Menu principale
Menu

Mostra messaggi

Questa sezione ti permette di visualizzare tutti i messaggi inviati da questo utente. Nota: puoi vedere solo i messaggi inviati nelle aree dove hai l'accesso.

Mostra messaggi Menu

Messaggi - Phil

#2416
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
27 Maggio 2016, 19:47:50 PM
E se la Verità non fosse altro che il simulacro laico della Divinità, o slittando un po' la prospettiva, ciò che la metafisica ha posto come suo idolo e, nel caso di aletheia, definisce con una sorta di "teologia negativa"? Entrambe, Verità e Divinità sono postulate come uniche, trascendenti, assolute. etc.  e l'impervia ricerca di Verità non resta forse chiusa nel circolo vizioso, "sisifico", del "rincorro la mia ombra cercando di afferrarla"? L'aporia del non riuscire a (com)prenderla è causata da me, che ho scelto di provare a prendere ciò che ho posto io stesso come inafferrabile... talvolta si resta prigionieri della narrazione metaforica in cui la Verità viene personificata o intesa attivamente, per cui è Lei a ritrarsi, è Lei a velarsi, è Lei a darsi, etc. ma ciò pone per necessariamente ovvio che ci sia, la ritrosa e suadente damigella che per pudore si nasconde dietro il velo... ma per saperlo dovremmo averla già almeno avvistata (altrimenti è solo la proiezione di un desiderio), soprattutto se ci spingiamo fino a descriverne le intime caratteristiche e le languide movenze.
In fondo, ogni ricerca onesta presuppone anche la possibilità del suo fallimento, da intendere come ammissione della non esistenza del "cercato", mentre se si è dentro una tautologia, come per la Divinità o la Verità, il fallimento non è contemplato, oppure inteso solo come incapacità del cercatore (perché altrimenti verrebbe falsificato il presupposto dogmatico di partenza: "la Verità esiste, per certo; il problema è trovarla"). Direi che il '900 è stato proprio la presa di coscienza che forse si stava cercando solo qualcosa di sognato nell'epoca dei miti metafisici, la Verità, ma anche che il suo residuo fenomenologico, "il vero", mantiene comunque la sua utilità pragmatica come esisto possibile della corrispondenza fra la descrizione e il descritto (per cui l'anelata donzella si dimostra semplicemente una adaequatio rei intellectus, confinata nella semiologia più che nell'ontologia, e con tanto di iniziale minuscola...).
#2417
Non so se questa considerazione
Citazione di: HollyFabius il 25 Maggio 2016, 16:51:20 PMil dogmatismo non è indice di forza morale ed intellettuale, anzi direi che è una forma di debolezza e insicurezza
è riferita al mio messaggio che la precede
Citazione di: Phil il 23 Maggio 2016, 22:29:41 PMOltre al "credere forte" (dogmatico-fideistico), c'è anche un "credere debole" (opinabile-sperimentale).
probabilmente no, ma, a scanso di equivoci: quando parlavo di "debole" alludevo al "pensiero debole" postmoderno opposto al "pensiero forte" metafisico: per cui "forte" non è un pregio e "debole" non è un difetto, o quantomeno non sono intesi in senso morale o logico, ma solo "strutturale" (il rigido vs il fluido...).

Citazione di: Duc in altum! il 25 Maggio 2016, 20:07:08 PMNon esiste il confronto tra il dogmatico e un non dogmatico, [...] Esiste solo il dibattito tra persone con dogmi differenti, 
Non sarei così radicale; secondo me, l'atteggiamento non-dogmatico esiste e non è contraddittorio: è quello in cui l'individuo ha il lusso sconsolante e la libertà di poter dire "non lo so", oppure "forse è così", o anche "per adesso mi sembra che"... i dogmi, invece, in quanto risposte ritenute certe e definitive, non consentono il non-sapere, il dubbio o la provvisorietà (e quando le risposte non sono verificabili, sono legittimate dalla fede nei dogmi, che giustifica ogni inverificabilità... per cui l'ignoto autentico viene rimosso "per fede": l'imperscrutabilità del disegno divino, ad esempio, è comunque posto come risposta, non come domanda...). 
Per questo, quando un non-dogmatico dialoga con un dogmatico, il discorso è asimmetrico: il primo indaga e cerca di dimostrare una verità 
plausibile (ma sempre "aggiornabile" e confutabile), il secondo dichiara e mostra quella che ritiene la Verità (assoluta, chiusa ad ogni dubbio).

P.s. Secondo me, lo "scetticismo funzionale" è quello che viene usato come banco di prova delle presunte verità che si trovano, un momento critico per sondarne la veridicità, una sana diffidenza che predispone ad un'analisi intellettualmente onesta...
#2418
Mentre aspetto (volentieri), cerco di spiegarmi meglio: direi che il senso non è nella realtà ma nell'occhio che la guarda; scienza, arte e filosofia sono tre tipi di sguardo (ben differenti, ma talvolta conciliabili) che può essere rivolto a ciò che ci circonda. Non credo che ci sia una dominanza dell'arte, ovvero che filosofia e scienza siano arte, più di quanto l'arte non sia scienza e filosofia; dipende appunto dal tipo di prospettiva che si adotta. 
Soprattutto in ambito scientifico ci sono differenti sfumature di "senso": il senso di studiare un batterio o un vaccino, non è lo stesso senso di risolvere un enigma matematico; il primo caso ha un rapporto "forte" con il reale (e dunque determinate conseguenze "esperibili"), il secondo è quasi una sfida virtuosa all'interno di un linguaggio, quello matematico (ma con conseguenze molto meno "concretizzabili"; così come sono poco concretizzabili molte ipotesi della fisica teorica che presuppongono condizioni estreme, come la velocità della luce...).
Credo che il modo in cui (ci) interroghiamo per cercare un senso, condizioni anticipatamente il tipo di senso che potremmo trovare (la risposta è sempre pre-orientata dalla domanda); per fare un esempio, sicuramente goffo, ma, spero, chiaro: se usiamo lo "sguardo scientifico", un fiume è un insieme di elementi chimici e forme di vita, con una certa quantità d'acqua, che percorre un determinato percorso etc.; se usiamo lo "sguardo artistico", quel fiume può ispirare un dipinto o una poesia; se usiamo lo "sguardo filosofico", quel fiume può rimandarci per allusione a Eraclito, (l'essere vs il divenire etc.), o alla questione, per niente metaforica bensì etico-politica, della gestione delle risorse del pianeta etc. eppure sono sempre "costruzioni semantiche" che, non escludendosi a vicenda, noi (im)poniamo sul fiume, ma che non gli appartengono in quanto fiume (un maestro zen, interrogato sul "senso" del fiume, ci risponderebbe spingendoci in acqua...).

P.s. Alcuni pensatori "postfilosofici", come Rorty, hanno approssimato molto la filosofia alla letteratura, riducendola quasi ad una forma d'arte, ma personalmente non condivido l'accostamento, perché la filosofia ha ancora alcune valenze (dimensione epistemologica, sociologico-politica, religiosa, etc.) che hanno una portata differente rispetto alla dimensione artistico-culturale della letteratura...
#2419
Proporrei alcune precisazioni di logica:
Citazione di: Stefano Magrini Alunno il 24 Maggio 2016, 00:45:55 AMpoiché vi è sempre una e una sola ragione 
Non sempre, anzi... concediamo, per semplificare, che solitamente ce ne può essere una principale... 

Citazione di: Stefano Magrini Alunno il 24 Maggio 2016, 00:45:55 AMVisto dal verso temporale normale (io ho sete allora bevo) il principio è posto all'inizio di ogni cosa Visto dal verso opposto (se io bevo allora ho sete) il principio è posto alla fine di ogni cosa Quindi la fine è principio il quale è inizio, quindi fine è inizio 
"Allora" rischia di essere usato in modo pericolosamente ambivalente: l'"allora" come "quindi" (pertinente l'effetto, "allora bevo") e l'"allora" come "perché" (relativo alla causa "allora ho sete").
L'ordine cronologico non è sempre l'ordine logico: la causa resta una, l'effetto l'altro, a prescindere dal mero ordine della sintassi, i due elementi non si confondono: "bevo perché ho sete", ma non "ho sete perché bevo" (la causa è solo la sete, l'effetto solo il bere).

Citazione di: Stefano Magrini Alunno il 24 Maggio 2016, 00:45:55 AMse A causa B e B causa C, mantenendo lo stesso verso temporale, A è la causa e B e C sono i suoi effetti, quindi il principio è l'unica causa, tutto il resto è effetto 
Questa transitività non deve far dimenticare che B è causa diretta di C, mentre A è causa indiretta (se non ci fosse B, A non potrebbe portare, da solo, a C; per questo dicevo che la causa non è sempre "una e una sola"...).

Ecco che questa fallacia
Citazione di: Stefano Magrini Alunno il 24 Maggio 2016, 00:45:55 AMse A causa B e, come prima mostrato, B causa A 
porta a questo apparente paradosso

Citazione di: Stefano Magrini Alunno il 24 Maggio 2016, 00:45:55 AMallora i due eventi sono solo cause... tutto allora è causa 
basato sull'uso ambiguo della parola "allora" (anfibolia, in gergo) e sull'assunzione di alcuni presupposti falsi, come "l'ordine  del linguaggio è l'ordine logico" (post hoc ergo propter hoc) e "un effetto può essere causa della sua stessa causa" (petitio principii).

Spero di esserti stato utile...
#2420
Citazione di: Sariputra il 24 Maggio 2016, 15:00:23 PMNella concezione buddhista una soddisfazione temporanea è vista come insoddisfacente, in più viene addirittura equiparata a sofferenza in formazione
Se la soddisfazione temporanea non è soddisfazione di un desiderio pregresso (brama), ma è intesa come piacere consapevole del vissuto, serenità nell'atto presente (senza proiezioni o attaccamento), non credo venga sconsigliata dal buddismo, anzi, può essere indice di una retta attitudine (mi viene in mente il racconto dell'uomo che gusta la fragola appeso nel burrone sopra le tigri...).
#2421
Certamente, e sarà proprio la sua cornice concettuale a pre-impostare l'eventuale spiegazione (o, inversamente, ad andare in stallo); per questo cercavo di alludere a come la spiegazione non trovi il senso, ma lo "costruisca"; ovvero, il senso dello spiegato non pre-esiste alla spiegazione, perché la dimensione semantica (nell'accezione più vasta del termine) risiede nell'elaborazione razionale umana, non nella realtà. 
Ad esempio, tutta la problematizzazione del dualismo realtà corpuscolare vs ondulatoria, tutti i paradossi del "matematizzare la realtà" in genere, se non sbaglio, sono dovuti alla difficoltà nello spiegare qualcosa, non tanto all'oggetto da spiegare in sé (banalizzando: la luce non pone molti problemi "reali", almeno finché non decidiamo di riuscire a dare un senso alla sua natura-costituzione...).
Tuttavia, non credo che questa creazione di senso possa essere paragonata a quella dell'arte, proprio perché nella scienza il senso è tendenzialmente spiegazione, mentre in campo artistico è espressione, comunicazione ed esperienza estetica. 

P.s. Mi auguro di aver colto adeguatamente il senso della tua osservazione...
#2422
Citazione di: Duc in altum! il 23 Maggio 2016, 20:01:11 PMrisali a verificare quale fosse il "maestro" di queste persone e ti ritroverai o con un dio o con un io.
Esatto, ma se si tratta di un altro Io, va riconosciuto che, per il mio Io, lui/lei è un Altro; quindi, come accennavo, posso imparare da un Dio (se ci credo), dal mio Io (dai miei errori, ad esempio), ma anche da un Altro Io (senza sapere da chi abbia imparato e, quando lo apprezzo per lo spunto, non importa nemmeno...). La mia premura era proprio distinguere fra l'Io mio e gli Io degli altri, ed aggiungere al discorso quello che chiamavo il "terzo polo" ("triangolando" il dualismo Io/Dio), quello degli "altri Io" (che non comporta venerazione). 

Citazione di: Duc in altum! il 23 Maggio 2016, 20:01:11 PMdire io credo come opinione lascia il tempo che trova, giacché quell'opinione poi diviene azione, e l'azione è figlia di quel che credo sia la Verità, anche se assoluta fino a questo momento, per adesso
A volte è proprio una questione di tempo: non sono sicuro di cosa sia giusto fare, ma non ho più tempo per pensare, per cui faccio ciò che credo (opinabilmente) più giusto (o meno sbagliato, ma non Giusto in assoluto), non perché lo ritenga la Verità, o il Bene o null'altro di maiuscolo, ma solo perché, secondo me, potrebbe essere la scelta giusta, eppure nel compierla posso comunque avere i miei dubbi (insomma, a volte si sceglie l'opzione "meno peggio", sperando di non sbagliarsi, e anche se la si mette in atto, non la si ritiene inconfutabile...). Oltre al "credere forte" (dogmatico-fideistico), c'è anche un "credere debole" (opinabile-sperimentale).
#2423
Concordo; le mie perplessità erano principalmente linguistiche, soprattutto nell'uso della parola "trascendenza", molto (troppo, direi) impregnata di metafisica occidentale... il "trascendere la mente" potrebbe essere inteso da qualcuno come un gesto mistico (quasi alchemico) che ci solleva dal Reale; invece, credo che lo zen alluda piuttosto ad uno "scendere dalla mente", dalle sue discriminanti elucubrazioni, dai suoi falsi problemi sofistici, proprio per restare con i piedi (e la mente) per terra... già, la parola chiave credo sia quella che proponi: "intuizione", che intenderei come forma di "comprensione non-verbalizzata" (né verbalizzabile), e proprio per questo al riparo dai dualismi cognitivi che ci fanno salire sulla mongolfiera della speculazione (con tutte le aporie che ne conseguono...)

Citazione di: acquario69 il 23 Maggio 2016, 02:05:51 AManche queste sono descrizioni,ma e' inevitabile! cio che conta e' che ci porti comunque all'intuizione.
Diciamo che queste descrizioni non ci portano all'intuizione, ma descrivono dove dovrebbe portarci l'intuizione?  ;)
#2424
Citazione di: Duc in altum! il 22 Maggio 2016, 23:50:44 PMMa qui non si discute sulle indagini della doxa, ma su chi crediamo (o eleggiamo) che diriga il nostro personale apprendistato per amare il prossimo. Gli altri "Io" sono indispensabili per sperimentare se i dati e i suggerimenti dell'insegnante (l'Io o Dio) sono giusti o fallaci, ma non hanno nessun merito nel mio modo (o scelta) di amare il prossimo, giacché anch'essi a loro volta non possono scappare al dualismo, altro che sterile visto che è inevitabile, Dio/Io. 
Il "nostro personale apprendistato per amare il prossimo" (cit.) non ha come unici maestri possibili l'Io o Dio (almeno per me; magari per te, si) e gli altri non sono solo un'occasione di verifica del proprio agire (almeno per chi è disposto ad imparare anche dal prossimo...): alcune persone sono state riconosciute come buon esempio da molti che non condividevano la loro stessa religione...

Citazione di: Duc in altum! il 22 Maggio 2016, 23:50:44 PMLa comunità con cui interagisci non può essere colpevolizzata per le tue decisioni attitudinali ...sarebbe comodo eh?!?! Uno scambia idee, stimoli, ma poi la scelta è personale per quel che riguarda l'agire empatico verso gli altri.
Non ho mai parlato di colpevolizzare gli altri, anzi, ho ricordato come possano essere d'ispirazione, in positivo... la scelta dell'agire empatico verso gli altri non dovrebbe poi precludere la possibilità di imparare anche da loro (altrimenti si rischia di credersi superiori e di considerarli solo come strumento per poter ben figurare agli occhi del cielo, il che significa non amarli davvero... giusto?  ;) ) 

Citazione di: Duc in altum! il 22 Maggio 2016, 23:50:44 PMMi sembra non solo difficile ma contraddittorio che il modello Io possa trasformare lo stesso mio Io. 
Lo è solo se ti assumi come modello, ragionando staticamente... se invece ti consideri in modo mutevole, puoi (riflettendo ed ispirandoti a ciò che consideri buoni esempi concreti) cambiare e modificare te stesso, senza bisogno di "grazia ricevuta" (cit.); in molti l'hanno fatto, basta dirigere lo sguardo anche fuori dal proprio "gruppo"...

Citazione di: Duc in altum! il 22 Maggio 2016, 23:50:44 PMCerto che si apprende dagli altri: si può insegnare anche in silenzio, si chiama esempio; ma come ho già detto sopra, l'esempio del "mondo esterno " umano è anch'esso riducibile a Dio/Io. Quindi se si analizza bene, e non solo una buona prassi da boy-scout quotidiano, si scorge rapidamente qual è la fonte morale dell'individuo scelto quale prototipo di etica caritatevole autentica.
Non mi pare sia sempre così facile, e nemmeno rilevante: se vedo qualcuno che fa qualcosa che ritengo encomiabile, non ho bisogno di interrogarmi su chi/cosa lo abbia ispirato (e non è detto che lo si possa individuare così facilmente, salvo avere pregiudizi accecanti), ma posso decidere comunque di emularlo... 

Citazione di: Duc in altum! il 22 Maggio 2016, 23:50:44 PMChi non è contro di noi è per noi 
Dualismo assolutistico che, come sempre, non rende giustizia alle altre legittime e percorribili possibilità; tertium datur, e ormai non è più un segreto per nessuno (credo...).
Avendo apprezzato la buona fede con cui mi hai segnalato una citazione per spiegare la tua posizione, cerco di ricambiare, sperando di chiarire meglio la mia prospettiva:
"Se Dio tenesse chiusa nella sua destra tutta la verità e nella sua sinistra l'unico, sempre vivo impulso verso la verità, sebbene con l'aggiunta di errare per sempre in eterno e mi dicesse - Scegli! - io mi getterei umilmente verso la sua sinistra" (Lessing).
Per questo quando qualcuno usa l'espressione "io credo che" non nell'accezione di "la mia opinione è...", ma con il senso di "la Verità è...", concludo che non possa più cercare, perché ha già trovato, e se ciò che ha trovato non è ciò che cercavo, allora non può aiutarmi nella ricerca...

Citazione di: Duc in altum! il 22 Maggio 2016, 23:50:44 PM
CitazioneSi può non amare Dio (non credendoci) e al contempo non adorare l'Io
Certo, ma per questo si necessita non esistere ...purtroppo o grazie al divino noi ci siamo.
E così mi accorgo di non esistere... svanisco... puff!
#2425
Citazione di: Duc in altum! il 22 Maggio 2016, 19:28:10 PMNo, poiché sarebbe l'Io che insegnerebbe come amare gli altri, quindi, è questo il principio che rende non facoltativo il "credere per fede", staresti elevando l'Io al livello di Dio [...] qualcuno o qualcosa dovrebbe pur diventare il mio modello di come si amano gli altri, e siccome nessuno è perfetto, sarebbe logico pensare per fede che il mio Io è colui che sa amare davvero e che m'insegna ad amare il mio prossimo. Come vedi, se no si ama Dio si adora l'Io.
Ridurre il discorso al dualismo Dio/Io mi sembra troppo sterile, perché esclude un terzo polo indispensabile: gli altri Io. Non è corretto sostenere che un'attitudine in genere o deriva da Dio o è una mia creazione (fallibile), perché intorno a me c'è una comunità con cui interagisco, con cui scambio stimoli ed idee (altrimenti dovrei anche concludere, con un esempio sciocco, che o Dio è il mio esempio di pazienza o dovrei essere io stesso il mio esempio di pazienza... per cui se sono ateo e di natura impaziente, sono condannato ad esserlo a vita; il che non rende affatto giustizia alla apodittica capacità dell'Io di modificarsi fluidamente, anche senza modelli divini).
Passando al piano etico o esistenziale: se vedo qualcuno compiere un bel gesto posso esserne sinceramente ispirato e decidere di emularlo (la "buona prassi" non è stata impartita né da Dio né dall'Io, ma dal mondo esterno e l'Io, come può scegliere di orientarsi a Dio, può anche scegliere di apprendere dagli altri).
L'adorazione poi non mi sembra affatto inevitabile o costitutiva del pensare-agire umano, per qualcuno è un plus-valore, per altri un'attività non adeguata alla propria visione del mondo (conosco bene persone che non adorano nulla, tantomeno sé stessi...). Si può non amare Dio (non credendoci) e al contempo non adorare l'Io (e magari sforzarsi di imparare dagli altri), e soprattutto, si possono amare gli altri senza bisogno di influssi divini (se poi qualcuno crede che gli atei, in quanto tali, siano costitutivamente incapaci di amare il prossimo, ammetto di non essere in grado di portare avanti la conversazione  per eccessiva divergenza di presupposti).
#2426
Tematiche Filosofiche / Re:Sul disegno intelligente
22 Maggio 2016, 15:40:49 PM
Citazione di: Lou il 18 Maggio 2016, 22:26:58 PM
il caso come ragione che non riusciamo a comprendere, limite della umana comprensione
Si tratta di un caso interessante e credo che dal punto di vista scientifico, ma anche di vissuto quotidiano, il caso sia "l'insieme delle spiegazioni logiche che non riusciamo ancora a trovare" (in fondo, la stessa entropia è stata razionalizzata sotto forma di "indicatore").
Il caso è l'angolo buio della ragione indagatrice, lo scaffale caotico in cui vengono (momentaneamente?) archiviati tutti i casi irrisolti, è lo scacco del meccanicismo deterministico. Scacco matto? Resta ancora da vedere...
Forse inaspettatamente, è il linguaggio comune a poterci dare uno spunto importante: l'espressione "per caso" è affine a "per combinazione" (o "coincidenza"), ed infatti il caso è spesso una combinazione imperscrutabile, ma non per questo caotica o contingente. La stessa espressione "caso", al singolare, lascia pensare ad un evento singolo ed unico, estraneo ad una casistica, quindi ad ogni tendenza probabilistica, quindi ad ogni previsione. Ma è davvero così?
Alcuni esempi forse solleveranno qualche dubbio in merito.
Lancio una moneta, l'esito è "testa"; esito casuale? Se anagrammiamo "casuale" diventa (ironia linguistica) "causale", e questa è proprio la risposta che mi pare più plausibile: se applicassimo la sterza spinta sullo stesso punto della stessa moneta, con le stesse condizioni contestuali, uscirà necessariamente "testa" fino all'infinito; questione di fisica: combinando gli stessi fattori nella stessa situazione (etc.) tutti i risultati coincidono. Ma non essendo in grado di calcolare esattamente e in tempo reale tutte le variabili e le forze in gioco (la traiettoria, il punto d'atterraggio in rapporto alla rotazione della moneta, etc.), semplifichiamo il risultato etichettandolo come "casuale", dove "casuale" significa in realtà solo "non prevedibile" per mancanza di capacità di eseguire tutti i calcoli necessari (ma il rapporto causale fra gli elementi coinvolti nel lancio, non lascia affatto spazio al caso).
Ugualmente, se incontro al supermercato un vecchio amico, definisco quell'incontro "casuale" (e magari esclamo "che coincidenza/combinazione!" dicendo implicitamente più di quanto voglia effettivamente dire...). Eppure, la mia scelta di fare la spesa a quell'ora, in quel posto e di entrare in quel reparto in quel momento (etc.) se viene incrociata con la sua scelta di fare la spesa a quell'ora, in quel posto (etc.), rende la combinazione dell'incontro, la coincidenza dei due percorsi, inevitabile. Di certo non prevista e non voluta, ma fattualmente inaggirabile.
Ultimo esempio: mentre guido, arrivo in prossimità di un semaforo rosso, quando sto per frenare, scatta il verde e così continuo sulla mia strada pensando che si tratti di una coincidenza fortuita. Il lavavetri che frequenta quel semaforo, ha visto tutta la scena e, sapendo che il rosso dura 30 secondi e, avendo contato i secondi dall'ultimo verde, sapeva che non mi sarei dovuto fermare. Per lui non c'è niente di casuale o fortuito in ciò che invece a me è parso un evento imprevedibile.
Come possiamo allora definire il caso? Qualcosa che avviene senza che possa essere previsto/spiegato da chi fa parte dell'evento, qualcosa che eccede la conoscenza in generale, ma che potrebbe essere conosciuto/spiegato (magari in futuro), o qualcosa che non può essere spiegato perché è pura contingenza, eccezione delle leggi deterministiche, anomalia in Matrix, frutto del destino, capriccio del fato, etc,?
#2427
Cercando di richiamare tutti gli interessanti spunti che gli interventi hanno messo in tavola, propongo, seppur tardivamente, qualche osservazione.

Citazione di: paul11 il 05 Maggio 2016, 10:36:46 AMEsistono i concetti del noumeno, tutti lo sappiamo, ma scientificamente non sono fenomenologicamente osservabili, quantificabili gestibili in leggi fisiche attuali. Vale a dire sono tautologie, lo sappiamo perchè li viviamo ma non assiomatizzabili dentro una logica.
Credo che il noumeno possa essere inquadrato come un concetto-limite (e,come tutti i concetti, non può essere oggetto di esperimenti o verifiche scientifiche), un postulato che, in quanto tale, è necessario per fondare tutta la struttura teoretica a cui si riferisce e deve essere indimostrabile, indecidibile (v. Godel) altrimenti non sarebbe un assioma (così come in matematica, anzi, nelle matematiche, gli assiomi sono notoriamente le premesse indimostrabili da cui tutto consegue, basta cambiarne uno, e si ottiene con effetto domino un'altra matematica, come quelle non euclidee). Credo sia accostabile un po' al concetto di "infinito": è illogico, ma "funziona" e "serve", anche se è inverificabile, perché dall'esterno, delimita la matematica o altri ambiti che lo richiedono (alcune religioni ad esempio); parimenti il noumeno funge, in molte filosofie, da "ingiustificato" che giustifica la possibilità di conoscenza.

Citazione di: maral il 04 Maggio 2016, 19:43:28 PM
Dal mio punto di vista trovo che, pur esprimendo una concezione molto interessante, questa impostazione che fa dell'esperienza un assoluto, mostra una contraddizione evidente soprattutto nel modo occidentale di trattarla attraverso il linguaggio, il logos, che comunque resta ascritto al progetto del tutto cosciente e soggettivo di chi ne parla: ossia, anche se questa esperienza la si dichiara assoluta essa è trattata comunque come oggetto di un soggetto e dunque è del tutto relativa ad essi. 
[Postilla puntigliosa sull'espressione "pensiero orientale": è sempre un peccato considerarlo un unico calderone, perchè significa mortificarne l'eterogeneità (di fronte al sillogismo in 5 fasi di un logico Nyaya, un buddista sorriderebbe di cuore... perchè e come accomunarli?). Tuttavia, per amore di sintesi, concordo nell'usare l'impervia generalizzazione "occidente" e "oriente"]
Come accennavi, soprattutto la "scuola" zen allude ad un accantonamento (più che "superamento") del linguaggio, ad esempio con i koan (il cui significato autentico non è mai quello linguistico), indicando con le parole la loro medesima inadeguatezza. Il superamento della metafisica proposto dalla decostruzione (Derrida e altri), si scontra anch'esso con un linguaggio ormai in difficoltà (ne sono sintomi tutti i seri "giochi di parole" con cui si cerca di ricombinare il linguaggio), ma, a differenza dello zen, resta comunque in ambito puramente speculativo, ignorando il ruolo del corpo (che invece in oriente è stato sempre considerato degno compagno di viaggio dell'uomo, non mero involucro di un'anima eterna: scherzando, il corpo inteso "all'occidentale" fa stretching, il corpo inteso "all'orientale" è strumento di meditazione assieme alla mente). 
Proprio la corporeità non-trascendentale dell'esperienza non-linguistica (perchè se non erro il velo di Maya è retto dai sensi, ma anche dalle parole), proprio i vissuti individuano quello che in occidente viene chiamato soggetto e che, nel pensiero orientale, non si scioglie con lo spogliarsi delle strutture linguistiche o concettuali: ciò accade solo nelle prospettive più misticheggianti e "eremitiche", ma, ad esempio, un buddista distingue bene sé stesso come soggetto-oggetto del proprio lavoro di purificazione-illuminazione e l'Altro come "oggetto di compassione" (nell'accezione buddista). Nell'abbandono dell'egoismo (genitivo oggettivo) e nel riconoscersi "ingranaggio del cosmo", non viene destituita la responsabilità etica individuale e soggettiva del proprio agire (Nirvana e Samsara coincidono empiricamente, al netto delle credenze popolari, sono solo vissuti differentemente dal singolo "risvegliato" in quanto individuo; egli si adopera per risvegliarsi, è un'esperienza che fonda una "nuova" soggettività, magari blanda e trasparente, ma pur sempre individuale). Eloquente, secondo me, la celeberrima "parabola del bue" che (vado a memoria, quindi potrei sbagliarmi), nella decima e ultima scena, rappresenta il protagonista che ritorna al mercato, e quindi non si isola dalla comunità mondana, si relaziona ancora in quanto soggetto, seppur con consapevolezza differente (e in ciò risiede il versante più socialmente percorribile della prospettiva buddista, senza chiudersi nell'auto-referenzialità di un monastero).

Citazione di: maral il 06 Maggio 2016, 16:59:30 PMcerte pratiche orientali volte all'assoluto secondo un tecnicismo gestuale perfettamente immanente all'accadere (per citare alcuni esempi: l'arte del tiro con l'arco, del servire il tè, di tracciare ideogrammi, la tecnica della respirazione, tutti atti come non portano per nulla fuori dalla esperienza immanente in cerco di altro da essa: l'atto di scagliare la freccia o anche di respirare è l'assoluto). Come rientra il corpo in tutto questo? Il corpo non vi rientra come mio o tuo corpo, come corpo soggettuale, ma come mezzo privo di proprietà soggettiva per un'esperienza pura da cui inizia l'ontogenesi continua di un individuo che è solo un processo in atto. 
Secondo me non c'è necessariamente esclusione fra "corpo soggettuale" e "individuo come processo": il mio corpo e la mia (auto)coscienza di individuo sono inevitabilmente processuali, e questo processo può comprendere (in entrambi i sensi) esperienze di pura immanenza e (auto)consapevolezza come lo scoccare una freccia o il fare zazen (e in entrambi i casi non riscontro nulla di "assoluto", se non l'assoluta assenza di trascendenza...)

Citazione di: acquario69 il 05 Maggio 2016, 16:51:53 PMed e' a quello che puntano i maestri zen (e non ad un presenza immanente - l'etimologia di immanente vuol dire infatti rimanere dentro -) a quel "vuoto" senza forma,e trascendente,che comprende tutto ed e' Tutto[/font]
Forse non sono abbastanza forgiato nello zen, ma credo che gran parte dei mestri zen aborrino ogni forma di trascendenza, preferendo invece proprio la presenza immanente ("retta consapevolezza-concentrazione" dell'ottuplice sentiero), per questo rispondono con "bastonate didattiche" alle domande speculative dei loro allievi ed hanno incentrato le loro attività pratiche come "allenamenti all'immanenza" (compiere ogni azione con consapevolezza e compresenza al gesto). Spesso la lettura di termini. tanto cruciali quanto ambigui, viene deformata (in buona fede) dai nostri vocabolari concettuali: "vuoto", "assoluto", "negazione", "soggetto"... sono parole ricche di storia in occidente, storia che rischia di essere una precomprensione "viziata" quando importiamo questi concetti dall'oriente (rischiamo di riscrivere le "istruzioni per l'uso" di quelle espressioni basandoci sull'assonanza della traduzione; forse funzionerebbero meglio dei neologismi o usare le parole "originali", ma sarebbe poi più ostico l'approccio linguistico...).

P.s. Mi scuso in caso di eventuale off topic "orientaleggiante" e per la lunghezza biblica del messaggio...
#2428
Citazione di: Lou il 20 Maggio 2016, 19:45:10 PMEppure che la scienza spiegi i fatti presuppone una assunzione di senso.
Più che un'assunzione direi che viene presupposto un senso, operando in fondo una sua dissimulata creazione (ma non in senso artistico, perché con altri fini, altri metodi e altri impieghi), un'imposizione-impostazione del senso, dopo che è stata progettata una pre-struttura pronta ad accoglierlo (sia essa il linguaggio in generale o un paradigma epistemologico). Di fronte alla forza di gravità, un extra-terrestre (alterità estrema!) formulerebbe un'altra spiegazione, usando la sua matematica (o magari un'altra forma di spiegazione che non usa nemmeno linguaggi numerici), ma di fatto il fenomeno da spiegare sarebbe il medesimo, pur dando adito a "scienze" e, magari, "sensi" differenti. Scherzando, si potrebbe riconoscere che ogni scienza è "universale" solo per la sua comunità, ma non per il resto dell'universo (senza dover per forza scomodare i marziani...).

Citazione di: Lou il 20 Maggio 2016, 19:45:10 PMla modellizzazione e razionalizzazione del reale da parte della scienza é forma d'arte (un tantino demiurgica a dirla tutta - eresia :-\ 
Infatti, la spiegazione è sempre non-necessaria, come l'arte (se non per chi decide di intraprenderla, in entrambi i casi), accessorio ornamentale di ciò che si spiega, quasi un vezzo con cui la ragione arricchisce l'esperienza dei vissuti, eppure incarnazione inevitabile di quella costitutiva capricciosa curiosità che ha dato avvio al pensiero speculativo. Che la scienza sia "l'arte di spiegare il reale" è una definizione artistica di "scienza", ma c'è anche una definizione scientifica di "arte"? Affiora un'asimmetria, ulteriore sintomo della essenziale differenza...

Citazione di: Lou il 20 Maggio 2016, 19:45:10 PMla sostanza dell'arte é scienza dell'eccedente.
Dopo millenni, la scienza e l'arte si definirebbero rispettivamente in modo "escludente" (banalizzando: "ricerca di verità" vs "produzione del bello"), e questa loro auto-identificazione fa ancora eco alla loro intima divergenza, rendendo ogni intersezione delle due uno "scambio culturale", ma senza confusione dei rispettivi orizzonti (anche se una, l'arte, può di diritto usare il vocabolario dell'altra per metafore, come hai fatto simpaticamente tu, mentre l'altra, la scienza, è incentrata sul proprio vocabolario a cui non concede deroghe o virtuosismi).
#2429
Schivando la domanda, duplice, fondante ma abissale, su cosa si intenda per "arte" e "scienza", metterei a fuoco i due ambiti così: la scienza spiega fatti, mentre l'arte dispiega senso (ed entrambe impiegano una loro tecnica); la prima studia e conosce, la seconda rappresenta e comunica; l'una si adopera, l'altra è opera... o, semplificando, la differenza sta nello statuto della "falsificazione": per la scienza, significa una teoria-ipotesi smentita o un paradigma superato, mentre per l'arte si tratta di una riproduzione spuria dell'irriproducibile gesto originale (e qui il discorso arriva al bivio con il tema dell'avvento del digitale-virtuale come sublimazione-distillazione del  senso a discapito del medium che veicola il prodotto artistico; "prodotto", sia in senso poietico che in senso economico...).

Mi ricollego volentieri a questa distinzione:
Citazione di: maral il 15 Maggio 2016, 20:10:31 PM[...] direi più che altro che si tratta di una separazione che è venuta sempre più accentuandosi fino alla caricatura tra ricerca estetica e utilità tecnica, per cui l'arte è diventata puro ornamento e la scienza si è finalizzata al puro progetto tecnico funzionale. Per fortuna non sempre è così [...]

per considerare come anche il comun denominatore della utilità, rispecchi l'essenziale divergenza: l'utile della scienza è fattuale-applicativo (o teoricamente operativo, come per la fisica), l'utile dell'arte è edonistico-economico (arte che, se intesa visivamente, ma è bene ricordare che questa è solo una delle sue declinazioni, è sempre meno raffigurativa e sempre più "Rorschach": la sua essenza è ancora "il bello"? L'idea di "bello" è solo un abbellimento per quella di "arte"? L'arte si può emancipare dal "bello"?). Parimenti, la ricerca-sperimentazione scientifica ha finalità operative-gnoseologiche, mentre quella dell'arte è "ricerca" solo, squisitamente, in senso metaforico (e, eloquentemente, un ricercatore scientifico può essere sostiuito senza dover reimpostare il progetto di ricerca, mentre la ricerca estetica è ineludibilmente individuale e indelegabile).

Meriterebbero approfondimenti anche :
- la "nuova" forma di arte (o, almeno di arte postmoderna) delle performance, solitamente tipiche della musica, ma attualmente anche contaminate dalle arti visive (sottotitolo: "oltre l'installazione"; parodia: i "flash mob"), in cui l'arte si mostra accadendo, rifugiandosi dalla possibilità del falso e del furto nell'immanenza passeggera dell'evento (con le ben note conseguenze filosofico-commerciali)
- la "vecchia" forma di arte orientale di influenza taoista-buddista, in cui l'artista non è sempre il "genio ribelle" o il "visionario innovatore", ma spesso colui che segue una "via", parola su cui non basterebbe una tesi ad indagarne le poliedriche implicazioni (l'arte della calligrafia, l'arte dei giardini zen, etc...).


P.s. La tecnologia, in quanto "tecnica strumentale", credo sia su un altro piano, estremamente pertinente, rispetto ai due poli del dibattito: non la vedo "paggetto" della Scienza più di quanto non lo sia, soprattutto attualmente, delle Arti (il plurale è ormai d'obbligo...).