimamente connessi?

Sulla stretta connessione tra riflessione filosofica e contemplazione della morte, lascio questa citazione di Schopenhauer (Mondo come Volontà e Rappresentazione, vol II): "La morte è il vero genio ispiratrice, o la musa della filosofia, per questa ragione Socrate ha definito quest'ultima come θανατου μελετη. Certamente senza la morte gli uomini filosoferebbero a stento."
"θανατου μελετη" (translitterazione: "thanatou melete") = "meditazione (melete) sulla morte (thanatou)"
#245
Tematiche Spirituali / Re:Sono un essere inadeguato
05 Agosto 2018, 22:51:32 PM
Ciao Sari,

interrompo questo tuo "spazio", per dirti che queste ultimi due "contributi" sono veramente fantastici.

Del primo ho trovato veramente bella la riflessione del pericolo dato da invidia e disprezzo quando si cerca di "abbassarsi". L'invidia e il disprezzo purtroppo ci fanno compiere l'abbassamento solo a livello "esteriore". Ma non è vissuto e autentico se influenzato da questi due "inquinanti" (per usare un termine Dharmico). In realtà, se non si sta attenti si rischia di innalzarsi anziché abbassarsi. L'esperienza dell'amore (ricevuto e dato) aiuta a lasciar andare invidia e disprezzo.

Del secondo mi è davvero piaciuta molta la "sintesi" tra il Dharma e la quotidianità. Anzi, forse "quotidianità" è un po' un termine errato. Per dare una "lezione", la situazione sembra esattamente l'opposto di quella "ideale". Ma in fin dei conti:

CitazioneIl monaco chiese ancora: "Perchè il primo patriarca Bodhidharma è venuto in Cina?"
Chao Chou rispose: "cipresso nel giardino"

mi ricorda un po'...

Citazione di: Sariputra il 05 Agosto 2018, 19:10:01 PM-Questo è buddhismo?-(Giorgia)
-Tagliamo la torta di V. che il cielo si sta chiudendo. Al pomeriggio viene sempre a piovere...-
#246
Tematiche Spirituali / Re:Che cos'è la Fede^
05 Agosto 2018, 22:20:53 PM
Perdonate l'autocitazione ma voglio precisare una cosa.
Nell'intervento mio #11
CitazioneSpesso gli atei criticano i cristiani dicendo che il Cristianesimo è una favola, nel senso che promette che la vita continua per sempre dopo la morte. Tuttavia, personalmente, talvolta il messaggio cristiano mi incute molto timore, specie se si considera, ad esempio, che oltre al Paradiso, c'è anche l'Inferno/"Geenna" (rispetto a quest'ultima opzione, ritengo più desiderabile il nulla). Usando le parole di Kierkegaard è un "aut-aut" estremamente radicale (in fin dei conti il messaggio evangelico dell'agape è molto impegnativo). Facendo un discorso più generale valido anche per altre religioni e filosofie, secondo me credere veramente cha la morte non è la fine e che il dopo dipenda (in qualche modo) da come si è vissuto conduce a vedere le cose in un altro modo, a vedere le esperienze che si hanno durante la vita in un'altra luce. Conduce ad una prospettiva più ampia e quindi le azioni e le esperienze di questa "vita terrena" vengono valutate secondo tale prospettiva. Ovviamente è importante il "veramente" sottolineato poc'anzi. Infatti si può dare poca importanza a tale "credenza".
e #13:

CitazioneSecondo me, però, la prospettiva di una continuazione, come spiegavo sopra, può essere un incentivo a fare il bene e ad evitare il male. Penso che il @Sari per "godersi la vita" intenda la prospettiva di continuare la ricerca della gratificazione dell'ego, del piacere edonistico* (ovvero quello che hai indicato con "male")   in fin dei conti se si "crede veramente" in una prospettiva "più grande" certe cose perdono importanza.



*uso la parola nel senso "comune" del termine. Non mi sto riferendo a tipi di "edonismo" "elevato" come il caso di Epicuro.


volevo evidenziare due concetti. Il primo è che effettivamente molti dei (ma non tutti i)  "non-cristiani" * che criticano il Cristianesimo lo fanno per quanto scritto sopra, ovvero ritengono che il Crisitianesimo è una "favola" che serve per dormire bene la notte. Questa critica viene mossa per due motivi (1) o si trascura il "dogma" dell'inferno oppure (2) si ritiene che il cristiano accetti tutte le cose senza problemi, acriticamente. Nel primo caso si pensa che il cristiano dorma sonni tranquilli perchè sa che, comunque, "finirà bene".  Nel secondo caso, invece, si ritiene che il cristiano necessariamente non problematizza i "dogmi" della sua fede. Entrambe le critiche, in realtà, sono infondate. La critica (1) è facilmente sconfessabile dalla presenza del concetto dell'"inferno". Anche nella visione secondo cui l'inferno è dovuto al rifiuto dell'uomo di amare (es: https://www.monasterodibose.it/fondatore/articoli/articoli-su-quotidiani/7304-inferno-quel-fuoco-acceso-dalla-nostra-liberta ) rimane comunque la consapevolezza dell'esistenza del male e del peccato a cui ciascuno nella sua individualità è soggetto. Dunque, il credente, lungi dal "dormire sempre sonni tranquilli" in realtà può anche aver paura della "realtà spirituale". Nelle biografie di molti santi, per esempio, si nota un forte conflitto interiore. Nel caso (2) invece la critica fallisce per esempio se si considera questo motivo: la debolezza della condizione umana fa in modo che il dubbio sia difficilmente superabile. Inoltre, se il crisitano fosse uno che "crede a tutto", non ci sarebbe, ad esempio, quell'encomiabile (secondo me) sforzo della Chiesa Cattolica di conciliare le verità scientifiche a quelle di fede. Anzi, se non erro alcuni studiosi cattolici dicono di essere mossi nella fede nella loro ricerca (che sia scientifica, di esegesi biblica ecc). Sono pronti a mettere a dura prova le loro convinzioni. Qui cade anche un'altra accusa: in fin dei conti la fede non è un ostacolo alla scienza.

*due precisazioni: primo, a volte le critiche sono anche giuste. Tuttavia tendono ad assumere una forma generalista, ovvero "tutti i cristiani...". Secondo sarebbe stato meglio aver scritto "non-cristiani" anziché "atei" visto che gli atei non sono l'unica categoria di persone che muove tale crtica.

Collegandomi a quanto detto, faccio anche notare che la fede può essere anche ricerca. Una fede che si mette continuamente in discussione, che continua a cercare. Una fede che cerca di approfondirsi, migliorarsi ecc. Una fede che cerca di essere "autentica", "sentita", "vissuta". E "vissuta" nella debolezza. E quindi vissuta anche nel dubbio, nello smarrimento, nella "notte", nel "deserto", nel "vuoto".

Una fede "umana", quindi. Una fede che non trascura questi aspetti "scomodi". Ovvero una fede che non trascura nemmeno il vuoto e lo smarrimento. Il deserto spirituale della caduta delle certezze e dei punti di riferimento (allegoria dell'Esodo?  ::)  non a caso, discutendo con un amico, siamo andati sull'immagine del deserto. Mi spiegava come un possibile insegnamento dell'Esodo era quello che a volte le persone preferiscono vivere "incatenate" da qualcosa, piuttosto che nel "vuoto" dato dalla libertà. Infatti la "vacuità" della libertà può essere vissuta come un deserto, un luogo di smarrimento, di profonda incertezza ecc).

Altra precisazione: non ho mai voluto dire che chi non ha una forma di religiosità vive una vita "dissoluta" (mi scuso molto se ho dato quest'idea). Anzi, ho esplicitamente citato il caso di Epicuro a questo proposito. Volevo solo sottolineare come credere in una continuazione dell'esistenza e credere che tale continuazione dipende da come si è vissuto durante questa vita, può dare un forte incitamento a ponderare molto le scelte. E non solo per un mero interesse ego-centrico (ovviamente può essere anche per mero interesse ego-centrico) ma perchè si vedono le cose in un'altra prospettiva.
#247
Grazie per la risposta e le citazioni.
 
Citazione
Certo, ma non ci troviamo di fronte a due realtà separate e indipendenti. I fenomeni non sono altro che le manifestazioni della "realtà-così-com'è", le modalità attraverso le quali essa si offre alla conoscenza. Quindi non vedo alcuna ragione per sentenziarne l'inconoscibilità. Solo ciò che non si mostra all'esperienza è inconoscibile.
 
Come dicevo in risposta a @sgiombo, nemmeno io le considero separate ed indipendenti. In realtà, il fenomeno è il noumeno. Se così non fosse, cadremmo nel paradosso del "realismo indiretto" sostenuto da Cartesio, Spinoza, Locke ecc, ovvero che noi non abbiamo conoscenza delle cose esterne ma di "idee" presenti nella nostra mente nate dal contatto con "qualcosa di esterno". No, quello che sto dicendo io è che, in realtà, noi effettivamente vediamo le "cose esterne" ma è il modo in cui le vediamo che dipende dalla struttura della nostra mente. Se non si tiene conto di ciò, si sbaglia secondo me.

In sostanza è come se avessi sempre agli occhi degli occhiali da sole non riesci a "dimostrarlo". Perchè? perchè guardi sempre al mondo fenomenico e non analizzi lo strumento con cui cerchi di conoscere il mondo fenomenico. Credo che tu hai familiarità col concetto di "errore sistematico". Uno strumento di misura con errore sistematico sbaglierà sempre le misure. L'unico modo che hai per dimostrare che c'è un errore di quel tipo è confrontare le misure effettuate usando quello strumento con i risultati ottenuti usando gli altri. Ma usando solo quello strumento non ti puoi accorgere che c'è l'errore sistematico (o meglio, te ne puoi accorgere utilizzando le tue facoltà mentali. Ma in tal caso stai eseguendo un confronto).


CitazioneCARLO E chi l'ha detto che non ci sia una analogia/corrispondenza/complementarità ontologica tra la struttura della mente e la struttura della realtà? Se esiste un principio ultimo (come ormai è certo) il soggetto e gli oggetti del sapere discendono tutti da esso, quindi, in quanto ontologicamente simili/affini/analoghi, possono rispecchiarsi l'uno nell'altro. Infatti, la concezione di "conoscenza" assolutamente prevalente nella storia del pensiero si configura come un confronto analogico di principio tra due realtà simili: il soggetto e l'oggetto. "Il simile conosce il simile" scriveva Empedocle in ossequio al principio di analogia; "l'anima conosce il contrario" gli faceva eco Anassagora in ossequio al principio di opposizione; "...l'anima si unisce all'oggetto", rispondeva Plotino in ossequio al principio di unità degli opposti (analogia/similitudine, opposizione e unità dei termini dialettici sono i tre caratteri fondamentali del "trinitario" Principio di Complementarità). E poi: "Per Schelling, una pura attività soggettiva non potrebbe spiegare la nascita del mondo naturale, e un principio puramente oggettivo non potrebbe spiegare l'origine dell'intelligenza, della ragione e dell'io. Il principio supremo dev'essere quindi un Assoluto o Dio che sia insieme principio del soggetto e principio dell'oggetto, della ragione e della natura. Cioè che sia l'unità di entrambi. (...) La natura deve avere in sé un principio autonomo che la spieghi in tutti i suoi aspetti. E questo principio dev'essere identico con quello che spiega il mondo della ragione, dell'io, quindi la storia". [N. ABBAGNANO - Storia della Filosofia, vol. V - pp. 77-78] "Per M. Ficino, il principio dell'affinità si fa valere dapprima nella dottrina ontologica del pensiero, come abbiamo visto sopra. Poiché il soggetto del pensiero appartiene anch'esso all'ordine oggettivo dell'essere, anche l'atto del pensiero dovrà presentarsi come un rapporto reale del pensante e del pensato. Perciò ogni possibilità del conoscere si fonda su un'affinità originaria della mente con i suoi oggetti. E viceversa l'intelletto e il suo oggetto, appunto mediante la conoscenza, sono congiunti in un'unità concreta da cui risulta immediatamente la verità del pensiero". [P.O. KRISTELLER: Il pensiero filosofico di M. Ficino - pg.105] "La visione ermetica si fonda sull'analogia fra l'universo (macrocosmo) e l'uomo (microcosmo). [...] L'universo e l'uomo si rispecchiano l'uno nell'altro: tutto ciò che si trova nel primo deve trovarsi, in un modo o nell'altro, anche nel secondo. Tale corrispondenza potrà essere meglio intuita riconducendola alla relazione soggetto-oggetto, conoscente-conosciuto: il mondo, in quanto oggetto, si riflette a tal punto nello specchio del soggetto umano che non ci sarebbe possibile percepirlo al di fuori di quest'ultimo. [...] Queste due polarità possono anche essere distinte, ma in nessun caso separate. [...] Se il soggetto, in quanto polarità interiore della conoscenza, non fosse che un puro centro di sensibilità individuale legato alle vicende del corpo e sottomesso alle sue leggi, non sarebbe evidentemente «all'altezza» del suo oggetto; la conoscenza oggettiva del mondo sarebbe impossibile, non esisterebbe anzi nessun livello oggettivo di conoscenza". [TITUS BURCKHARDT: Alchimia - pg.35] "L'incontro del simile col simile, l'omogeneità, sono i concetti di cui Platone si serve per spiegare i processi conoscitivi: conoscere significa rendere simile il pensante al pensato. (...) Secondo S. Agostino, l'uomo può conoscere Dio in quanto egli stesso è immagine di Dio" (...) Tommaso, pur sanzionando esplicitamente il principio che ogni conoscenza avviene per assimilationem o per unionem della cosa conosciuta e del soggetto conoscente, afferma che "l'oggetto conosciuto è nel conoscente secondo la natura del conoscente stesso" (...) Cusano dice esplicitamente che l'intelletto non intende se non si assimila all'oggetto; e Ficino dice che la conoscenza è l'unione spirituale con qualche forma spirituale". (...) Campanella afferma: "Noi conosciamo ciò che è, perché ci rendiamo simili ad esso". (...) Shelling affermava: "Nello stesso fatto del sapere, l'oggetto e il soggetto sono così uniti che non si può dire a quale dei due tocchi la priorità". (...) Il concetto del conoscere come processo di unificazione di soggetto e oggetto nell'idea domina da un capo all'altro la filosofia di Hegel". (...) Secondo Wittgenstein "ci dev'essere qualcosa di identico nell'immagine conoscitiva e nell'oggetto raffigurato, affinché quella possa essere l'immagine di questo". [N. ABBAGNANO: Dizionario di Filosofia - da p. 157 a p. 164] APEIRON
 
Beh, secondo me una prospettiva "pseudo-Kantiana" per certi versi è compatibile con la complementarità che tu cerchi. Secondo Kant (e Schopenhauer) l'oggetto è sempre un oggetto-rispetto-ad-un-soggetto. Interpreto la cosa in questo modo. Anche quando immaginiamo un paese fantastico, lo immaginiamo sempre con caratteristiche abbastanza familiari. Ciò significa che mondo fenomenico (sia "empirico" che "immaginato") e soggetto sono correlati. Possiamo conoscere il mondo fenomenico proprio in virtù di questa correlazione (che sottointende la somiglianza). E ammetto pure una cosa: la filosofia di Kant non riesce davvero a spiegare questa correlazione.

Ma la conoscibilità del "manifesto" è spiegata. Perchè? grazie alla correlazione. Che dire però della natura della mente e dei fenomeni?
 
E qui mi distanzio da Kant. Vediamo, per esempio, che non possiamo immaginarci un mondo completamente privo di leggi della fisica. Tuttavia, nel nostro mondo fenomenico vediamo che la Terra ruota attorno al Sole e non viceversa, che la Terra non è piatta ecc E non solo: queste proprietà ci sono note a posteriori, con lo studio dei fenomeni naturali. Mentre la "spazialità" è una caratteristica a priori della nostra esperienza, non così possiamo dire, invece, del fatto che la Terra non è piatta (se non vogliamo abbracciare una sorta di solipsimo). Perchè, dunque, il mondo fenomenico segue certe leggi rispetto ad altre? Qui la filosofia di Kant impone un silenzio. Secondo me, invece, le leggi sono quelle che sono perchè "approssimano" la "realtà-così-come-è". Ergo la filosofia di Kant, secondo me, non riesce a spiegare perchè le leggi della fisica sono quelle che sono e non altre.
 
Dunque l'immagine che noi abbiamo del mondo è il fenomeno. Tale immagine del mondo, secondo me, è veramente "distorta". Perchè? perchè lo "strumento" è imperfetto. Nota che questo tipo di riflessione è presente in molti scritti dell'antichità. Nei testi indiani si dice che quasi tutti gli uomini sono in uno stato di "ignoranza" (avidya) che impedisce di far "comprendere" la natura della realtà. Simili idee si trovano in Platone e nel Cristianesimo (esempio: in 1Corinzi 13:12 San Paolo: "Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto." Un'immagine simile la trovi nel Fedone di Platone.) 

Citazione
Per quanto riguarda Kant e Jung, ok! vedo la differenza. Ad ogni modo, ti ripeto che apprezzo molti aspetti del tuo pensiero. Tuttavia, non cambio idea sul fatto che sono teorie indimostrabili. CARLO Non è dimostrabile che ...siano teorie indimostrabili. :) Anzi, io ho raccolto un numero di osservazioni convergenti all'idea di universalità della Complementarità più che sufficiente a dimostrarne la fondatezza.
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Il fatto che ci siano opinioni di eminenti filosofi a sostegno di una tesi fornisce indizi e non prove. E temo che per dimostrare veramente la tua (interessante) teoria servirebbe una "illuminazione". Cosa che, però, è prima di tutto un'"esperienza" privata  :)
#248
Tematiche Spirituali / Re:Che cos'è la Fede^
02 Agosto 2018, 22:37:16 PM
Citazione di: anthonyi il 02 Agosto 2018, 19:12:19 PM
Citazione di: Sariputra il 01 Agosto 2018, 17:24:48 PMcit.Oxdeadbeef: "cari parrocchiani dobbiamo tutti sforzarci di essere buoni per meritarci il paradiso. Poi, certo, se di là non ci fosse nulla sarebbe una bella fregatura"... Beh!...Si potrebbe però anche dire che, se invece ci fosse qualcosa, per quelli che non credono sarebbe un'enorme fregatura ;D ...la famosa scommessa pascaliana.
Un saluto a Sariputra, Oxdeadbeef, si d'accordo, ma tutto questo vale se si ipotizza che "essere buoni" sia un disagio rispetto al "godersi la vita", secondo me la vita te la godi proprio essendo buono, il male ti lacera dentro, ti esaspera continuamente con l'idea del piacere sessuale, dell'accumulazione dei soldi, della vendetta del torto, reale o presunto, subito, dell'ebbrezza del potere e dei paradisi artificiali, per me la scommessa è sempre vinta nel primo caso, con o senza il paradiso celeste.

Ciao anthonyi,

concordo. Secondo me, però, la prospettiva di una continuazione, come spiegavo sopra, può essere un incentivo a fare il bene e ad evitare il male. Penso che il @Sari per "godersi la vita" intenda la prospettiva di continuare la ricerca della gratificazione dell'ego, del piacere edonistico* (ovvero quello che hai indicato con "male")  :) in fin dei conti se si "crede veramente" in una prospettiva "più grande" certe cose perdono importanza.



*uso la parola nel senso "comune" del termine. Non mi sto riferendo a tipi di "edonismo" "elevato" come il caso di Epicuro.
#249
Tematiche Spirituali / Re:Che cos'è la Fede^
02 Agosto 2018, 15:24:06 PM
Citazione di: Sariputra il 01 Agosto 2018, 17:24:48 PM
cit.Oxdeadbeef:
"cari parrocchiani dobbiamo tutti sforzarci di essere buoni per
meritarci il paradiso. Poi, certo, se di là non ci fosse nulla sarebbe una bella fregatura"...

Beh!...Si potrebbe però anche dire che, se invece ci fosse qualcosa, per quelli che non credono sarebbe un'enorme fregatura ;D ...la famosa scommessa pascaliana.
Comunque, visto che non si verrebbe giudicati sulla fede ma bensì sulle opere...una chance inaspettata potremmo averla tutti (anche se è da vedere se c'è più bontà che fede nel cuore...).
La fede implica sempre, a mio parere, un certo grado di abbandono. Non è un caso che questo 'abbandono' spesso si trovi al termine di una dura lotta per sostenere il proprio non-credere. Il fatto di dire, con Dostevskij, che "Se anche Dio non esistesse, io starei con Dio" , oltre che implicitamente attestare la fede nell'Assoluto, il quale è anche carne, mostra proprio la qualità di questo abbandonarsi (che è l'abbandono anche delle pretese dell'io ...).
La fede 'semplice' di cui scrivi, vista nei gesti e sui volti di tanta gente sofferente o in angoscia per i propri cari, è simile all'abbandono del bimbo nelle braccia materna. Il piccolo non si chiede quanto è buona la madre, se è buona o in che misura, ma si 'lascia andare' fiducioso, come un istinto ...
Raskol'nikov combatte contro l'amore di Sonja ma...quando non ce la fa più...crolla! E senza saperlo si trova inginocchiato...
Sonja è la figlia di Marmeladov,personaggio  disoccupato ed alcolizzato, costretta a prostituirsi ma piena di  carità cristiana e di una compostezza dell'anima che 'colpisce'  chi le passa accanto.
Sonja rappresenta l'energia mistica, a mio parere e, a questa energia vibrante, Dostoevskij consegna l'abbandonarsi di Raskol'nikov, ossia la possibilità di un processo di trasformazione esistenziale per "via d'amore". Una catarsi che gli permetterà di non perdersi nel suo scisma esistenziale...nella frammentazione schizofrenica che è pure la nostra, dei nostri tempi.
Nemmeno lui, poi, avrebbe saputo dire com'era accaduto. A un tratto si sentì come afferrato e gettato ai piedi di lei. Piangeva, e le abbracciava le ginocchia...
...Avrebbero voluto parlare, ma non potevano. Avevano le lacrime agli occhi. Tutti e due erano pallidi e magri, ma sui loro volti sbiancati dalla malattia splendeva già la luce di un futuro diverso, di una completa rinascita, di una vita nuova. Li aveva risuscitati l'amore: il cuore dell'uno, ormai, racchiudeva un'inesauribile sorgente di vita per il cuore dell'altro...
.....Alla dialettica era subentrata la vita, e nella sua coscienza si preparava ormai qualcosa di completamente, oscuramente diverso.........
(Delitto e Castigo)
L'abbandono è anche un tuffo in quel baratro che vorremmo evitare, perché una vera fede non può stare in piedi senza perderci a noi stessi, al demone nichilista interiore che ci governa, che ti dice sempre. "Goditela la vita" ...e mentre l'ascolti e l'assecondi non ti vien quasi mai di godertela davvero finché,in un attimo, come irretita da una lunga corda, la vita finisce la sua corsa...
Ciao

Concordo con il Sari (che novità  ;D ). Ho letto un anno fa "Delitto e Castigo" e confermo che è un capolavoro. Sonja un vero personaggio fantastico che esprime, secondo me, un vero e proprio ideale cristiano (ovvero una espressione veramente autentica dell'agape). Già, la fede è abbandono. Più precisamente: esiste una dimensione della fede che è "ciò a cui si crede", ovvero la fede "dogmatica". Per esempio, credere che esiste un Dio Creatore è fede in questo senso. Ma vi è un'altra "fede", che è più simile alla "fiducia". Questa fiducia è un "affidarsi", smettere di "cercare di controllare tutto da soli", di voler assoggettare la realtà al proprio "ego". Affidarsi significa anche "lasciar andare", anche smettere ad un certo punto di farsi domandare, di voler sapere tutto ecc. Fiducia significa anche accettare il Mistero, l'Ignoto ovvero non volere inquadrare il Mistero nelle proprie categorie mentali.

Riguardo al "godersi la vita", c'è da dire che non solo finisce ma che una prospettiva simile, in realtà, conduce alla frustrazione perchè, in fin dei conti, la ricerca del piacere porta alla felicità solamente se viene soddisfatta. In realtà è proprio una prospettiva simile che conduce ad un'esistenza tormentata. E visto che la nostra natura ci porta alla continua ricerca del piacere (con conseguente frustrazione) anche il solo fatto di abbandonare anche parzialmente la ricerca è un affidarsi, un abbandonarsi.


P.S.

Riguardo alla questione del dopo-morte...

Spesso gli atei criticano i cristiani dicendo che il Cristianesimo è una favola, nel senso che promette che la vita continua per sempre dopo la morte. Tuttavia, personalmente, talvolta il messaggio cristiano mi incute molto timore, specie se si considera, ad esempio, che oltre al Paradiso, c'è anche l'Inferno/"Geenna" (rispetto a quest'ultima opzione, ritengo più desiderabile il nulla). Usando le parole di Kierkegaard è un "aut-aut" estremamente radicale (in fin dei conti il messaggio evangelico dell'agape è molto impegnativo). Facendo un discorso più generale valido anche per altre religioni e filosofie, secondo me credere veramente cha la morte non è la fine e che il dopo dipenda (in qualche modo) da come si è vissuto conduce a vedere le cose in un altro modo, a vedere le esperienze che si hanno durante la vita in un'altra luce. Conduce ad una prospettiva più ampia e quindi le azioni e le esperienze di questa "vita terrena" vengono valutate secondo tale prospettiva. Ovviamente è importante il "veramente" sottolineato poc'anzi. Infatti si può dare poca importanza a tale "credenza".
#250
Rispondo a @sgiombo,

CitazioneLa conoscenza, sia di senso comune che scientifica (fra le quali ritengo esista una differenza meramente "quantitativa" o "di grado") é sempre e comunque inevitabilmente conoscenza di fenomeni, mai di cose in sé. Questa conoscenza (fondata anche su presupposti arbitrari, degni di dubbio in linea teorica o di principio che ne sono conditiones sine qua  non; per lo meno di quella scientifica) tende di fatto (salvo controtendenze) a progredire, a farsi più completa, più esatta, meno "inquinata da credenze false", avvicinandosi per così dire "asintoticamente" a un ideale di conoscenza completa, assolutamente precisa, del tutto "monda da convinzioni errate e false" del mondo fenomenico (anzi, a rigore, solo della sua componente o "parte" materiale per quanto riguarda la conoscenza scientifica) per come é e diviene.
Ma non invece ad alcuna pur limitata conoscenza della realtà in sé o noumeno, che é diversa cosa dalla realtà fenomenica (materiale; intesa) nella sua completezza (conoscibile): passando da Newton ad Einstein e alla M Q ci siamo progressivamente avvicinati a una (ideale) conoscenza completa, esatta, scevra da errori e falsità del mondo fenomenico materiale (cui abbiamo accesso cosciente); la quale però é tutt' altro che una conoscenza delle cose in sé (se ci sono) reali indipendentemente dalla realtà delle sensazioni fenomeniche (delle quali l' "esse est percipi"): ma nella conoscenza delle cose in sé non siamo avanzati di un millimetro, a loro sua ipotetica conoscenza "perfetta" non si siamo per niente avvicinati.

Il punto è che il "noumeno" non è né uguale né diverso dal fenomeno. Perchè? Il fenomeno è "la realtà vista da noi", il noumeno è "la-realtà-così-come-è". Nota che il noumeno non è un'altra realtà rispetto i fenomeni. Per certi versi, il noumeno è il fenomeno ben compreso. Il problema di non ammettere la parziale conoscibilità del fenomeno è che non si spiega perchè (1) i fenomeni presentano regolarità (2) vi è una presenza di fenomeni e menti.

Buone vacanze!

Rispondo a @Carlo:


CitazioneE' proprio questo l'errore fondamentale della concezione kantiana-humiana e, quindi, dell'epistemologia che ad essa si ispira. E' profondamente ambiguo sostenere che <<il fondamento della verità è dato dalla "realtà-così-come-è>>, perché, di fatto, nessuna delle verità con cui la Scienza ha rivoluzionato il pensiero e la vita materiale dell'uomo coincide rigorosamente con la "realtà-così-com'è", ma esse fanno parte di un processo progressivo che TENDE A descrivere la "realtà-così-com'è" attraverso l'acquisizione di un numero via via  crescente di tante piccole verità indubitabili riguardanti sia i fenomeni (la Terra è rotonda, i pianeti girano intorno al Sole, ecc.), sia le leggi che governano le relazioni tra i fenomeni (legge di gravità, leggi della dinamica, dell'elettricità, della termodinamica, ecc.).
Infatti, la verità non si definisce come "la realtà così com'è" (verità = oggetto assoluto) ma come la concordanza rigorosa tra i fenomeni oggettivi osservati e la descrizione soggettiva di essi, cioè, come sosteneva Spinoza: <<ordo et connexio rerum idem est ac ordo et connexio idearum>>. Ed è con QUESTO concetto di verità che si è costruita la forma di conoscenza più feconda e rivoluzionaria che l'uomo abbia mai concepito (è per questo che nessuno risponde alle domande che ho formulato nel post di apertura).
Pertanto, è assolutamente infondata l'idea secondo cui la conoscenza della "realtà-così-com'è" presupporrebbe una somma infinita di verità indubitabili e, quindi, irrealizzabile. Una volta accertato che *esistono* verità indubitabili (riguardanti i fenomeni), nessuno ha motivi validi per sostenere che la "realtà-così-com'è" sia accessibile solo parzialmente. Perché "solo parzialmente"? Perché la "cosa in sé" dovrebbe essere inconoscibile? Per quale ragione dovrebbe essere impossibile risalire dalla "cosa fenomenica" alla "cosa in sé", se Keplero osservando dei moti geocentrici soggettivi (fenomenici) è riuscito a risalire ai moti eliocentrici oggettivi (osservabili da una mente "inerrante" posta idealmente sul Sole)? ...Solo perché "ipse (Kant) dixit"


Concordo che le "verità scientifiche" date dallo studio dei fenomeni sono verità nel senso vero della parola.  Non ho mai sostenuto che servono una somma infinità di verità indubitabili. Quello che sostengo io è che per comprendere la "realtà-così-come-è" è necessario cambiare qualitativamente la mente, una sorta di "metanoia" Platonica (una "seconda" metanoia, visto che la prima nasce dalla contemplazione delle verità del mondo fenomenico). Il discorso è che, anche se avessimo una teoria scientifica perfetta essa riguarderebbe solo la realtà fenomenica e non la "realtà-così-come-è". Perchè? perchè sarebbe pur sempre una conoscenza basata su una struttura della mente che per sua natura non percepisce "le cose come sono" ma le "rappresenta", le "distorce". Un motivo per cui nasce questa rappresentazione potrebbe essere evolutivo: potrebbe non convenirci a livello evolutivo vedere le cose come sono.
Tuttavia ciò non toglie che possiamo avere una conoscenza parziale della "verità ultima". Come? Vedendo le regolarità dei fenomeni come spiegavo nel mio precedente messaggio. In fin dei conti, il solo fatto che i fenomeni non siano modificabili a nostro piacimento e che le loro regole siano indipendenti dalla nostra volontà, significa che certe caratteristiche non dipendono da noi.

Per quanto riguarda Kant e Jung, ok! vedo la differenza. Ad ogni modo, ti ripeto che apprezzo molti aspetti del tuo pensiero. Tuttavia, non cambio idea sul fatto che sono teorie indimostrabili. In fin dei conti, per dimostrarle probabilmente serve una sorta di "realizzazione"/"risveglio". Ma una realizzazione non è una argomentazione filosofica...
#251
CARLO
Vorrei chiarire che la mia non è solo una congettura, ma una tesi che si basa su osservazioni oggettive, e che quindi non è liquidabile a-priori senza entrare nel merito - punto per punto - di ciò che affermo (infatti non ho mai detto che <<le proprietà della matematica sono intrinseche alla realtà>>)
Al contrario, la tua una è vera e propria congettura , visto che
1 - l'idea sull'impossibilità di fondare qualsiasi verità è assolutamente arbitraria e priva di supporti;
2 - questa stessa idea è autocontraddittoria, perché non si può pretendere di dire il vero se si nega fondatezza a ogni possibile verità.
Pertanto, se ti interessa discutere l'argomento, comincia col rispondere alle mie domande iniziali, e poi vedrai che ...l'appetito vien mangiando!  

APEIRON
Ciao Carlo,

OK cercherò di rileggere le risposte che tu stesso dai alle tue domande. Con la mia risposta ho cercato di spiegarti come sia Kant che Berkeley non hanno grossi problemi con la scienza (Kant stesso cercò di dare fondamento alla scienza). Riguardo ad Hume il suo approccio è uno scetticismo estremamente rigoroso e credo di aver spiegato al meglio delle mie possibilità che la sua critica è perchè secondo Hume ogni epistemologia basata sulla sola esperienza non può dare "certezze".

Rigurado alla mia congettura ( e sono felice di chiamarla tale, dopo spiego il motivo).
1- non ho mai detto una cosa del genere. Come ho detto (1) come Kant accetto le vertità universali del mondo fenomenico (ad esempio che la Terra non è piatta oppure che la relatività di Einstein spiega meglio le cose della teoria Newtoniana) (2) tali verità, però, si basano sullo studio dell'oggetto così come è per il soggetto (ovvero per la mente che conosce) e dunque bisogna tener conto anche del soggetto (ripeto, la differenza tra questa congettura e il relativismo è che, per il relativismo, dovremmo rinunciare a parlare di verità condivise cosa che, personalmente, ritengo molto erronea) (3) visto che c'è per così dire il contributo del soggetto, non vediamo la "realtà-così-come-è", ovvero in modo indipendente da come noi stessi rappresentiamo il mondo fenomenico (4) a differenza di Kant, però, non ritengo che la "realtà-così-come-è" sia completamente inaccessibile a noi e anzi ritengo che lo studio dei fenomeni ci fornisce una sorta di "approssimazione" della "realtà-così-come-è" (conoscibile da una mente inerrante, ovvero, che "vede le cose per quelle che sono". Ovviamente, l'esistenza di tale mente è una congettura). Il fondamento della vertit è proprio dato dalla "realtà-così-come-è" (cosa che è visibile da quella ipotetica mente). Se, ad esempio, notiamo che la relatività funziona meglio della meccanica newtoniana è ragionevole concludere che la relatività ci riesce a dare qualche informazione anche sulla "realtà-così-come-è" (e quindi sulla verità ultima, la conoscenza della mente inerrante).  
2- non ho tolto il fondamento alla verità, anzi ho esplicitamente detto che c'è e che noi studiando il mondo fenomenico ne abbiamo una visione approssimata.

Riguardo al termine "congettura", non avevo alcuna intenzione "offensiva", visto che "congettura" è più o meno equivalente a "teoria". Ho anche espresso un giudizio positivo alla tua, dicendo che è "plausibile"  :)

comunque se per te l'inglese non è un problema, ti segnalo un link dove Jung viene letto in chiave Kantiana http://www.friesian.com/jung.htm inoltre nello stesso sito l'autore espone il suo pensiero, parlando della sua affinità a diversi pensatori, tra cui Platone e Kant (e tra questi due trova diverse somiglianze e Kant viene interpretato anche come una sorta di platonico) http://www.friesian.com/ross/platonis.htm

P.S.
En passant, faccio notare che molti fisici del novecento erano stati influenzati (direttamente o indirettamente) da Kant e Hume. Tra questi anche Einstein :)
#252
Citazione di: Lou il 17 Luglio 2018, 19:31:02 PM
Amicizia stellare. Eravamo amici e siamo diventati estranei. Ma è giusto così, e non vogliamo né dissimularcelo né tenercelo oscuro, come se dovessimo vergognarcene. Siamo due navi, ciascuna delle quali ha la sua meta e la sua traiettoria; potremmo certo incrociarci e celebrare una festa insieme, come abbiamo fatto, - e poi le due brave navi potrebbero starsene tranquillamente in uno stesso porto e sotto uno stesso sole, cosicché si potrebbe pensare che siano giunte alla meta e che avessero una meta comune. Ma poi l'onnipotente violenza dei nostri compiti ci separerebbe ancora, spingendoci in mari e sotto soli diversi, e forse non ci rivedremmo mai più: oppure ci rivedremmo, - ma senza riconoscerci, perché mari e soli diversi ci avrebbero cambiato! Il fatto che dobbiamo divenire estranei è la legge sopra di noi: ma proprio per questo dobbiamo divenire anche più degni di noi! Proprio per questo il pensiero della nostra amicizia di un tempo si fa più sacro! Esiste, probabilmente, una curva, una traiettoria stellare immensa e invisibile di cui le nostre strade e mete tanto diverse possono costituire piccoli tratti: eleviamoci a questo pensiero! Ma la nostra vita è troppo breve e la nostra vista troppo scarsa perché possiamo essere più che amici nel senso di quella sublime possibilità. Crediamo dunque nella nostra amicizia stellare anche se, sulla terra, dovessimo essere nemici.

Anche se non mancano le mie critiche a Nietzsche, questo passo lo trovo davvero molto bello (ad essere sincero ho un giudizio "misto" su Nietzsche. Alcune cose le trovo condivisibili, altre invece inaccettabili come il suo testardo rifiuto di mettere paletti "morali" all'espressione della Volontà. Se vi interessa, la mia critica la trovate su questo post https://www.riflessioni.it/logos/tematiche-filosofiche-5/nietzsche-l'-uomo-e-il-suo-diritto-al-futuro/msg16993/#msg16993). Ovviamente se si reintroduce l'etica, si rischia anche di introdurre altro  ;D
#253
CARLO

CitazioneSe è vero, come sostengono certi "critici" (Kant, Hume, Berkeley, Korzybski, Bateson, ecc.), che i criteri di verità della Scienza sono infondati, indimostrabili, non-provabili e di valore solo intersoggettivo, per quale ragione la loro applicazione REALE alla ricerca ha permesso all'uomo in soli tre secoli di sbarcare sulla Luna, di mandare delle sonde su pianeti e comete, di volare in massa superando in breve tempo distanze enormi, di curare la maggior parte delle malattie che da sempre affliggevano uomini e animali, di comunicare in tempo reale da una parte all'altra del nostro pianeta, ecc.?


APEIRON
Non conosco Korzybski e Bateson e conosco poco gli altri filosofi qui citati ma credo che ti sbagli.
1)Berkeley era un empirista piuttosto radicale. Siccome noi, in realtà, non "abbiamo esperienza diretta" della materia ma solo delle sensazioni per Berkeley (che riteneva come uniche fonti conoscitive l'esperienza e la ragione applicata ad essa) dedusse che, in realtà, l'esistenza della materia, intesa come "sostanza delle cose" indipendente dall'esistenza dei soggetti, è indimostrabile e, inoltre, è un concetto ridondante. Dunque Berkeley eliminò la materia dalla sua ontologia, sostenendo che esistono solo le anime (le creature) e Dio. Le "cose materiali" sono semplici contenuti mentali. Tuttavia Berkeley ritieneva che la scienza potesse darci informazioni su come questi contenuti mentali si evolvevano. Dunque, il sapere scientifico era una sorta di "fenomenologia", ovvero uno studio dell'esperienza. Come giustifica il vescovo irlandese la persistenza delle cose anche quando non sono percepite? Semplicemente, dicendo, che Dio pensa sempre e quindi le mantiene in essere. (Faccio notare che San Tommaso d'Aquino riteneva che Dio mantenesse in essere le cose).
2)Hume, invece, era un empirista ancora più radicale di Berkeley. Secondo Hume la ragione non può essere a rigore applicata all'esperienza, perché il sapere che possiamo avere dall'esperienza è solo deduttivo. Quindi, ad esempio, anche ripetendo un numero enorme di volte l'esperimento del piano inclinato non possiamo essere sicuri che il movimento non sia dovuto a mere coincidenze casuali. Quindi Hume effettivamente disse che il pensiero scientifico è infondato se cerchiamo una "certezza" esatta, come in matematica. Ma, in realtà, possiamo comunque avere certezze provvisorie, pronte ad essere modificate.
3)Kant, ironicamente ha tentato di fondare la scienza contro le obiezioni di Hume. Come? Secondo Kant la scienza studia il mondo fenomenico dell'esperienza. Come può essere un sapere valido? Il motivo è che secondo Kant noi rappresentiamo i fenomeni secondo determinate categorie, dovute alla struttura della nostra mente. Kant ritiene che queste categorie sono a-priori nella nostra esperienza. Per esempio, i fenomeni sono sempre nello spazio e nel tempo e, inoltre, sono soggetti alla causalità. La scienza quindi è giustificata come fenomenologia: studia seguendo le categorie della nostra mente la nostra esperienza. Secondo Kant, però, la scienza si giustifica solo nello studio dei fenomeni, nello studio dell'oggetto relativo ad un soggetto conoscente (perché tale è la forma della "conoscenza", la quale è una conoscenza di un soggetto riguardante un oggetto). Non possiamo però fare, a rigore, affermazioni su come è il "mondo indipendente da noi" perché non è "visto" dalla nostra mente. Ovviamente Kant ritiene che ci siano verità universali, inter-soggettive, che possono essere verificate da tutti (non è quindi un "relativista"). Una persona che soffre di allucinazioni ha una mente con una struttura leggermente diversa che le fa vedere le allucinazioni.  
Dunque una "critica" alla scienza è presente SOLO in Hume. Ma Hume stesso era ben consapevole della "ragionevolezza" del sapere scientifico.

CARLO

CitazionePerché nessuno di quei critici hai mai spiegato i motivi della straordinaria "produttività epistemica" della Scienza proprio a partire dall'applicazione di quel "metodo scientifico" che essi considerano così insignificante?
In altre parole, se "la qualità di un albero si giudica dai suoi frutti", perché l'albero della scienza è immensamente più fecondo dell'albero della conoscenza pre-scientifica, cioè, della filosofia? Quali sono state le innovazioni che hanno reso i criteri di verità della Scienza tanto fecondi ed efficaci da permetterle di scoprire leggi e principi della realtà fisica? E perché la filosofia - che pretende di giudicare infondati i metodi della Scienza - non ha idea di quali siano le leggi e i principi che riguardano il proprio dominio di competenza, cioè, il pensiero?


APEIRON
Se avessimo una risposta a come fondare il sapere scientifico, saremmo veramente messi bene. Purtroppo non è così. La tua soluzione "platonico-junghiana" è una congettura, non hai dimostrato che la scienza si fonda come pensi tu. Dici solamente (similmente a Platone) che le proprietà matematiche sono intrinseche alla realtà. Cosa che è plausibile. Ma non dimostrabile.
Per quanto mi riguarda, divido la "realtà" in due (qui sono influenzato da quanto ho capito (poco!) del pensiero buddhista): realtà inter-soggettiva (o "relativa" o "convenzionale") e realtà ultima. La realtà inter-soggettiva è simile a quella di Kant. Noi possiamo fare scienza perché le nostre rappresentazioni sono simili grazie al fatto che le menti hanno una simile struttura. D'altro canto questo non è relativismo perché le rappresentazioni posseggono caratteristiche simili, come, ad esempio, il fatto di essere "regolari" (e quindi studiabili utilizzando le categorie dell'intelletto). D'altro canto, la rappresentazione è rappresentazione che dipende dal "contatto" tra un soggetto ed un oggetto. La "realtà ultima" è, invece, la realtà-così-come-è conosciuta da una conoscenza inerrante. Secondo Kant, il noumeno non può essere conosciuto perché le categorie dell'intelletto sono applicabili solo al fenomeno (che è l'oggetto conosciuto dal soggetto). Ma questo, secondo me, è troppo restrittivo perché non riesce a spiegare (1) perché le rappresentazioni si "formano" (2) perché le rappresentazioni hanno quella determinata "regolarità" (perché, ad esempio, la relatività funziona meglio della meccanica classica). Se infatti rispondiamo come le rappresentazioni si formano finiamo per darne una spiegazione, secondo Kant, fenomenica andando a finire nella circolarità. Quindi, secondo me, è giusto supporre che possiamo avere, studiando i fenomeni, una conoscenza approssimata o imperfetta della "realtà ultima", della realtà-così-come-è. Dunque, le "verità" che estraiamo dallo studio dei fenomeni (quindi anche quelle scientifiche) sono anche approssimazioni della "realtà ultima" della "realtà-così-come-è".    
Per evitare i due problemi sopracitati, secondo me, dobbiamo reintrodurre, in parte, la "metafisica classica". È vero infatti che noi abbiamo conoscenza diretta dei fenomeni. Tuttavia, ciò non significa che per forza non possiamo andare oltre.  Tuttavia non pretendo di "dimostrare" con certezza "esatta" (equivalente a quella logica e matematica) il mio "modello". Invece, riconosco, che è un modello che posso variare se ne trovo di migliori  :)
#254
CitazioneTi ricordo Apeiron che il relativismo culturale mostra la relatività (la non assolutezza) di una determinata cultura nel suo complesso, e non la relatività della singola azione all'interno di una civiltà. La singola azione dovrà sempre fare i conti con i riferimenti etici della cultura di appartenenza del soggetto che agisce. Per cui se io volessi dimostrare la giustezza del genocidio, potrei anche provare a elaborare qualche argomentazione, ma alla fine tu saresti sempre in grado di confutarmi perché apparteniamo entrambi ad una civiltà i cui valori collettivi condannano questo tipo di fenomeno.

Altra cosa accadrebbe se vivessimo in una civiltà completamente diversa basata sulla guerra e sulla necessità di estinguere tutte le altre.

La grandezza di N., come indicato da Ox., sta soprattutto nell'aver condotto un'opera genealogica sui fondamenti della nostra civiltà. Si tratta di un'opera che possiamo definire come distruttiva? Si tratta di critica, di un'analisi che mostra quello che si nasconde sotto la superficie. Se poi qualcuno ha nostalgia dell'antica compattezza della superficie... Beh, che se faccia una ragione. Un po' di coraggio.

Ciao Kobayashi,

so benissimo che cosa dice il relativismo culturale.*

quindi secondo te il fondamento dell'etica è la mera convenzione sociale?

Ovvero secondo te, noi riteniamo che la discriminazione razziale è eticamente riprovevole solo perchè viviamo in una cultura dove è vista come tale?  :o

Mi spiace molto ma se questa è la tua posizione forse ci tocca concordare sul nostro disaccordo. Secondo me l'etica non dipende solo dalle condizioni sociali. Posso concordare che su alcune cose il relativismo ha senso. Ma dire che tutti i nostri giudizi etici dipendono dalla mera convenzione sociale mi sembra totalmente esagerato. A proposito di coraggio, secondo me ci vuole anche il coraggio di ammettere che anche il relativismo culturale "totale" è una visione delle cose inconsistente, erronea ecc (non è che con questa ossessione di "relativizzare" si cade in un altro "assoluto", con la differenza che non si vuole ammetterlo?). Non ci credo che si riesca ad arrivare a dire che tutto dipende dalla convenzione sociale... Mah!

L'eroismo di Martin Luther King, secondo me, è quello di essersi battuto per la giustizia in una società/cultura ingiusta (ovvero che la cultura del tempo riteneva giuste le cose che sono in realtà ingiuste). Tale eroismo, secondo sempre la mia opinione, non è semplicemente quello di aver combattuto per rimpiazzare alcuni valori per metterne altri (come il "grande uomo" nicciano), ma perchè ha combattuto per i valori giusti.
Ovviamente ciascuno è libero di pensarla come vuole  ;) ma secondo me una visione dell'etica che non ha il coraggio di giudicare come "ingiuste" per tutti certe azioni (come la discriminazione razziale ecc) e giudicare "giuste" per tutti certe altre azioni è completamente fuori strada.
A me sembra che la mancanza di coraggio la abbiano sia i super-dogmatici che i relativisti inflessibili. In sostanza, nel caso del relativismo tout court e inflessibile, mi sembra che il problema sia che non si vuole prendere posizione (confesso di avere proprio questo problema anche io, ma lo ritengo un problema e non una bella cosa).

Ovviamente è la mia opinione. La ritengo corretta. Lungi da me imporla su altri  :)
Precisazione: non ritengo (almeno per adesso) che si possa dimostrare con argomentazioni che certe azioni sono ingiuste o giuste (in fin dei conti, secondo me non si può nemmeno dimostrare che il solipsismo sia falso). Ma ritengo che sia possibile riuscire ad arrivare ad una ragionevole sicurezza, che all'atto pratico è una "certezza"   ;) a volte, bisogna avere il coraggio almeno di abbracciare queste ragionevoli sicurezze, secondo me (così come siamo in grado di accettare la "ragionevole sicurezza" che il solpsismo è falso).


Ciao! Credo di tornare, ma non ne sono sicuro, la prossima settimana!

P.S. Ho visto ora il nuovo messaggio. Secondo me quelle azioni sono ingiuste e non solo perchè la mia cultura mi dice che lo sono. Ovviamente, è solo la mia opinione :)

*Modifica delle 17:46. Non mi sono accorto che avevo accidentalmente eliminato mezza frase  :-[ adesso me ne vado per un po' veramente ;) così lascio i relativisti in pace 
#255
Citazione di: paul11 il 11 Luglio 2018, 18:13:38 PMciao Aperion, avresti ragione se la crudeltà di natura, che fingiamo di ignorare sublimandola, fosse il punto di arrivo e non di partenza del pensiero di Nietzsche.

Ciao paul11,

sì concordo che, purtroppo, tendiamo ad ignorare la nostra crudeltà. Questo causa ipocrisie ecc. Su questo punto riconosco la grandezza del pensatore di Rocken. Ma non sono d'accordo con quanto dici riguardo al fatto che esso sia il punto di partenza per la sua filosofia. Scrive Nietzsche in Aldilà del Bene e del Male:

13.

I fisiologi dovrebbero riflettere prima di fare dell'istinto di conservazione un impulso cardinale di un essere organico. Un'entità vivente vuole prima di tutto liberare la propria forza ‑ la vita stessa è volontà di potenza ‑:



259.



Astenersi reciprocamente dall'offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento, equiparare la propria volontà a quella degli altri: ciò può divenire in un certo qual rozzo modo una buona abitudine tra individui, ove ve ne siano le condizioni (cioè la loro effettiva omogeneità di forze e di valori e la loro appartenenza reciproca all'interno di un unico corpo). Non appena però si volesse prendere questo principio in senso più ampio e, se possibile, come principio fondamentale della società, esso si dimostrerebbe subito per ciò che è: volontà di negazione della vita, principio di dissoluzione e di decadenza. Occorre qui pensare in modo esaustivo al fondamento e rifiutarsi ad ogni debolezza sentimentale: la vita stessa è essenzialmente, appropriazione, violazione, sopruso su ciò che è estraneo e più debole, oppressione, durezza e imposizione delle proprie forme, annessione e perlomeno ‑ ed è il caso più benevolo ‑, sfruttamento, ma a che scopo bisognerebbe usare sempre proprio queste parole, sulle quali si è impressa sin dai tempi antichi un'intenzione diffamatoria?



Anche quel corpo, all'interno del quale, come prima abbiamo supposto, gli individui si trattano da uguali ‑ avviene in ogni sana aristocrazia ‑, deve esso stesso, nel caso esso sia un corpo vitale e non moribondo, fare contro altri corpi tutto ciò da cui gli individui che sono in lui si astengono dal fare reciprocamente: esso dovrà crescere per attrarre a sé, conquistare, vorrà prevalere, ‑ non a causa di una qualche moralità o immoralità, ma perché egli vive, e perché vita è appunto volontà di potenza. In nessun punto tuttavia la coscienza comune degli Europei è più ostile all'insegnamento di quanto non lo sia qui; oggi ci si entusiasma ovunque, addirittura sotto un travestimento scientifico, di condizioni future della società, dalle quali dovrà scomparire il «carattere di sfruttamento»: ‑ ciò suona alle mie orecchie come se si promettesse di inventare una vita che si trattenesse da ogni funzione organica.



Lo «sfruttamento» non appartiene a una società deteriorata o incompleta e primitiva: esso appartiene all'essenza stessa di ciò che è vivente, come organica funzione fondamentale essa è una conseguenza della caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. ‑ Posto che questa sia nuova come teoria ‑ come realtà è il fatto originario di tutta la storia: si sia onesti verso se stessi fino a questo punto! ‑ (Al di là del Bene e del Male)


Citazione di: paul11 il 11 Luglio 2018, 18:13:38 PM
Il bene e il male sorgono con le religioni è un dato di fatto storico e susseguentemente sono serviti per costruire le prime forme di codificazione del diritto. La legge nasce per dare una pena e allontana costruendo una difesa, una barriera, la possibilità della rivolta contro l'autorità, E' come se i maschi del cervo per poter sfidarsi e accoppiarsi con le femmine ,dovessero fare un referendum prima, agire con carte bollate e attendere che l'assemblea delle femmine decida se sia giusto o ingiusto.....passa anche la voglia. Forse non abbiamo capito chei giusto o ingiusto sbagliato o esatto sono pure essi dei relativi. Vogliamo discutere delle dispute religiose, del perchè esistano canoni accettati dalle istituzioni e altri lasciati fuori,come gli apocrifi? Vogliamo fingere che non vi siano state dispute, magari assassini in nome di una verità o di un bene "comune" Mi sarebbe piaciuto avere un'opinione di M.L. King, dopo che Obama è diventato presidente degli USA: cosa è cambiato in sostanza nel passaggio uomo bianco o uomo nero se il dispositivo culturale è identico? Nietzsche non è seguito dai filosofi relativisti, ma dai continentali e ontologici:per quale motivo?

Sinceramente non capisco cosa intendi qui. So benissimo che gli "ideali" sono stati utilizzati a fini violenti. Su questo sono estremamente d'accordo con i relativisti, i Nicciani e così via. Però, il relativismo e il nichilismo non sono filosofie che riescono a dare un fondamento delle azioni.


A me il relativismo non piace perchè ritengo che cose come i Lager, i Gulag, la discriminazione razziale, quello che è successo in Cambogia, in Ruanda ecc sono azioni eticamente sbagliate, ingiuste, riprovevoli ecc e non penso che sono sbagliate, ingiuste, riprovevoli ecc solo "per me", ma che lo sono in realtà "per tutti". E rimarrà vero che sono sbagliate in futuro. Azioni simili erano, sono e saranno da considerare immorali, da non fare. Concordo con King su questo punto: la discriminazione razziale è moralmente riprovevole e ciò è stato vero in passato, è vero oggi e lo sarà in futuro. Su questo, mi spiace molto dirlo, ma il relativismo portato allo stremo (come nel caso di Protagora e Nietzsche) mi sgomenta.


Ma per Nietzsche la sopraffazione, il conflitto, la prevaricazione ecc sono manifestazioni come altre della volontà di potenza. Quindi, per Nietzsche, non ci sono azioni giuste o sbagliate. Nemmeno quelle che ho citato. In fin dei conti per lui: "la vita stessa è essenzialmente, appropriazione, violazione, sopruso su ciò che è estraneo e più debole, oppressione, durezza e imposizione delle proprie forme, annessione e perlomeno ‑ ed è il caso più benevolo ‑, sfruttamento", " Un'entità vivente vuole prima di tutto liberare la propria forza ‑ la vita stessa è volontà di potenza ". Nietzsche, seguendo Eraclito, per il quale "dobbiamo riconoscere che il conflitto è comune e la giustizia è contesa"(DK B80) e "Il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte il re" (DK B53), ha glorificato il conflitto. Per Nietzsche non c'è nessuna ragione per cui dovremmo mettere a freno il conflitto, la tendenza all'appropriazione, al sopruso. Quindi nel caso di Nietzsche oltre al problema già presente nel caso di Protagora e simili, c'è anche la tendenza abbastanza esplicita a glorificare. Se, per Nietzsche, quello che conta è esprimere la volontà di potenza, senza alcun modo per regolarla, allora tutti i modi di espressione della stessa sono "legittimi".  



Il punto, paul11, è che Nietzsche non riconosce un motivo per cui non si dovrebbe fare, ad esempio, la discriminazione razziale perchè non riconosce niente di superiore alla volontò di potenza per regolare le azioni.


Citazione di: 0xdeadbeef il 11 Luglio 2018, 20:34:39 PMVorrei modestamente suggerire a chi parla (non a torto) di un Nietzsche "esagerato" di provare a leggere le opere della gioventù ("La nascita della tragedia", "Verità e menzogna", "La filosofia nell'età tragica dei Greci"), opere nelle quali Nietzsche appare sicuramente molto meno "estremo" ed ancora legato ad approfondire il concetto di "volontà" così come esso si è configurato in Schopenhauer. Le opere della maturità, ed in particolare quelle prossime all'età della follia, sono opere "per iniziati", come ha giustamente detto qualche critico. saluti


Ciao 0xdeadbeef,

concordo che i primi scritti di Nietzsche sono più "moderati" ma specialmente nell'ultimo di quelli che menzioni si vede già lo "zampino" di Eraclito. Ovvero si vede già la distanza da Schopenhauer e l'influenza di Eraclito, per il quale (secondo Nietzsche) tutto è giusto.

Ad ogni modo, Nietzsche è un pensatore vario e inconsistente e come ho già detto ci sono varie cose che dice su cui sono d'accordo. Ma non capisco tutta questa lode al pensatore tedesco. Ci sono certamente vari temi su cui posso essere d'accordo, come la volontà di autosuperarsi, l'importanza che dà alla creatività artistica, all'indipendenza del pensiero, alla curiosità, al pensiero critico ecc. Ma ci sono troppi elementi della sua filosofia che sono disturbanti, che non sono condivisibili ecc. Per esempio molti si sforzano ad interpretare la volontà di potenza solo come creatività artistica. Purtroppo, queste interpretazioni secondo me non vogliono vedere citazioni come quelle che ho riportato. Qui, anzi, secondo me si vede benissimo l'importanza di riconoscere una "legge giusta" da obbedire  ;)

Come dicevo, ci sono vari modi di rapportarsi con gli "assoluti" anche in campo etico. Per esempio, ammettere che la discriminazione razziale è sempre eticamente riprovevole mi sembra la cosa giusta da fare. Il problema non sono gli "assoluti", ma il modo con cui si rapporta con essi.