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Messaggi - Koba

#256
Tematiche Filosofiche / Re: Le radici della guerra
23 Giugno 2024, 12:04:11 PM
Le risorse utilizzate per difendere la leadership militare Usa nel mondo (e quindi la leadership del suo capitalismo) vengono dai suoi cittadini, non dai suoi capitalisti, i quali in un modo o nell'altro di tasse ne pagano sempre pochissime.
Il che significa che l'operaio del Michigan vede le sue tasse trasformarsi in armi, che servono però a difendere gli interessi economici dell'oligarchia al potere costituita da capitalisti, alti funzionari, lobbisti, etc., non a difendere i suoi di interessi, che molto più prosaicamente sono scuole, ospedali, manutenzione delle strade etc, cioè interessi di tutta la comunità (quindi generali), di tutti coloro che vivono nella comunità e che quindi hanno bisogno di strutture mediche, infrastrutture etc.
Naturalmente la propaganda dirà che tutte quelle risorse servono a proteggerlo, lui povero lavoratore minacciato dall'espansionismo del cattivo di turno.
Per esempio noi cittadini italiani assistiamo impotenti al dirottamento di miliardi di euro nelle spese militari, con una sanità intanto in disfacimento, e questo perché la grande minaccia sarebbe la Russia, che pur non riuscendo ad arrivare a Kiev in più di due anni di guerra, sarebbe però pronta a invadere l'Europa centrale e occidentale.
#257
Tematiche Filosofiche / Re: Le radici della guerra
23 Giugno 2024, 10:22:39 AM
È un'illusione pericolosa pensare che la guerra sia il risultato di contrapposizioni tra comunità.
Chiediamoci piuttosto: chi è che decide di iniziare una guerra? La comunità? È l'operaio del Michigan che ha scelto la guerra in Iraq? È il contadino russo che sentiva l'impellente desiderio di invadere l'Ucraina?
No, al giorno d'oggi sono le oligarchie al potere, in Occidente come in Oriente, a decidere, del tutto indipendentemente rispetto a quelli che sono gli interessi generali, anzi spesso in aperta e plateale contrapposizione rispetto agli interessi generali.
Inutile fare analisi antropologiche immaginandoci come se vivessimo in un villaggio di 5.000 anni fa. Non esiste alcuna "natura stabile" dell'essere umano, l'uomo crea istituzioni sociali e cultura e da esse viene modificato, in continuazione.

Una tesi recente, proposta per capire i conflitti che si stanno scatenando come quello tra Usa e Cina, ritenuto da molti come inevitabile (!), è quella che vede nella tendenza del capitalismo all'accentramento della ricchezza in una cerchia sempre più ristretta, che si è accentuata negli ultimi 30 anni, la causa dell'esasperazione delle contrapposizioni.
Così ad un capitalismo sulla difensiva (quello anglo-americano) sotto assedio rispetto a quello di Cina e degli altri paesi creditori, non rimane che sfoderare l'opzione militare.
Così come al capitalismo in ascesa di Cina e company interessa uno scontro per nuovi posizionamenti.
È la loro guerra, non la nostra.
Del resto noi cittadini occidentali abbiamo lasciato che venisse meno l'essenza delle nostre democrazie, non abbiamo mosso un dito, perché l'unica cosa che sembra interessarci sono i diritti civili (quelli politici trasformati in una ritualità opportunamente svuotata dalle oligarchie non ci  inducono allo sdegno: e la lezione della pandemia è proprio questa: accetto che ci siano buffoni al potere, o che ci siano 10 milioni di lavoratori in Italia che guadagno meno di 5 euro all'ora, ma se mi costringete a fare un vaccino cazzo io vi ammazzo tutti! Cioè la lezione della pandemia è la conferma definitiva di un individualismo radicate, totalizzante, addirittura inconscio, al fatto che la dimensione politica si è ridotta alla chiacchiera, alla pura retorica).
#258
Citazione di: iano il 20 Giugno 2024, 23:33:26 PMPiù che proporsi come meta il farsi a ripetizione domande che non sembrano avere una risposta, non possiamo smettere di farci a ripetizione domande cui attribuiamo un senso, finché continueremo ad assegnarglielo, pur senza trovare una risposta, anche quando disperassimo di trovarla, e lo faremo finché mancherà la dimostrazione che una risposta non c'è.
Nel caso in cui questa dimostrazione venisse però trovata allora potremo dire che non sia stato inutile continuare a porsi la domanda che non abbiamo potuto fare a meno di continuare a porci.

Non si tratta solo di farsi delle domande sul mondo, sul senso delle cose e via dicendo.
Cacciari inizia citando Husserl non a caso, ma per la sua visione rigorosa della filosofia (indipendentemente da quelli che sono stati poi i risultati storici della fenomenologia).
Perché i problemi sono concreti, e basta pensare all'etica per capirlo.
Ovvero la ricerca di un'opzione autorevole senza che questa autorevolezza sia legittimata dai due grandi miti: il sapere definitivo, completo, della scienza della natura; una dottrina dell'Essere, cioè una specifica dottrina metafisica.
Vediamo bene come appena si apre una discussione sull'etica la tendenza è quella ad appoggiarsi ai risultati oggettivi della scienza, oppure quella di richiamarsi alla tradizione cristiana, nelle sue diverse traduzioni filosofiche.
E lo vediamo tutti come entrambe queste tendenze alla fine non portano al risultato che ci si aspettava.

Dunque quello che si propone nella conferenza è capire bene che la singolarità di ogni cosa (inanimata o animata) non ha fondamento. La sua essenza non esiste. La sua natura è aporetica.
Questo lo si dimostra filosoficamente (come ripetuto più volte: la questione della definizione della cosa predicandone aspetti generali che non possono delineare, neanche nella loro sommatoria, la sua identità, che si perde così nella serie di qualità universali).
Ma questo lo si dimostra anche scientificamente, o meglio questo è il convincimento della scienza contemporanea con il passaggio da un paradigma meccanicistico ad uno probabilistico. È la fisica a rifiutare da tempo il mito neopositivista dell'esattezza e a capire che ogni stato è unico e irriducibile a uno schema esatto, anche se si fosse capaci di riversare in esso tutte le variabili in gioco.
La singolarità è cioè inestinguibile. Solo avvicinabile. Non per mancanza di conoscenza quindi, ed eventualmente raggiungibile in futuro, ma per sua stessa natura.

Il motore della filosofia è l'ignoranza. L'ignoranza non viene solo dalle nostre lacune, ma anche e soprattutto dal fatto che l'essente non avendo un fondamento non lo si può mai conoscere definitivamente, lo si può solo infinitamente interrogare.
La filosofia è amore del sapere. Di questo sapere. Che mosso dall'ignoranza, produce una tradizione. Che va quindi interrogata sul serio. Non banalizzata negli schemi metafisica-antimetafisica, teismo-ateismo, e via dicendo. Lasciamoci alle spalle queste ossessioni.
#259
Citazione di: Alberto Knox il 19 Giugno 2024, 23:29:24 PMpensare alla cosa in questi termini significa anche esporsi al dramma. Cosa intendo dire? cercherò di dirlo in poche parole.
Il contenuto che appare dal confronto con le posizioni altrui è molto semplice. è la contraddizione, è l'antinomia, è l'impossibilità di chiudere il cerchio di un sistema definito. E se c'è un pensatore a cui rivolgo il mio pensiero in questo momento non può che essere verso il padre dell antinomia, ovvero Immanuel Kant il quale nella dialettica trascendentale della critica della ragion pura inchioda la pura ragione alla logica antinomica! Sulle cose più importanti e decisive del mondo noi abbiamo tanto le ragioni della tesi quanto le ragioni dell'antitesi da convocare e se non lo facciamo produciamo  ideologia e non produciamo pensiero. Ecco il senso del dramma. Da qui , quello che io chiamo ottimismo drammatico, ovvero la possibilità di uscire dall'antinomia.

Sono d'accordo. Anche se la prospettiva di Kant mi sembra sia fortemente caratterizzata, rispetto alla nostra, dall'esigenza di voler stabilire un confine sicuro al sapere, il che significa che quello che rientra in esso, derivando dall'esperienza, ha la garanzia di poter essere conosciuto nella sua verità (come fenomeno, non come cosa in sé, ma tanto basta a dimostrarne l'oggettività, l'universalità).
Mentre ciò che sconfina, appunto le idee pure della ragione, quelle di anima, cosmo e Dio, non possono essere verificate, e quindi su di esse non può esserci ne dimostrazione ne confutazione, per cui le battaglie che si scatenano tra tesi e antitesi sono solo scontri ideologici, come giustamente dici tu.
La prospettiva in cui si pone Cacciari nel suo discorso (io non ho ancora letto il suo testo, quindi mi posso limitare alla sola lezione che green ha postato), mi sembra molto diversa.

Al centro del discorso la concezione dell'essente come aporumenon.
Ovvero l'essente, l'ente, l'oggetto insomma, la cui singolarità non può essere definitivamente chiusa e quindi posseduta.
Descrivere una cosa è assegnare ad essa determinati predicati (colore, peso, forma, etc.), cioè in sostanza, dire di essa qualcosa di altro rispetto a ciò che è.
E allora la sua identità dove finisce?
Mi piace che a un certo punto Cacciari dica: l'ambizione del libro è dimostrare l'infondatezza di quei paradigmi filosofici che risolvendo il problema della conoscibilità dell'essente dichiarano il compimento della filosofia, cioè la sua fine, l'esaurimento del suo compito storico.

Facile l'attacco al neopositivismo.
Più interessante la critica ad Heidegger: cioè all'idea della metafisica che nella sua storia lavora all'individuazione di un fondamento dell'essente per poi consegnarlo alla scienza, la quale nel suo aspetto di tecnica può dominarlo. Da qui la tesi che la filosofia occupandosi dell'ente, poi consegnato alla manipolazione dell'apparato tecnico-scientifico, si è dimenticato dell'essere, che va recuperato andando però oltre la filosofia, con quel pensiero che non è ne filosofia ne poesia.

Ma un fondamento non c'è. Non c'è la possibilità di definire, circoscrivere compiutamente l'essente.
La singolarità dell'essente, che è la cosa più concreta, più certa, di cui perciò non possiamo dubitare, non si lascia però esaurire. Ama nascondersi. Per questo va interrogata, indagata. Non posseduta, non manipolata. O meglio, la tecnica fa quel che deve fare, la scienza compie le sue indagini, ma tutto questo non significa che si possa pensare che la sua conoscenza sia compiuta una volta per tutte.
Ed è interessante l'applicazione di queste idee a quell'essente che noi siamo, all'esserci, detto in termini heideggeriani.
Così come l'essente-oggetto esprime la sua inesauribile singolarità e non può essere posseduto, l'essente che siamo, l'esserci, si esprime nelle infinite possibilità esistenziali.
Dunque, per logica, per la natura stessa dell'essente, e quindi per la natura stessa dell'esserci, si esclude che queste possibilità si debbano necessariamente infrangere contro l'impossibile. Cioè con la morte.
Perché dovrebbe finire tutto così? Sarebbe illogico: infinite possibilità che si chiudono contro una barriera. Quindi le infinite possibilità che hanno come esito la necessità. Ma allora non ci sono infinite possibilità ma solo la necessità.
(Sembra un discorso un po' stiracchiato, andrebbe letto il testo per capire meglio).

E mi piace anche l'idea espressa con la citazione di Husserl: "La rinascita dell'Europa può venire soltanto dallo spirito della filosofia".
E lo spirito della filosofia è questo intrattenersi nella domanda. Tornare a pensare alla filosofia come un sapere "inutile ma necessario" il cui compito è interrogare senza pace l'essente.
#260
Lezione molto interessante, quella di Cacciari.
Condivido completamente la critica a quelle posizioni filosofiche (neopositivismo da una parte, ermeneutica e genealogia dall'altra) che da versanti opposti hanno sancito la fine della filosofia. Perché tali posizioni vanno rigettate? Semplicemente perché sono fondate su un errore, o peggio ignorano il loro fondamento. Quale fondamento? Che l'oggetto singolo, l'essente, si possa conoscere completamente nella scienza (neopositivismo) o non si possa conoscere mai per cui ciò che rimane da fare è cultura, descrizioni colte dell'oggetto.
Ma l'oggetto singolo, la cui singolarità è vero non può mai essere colta perché nel momento in cui cerchiamo di descriverla non facciamo che assegnarle predicati generali, così che la sua descrizione finisce per essere composta da altro, non da ciò che è lei stessa, (tema ampiamente trattato da Hegel nella prima parte della Fenomenologia dello spirito), l'oggetto singolo, dicevo, non per questo non continua ad interpellarci e il problema del fondamento delle nostre descrizioni (quale sia l'opinione più autorevole intorno all'oggetto) rimane.
L'intuizione di green demetr: il fondamento è il pensiero. Esatto!
Ovvero, l'ethos del filosofo è il trattenersi nella domanda non per giocare a costruire cultura, ma per sviscerare la cosa (che implica anche sviscerare le relazioni della cosa con il tutto: la lezione del Sofista), pur non potendo arrivare a nulla di definitivo.
In altri termini: la versione più autorevole della conoscenza della cosa non si da a partire da un'ontologia eterna (che sia posta da una metafisica o dalla scienza), ma da una continua interrogazione intorno ad essa, la quale è motivata dall'amore per la sua inesauribile ricchezza, non dalla volontà di dominarla.
#261
Allora, come da programma ricominciamo da capo...
Buona fortuna a tutti!


Introduzione.

Siccome la Fds è la descrizione del cammino dell'uomo verso il sapere, Hegel nelle prime righe dell'Introduzione si domanda se sia necessaria un'indagine "preliminare sul conoscere". Se ci sia un metodo preferibile attraverso cui poter arrivare a impossessarsi dell'assoluto (per assoluto Hegel qui intende una conoscenza svincolata da condizioni relative).
Se il conoscere è inteso come uno strumento, allora i suoi meccanismi finiranno inevitabilmente per alterare l'oggetto della conoscenza, quindi non avremo la cosa per quella che è, ma la cosa per come risulta dalle trasformazioni dello strumento.
Se invece il conoscere è inteso come un medium passivo, anche in questo caso l'oggetto, seppure non sottoposto all'azione di una nostra attività come nel caso esposto sopra, viene comunque modificato dal passaggio attraverso il medium.
E non servirebbe a niente pensare di prendere questo sapere "modificato" e provare a purificarlo sottraendone quello che i meccanismi del conoscere hanno aggiunto. Perché? Perché ci ritroveremmo con la cosa prima che fosse sottoposta ai nostri meccanismi della conoscenza, quindi completamente ignota, dal momento che tali meccanismi, in questo scenario, sono i mezzi attraverso cui possiamo accedere alla cosa.

A questo punto Hegel si chiede se queste perplessità sulla conoscenza siano realmente fondate.
Alla base di queste perplessità c'è un'idea che andrebbe analizzata attentamente: la conoscenza così come presentata sopra (in cui si può riconoscere Kant e il realismo), presuppone che la cosa per come è effettivamente se ne stia da una parte e il conoscere dall'altra, con il bizzarro risultato che il sapere sia quindi separato dalla verità (la verità intesa qui come l'oggetto in sé, assoluto, cioè svincolato da condizioni relative, accidentali).

Ci si potrebbe limitare a rigettare queste perplessità, essendo esse generate da modi di intendere la conoscenza niente affatto privi di problematicità (come è stato accennato sopra).
Ma la scienza, dice Hegel, deve comunque garantire la propria solidità.
Per farlo Hegel sceglie di "intraprendere la presentazione del sapere nel suo apparire fenomenico" [8].
Cioè "il cammino della coscienza naturale che preme verso il vero sapere" [9].

E siccome all'inizio la coscienza è convinta di avere a disposizione il mondo e di poterlo conoscere come se si trattasse di un processo del tutto spontaneo, rendendosi conto gradualmente che così non è, "questo cammino ha per lei un significato negativo", essenzialmente negativo.
"Questo itinerario pertanto può essere visto come la via del dubbio [...] e della disperazione" [9].

Seppure ironicamente Hegel sembra voler descrivere questo cammino, scandito dalle diverse stazioni, come una via crucis, nello stesso tempo sottolinea che dobbiamo anche guardare al fatto che ogni negazione determinata apre la strada ad una nuova forma, quindi ad avanzare e a procedere per completare infine la serie completa delle figure [12].

Stabilito il tema, Hegel aggiunge: "può essere utile ancora ricordare qualcosa sul metodo dello svolgimento" [13].
Un'analisi del rapporto della coscienza con l'emergere del sapere non sembrerebbe possibile senza un criterio che faccia da riferimento e fondamento per stabilire appunto la vicinanza o lontananza del sapere dal suo oggetto. O, in altre parole, se il sapere che la coscienza ritiene di possedere sia effettivamente espressione dell'essenza dell'oggetto, oppure no. Se quel sapere ci stia effettivamente fornendo l'oggetto in sé, e non piuttosto una sua versione relativa.

La coscienza si rapporta con le cose del mondo. Spontaneamente distingue se stessa da ciò che è per lei, la cosa con cui si relaziona.
"Il lato dell'essere di qualcosa per una coscienza è il sapere" [14].
Tuttavia noi distinguiamo l'essere in sé dall'essere per noi. In pratica nel sapere che abbiamo della cosa, distinguiamo la parte indipendente rispetto a quella attinente alla relazione che si stabilisce con la nostra coscienza. Questa parte indipendente, assoluta, in sé, del sapere della cosa, dice Hegel, "si chiama verità".
Ma quando noi poniamo come oggetto della nostra indagine non una cosa del mondo ma il sapere stesso, quando ci domandiamo la verità del sapere, cioè la sua oggettività, l'in sé di esso risulta essere, proprio per sua natura, il suo essere per noi. Perché il sapere in generale è tutto interno alla coscienza. Non può esserci così un criterio terzo affinché si possa stabilire il confronto tra concetto e oggetto.

Non sono sicuro di avere capito... Sembra che Hegel voglia dire: il tipo di svolgimento che abbiamo deciso di condurre nella Fds, ovvero l'emergere del sapere nella coscienza così come esso appare, ci libera dal problema di trovare un fondamento che faccia da criterio per stabilire l'attendibilità delle nostre rappresentazioni.
Ciò su cui si rivolgerà la nostra attenzione è la coscienza "che è da una parte coscienza dell'oggetto, dall'altra coscienza del proprio sapere". Dunque il confronto avviene dentro se stessa.
Del resto "sembra che la coscienza non possa, per così dire, passare dietro all'oggetto e scoprire come esso è non per lei, ma in sé" [17].

Alla coscienza è già da subito presente la distinzione tra l'in sé di un oggetto e il sapere che la coscienza ha di esso.
Su questa distinzione si basa l'esame del sapere.
Quando la coscienza scopre dall'esame che ciò che credeva essere l'in sé dell'oggetto non è tale, cioè quando scopre che il sapere che aveva di quell'oggetto non è veritiero, non corrisponde all'oggetto, ciò che viene modificato non è soltanto il proprio sapere, risultato appunto inadeguato, ma anche l'oggetto, risultato essere un altro.

"Questo movimento dialettico che la coscienza esercita in se stessa, nel suo sapere così come nel suo oggetto, in quanto di qui essa vede scaturire il nuovo oggetto vero, è propriamente ciò che viene chiamato esperienza" [18].

Credo che il significato di tutto questo ragionamento sia il seguente: la coscienza conosce un oggetto, l'in sé dell'oggetto. Ma questo "in sé", questa assolutezza, oggettività, è anche per la coscienza, cioè viene dal relazionarsi con la coscienza.
La coscienza si ritrova così due oggetti: "l'uno dei quali è il primo in sé, il secondo l'essere per lei di questo in sé".
"Quest'ultimo sembra essere, inizialmente, soltanto la riflessione della coscienza entro se stessa: una rappresentazione non di un oggetto, bensì solamente del sapere che essa ha di quel primo oggetto. Tuttavia, come si è mostrato in precedenza, a questo punto, quel primo oggetto le [19] si muta; cessa di essere l'in sé, e ai suoi occhi diviene un oggetto tale da essere l'in sé soltanto per lei. Così quest'ultimo, l'essere per lei di questo in sé, è dunque il vero; ma ciò significa che questo è l'essenza, ossia il suo oggetto. Questo nuovo oggetto contiene la nullità del primo, ed è l'esperienza fatta su di esso".

E continua: "quel che dapprima appariva come l'oggetto si abbassa, agli occhi della coscienza, a un sapere di esso, e l'in sé diviene un essere per la coscienza dell'in sé; questo costituisce il nuovo oggetto, con cui fa il suo ingresso anche una nuova figura della coscienza, per la quale l'essenza è qualcos'altro da ciò che era per la figura precedente. È questa circostanza a guidare l'intera sequenza delle figure della coscienza nella sua necessità. Soltanto questa necessità, ossia il sorgere del nuovo oggetto che si offre alla coscienza senza che essa sappia come ciò le accada, è quanto per noi avviene per così dire "alle spalle" della coscienza" [20].

Nota mia: perché Hegel si dilunga così tanto su queste cose? Io credo che fosse importante nell'Introduzione chiarire due cose:
1) come va inteso il dubbio, lo scetticismo (in generale, non la figura specifica del IV capitolo), nel corso di tutto il cammino;
2) e che cosa tiene in piedi il processo; perché il dubbio non dissolve il cammino, perché avviene un movimento ascendente.
#262
Citazione di: green demetr il 14 Giugno 2024, 10:39:02 AMHegel ci porta testimonianza della sua battaglia personale con la fenomenologia, è partito da quella della percezione, per passare a quella nominalista, ed è giunto alla fine del primo capitolo con un affermazione decisiva: NON SI PUO' vivere!

Al massimo si può tentare di vivere! Ma non si vive MAI realmente.
E' il problema della temporalità mai vissuta.
Noi non siamo MAI qui ed ora.

Noi non tocchiamo MAI la vita.
La vita che c'è in noi è totalmente ALTRO da quella che c'è la fuori.


Ah, adesso ho capito cosa intendevi.
Sì certo, si può concludere come fai tu "non ci può essere vera vita", a patto di ritenere che il proprio convincimento secondo cui la vita è immediatezza non è un'illusione superabile ma una verità esistenziale inattaccabile.
Hegel mostra nei primi due capitoli che la coscienza parte dal convincimento che la realtà le è data e che a lei spetta soltanto il compito di coglierla, per quella che è.
E certamente questa posizione ha una connotazione sia gnoseologica che esistenziale (sì, io forse l'ho letta soprattutto nella sua connotazione gnoseologica e ne ho trascurato la drammaticità esistenziale).
Ma subito si evidenzia che tale approccio è ingenuo, e i vari fallimenti che si succedono portano la coscienza a riflettere sulla propria attività.
La coscienza arriva a capire che l'idea che si possa attingere alla vita passivamente, cioè porsi di fronte al mondo e accoglierlo (sia dal punto di vista conoscitivo che esistenziale), è un'idea che va abbandonata perché le cose sono sempre mediate, mai immediate.
Ci si pone di fronte all'oggetto singolo e lo si vuole accogliere, conoscere, abbracciare, e invece ci si ritrova con un universale. Questo incontro si è in realtà ridotto all'assegnazione alla cosa singola che si ha di fronte di un predicato generale.
La conoscenza della cosa è quindi un riconoscerla come "albero", "casa", etc.

Ma se volessimo tenerci stretta questa idea della vita come immediatezza cosa accadrebbe nell'interazione con un altro soggetto?
Che ci sarebbe vera vita solo quando il proprio desiderio fosse perfettamente ricambiato dall'altro, quindi praticamente mai (se non nello stato "alterato" dell'innamoramento).
In tutti gli altri casi ci si troverebbe nella condizione di negare l'altro o di usarlo come un oggetto del mondo.
Invece l'interazione con l'altro è molto più complessa.
L'incontro con l'altro, in quella specie di condizione fuori dal tempo che è la figura del servo e del signore (come dici giustamente tu contro le interpretazioni storicistiche), fa nascere un nuovo desiderio, quello che il proprio punto di vista sul mondo venga riconosciuto come autorevole.
E dal momento che in questa fase manca ancora un piano su cui si possa stabilire un criterio di oggettività, dei riferimenti condivisi, i due soggetti sono costretti a lottare.
Alla fine chi si tira indietro per paura della morte accetta di fare proprio il punto di vista dell'altro: nella dedizione del suo servizio è come se dichiarasse: hai ragione tu, il tuo punto di vista sul mondo è vero, è superiore.
Ma d'altro canto al servo non sfugge che questo atto iniziale di fondazione della differenza con il signore non ha alcuna consistenza ontologica ma è un evento del tutto contingente.
Per un attimo ha avuto paura di morire: tutto qua.
E questo consente di proseguire il processo verso uno spazio sociale che offra criteri di verità più solidi della pura violenza.
(In parte, in quello che ho scritto, ho accolto l'interpretazione di Pinkard, ma su questo ne discuteremo più avanti quando avrò finito il suo testo).

Tu invece nel descrivere il rapporto servo-signore come il rapporto tra il soggetto e il suo doppio sembri voler dare un taglio psicoanalitico o comunque puramente interiore a questa dialettica.
Dovresti chiarire questo passaggio. In che senso si deve intendere "il suo doppio"?
#263
E che cosa dimostrerebbe questo link sulla transessualita' nella Repubblica di Weimar?
#264
La questione della continuità naturale maschio-femmina si intreccia però oggi con un fattore prettamente sociale e culturale che è quello della percezione del proprio corpo come di qualcosa da poter modificare per esprimere se stessi.
Il che conduce anche ad assecondare potenti fantasie con trasformazioni fisiche ed estetiche radicali.
La psichiatria è ineluttabilmente (per fortuna) soggetta alla cultura del proprio tempo.
Trent'anni fa non avrebbe consentito buona parte delle transizioni di genere di oggi. Questo è un fatto. E non per ignoranza della natura della continuità maschio-femmina.
Quindi la domanda, prima di tutte le chiacchiere ideologiche, è se sia realmente possibile distinguere queste due cose: un istintivo senso di appartenenza al genere opposto da potenti fantasie che per quanto dominanti rimangono tali e al limite sconfinano nell'ambito delle ossessioni e delle psicosi.
#265
Tematiche Filosofiche / Re: Cosmo e Caos
08 Giugno 2024, 11:31:40 AM
Citazione di: bobmax il 08 Giugno 2024, 10:45:23 AMIl libero arbitrio individuale richiede che l'individuo, quell'individuo lì specifico, oggettivo, distinto da tutto il resto del mondo, sia: una origine incondizionata di eventi.
Ma la Necessità nega che vi possa essere qualcosa che sia davvero incondizionato.
Quindi la Necessità nega il libero arbitrio individuale.
Tuttavia, anche supponendo che la Necessità non sia onnipresente, che cioè la legge di causa-effetto possa essere infranta, ciò può avvenire soltanto ammettendo la realtà del Caso.
Giacchè ciò che avviene può avvenire soltanto o per Necessità o per Caso.
Ma il Caso, una volta reale, cosa implica?
Non nega forse anch'esso che possa esistere una origine incondizionata di eventi?
Infatti il Caso ammette l'incondizionatezza, ma nega che vi possa essere una origine!
La Necessità non permette l'incondizionato, il Caso annulla l'origine.
In nessun modo il libero arbitrio individuale è possibile.
Vorrei sottolineare: individuale...
Secondo me nel tuo ragionamento c'è un errore.
Tu dici: se la causalità è infranta allora entriamo nell'ambito del caos (della casualità), dopodiché mostri che le conseguenze di esso implicano la stessa conseguenza del dominio della necessità, ovvero l'impossibilità del libero arbitrio.

Noi però non abbiamo altro modo di comprendere la realtà che attraverso la causalità. Per cui se dovessimo trovarci di fronte ad una eccezione, allora tutta la nostra capacità di conoscere il mondo sarebbe confutata. Cioè avremmo per così dire la prova che conoscere per noi può significare solo tentare di interpretare la natura.
Cioè, mettere in crisi il nesso di causalità non ci condurrebbe a soppesare l'altro versante, quello del caso, quindi valutando le conseguenze filosofiche dell'esistenza reale di un fenomeno senza un perché, ma saremmo condotti invece a riflettere sui limiti delle nostre capacità conoscitive, e anche sulla consistenza ontologica dei concetti di causalità e di caso.

Non so se sono riuscito a spiegarmi...
Il tuo ragionamento è: se A (causalità) non è sempre vero, e quindi B (il caso) si manifesta, allora vediamo cosa ne consegue da B. E ciò che ne consegue è ancora la negazione di C (il libero arbitrio).
Ma se A non è sempre vero, allora la nostra stessa capacità di conoscere il mondo per quello che è viene meno, quindi non ha senso valutare B.
Piuttosto la conseguenza del fatto che A non è sempre vero è la dimostrazione che la nostra conoscenza non sa se le sue asserzioni hanno valenza ontologica: riducendo di necessità il sapere a qualcosa di strumentale.
#266
Tematiche Filosofiche / Re: Cosmo e Caos
08 Giugno 2024, 08:14:06 AM
Due cose ci appaiono come evidenti:
1) essere liberi;
2) poter conoscere il mondo per come realmente è.

Domanda: perché la natura ci avrebbe dovuto ingannare sulla prima evidenza e non sulla seconda?
Entrambe queste due evidenze se sottoposte ad attenta analisi mostrano di essere problematiche.
E l'una esclude l'altra.
Il determinismo che si basa su uno specifico paradigma epistemologico (a sua volta problematico e discutibile), esprime la fede che le cose accadono realmente come sembra, cioè che tutto è soggetto alla causalità, nega che vi possa esserci un'azione arbitraria, svincolata dalla catena di cause ed effetti.
Nega l'evidenza della libertà, che definisce solo un'illusione.
D'altra parte lo scetticismo non ha difficoltà a ben argomentare contro l'evidenza della reale conoscibilità del mondo.
Salvando quindi l'esperienza della libertà.
È un gioco...
La filosofia come conflitto di visioni del mondo è un gioco inconsapevolmente disonesto. Si rimuove un pezzo per affermare il resto, e viceversa. E a volte quello che resta è un mondo semplificato, povero.
#267
@green demetr

Stavo leggendo l'inizio dello studio di Terry Pinkard sulla Fenomenologia, e devo dire che la sua interpretazione mi sembra un bel po' spinta... Cioè inizialmente penso "quanta arbitrarietà!", poi però riflettendo sul fatto che un americano è certamente più libero dalla tradizione storiografica europea, mi viene da pensare che alcune certezze interpretative non siano tali, che siano diventate tali solo per via della ripetizione di esse nelle monografie ritenute più autorevoli. Ne consegue la domanda: e se non avessi capito niente?

Così ho deciso di ricominciare da capo la lettura della Fenomenologia.

Sono andato a vedere il tuo primo topic. Intorno al post numero 90, o giù di lì, stavi facendo un gran bel lavoro, un lavoro certosino di lettura del testo, che però è finito nel calderone delle polemiche off topic, come sempre, purtroppo.

Quello è secondo me il modo di fare filosofia. Analisi attenta al testo. Apertura mentale ad ogni possibilità cui la lettura conduce, anche imprevedibilmente, anche contro i propri giudizi o pregiudizi iniziali. Liberi e puri, diciamo così, da dispute culturali inutili. Utilizzo di testi come aiuto, ma senza alcuna dipendenza. Essere un outsider, non avere alcun rapporto con correnti o maestri, è finalmente un vantaggio!

Quindi, se ti interessa riprendere fin dall'Introduzione la Fenomenologia (saltiamo la Prefazione, ovviamente), io ci sto.
Secondo tempi diluiti dalle incombenze quotidiane, rispettando l'alternanza, senza fretta.

Ciao.
#268
Citazione di: green demetr il 28 Maggio 2024, 22:16:52 PMIo non banalizzerei il fatto che ognuno di noi legge un Hegel diverso.

[...] intanto partendo da una cultura scientifico umanistica, come quella del liceo, che capisco non tutti hanno.

Questa sinceramente te la potevi anche risparmiare.


Citazione di: green demetr il 28 Maggio 2024, 22:16:52 PMLa prima parte della FDS contiene già una conclusione: l'uomo non può vivere.(cap 1 e 2)

Non so su quali basi si possa arrivare ad una conclusione del genere.
La descrizione di come la coscienza si rapporta al sapere e di come prende consapevolezza del fatto che ciò che gli appariva come un sapere "robusto", dopo attenta analisi, si mostra solo apparente, questo processo è sì definito nell'Introduzione come l'itinerario del dubbio e della disperazione, ma si tratta pur sempre di una negatività che non porta allo scacco, quanto piuttosto ad alimentare il processo stesso verso il vero sapere.

Citazione di: green demetr il 28 Maggio 2024, 22:16:52 PMLa pretesa conoscenza del tutto oggi è ampiamente screditata dalla fisica quantistica, e dall'emersionismo (di cui la patafisica del mio maestro ne è come una appendice intellettuale).
La metafisica di hegel non è una patafisica.

Infine sul fatto che il paradigma newtoniano avrebbe influenzato negativamente la visione hegeliana: a Hegel non interessa la natura, interessa la storia, il processo della civiltà. Quando si riferisce a "totalità" si riferisce innanzitutto alla questione della separazione artificiosa (secondo lui) di soggetto e oggetto; in fondo noi abbiamo sempre conoscenza di qualcosa, e pensare alla conoscenza come qualcosa di separato dal suo oggetto, questa ipostatizzazione della conoscenza, conduce a separazioni false (sempre secondo il suo idealismo) come rappresentazione-oggetto etc.
Dopodiché, a livelli superiori, al livello di ragione e poi di spirito, si ripropone un movimento analogo che si può descrivere come un processo di superamento delle fratture, di riconciliazione, che però è sempre attinente al mondo degli uomini, non si tratta di un discorso metafisico e cosmologico tipo Spinoza o Leibniz.

Ps.: è il caso di fare filosofia con YouTube?

#269
Citazione di: Ipazia il 28 Maggio 2024, 07:08:59 AMIl "per noi" implica la natura sociale di episteme, ethos e polis, e supera l'aporia noumenica del per/in sé da Aristotele a Kant.

Sì, appunto, la posizione specifica dell'idealismo. 
#270
Citazione di: green demetr il 28 Maggio 2024, 01:06:55 AMProvo a riflettere sul tuo percorso di lettura, che a questo punto è chiaramente l'opposto del mio.

Se tu stai cercando questa totalità, mi pare corretto che indichi nel noi, l'io che pensa quel noi.

Ma se fosse così l'intera filosofia di Hegel sarebbe fuffa, e non dubito che la stragrande maggioranza dei cultural studies si fermi su queste sciocchezze.


Il mio percorso di lettura è semplicemente un tentativo di comprendere il testo di Hegel.
Senza distorsioni o divagazioni: molto banalmente, cercare di capire qual'è il senso della Fenomenologia.
Ci sono degli elementi teorici imprescindibili, oggettivi, che sono addirittura caratterizzanti di una filosofia, come appunto in Hegel la spinta alla riconciliazione tra soggetto e mondo.
Dico "spinta" perché se è vero che tutti i pensatori di quella stagione partivano dal modello della Grecia classica, quindi della polis come comunità vera, poi tale spinta doveva, attraverso il lavoro della filosofia, trasformarsi in ragioni convincenti.
Insomma non bastava ovviamente proclamare la nostalgia di una totalità felice. Occorreva pensare un superamento delle forze individualistiche della modernità.
E la Fenomenologia è un interessante, quanto complesso, tentativo di dar conto di tutto questo intricato sviluppo.
L'inquietudine della coscienza, che cerca nel mondo la sua verità, che viene rimbalzata indietro, che si perde in se stessa e in un dio interiore, e che poi ancora ritorna alla natura per sezionarla etc.
In tutto ciò io ci vedo la sintesi, in grande, dei tentativi di ciascuno, più o meno dilettanteschi, di superare questo stato di insufficienza, facendo esperimenti, aderendo ad una visione filosofica o religiosa.