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Messaggi - davintro

#241
Citazione di: Lou il 23 Aprile 2019, 18:04:27 PM@davintro Forse è perchè la metafisica per lungo tempo è stata l'ancella della teologia, teologia che mira ad avvalorare razionalmente quel che il sentimento di fede rivela. In pratica, essendo stata usata in lungo e in largo, in ambiti confessionali risulta molto difficile slegarla dal religioso e ricondurla a un terreno scevro dalle contaminazioni di cui sopra. Ammesso sia possibile. Peraltro la metafisica, pur ricondotta a un terreno aconfessionale e areligioso, paradossalmente non è detto sia a-tea, ma trova nel cosiddetto "Dio dei filosofi", forse la sua ragion d'essere, come più di una filosofia testimonia. Penso io.

capisco, d'altra parte penso anche sia opportuno richiamare alla distinzione dei piani, in sede di discussione teoretica i concetti andrebbero analizzati nelle loro relazioni essenziali, apriori, indipendentemente dalle forme con cui nella fattualità storica questi sono stati concepiti, mirando solo che l'analisi dei concetti rispecchi l'intuizione delle "cose stesse" a cui i concetti si definiscono. Altrimenti si rischia di cadere nelle fallacie dell'induzione generalizzante, scambiare per necessario ed universale degli aspetti delle cose, espressioni in realtà di punti di vista vincolati a particolari contesti culturali in cui sono stati pensati, ritenendo impossibile possano essere pensabili in modo alternativo rispetto a come fino a questo momento la storia ha espresso. Quindi il fatto che spesso si sia usata la metafisica come ancella della fede o della religione (preferisco non parlare di "teologia", perché mi vorrei ora soffermare sul rapporto tra razionalità della metafisica e la fede religiosa come sentimento non razionale, mentre teologia, come il suffisso "logia" mostra, tende comunque a porsi come sapere argomentativo, e in questo senso la considererei come ramo della metafisica e della filosofia, e non vorrei creare confusioni) non legittima la sua identificazione con un fideismo dogmatico che nulla avrebbe da dire ai ricercatori razionali della verità. La storia è utile come spunto, ispirazione, esempio, ma poi nel momento della riflessione e critica non dovrebbe essere posta come parametro di valutazione razionali delle analisi teoretiche. E comunque, anche questo cercavo di sottolineare, anche volendo per un attimo lasciare la teoresi e stando nella storia l'identità metafisica-religione è in larga parte smentita. Nel pensiero antico precristiano, la metafisica non è certo ancillare alla mitologia, ma la sostituisce nell'interpretazione del reale, e la filosofia moderna, anche nelle correnti più antireligiose come l'illuminismo, ha sempre continuato a propugnare sistemi metafisici "laici" come deismo, o i vari idealismi tedeschi. E anche volendo restare al medioevo, vediamo come già la Scolastica, a quel che so, si fosse impegnata a divaricare i campi del "credo" e dell' "intelligam", fino ad arrivare a Tommaso che distingue all'interno del problema di Dio questioni che la ragione può risolvere senza bisogno della fede come l'esistenza di Dio o l'immaterialità dell'anima, rispetto a quelle per cui invece si fa necessaria la fede per rivelazione
#242
a volte ho l'impressione che dietro l'ostilità e la sfiducia verso le possibilità conoscitive della metafisica si celi, nella maggior parte dei casi, un condizionamento più o meno inconsapevole consistente nell'associazione tra metafisica e religione, con tutto il carico di negatività che si attribuisce a quest'ultima. L'errore è confondere l'idea della metafisica come tematizzante lo stesso livello di realtà a cui si riferisce la religione, il sovrasensibile, con l'idea che ciò conduca la metafisica ad acquisire lo stesso fideismo con cui la religione si rapporta al suo ambito. L'errore nasce dal non considerare la differenza metodologica: la metafisica utilizza la razionalità argomentativa, e non esperienze sentimentali, e anche se tale razionalità si applica agli stessi temi del discorso religioso, porta a considerare tali temi all'interno di un punto di vista diverso da quello del semplice credente, Il Dio che la metafisica prende in considerazione non è indagato nelle stesse proprietà in cui lo si considera per fede. Non tenendo conto di questa fondamentale distinzione, il metafisico viene confuso con una sorta di apologeta che subordina la razionalità all'assunzione aprioristica del compito di supportare le verità di fede, e per questo viene attaccato con argomenti simili a quelli con cui la retorica anticlericale, non sempre a torto, inveisce contro la religione e le chiese: oscurantista, retrogrado, nemico delle scienze e delle tecniche ecc. Del resto non solo il piano teoretico che analizza e distingue le metodologie, ma anche quello della constatazione storica evidenzia l'autonomia della metafisica dalla religione. Che in moltissimi casi a occuparsi esplicitamente di metafisica siano stanti credenti, uomini di chiesa appartenenti a una certa confessione religiosa non implica la necessaria identificazione tra argomentazione filosofica e adesione fideista alle stesse verità che si argomentavano, non è qualcosa che esclude la possibilità che le stesse argomentazioni non possano essere utilizzate anche da parte di persone prive di una credenza, di un sentimento religioso. L'illuminismo è un perfetto esempio: il deismo, la credenza riguardo l'esistenza di un Dio entro i limiti della pura ragione, è a tutti gli effetti una posizione metafisica che si è sviluppata proprio all'interno di un filone culturale caratterizzato proprio dalla critica, anche violenta, verso le religione rivelate, le chiese, e dall'esaltazione del progresso tecnologico e delle scienze sperimentali. Questo mostra quanto sia impropria la sovrapposizione degli argomenti polemici nel conflitto religione-scienza alla valutazione della metafisica. Questo errore non sempre è esplicitato da chi lo commette, eppure a mio avviso, è presente più di quanto si possa pensare
#243
Citazione di: Menandro il 19 Aprile 2019, 19:48:56 PM@davintro Provo a dare il mio contributo: secondo Severino, da un lato Aristotele ha il merito di enunciare il principio di non contraddizione, che respinge immediatamente il proprio negativo, dall'altro però intende temporalmente questo principio, quando nel Liber de Interpretatione scrive: "E' necessario che l'essere sia, quando è, e che il non essere non sia, quando non è; tuttavia non è necessario che tutto l'essere sia, né che tutto il non essere non sia". Nell'inciso "quando è" è pensata la contraddizione, cioè la possibilità che l'essere non sia. Questa contraddizione "nascosta" avrebbe per Severino un ruolo nello sviluppo nichilistico del pensiero occidentale.


credo qua sarebbe opportuno chiarire il contesto concettuale in cui in quest'opera, che confesso non ho letto, Aristotele utilizza la nozione di "essere". Nel caso fosse intesa nell'accezione parmenidea, l'Essere come idea generale, comprendente in modo indifferenziato la totalità degli enti, escludente il Nulla al di fuori di sé, emergerebbe la contraddizione di cui stiamo parlando. L'Essere perderebbe la sua eternità, restando soggetto a subire l'azione distruttiva di un agente causale esterno ad esso, vale a dire il Nulla, che verrebbe assurdamente presentato come causalità positiva efficiente, in quanto fattore di nullificazione dell'essere. Se invece, come penso sarebbe più lineare e coerente con lo spirito dell'ontologia aristotelica nel suo complesso, non si intende "essere" in generale, ma "essere" inteso come essere dei singoli enti mutevoli, allora la contraddizione dell'essere che si annulla, verrebbe superata nella distinzione di un livello della cosa essenziale, al di là del divenire, e di quello accidentale, che soggiace al divenire. L'essere della singola cosa non si ridurrebbe al primo livello, ma, comprendendo anche gli accidenti, comprenderebbe il divenire, e dunque si porrebbe come non-necessario, in riferimento al suo esistere. Ma la contingenza e la mutabilità riguarderebbe l'esistenza, non l'essenza, che invece, necessariamente ed eternamente, continuerebbe a imporre alla cosa una regola delimitante le sue possibilità di sviluppo, sulla base della suo significato logico sovratemporale, indipendentemente dal fatto che l'attualizzazione della cosa come esistente resterebbe contingente. Sarebbe contingente il passaggio all'esistenza, ma non la regola, che, nel caso la cosa esistesse, l'essenza ad essa imporrebbe. E dato che anche l'essenza è compresa nell' "essere", la nullificazione dell'esistenza della singola, non sarebbe, contraddittoriamente, la nullificazione dell'essere in generale, che nella sua dimensione essenziale e formale, continuerebbe ad avere un senso positivo, e altro rispetto al nulla. Il nulla sopprimerebbe nel divenire le componenti accidentali della cosa, non quelle essenziali, cosicché l'essere resta costante presenza nella cosa
#244
Citazione di: paul11 il 19 Aprile 2019, 10:38:04 AME' importante chiarire, nella chiave di lettura di Severino, il rapporto Essere-Essenza-Esistenza . L'esistenzialismo ritiene il nulla a fondamento dell'ente, anche se afferma che in quanto ente, non sia niente. Questa è la chiave contraddittoria di tutta la fenomenologia ed esistenzialismo, ma direi di tutta la cultura moderna: è il nichilismo . Se la storia, l'esistenza, o valori come libertà, uguaglianza, ecc. non sono garantiti (direi legittimati) da alcun "essere trascendente" (quindi hanno come fondamento il niente), l'esistenza precede l'essenza. Ma non ha un immutabile a cui "appoggiarsi", a cui commisurarsi, eppure l'occidente ritiene di "non venire dal nulla". Il rifiuto "di non essere niente", è la persuasione di non volersi riconoscere con il niente, seppure sia il fondamento dell'intera civiltà occidentale. Prendendo coscienza di sé, la persuasione si manifesta come suo opposto: come negazione che l'ente sia niente. Ma nella negazione l'ente viene pensato come ciò che può non essere, così che la nientità dell'ente resta il fondamento della negazione che l'ente sia niente. Quando il tomismo, riprendendo la metafisica di Platone distingue fra"Esse per essentiam"ed "Entia per partecipationem" afferma che l'esistenza precede l'essenza .Se l'ente partecipa all'"esse"(con una connessione "sintetica") significa pensare l'ente come assoluta disponibilità all'essere e al non-essere. L'ente è (partecipa sinteticamente all'"esse"), ma sarebbe potuto restare un niente e potrebbe ridiventare un niente. Il pensiero moderno si rende conto che questa nientità dell'ente è possibile solo se l'ente non preesiste in un essere eterno(divino), vale a dire solo se il vuoto che l'ente non ha ancora occupato (o avrebbe potuto occupare, o ha cessato di occupare) non è riempito da un dio. Nell'affermazione che "l'esistenza precede l'essenza", l'essenza è la dimensione dell'essere eterno (esse per essentiam) e l'esistenza è l'ente che esiste come ciò che sarebbe potuto restare un niente. Se l'ente emerge dalla propria nientità e sarebbe potuto restare un niente, non ci può essere un'essenza eterna che precede l'esistenza dell'ente, e l'ente, in quanto niente, non può ancora essere. Questo ,per sommi capi, è il nichilismo della cultura occidentale e la contraddizione anche di Heidegger, Levinas, pensare ancora l'essere come nulla e l'esistenza che precede l'essenza. Qualunque narrazione, vita, non ha senso se non è commisurata ad una verità incontrovertibile, e quindi si riduce a natura, ad animale "sapiente", che venendo dal nulla e andando nel nulla, narra la sua nientità. La nostra cultura e la scienza moderna naturale e fisica è all'interno del vuoto del nulla. E' pensare la vita umana all'interno di leggi trasformative che si ritrasformano per mimesi. Eppure vivevano credendo la terra piatta, eppure vivevano credendo la terra fino alle colonne d'ercole. Eppure viviamo credendo alle leggi termodinamiche, della relatività e quantistica. Finchè altre leggi supereranno le attuali. Si continua a vivere sempre dentro un una verità falsificabile. Il problema della Tecnica ,per Severino e in estrema sintesi è il credere al passaggio fra Essere e non-Essere. Noi crediamo che un ente(una qualsiasi cosa fisica o pensiero) possa venire e poi sparire. La Tecnica racchiude il concetto del saper conoscere e del sapere fare, non la tecnica come definizione produttiva economica. La Tecnica occidentale è il creare per poi distruggere, il produrre per consumare, il vivere per poi morire. C'è sempre dal primo atto del "venire" il pensiero conseguente dello sparire, per cui l'atto costruttivo ha già in sè implicito quello distruttivo. Tutta la nostra cultura è ri-produttiva: si vive peri figli, si vive per consumare oggetti e vite, si vive pensando alla morte, si produce per riprodurre.Tutto questo perchè pensiamo che il divenire sia la legge fondamentale, che la vita sia prima dell'essenza e prima dell'essere, che i fatti vengano prima del pensiero, che le prassi siano più importanti del come disponiamo il pensiero. E il divenire è così per la nostra cultura pregnante, che il tempo "stressa" le vite, è il tempo che incalza le vite. L'illusione di un essere che diventa non essere è pensare di dominare le apparenze. Heidegger e Levians se pensano all'essere come nulla ritengono che prima venga la vita poi le essenze e infine l'essere: sbagliato è l'opposto.Perchè la vita si manifesta dopo l'universo e le sue regole e i domini, perchè l'essere è precedente alle regole e domini, ma sono queste che svelano l'essere e non la vita.Se non fosse così ogni vita particolare sarebbe una verità assoluta e troppe vite reclamerebbero la propria assolutezza. Questa è semplicemente "consapevolezza" perchè ovviamente non piovono dal cielo le verità, ameno che crediamo aquelle rivelate religiose. Noi confrontiamo esistenza e verità, perchè necessitiamo di un parametro critico che indirizzi i nostri pensieri, i nostri affetti, il nostro cammino. Se la metafisica ci raccontasse di una verità, ma la vita non saprebbe coniugarla nella prassi, quella verità sarebbe comunuque sterile, priva di senso .La dialettica fra due domini :mondo dei fatti e pensiero delle idee è il luogo in cui esistiamo


chiedo scusa se intervengo da profano non lettore di Severino, mi sentirei di dire una cosa riguardo il problema del rapporto essenza-esistenza. La contingenza del creato nell'ontologia teista, la possibilità del sua nullificazione, non implica a mio avviso la "precedenza" (termine ambiguo perché utilizzabile sia in accezione letterale/cronologica, oppure in chiave metaforica/logica) dell'esistenza sull'essenza, bensì uno stato originario in cui l'essenza non è prodotto successivo/secondario di qualcos'altro, ma è presente nella Mente, nel Verbo divino. L'essenza è modello ideale, archetipico, intelligibile, incorruttibile, in questo senso non può essere il prodotto di una causa efficiente di un'esistenza arbitraria e diveniente che lo precede. L'essenza è possibilità, e ogni possibilità è un'ente logico avente significato trascendentale, che resta tale indipendentemente dalle circostanze contingenti riguardanti il suo corrispettivo esistente. La contingenza della creatura consiste nella non-coincidenza tra essenza ed essere, la sua ragion d'essere non è immanente alla sua idea, è accidentale, deriva da Altro, ma questo non vuol dire negarne la componente di essenza, di immutabilità, semplicemente non si pone una necessità di attualizzazione nell'esistenza storica, attualizzazione che sarà demandata, appunto, alla storia, al divenire, ma l'entrata nella storia, nel divenire, sarà comunque l'avvio di un processo in cui l'ente non annienta la sua essenza, ma si muove all'interno delle delimitate possibilità di sviluppo insite in essa. Quindi (e qui mi pare di riallacciarmi al discorso di Severino) l'ontologia teista, con i suoi antecedenti in Platone e Aristotele, fondata sul riconoscimento della contingenza creaturale, sul superamento dell'identità parmenidea essere-essenza (che continua a valere per Dio, ma non per le sue creature), non implica affatto un'assolutizzazione nichilista del divenire, con tutte le implicazioni teoriche e pratiche (fede in un'onnipotenza della manipolazione tecnica ecc.), la trovo una forzatura ermeneutica. Il divenire è conseguenza dell'interazione della molteplicità di enti in relazione fra loro, ma ciò non toglie che le modalità di relazioni discendano pur sempre dall'identità costitutiva di ogni singolo ente, che se da un lato è condizionato dall'azione di un ente esterno, dall'altro preserva un suo livello di immutabile essenza che fissa un limite, oltre il quale alcune possibilità di divenire sulla base delle influenze esterne risultano comunque impossibili, proprio perché contraddittorie con tale essenza.
#245
Citazione di: Ipazia il 18 Aprile 2019, 14:41:00 PM
Citazione di: davintro il 18 Aprile 2019, 01:11:29 AM..Già nel passaggio dalla sensazione alla percezione, la mente comincia a operare al di là della mera ricezione passiva dei dati sensibili che entrano in contatto fisico con il corpo, nella percezione la coscienza connette al lato dell'oggetto attualmente a contatto con il nostro fisico i lati dell'oggetto nascosti al nostro sguardo sensibili, cioè opera sulla base di un sapere dell'oggetto sovrasensibile, i lati materiali dell'oggetto vengono inseriti in un forma, in un'idea dell'oggetto, come unità logica dello spazio materico, ma se accettassimo l'interpretazione materialista di tale forma, riducendolo ad astrazione, esigenza arbitraria della mente catalogante (ma poi anche ammettendo come valida tale visione, da dove deriverebbe l'idea di tale esigenza, da quale esperienza di realtà materiale dovrebbe derivare il pensiero dell'esigenza di schemi immateriali?), senza alcuna corrispondenza della realtà, allora anche il sapere delle scienze naturali, dovrebbe autoinvalidarsi come arbitrario, in quanto dovrebbe ridurre ad astrazioni arbitrarie le differenze tra oggetto e un altro, differenze implicanti la presenza della forma, cioè della componente immateriale, metafisica, che differenzia un oggetto da un altro, interrompendo l'indiscrezione dello spazio materiale fisico, adeguato ai nostri sensi. Insomma, la spiegazione biologica della realtà della teleologia non esclude il livello metafisico....
Se ciò fosse vero dovremmo ammettere che ogni animale, preda o predatore, faccia metafisica, quando usando le sue facoltà "mentali", separa un oggetto minaccioso o appetibile dallo sfondo che lo contiene. La classificazione, categorizzazione, in natura è questione di vita e di morte. L'uomo non ha fatto altro che ampliare una facoltà astrattiva fornita direttamente da mamma natura.

mi pare che questa obiezione abbia già nella premessa la tesi che si vuol sostenere, senza poter essere argomento della sua validità, cioè la piena coincidenza di "natura" e fisicità, che invece io contesto nell'individuare già nell'unità degli oggetti materiali una componente immateriale, cioè la forma. Questa forma può darsi come organismo vivente, nelle piante, negli animali, nelle persone, nelle varie specificazioni dell'anima, e anche come semplice forma geometrica delimitante un semplice spazio materiale, nel caso degli oggetti inanimati, come una pietra, anche in quel caso non ci troviamo di fronte a mera materia estesa, ma materia organizzata sulla base di una logica che coincide con il significato che attribuiamo al concetto di pietra e delle sue varie specificazioni, il complesso delle relazioni con cui il materiale viene organizzato. Quindi dire che l'astrazione è frutto di madre natura non implica la negazione del livello immateriale-metafisico nella natura e nei suoi finalismi, rispetto alla materia, per compiere questa negazione in modo critico bisognerebbe dimostrare come nell'analisi  della natura ciò che i sensi sono sufficienti a cogliere (correlato ontologico della loro modalità di apprensione, in nome del principio di adeguazione soggetto-oggetto) basta a rispondere a ogni questione su  di essa. Ma le forme, qualità distintive degli oggetti naturali, al di là della loro estensione spaziale, la componente materiale acquisita dai sensi, non si toccano, non si vedono, non si odono ecc., la loro natura è intelligibile perché non spaziale, ma delimitante lo spazio, eppure concreta  e non astratta, perché rendente ragione di fattori reali degli oggetti, appunto ciò che distingue qualitativamente un certo oggetto dall'altro all'interno di uno spazio, cioè di una materia, in comune
#246
per Tersite

l'affermazione "resta comunque un dato non acquisibile per via sensibile" è contradditoria col resto del mio discorso su una teleologia e di una natura originaria solo accettando un'accezione di una teleologia riferita a un ente nel quale una componente materiale e una immateriale non potrebbero convivere, mentre non lo sarebbe intendendo materiale e immateriale come fattori distinti, ma uniti nello stesso ente di cui parliamo. In quest'ultimo caso la teleologia che riconosciamo a livello biologico e quella che riconosciamo a livello metafisico, riguardando la stessa cosa, presenterebbe, all'interno del punto di vista di entrambi i livelli le componenti verso cui l'altro si focalizza. Nella focalizzazione dell'ente nella sua natura fisica il biologo ammette, implicitamente, in certi casi anche inconsapevolmente il lato metafisico, in quanto nello studio di un oggetto, di qualsivoglia oggetto, l'oggetto deve essere isolato dal flusso delle sensazioni fisiche, delimitato da una forma, cioè da una componente immateriale, in quanto non spaziale, che isola il singolo l'oggetto "staccandolo" dal resto del flusso delle sensazioni, e consentendolo di poter essere studiato in base a leggi proprie e poi connesso tramite relazioni logiche con il resto degli oggetti. Già nel passaggio dalla sensazione alla percezione, la mente comincia a operare al di là della mera ricezione passiva dei dati sensibili che entrano in contatto fisico con il corpo, nella percezione la coscienza connette al lato dell'oggetto attualmente a contatto con il nostro fisico i lati dell'oggetto nascosti al nostro sguardo sensibili, cioè opera sulla base di un sapere dell'oggetto sovrasensibile, i lati materiali dell'oggetto vengono inseriti in un forma, in un'idea dell'oggetto, come unità logica dello spazio materico, ma se accettassimo l'interpretazione materialista di tale forma, riducendolo ad astrazione, esigenza arbitraria della mente catalogante (ma poi anche ammettendo come valida tale visione, da dove deriverebbe l'idea di tale esigenza, da quale esperienza di realtà materiale dovrebbe derivare il pensiero dell'esigenza di schemi immateriali?), senza alcuna corrispondenza della realtà, allora anche il sapere delle scienze naturali, dovrebbe autoinvalidarsi come arbitrario, in quanto dovrebbe ridurre ad astrazioni arbitrarie le differenze tra oggetto e un altro, differenze implicanti la presenza della forma, cioè della componente immateriale, metafisica, che differenzia un oggetto da un altro, interrompendo l'indiscrezione dello spazio materiale fisico, adeguato ai nostri sensi. Insomma, la spiegazione biologica della realtà della teleologia non esclude il livello metafisico, al contrario lo presuppone "silenziosamente", come all'inverso anche lo studio della stessa realtà metafisico implica "silenziosamente" l'avvertimento sensibile della materia nella cui unità la componente intelligibile e sovrasensibile viene ricompresa, quando il metafisico si impegna a riconoscere la metafisica come esplicante la realtà delle cose sensibili, deve necessariamente avere un'esperienza, generica e minimale della realtà materiale a cui essa si applica, come il naturalista necessita di riconoscere, a sua volta in senso generico e mininale, la forma intelligibile come fattore di demarcazione qualitativo della realtà materiale di cui si viene a indagare le leggi. Nessuna sorpresa dunque che le scoperte della biologia possano portare a confermare assunti riconoscibili a livello metafisico, senza che quest'ultimo livello scada nell'inutilità, perché comunque le due prospettive, pur presentando aspetti comuni perché riferiti alla stessa realtà, restano distinte nel loro focus, nonché nella loro metodologia di ricerca. Un esempio banale ma che troverei chiarificatore è quella del tavolo: considerando il tavolo come la realtà comune indagata dal fisico e dal metafisico, e i due ricercatori come individui situati su lati diversi, accadrà che alcuni parti del tavolo ricorrano in entrambe le visuali, che però restano fra loro diverse, accanto agli aspetti che anche il fisico vede, il punto di vista del metafisico comprenderà anche parti che il fisico non può cogliere dalla sua prospettiva è viceversa. Distinto è l'angolo di visuale, diverso il focus centrale dell'attenzione, l'obiettivo, le questioni che ci si pongono, anche se, dato che il tavolo/realtà è lo stesso entrambe, alcune componenti sono comuni,  senza che ciascuno smetta di contribuire a modo suo  a rendere la conoscenza della realtà più completa, senza che l'uno trovi il suo lavoro inutile e il suo sapere non aggiuntivo sulla base del lavoro  e del sapere dell'altro
#247
Sariputra ha colto direi benissimo quello che intendevo dire sul divenire, non la sua negazione, ma la riconduzione a un livello di princìpi, che se si vuole evitare il rischio del regresso all'infinito, che altro non sarebbe che espressione dei nostri limiti conoscitivi, e nulla di esplicativo, devono essere autosufficienti, e dunque indipendenti dalla contingenze temporale, cioè dal divenire. Per stare all'esempio di Tersite, certamente il fatto che da un fico non nascano pere, è naturale, ma escluderebbe una connotazione metafisica, solo identificando tout court il concetto di "naturale" a quello di fisico", cosa discutibile. Che il fico produca fichi anziché pere, esprime une tendenza teleologica (a mio avviso la teleologia non implica necessariamente una mente cosciente e progettante la direzione finale), in cui la direzione finale è già insita nell'essenza della pianta, di cui a livello sensibile cogliamo gli effetti man mano che il divenire scorre, ma che in realtà è in atto sin dal primo istante del processo di crescita della pianta, dal seme. L'essenza del fico, la sua idea, la sua forma, è già in ogni momento in atto nello spingere la pianta all'autoformazione delle proprietà insite in questa essenza, ed è una componente immateriale, metafisica, in quanto il suo attuarsi non si esaurisce nelle particolari manifestazioni sensibili delle fasi del processo, ma si esprime nell'unità di quest'ultimo. Riducendo il fico all'esperienza sensibile su cui poggia la fisica, avremmo solo una successione caotica e scollegata di queste fasi temporali, senza alcun riferimento a un substrato unitario, la forma della pianta che progressivamente, ma costantemente si autoafferma, comprendente anche le fasi non al momento oggetto della nostra osservazione sensibile. Non è necessario che tale forma, si intenda, platonicamente, come sostanza separata dalla cosa fisica, anche nel modello aristotelico in cui è immanente a quest'ultima resta comunque un dato non acquisibile per via sensibile, l'unità con la materia ne determina l'impossibilità di poter esistere in tutta autonomia, ma non nega la distinzione qualitativa rispetto alla fisica. Metafisico e fisico possono convivere nello stesso ente, ma restando ontologicamente distinti, e richiedendo distinti punti di vista tesi a indagarli.


per Oxdeadbeef

intendere la metafisica come "ordine razionale anche se parziale" sarebbe in contraddizione con l'intenderla come "sapere assoluto", solo confondendo il concetto di "assoluto" con quello di "tutto". Assoluto, vuol dire sciolto da legami, indipendente da ogni condizione particolare tesa a relativizzarlo, ma non coincide necessariamente con l'idea di totalità quantitativa di tutti i livelli della realtà. La metafisica è sapere assoluto nel senso che individua un livello di verità originarie, che restano tali indipendentemente dalla molteplicità dei contesti reali che vanno a fondare, ma questo non vuol dire affatto che tale livello sia l'unico possibile, è il livello fondativo degli altri, ma senza negarne l'alterità, come a pretendere di risolverli tutti in se stesso, La metafisica non pretende di spiegare tutti gli aspetti della realtà, rendendo inutili le scienze particolari, si occupa di un certo livello, quello delle verità valide sovratemporalmente e sovraspazialmente, quando sconfina dal suo ambito e pretende di occuparsi degli altri livelli si nega in quanto metafisica, non fa cattiva metafisica, ma cattiva fisica, chimica ecc., in quanto utilizza una metodologia non corrispondente all'ambito tematizzato. L'assoluto è una qualifica del valore veritativo di ciò che indaga la metafisica, non implica che ciò che indaga sia l'unica cosa possibile da indagare, ed in questo ultimo senso è "parziale", ciò che indaga non è tutto, ma è comunque qualcosa che resta valido indipendentemente dal resto. Che un sapere di questo tipo sia necessario per essere, cito "quella conoscenza che relazione fra loro le varie conoscenze", lo si potrebbe smentire solo pensando che "mettere in relazione" voglia dire limitarsi ad assommare ciecamente i contenuti delle scienze particolari senza alcun contenuto di sapere autonomo da essi. In realtà, mettere in relazione vuol dire inserire i termini relazionati in una visione d'insieme, che non è la mera somma delle parti, ma un'unità avente una propria validità sulla base di principi che ne garantiscano la logica interna, ed appare evidente che questi principi non potranno essere dello stesso tipo di quelli sufficienti a convalidare le singole parti, in quanto devono mirare a fondare non solo tali singoli parti, ma anche la correttezze delle relazioni logiche che li connettono all'interno della visione. E la metafisica è appunto sapere di questi princìpi, che non essendo gli stessi delle scienze particolari, devono consistere in un contenuto di sapere autonomo dagli altri, nonché fondativo di essi. Per quanto riguarda l'idea che tale sapere sia relegabile a credenza senza alcuna validità razionale, perché non "sintetico a priori", questo sarebbe certamente corretto intendendo sintetico a priori alla stregua della critica kantiana, in cui il sintetico che apporta contenuti alla scienza si riduce alle intuizioni sensibili, ma, come abbiamo discusso in "Io e gli altri" e anche in altre discussioni, trovo questo modello non convincente, in quanto incapace di legittimare la critica stessa, e gli oppongo quello (almeno per come modestamente cerco io di interpretarlo) fenomenologico, per il quale, dato che ogni atto di coscienza in quanto tale è intenzionale, e l'intuizione intellettuale è intenzionale, allora anch'essa rientra a pieno titolo tra le modalità in cui ricaviamo sinteticamente un contenuto, che non sarà di tipo sensibile, ma intellettuale, cioè metafisico
#248
Citazione di: sgiombo il 13 Aprile 2019, 22:03:03 PMContinuazione: E' lo stesso motivo per il quale é assurda la tesi di una creazione divina dell' universo: se Dio é eterno, allora non muta mai, non diviene nel tempo. E dunque nemmeno può darsi il momento nel quale (dopo un' eternità di durata infinita -senza fine!- in cui non lo faceva), decide di punto in bianco di creare il mondo. Per l' appunto esattamente come non può darsi il momento nel quale (dopo un eternità di durata infinita -senza fine!- in cui non esisteva alcunché, e dunque nemmeno il tempo, e dunque nemmeno tale momento del tempo, di punto in bianco comincia ad esistere qualcosa (l' universo).


direi che l'immutabilità di Dio esclude la possibilità che Dio in un determinato momento decida di creare l'Universo, passando da uno stato mentale di incertezza al riguardo ad uno in cui assume la volontà di creare. Ma non esclude la creazione dell'universo nel caso in cui all'interno della sua Mente (il Verbo, seconda persona della Trinità nella teologia cristiana) tale creazione fosse eternamente prevista, anche se poi l'atto concreto di creazione accadesse in un determinato momento (momento anch'esso già eternamente prestabilito accanto al complesso di ogni evento nella storia). L'immutabilità riguarderebbe la condizione interna di Dio, i suoi pensieri la sua volontà, non penso escluderebbe una successione temporale delle Sue azioni nei confronti di una realtà altra da Sé, come l'Universo con cui interagisce. Perché gli effetti, riguardando una realtà temporale, potrebbero adeguarsi a tale temporalità, realizzandosi in momenti diversi E non penso nemmeno sia in contraddizione con l'idea dell'eternità dell'Universo: non tutte le relazioni di causa-effetto si danno in forma diacronica, in una successione in cui prima esiste una causa (Dio) e in un secondo momento l'effetto (l'inizio della creazione dell'universo). Perché si dia tale relazione è sufficiente che si distingua un fattore agente, la causa (Dio) la cui esistenza coincide temporalmente, sincronicamente con la produzione dell'effetto (l'Universo), che si differenzia dalla causa, perché passivo ricevente della sua azione.
#249
premetto scusandomi di non riuscire a rispondere a tutti i vostri interventi che sono molti e stimolanti, e mi fa piacere che il topic aperto spunti di interesse, al di là del modo spesso confuso e banale che ho di esporre le questioni. Cerco di rispondere man mano gli interventi che di "impatto" mi ispirano risposte immediate, anche se anche gli altri hanno comunque un valore


per Lou

Premesso che non vedo l'etica come qualcosa che una conoscenza razionale, quale intende essere la filosofia, possa legittimare in modo oggettivo, cioè dimostrando con argomenti razionali che una certa morale sia più valida di un'altra, ritengo che comunque la filosofia approcci questo ambito, come gli altri, solo implicitamente riconoscendo un sapere ulteriore a quello che ci comunica l'esperienza dei sensi, cioè ulteriore alla fisica, "metafisico". Si può approcciare l'etica filosoficamente, sia nel senso di rintracciare le condizioni a priori, fondamentali che definiscono una coscienza morale in quanto tale, le modalità entro le quali tale tipo di coscienza si relaziona al mondo, alle altre forme di relazione coscienza-mondo, oppure si possono indagare i nessi entro cui una certa visione etico-politica appare coerente con delle determinate applicazioni pratiche o con altri settori del sapere (ad esempio indagare sui nessi tramite cui la visione morale e politica del platonismo appare coerente con una certa antropologia o gnoseologia). In ogni caso si tratteranno sempre di approcci utilizzanti una forma di sapere non empirico, non sensibile, ma basato sull'apprensione di un contenuto intelligibile, le condizioni trascendentali della coscienza morale, o il senso generale, essenziale dei concetti che utilizziamo e che poi nel ragionamento deduttivo vengono tra loro connessi per individuarne le corrette e coerenti relazioni logiche. Quindi l'etica resta comunque uno dei campi di applicazione della metafisica, non certo l'unico, anche se certamente importantissimo, ma non certo l'ultima ridotta della rilevanza della filosofia una volta che si presume di accertare la morte della metafisica e la riduzione della conoscenza all'esperienza sensibile della fisica


Per Green demetr

Anche accettando la tripartizione kantiana "Dio-anima-mondo" come complesso dei temi di cui la metafisica si occupa resta il fatto che proprio il discorso epistemico è centrale per la metafisica, e ne segna la peculiarità. Limitandosi a definire la metafisica sulla base dei contenuti che mira a indagare ancora verrebbe confusa con la religione rivelata, con cui appunto condivide la focalizzazione sui temi, l'esistenza del sovrasensibile, mentre si distingue da essa sulla base del carattere razionale della ricerca. E la razionalità inevitabilmente chiama in causa il momento critico, cioè l'accertamento, come scrivevo prima, dell'adeguatezza degli strumenti metodologici che utilizziamo in relazione al livello oggettivo di realtà che ci interessa indagare. E questo accertamento mi pare proprio coincida con la questione epistemologica/gnoseologica dei fondamenti e delimitazione delle varie scienze. In questo senso epistemologia e metafisica si implicano reciprocamente, e stavolta il circolo non è vizioso, ma virtuoso: non si tratterebbe di un reciproco fondarsi in cui una pregiudizialmente ammette la validità dell'altra in relazione a uno stesso obiettivo, bensì di una interazione nella distinzione dei ruoli. L'epistemologia implica l'applicazione in un contenuto di sapere metafisico, cioè riferito alle condizioni necessarie a priori della scienza situate al di là della contingenza spazio temporale oggetto dei sensi, la metafisica si serve della critica epistemologica per chiarire i limiti entro cui gli strumenti razionali che utilizza restano attinenti alla sfera che indaga senza sconfinarne in altre, necessitanti contenuti diversi da quelli sovrasensibili (come accaduto storicamente quando partendo da considerazioni di tipo metafisico/teologico si è, proprio in nome di una cattiva epistemologia, sconfinando in ambiti diversi da quello metafisico, finendo con giungere a conclusioni arbitrarie nel campo della fisica, utilizzando un approccio inadeguato per quel campo). In sintesi l'epistemologia opera su un contenuto metafisico, la metafisica trae dall'epistemologia la legittimazione razionale del suo discorso riferito ai suoi contenuti
#250
per Tersite

la realtà diviene, ma una volta assolutizzato il divenire, concependo la realtà come un flusso senza alcun punto fermo, senza alcun principio o norma posto al di fuori della contingenza spaziotemporale, l'immagine della realtà sarebbe quello di un caos senza logica, e senza alcuna possibilità di conoscerlo individuandone leggi. Infatti, se tutto fosse mutevole, lo sarebbero anche i princìpi che fondano la realtà, che quindi non potrebbero porsi come autosufficienti (perché non autonomi rispetto la particolare contingenza storica a cui si riferiscono), e quindi necessitanti di un rimando ad altri principi, in un regresso all'infinito che, fintanto che viene accettato, renderebbe impossibile la legittimazione razionale di ogni scienza (in quando i fondamenti non sarebbero davvero tali). In questo senso il riconoscimento della metafisica resta un presupposto implicito che ogni scienza dovrebbe accettare, in quanto la metafisica individua la presenza di un ordine stabile e complessivo, che consente alle singole scienze, pur nella limitatezza dei loro campi di ricerca, di orientare le loro indagini verso un ideale regolativo di sapere assoluto, sapere dei principi primi, che il sapere sperimentale non può adeguare, ma può porre come modello verso cui mirare e cercare di riprodurre nel proprio campo di appartenenza. Questo ordine complessivo, che non nega la realtà del divenire, ma pone sopra di esso delle norme eternamente, e dunque intrinsecamente, valide, è ciò che legittima la possibilità per la scienza di riconoscere un ordine razionale, anche se parziale, nei fenomeni che indaga.


Per Ipazia

Penso che andrebbe meglio chiarito il concetto di "Physis". Intesa come complesso di realtà unicamente materiali, cioè adeguati all'esperienza dei sensi, non vedo come in concreto ci si differenzi dallo scientismo positivista, dato che essendo la materia fattore sufficiente a rendere ragione della realtà, le scienze naturali che si basano sull'esperienza sensibile sarebbero a loro volta sufficienti a conoscere la realtà, senza alcun bisogno di un sapere meta-fisico, cioè oltre la fisica come mira a essere la filosofia. Quello su cui insisto è la necessità della correlazione tra strumento soggettivo di indagine e oggetti: ogni modalità gnoseologica è adeguata a esperire un certo aspetto oggettivo del reale, e la modalità sensibile, su cui le scienze naturali si fondano sono adeguate alla realtà materiale, mentre la filosofia, come speculazione e analisi delle relazioni fra idee, colte nel loro significato intelligibile e essenzialistico, e alla deduzione di un'ontologia coerente e conseguente, sarebbe adeguata a cogliere una componente spirituale nella realtà. Negata quest'ultima, cade anche la rilevanza della metodologia filosofica, questa non sarebbe intenzionalmente riferita ad alcunché di concreto, sarebbe buona solo per astrazioni fantasiose senza poter in alcun modo contribuire alla conoscenza della realtà concreta. Potrebbe contribuire solo intendendo la Physis come realtà in cui alla componente materiale se ne integra una spirituale/intelligibile, che sarà il focus verso mirerà lo sguardo del filosofo, indipendentemente dal problema, tutto interno alla premessa della validità della metafisica, di intendere questa spiritualità come ontologicamente separata dalla materia, un po' come nel modello platonico, oppure aristotelicamente, come "forme" immanenti agli oggetti materiali, eppure distinte dalla materialità, in quanto esplicative di questioni riguardo l'essere delle cose diverse da quelle a cui il riconoscimento della causa materiale sarebbe adeguata a rispondere. In ogni caso, non si tratterrebbe di far confliggere "scienza" (intendendola solo come complesso delle scienze naturali) e filosofia (al contrario, il conflitto nascerebbe dalla riduzione della realtà a una sola dimensione, con saperi concorrenti che si pestano i piedi per rivendicare come il loro approccio sia migliore degli altri per indagarla), bensì proprio di distinguere i diversi campi a cui si applicano, evitando sovrapposizioni.
#251
è molto comune, e purtroppo lo si registra spesso e volentieri  anche in questo forum, negare ogni validità razionale alla metafisica, anche usando toni a volte offensivi e spregiativi, considerando la metafisica come qualcosa di obsoleto (come se l'essere aggiornati fosse di per sé un criterio di validità del discorso filosofico, come se cioè la filosofia avesse come suo oggetto, invece che i principi primi della realtà, indipendenti dal divenire spazio temporale, qualcosa di mutevole, materiale, che dovrebbe costringerla ad aggiornarla continuamente, riducendosi a moda conformistica), irrazionale, dogmatico, mentre la vera razionalità dovrebbe portare a concepire la materia come l'unica realtà possibile.

la domanda che vorrei fare é: ma una volta eliminata l'idea di una "meta-fisica" che senso ha occuparsi o interessarsi di filosofia (eventualmente anche partecipare ad un forum di filosofia)? Se si ritiene che non ci sia nulla di "oltre", "meta" rispetto alla fisica, quale sarebbe il valore aggiunto della filosofia? Non sarebbe del tutto sufficiente fermarsi allo studio della fisica e delle sue derivate scienze naturalistiche sulla base epistemica dell'osservazione dei sensi, senza alcuna possibilità di concepire un contenuto altro da essi? Personalmente io trovo che ogni filosofia senza metafisica sia inconcepibile e assurda. A meno, che non si intenda come "metafisica" qualcosa di molto vicino alla dottrina religiosa, cioè il tentativo di definire una realtà trascendente la fisica sulla base di una fede, di un sentimento, di una esperienza soggettiva, senza quell'approccio razionale per cui i giudizi sull' "oggetto" sono mediati da una valutazione epistemologica sulla validità delle forme soggettive in cui ne facciamo esperienza. Una volta che invece questo approccio razionale viene seguito coerentemente, l'inscindibilità del nesso filosofia-metafisica mi pare necessario: esiste infatti un nesso di adeguatezza e corrispondenza fra modalità soggettiva di apprensione e natura dell'oggetto verso cui dirigiamo le nostre pretese conoscitive. Cioè, un discorso è razionalmente fondato quando riconosciamo come "adeguato" e "proporzionato" il nostro punto di vista soggettivo  rispetto all'oggetto a cui il discorso è riferito. Quindi la possibilità di fare filosofia implica necessariamente che al punto di vista soggettivo e filosofico si associ un ambito oggettivo di indagine corrispondente e adeguato ad esso, alla sua metodologia, cioè distinto da ciò che si osserverebbe dagli altri punti di vista non filosofici, compreso quello fisico. Se non ci fosse nulla di ulteriore alla fisica, ogni punto di vista trascendente la fisica, operante con una metodologia distinta da essa, come la filosofia, sarebbe vuoto, non aggiungerebbe nulla, non avrebbe alcuno specifico contenuto di conoscenza, dato che la realtà essendo totalmente fisica sarebbe pienamente esauribile dalla fisica stessa. In sintesi, in ogni forma di interesse filosofico dovrebbe essere già implicito il pensiero che la filosofia mi porti a conoscere qualcosa della realtà che le altre scienze non saprebbero farmi conoscere, e se tra queste scienze comprendiamo la fisica, o addirittura queste scienze condividono il modello della fisica, allora dovrebbe essere implicita l'ammissione di una realtà metafisica.

Da ciò discende anche la contraddittorietà di ogni materialismo antimetafisico filosofico. L'idea per cui "tutto è materia", "tutto è indagabile in termini fisicalisti", implica il giudizio sul "tutto", sulla "totalità", che però è una categoria di cui non possiamo avere alcuna esperienza fisica e sensibile. Chi identifica la realtà nel suo complesso come "materia", dovrà per forza concepire i sensi come l'unica fonte dell'esperienza come tale. Il problema è che i sensi non hanno alcun titolo a presumere che tutto ciò che fuoriesce dal loro ambito non esista, perché non offrono alcuna esperienza della "totalità". I sensi ci fanno entrare a contatto con il singolo oggetto fisico che impatta fisicamente i campi percettivi del nostro corpo, l'esperienza di qualcosa di individuale, non formano alcun punto di vista entro cui la realtà si manifesta nella complessità dei suoi livelli, come espressione di principi necessari ed esaustivi. Quindi la tesi "tutto è materia" giudica riguardo un punto di vista non sensibile, ma oggettivante qualcosa di intelligibile, l'idea di totalità, quindi è una tesi a tutti gli effetti "metafisica", ed in questo modo finisce per contraddire se stessa, svela la sua infondatezza epistemologica, cioè la sua arbitrarietà. Infatti nel materialismo filosofico viene a mancare quella proporzione, quella adeguatezza della prospettiva soggettiva, del metodo, con l'oggetto, manca l'adeguatezza tra la modalità gnoseologica posta come fondamento del discorso, i sensi, e l'oggetto verso cui il discorso si riferisce, cioè la totalità. L'errore è quello di intendere la metafisica come un'opinione, una tesi, che potremmo verificare e confutare, quando a mio avviso, la metafisica non è un'opinione, ma un livello della realtà, una disciplina di cui è lecito disinteressarsi, che si può ignorare preferendo occuparsi di altre cose, ma non negarne l'esistenza, perché la sua negazione richiama necessariamente le stesse categorie che solo a quel livello avrebbero un senso
#252
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
06 Aprile 2019, 16:28:59 PM
Per Ipazia

mi spiace di risultare contorto, probabilmente quello che dico potrebbe anche essere espresso in modo più semplice e sintetico, è che preferisco dilungarmi un po' a esporre delle implicazioni dall'idea centrale, che magari porta il discorso a essere meno diretto e lineare, ma, almeno nelle mie intenzioni, più ricercante la chiarezza, considerando le varie sfumature. Posso assicurare, nessuna volontà di ermetismo. Del resto questo è un topic tra i più discussi, segno che comunque i temi discussi non si fermano a delle evidenze da dare per scontato


Per Green Demetr

è vero che Husserl parte da una formazione matematica, ma questo non gli ha impedito di pervenire a una filosofia che è senza dubbio definibile a suo modo come "filosofia della vita". Nel momento in cui si parla di intuizione delle essenze si va indagare l'aspetto qualitativo dei fenomeni, che è proprio l'oggetto dei nostri vissuti, cioè della vita. Il fatto che tale intuizione necessiti di essere rischiarata tramite un passaggio metodologico astrattivo come la sospensione dell'aspetto esistenziale è funzionale a tematizzare il complesso delle modalità di vita in modo il più possibile adeguato a cogliere la struttura necessaria dei fenomeni, che resterebbe nascosta fermandoci a una visione ingenua in cui gli aspetti arbitrari e quelli oggettivamente costitutivi dei fenomeni sono confuse. "Filosofia della vita" e "vita" non sono la stessa cosa, la riflessione analitica tematizza la vita, sì, lasciando sullo sfondo determinati livelli, ma mettendone alle luce sfumature (essenze) fenomeniche, che restando immersi nel flusso immediato e irriflesso della vita non sarebbero riemerse ed esplicitate. L'idea che la razionalità analitica snaturi la vita vuol dire cadere in delle visioni irrazionalistiche/vitaliste che vedono vita e riflessione razionale su di essa come contrapposte, e che fossero seguite coerentemente dovrebbero portare a rinunciare alla filosofia come discorso teso ad andare al di là di una doxa, mera opinione, espressione di un'esperienza immediata e incapace di astrarsi e individuare i fondamenti delle sue pretese di corrispondenza con la realtà. Quando si parla di "essenza" si parla non di quantità, ma di qualità fenomeniche vissute, quindi l'idea del mondo della vita come qualcosa che non si riduce ai saperi matematizzanti è un aspetto della fenomenologia di Husserl a mio avviso presente ben prima della Crisi e dell'eventuale influenza heideggeriana, è già necessariamente insita nell'idea di filosofia come "scienza di essenze" e non di fatti
#253
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
05 Aprile 2019, 16:45:58 PM
Citazione di: 0xdeadbeef il 04 Aprile 2019, 21:12:53 PMA Davintro Nell'intervento #150, in risposta a Sgiombo, affermavi: "perché si dia scienza della realtà è necessario che all'interno della sfera dei fenomeni, accanto alle intuizioni sensibili, che manifestano la cosa senza necessariamente corrisponderne alla loro realtà (ipotesi dell'allucinazione o del genio ingannatore"), vengano comprese anche le intuizioni intellettuali, quelle tramite cui l'oggetto è visto come essenza ideale". Ora, intendi la battuta sulla prova ontologica di S.Anselmo per quel che è: una caricatura della Fenomenologia. Dunque certamente una estremizzazione del concetto; ma che come tutte le estremizzazioni non sarebbe possibile senza qualcosa da estremizzare... Ho capito che viene messa in sospensione l'esistenza; ma cos'è l'esistenza? Con il termine è solo da intendersi la "res extensa" o anche, come io ritengo corretto fare, la "cogitans"? E se "esistesse" la "res cogitans", perchè mai, secondo il ragionamento fenomenologico, non potrebbe "esistere" quella particolare idea che è Dio (come altre idee particolari, naturalmente)? Infatti quello che proprio non riesco a capire della Fenomenologia è il "dove" essa intenda porre il limite della, chiamiamola, "oggettivazione del fenomeno". Dai tuoi discorsi mi sembra di poter capire che viene dato un certo peso all'intersoggettività, per cui l'oggettivazione del fenomeno avverrebbe nel: "richiamo al riconoscimento di un legame di corrispondenza e adeguazione tra le varie tipologie di modalità soggettive di esperienza e apprensione (noesi) e varie tipologie di oggetti (noemi)". Beh (se così fosse), legittimo e congruo pensarlo, ma questo non mette certo al riparo dal rilievo che E.Severino fa al filosofo "neorealista" tedesco M.Gabriel (il quale parla di "oggettività all'interno di un campo"): "un campo", dice Severino, "è null'altro che un contesto, quindi un già interpretato". Perchè esattamente questo è il punto: il fenomeno è un già interpretato; ed essendo un già interpretato ogni pretesa di renderlo "oggetto" deve fare i conti con le diverse interpretazioni che si danno del termine "oggetto". Ora, queste interpretazioni, intendiamoci, possono anche avere una loro intrinseca validità (non è che io intendo equiparare l'opinione di un sapiente a quella di un pazzo); possono, ovvero, offrire un qualche genere di informazione attorno ad un qualcosa. Ma queste "informazioni" sono necessariamente parziali, e comunque relative ad un "campo" o contesto che dir si voglia, mi sembra evidente. (ovvero: dalla relatività non si scappa - se non congetturando un assoluto) saluti

per quanto riguarda l'esistenza, non so se è ho capito bene la questione, direi che fenomenologicamente il problema di stabilire l'esistenza degli oggetti viene metodologicamente sospesa, ma anche che possa essere in un successivo passaggio recuperato, nella misura in cui il riconoscimento dell'esistenza appare necessario al darsi fenomenico dei vissuti coscienti, all'idea di Dio, come di ogni altra idea di oggetto potrà associarsi un'esistenza sulla base di tale condizione. Ecco perché a mio avviso (ma non saprei quanto nella lettura fenomenologica questo passaggio sia esplicitato, come sempre cerco di dare una mia interpretazione sulla base di come reputo più consequenziali i risvolti sulla base di determinate premesse) lo sbocco ontologico più coerente con la fenomenologia sia un "realismo trascendentale", cioè riconoscere l'autonomia di un livello minimo di realtà sufficiente a rendere ragione della struttura della coscienza, cioè il punto di partenza indubitabile del metodo: mentre sul piano metodologico un margine di realtà oggettiva è riconosciuto come condizionato alla necessità di rendere ragione della coscienza, a livello ontologico tale realtà oggettiva esisterebbe indipendentemente da essa. I due punti di vista sono compatibili perché rispondono a questioni tra loro diversa, la prima "come arrivo a conoscere", la seconda "cosa conosco". La sovrapposizione delle due questioni è tipica dell'idealismo storicista che vede la ricerca della verità, il suo metodo come determinante il contenuto reale di ciò che arrivo a conoscere, distinguendo (non separando) i due piani la fenomenologia mostra di poter respingere tale accusa di idealismo

Per il resto direi che la delimitazione degli oggetti, sulla base della loro correlazione intenzionale con la tipologia di atti soggettivi tramite cui ci rivolgiamo verso di loro e attribuiamo loro un senso, può essere intesa come una sorta di relativismo, o comunque di relatività inficiante le possibilità di una conoscenza oggettiva e razionale, solo non considerando la differenza che passa fra "parzialità" e "relatività". La parzialità dell'oggetto lo delimita quantitativamente, lo intende come non esaustivo della realtà, ma contestuale al punto di vista delle modalità di coscienza soggettiva a cui è intenzionalmente correlato, la "relatività del giudizio lo svaluterebbe nella possibilità di essere un campo entro cui concepire un sapere razionale, basto su fondamenti certi o evidenti. Il primo aspetto non determina il secondo, il fatto che un certa tipologia di oggetti non rappresenti la totalità degli strati della realtà indica la non estendibilità ad infinitum del campo di applicazione del sapere ad essa correlato, ma non la sua arbitrarietà e contingenza. Fissare un sistema di conoscenze riguardante i principi apriori della realtà non vuol dire negare il mistero dell'alterità della realtà nel suo complesso rispetto alle nostre pretese conoscitive, ma stabilire un livello di conoscenze fondamentali e trascendentali che tutte le altre scienze riguardanti gli altri livelli sono chiamate, anche implicitamente, a rispettare e applicare, anche se poi nel loro lavoro di ricerca estendono il materiale della conoscenza ben al di là di quel livello: in sintesi, il fatto che una casa non coincida con le fondamenta (parzialità delle fondamenta), non vuol dire negare la solidità di queste ultime (solidità e non relatività della capacità delle fondamenta di sostenere il peso del resto della struttura)
#254
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
04 Aprile 2019, 21:38:39 PM
Citazione di: sgiombo il 04 Aprile 2019, 10:50:02 AMRisposta a Davintro (#203)  Sono perfettamente d' accordo che la critica della scienza non può essere a sua volta scientifica (nemmeno con le virgolette): si cadrebbe in un circolo vizioso, nell'utilizzo di strumenti, tra cui il contenuto di conoscenze, che non siano gli stessi delle scienze che essa intende sottoporre a indagine.  Ma criticare la scienza non vuol dire fondare la scienza, bensì individuarne i fondamenti e valutarli criticamente, sottoporli a verifica razionale, evidenziandone significato autentico, limiti e condizioni di validità. Questo consente e implica certamente ipotesi e ragionamenti astratti (e anche l' uso di giudizi analitici a priori); ma non la sostituzione dei fondamenti empirici della scienza con arbitrarie verità (pretese) sintetiche a priori (come mi sembrava da te sostenuto nel passo del tuo intervento #178 in questa discussione da me criticato).  Dissento dall' affermazione che "ogni riconoscimento di un limite nei confronti di un ambito scientifico, presuppone che si riconosca "materialmente", cioè come contenuto, la presenza di un altro ambito che trascende il primo, che proprio in quanto lo trascende, lo limita, e che questa trascendenza sia indagabile a sua volta scientificamente, sulla base di una propria peculiare metodologia correlata a un peculiare contenuto". Infatti riconoscere i limiti (che non sono necessariamente né esclusivamente spaziali) della conoscenza scientifica non implica affatto necessariamente che esista un' altro ambito della realtà che trascende i fenomeni materiali (anche se credo empiricamente rilevabile -e dunque provata altrettanto di quella fisica - materiale-anche la presenza reale dell' ambito fenomenico mentale non riducibile a quello materiale; e che sia proponibile a scopo esplicativo-ermeneutico e ragionevolmente credibile l' esistenza di un ambito in sé o noumeno; ma non in conseguenza necessaria del solo rilievo dei limiti della conoscenza scientifica). Peraltro questa potrebbe sembrare questione di lana caprina, un dissenso un po' cervellotico; in realtà il mio dissenso era soprattutto dalla tesi da te sostenuta (almeno così mi pare) che la conoscenza scientifica abbia criteri veritativi diversi dalla constatazione empirica (integrata con, e valutata applicandovi postulati indimostrabili e non empiricamente verificabili come la verità dell' induzione e la intersoggettività dei fenomeni materiali; i quali sono astratte "conditiones sine qua non preliminari", per così dire, e non i "dati reali concreti" che le scienze vanno indagando e da cui vanno cercando conferme alle teorie; ovviamente presupponendo necessariamente tali necessari postulati preliminari). Ma nei termini suddetti anch' io credo che "non solo la critica kantiana, ma ogni epistemologia è una branca della filosofia, cioè esiste una "filosofia della scienza", ma non una "scienza della filosofia": l'epistemologo lavora sulla base di un punto di vista che non può essere lo stesso a cui restano interne le scienze che sottopone a critica, e per forza di cosa dovrà considerare il proprio punto di vista come "scientifico" in un senso diverso, e più fondamentale delle scienze messe in discussione". Peraltro mi pare (ma la mia conoscenza del konigsbegese é molto limitata ed elementare) che considersse per l' appunto "il proprio punto di vista come "scientifico" in un senso diverso, e più fondamentale delle scienze messe in discussione"; cioè che il concetto di "scientificità" da lui usato (per esempio intitolando i Prolegomeni ad ogni metafisica futura che intenda presentarsi come scienza; per la cronaca l' unica sua opera che ho letto, ma in anni remotissimi) mi sembra da intendersi non letteralmente ma piuttosto come sinonimo di "razionalità", di "impiego di fondamenti critici razionali"; mi sembra che lui stesso effettivamente critichi filosoficamente e non scientificamente la conoscenza scientifica (in maniera da me solo in modesta parte condivisa, per la mera cronica).  Ma secondo me non é per niente Paradossale, ma invece corretta, l'identificazione kantiana della scientificità tout court [scientificità in senso stretto o forte, per l' appunto non quello delle cosiddette "scienze umane" ma invece delle scienze naturali] con le scienze naturali; e non essendo la sua critica gnoseologica condotta con i medesimi criteri della scienza stessa che ne sono oggetto, non finisce per il relegare la sua critica a dogmatismo" (il che non significa che personalmente la condivida, se non in parte.  Ma in che senso "ogni possibile epistemologia" sarebbe "dogmatica"? Forse (e allora sarei d' accordo) attribuendo al concetto di "epistemologia" il significato di "gnoseologia scientifica" anziché "filosofica", ovvero condotta con i criteri e gli strumenti conoscitivi stessi che sono propri di quel campo della conoscenza (includente, oltre al senso comune, la scienza) che si proporrebbe di criticare, assumendoli acriticamente?  In conclusione non mi é più ben chiaro in cosa concordiamo (certamente sulla necessità di una critica razionale non scientifica della conoscenza scientifica) e in cosa dissentiamo (probabilmente nella valutazione della gnoseologia kantiana come correttamente intesa o meno non in quanto scienza ma in quanto -fra l' altro- critica razionale della scienza; al di là dei concreti risultati conseguiti. E sulla limitabilità o meno della scientificità in senso stretto della conoscenza a quella dei fenomeni materiali).


ho l'impressione, ma potrei benissimo sbagliarmi, che la tua posizione, più o meno tra le righe, presupponga l'idea della non coincidenza tra "scienza" (operante su materiale appreso dai sensi e sulla base di una metodologia empirica) e "razionalità", che sarebbe ciò che caratterizzerebbe la critica filosofica atta a riflettere sulle condizioni di validità delle scienze, sui loro limiti, fondamenti ecc. O meglio, questa distinzione terminologia mi sembrerebbe l'unica soluzione per evitare che, una volta che si pone come unico materiale della scienza quello sensibile, la critica che studia concetti aventi un senso intelligibile come quelli riferiti alle strutture trascendentali della conoscenza, dovrebbe scadere nel dogmatismo. Basterebbe distinguere "razionalità" come procedimento teso a dedurre speculativamente da giudizi analitici a priori, riferito a enti intelligibili dell'epistemologia, così da intenderla anche se non scientifica, comunque razionale e dunque non dogmatica, dalla "scienza" come applicazione della razionalità alla natura fisica, identificandola col modello delle scienze naturali, il modello galileiano. Mi sembra chiaro che se invece scienza e razionalità si identificano, come nel concetto di "episteme" greca, cioè si intende "scienza", come qualunque discorso fondato su argomenti e principi di verità che ne fondino e legittimino la pretesa di rispecchiare la realtà, contrapponendola alla "doxa", all'opinione arbitraria e infondata, allora cadrebbe il veto ad allargare il campo della scienza, non solo alle scienze naturali, ma anche alla critica kantiana, applicata a un contenuto sovrasensibile, e dunque alla metafisica stessa, a prescindere dal fatto che un sapere di questo tipo non allarghi la conoscenza a nuovi fenomeni (essendo fondata sulla deduzione analitica e non sulla sintesi empirica). Ma in fondo, direi, una volta intesa la filosofia come sapere dei principi fondamentali, immutabili della realtà, il fatto che questo sapere non proceda progressivamente per acquisizioni, ma esplicitando dialetticamente delle implicazioni già logicamente conseguenti al significato apriori dei concetti, non sarebbe un difetto, ma qualcosa di coerente con il livello della realtà che le interessa, cioè non quello della molteplicità di enti di cui fare esperienza uno alla volta, ma quello di un sistema di verità necessariamente interconnesse fra loro, per cui partendo da una di queste si deducono tutte le altre in modo rigoroso e non contingente
#255
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
03 Aprile 2019, 23:57:27 PM
Sgiombo scrive:

"Di tutto questo intervento #178, che pur espresso in un linguaggio (fenomenologico?) che non sono sicuro di comprendere correttamente mi sembrerebbe almeno in gran parte condivisibile*, questa affermazione mi sembra sostenere che non colga la realtà effettiva della scienza (in senso stretto o forte: le "scienze naturali"), il materiale di ricerca e di conoscenza della quale é costituito proprio dai fenomeni "fisici dei sensi" e non da fantomatiche "intuizioni intellettuali" non empiricamente verificabili-falsificabili.

______________________
* Ma non la dimostrabilità o indubiltabilità di "un legame di corrispondenza e adeguazione tra le varie tipologie di modalità soggettive di esperienza e apprensione (noesi) e varie tipologie di oggetti (noemi)"; che io intendo (ma potrei clamorosamente sbagliarmi) come l' intersoggettività dei fenomeni materiali, la quale a mio parere é ipotizzabile razionalmente e credibile solo arbitrariamente, letteralmente "per fede"."




Il punto fondamentale, secondo me, è che la possibilità per una critica mirante, come quella di Kant, a individuare le condizioni fondamentali di una scienza, nonché, connesso a ciò, a delimitarne le possibilità di applicazione, presuppone, perché la critica sia a sua volta "scientifica", di utilizzare strumenti, tra cui il contenuto di conoscenze, che non siano gli stessi delle scienze che essa intende sottoporre a indagine. Il semplice motivo è la necessità di evitare un evidente circolo vizioso argomentativo per il quale si presume di poter continuare a utilizzare la stessa metodologia e contenuto, quelle delle scienze naturali, basate sulla verificazione empirica e sul contenuto fisico appreso dai sensi, per riconoscere i loro limiti e possibili, insomma per mettere in discussione le loro pretese conoscitive. Appare evidente come sia assurdo pensare che, restando nello stesso punto di vista delle scienze naturali, sia possibile riconoscerne i limiti alle loro pretese di validità, esse resterebbero la premessa dogmatica della loro stessa "critica", che in questo modo verrebbe impossibilitata a poterle trascendere, riconoscendo i loro limiti, e le condizioni trascendentali, cioè intelligibili, della loro validità. Cioè, ogni riconoscimento di un limite nei confronti di un ambito scientifico, presuppone che si riconosca "materialmente", cioè come contenuto, la presenza di un altro ambito che trascende il primo, che proprio in quanto lo trascende, lo limita, e che questa trascendenza sia indagabile a sua volta scientificamente, sulla base di una propria peculiare metodologia correlata a un peculiare contenuto. Ecco perché, non solo la critica kantiana, ma ogni epistemologia è una branca della filosofia, cioè esiste una "filosofia della scienza", ma non una "scienza della filosofia": l'epistemologo lavora sulla base di un punto di vista che non può essere lo stesso a cui restano interne le scienze che sottopone a critica, e per forza di cosa dovrà considerare il proprio punto di vista come "scientifico" in un senso diverso, e più fondamentale delle scienze messe in discussione, se, come Kant, ritenesse che l'unico materiale scientificamente indagabile fosse quello sensibile su cui lavorano le scienze naturali, come potrebbe SCIENTIFICAMENTE, mettere in discussione le pretese di validità di quelle scienze? Che bisogno ci sarebbe? Essendo le scienze naturali le uniche scienze possibili, non dovrebbero, né potrebbero, richiedere di essere valutate e fondate da una riflessione scientifica ulteriore rispetto ad esse, ma semmai solo da dogmi di tipo religioso. Paradossalmente, l'identificazione kantiana della scientificità tout court con le scienze naturali, finisce per il relegare la sua critica, come ogni possibile epistemologia, a dogmatismo