Citazione di: Visechi il 20 Novembre 2024, 09:17:08 AMVedo che non rinunci al tuo solo immaginato auditorio. Lo appelli, lo chiami in causa per offrirgli una delucidazione "sulla mia posizione" (presunzione grottesca), per rendere chiaro quel che chiaro proprio non ti è. In tutto questo motteggio da imbonitore, redarguisci, ammonisci e rimbrotti. Vabbè, transeat, ce ne faremo una ragione, non mi va di spendere troppe parole per insegnarti il dialogo e farti gustare il piacere del confronto. Spero comunque che alcuni messaggi riescano a scalfire l'involucro che hai eretto a protezione della tua vacillante tetragona sapienza e che il florilegio vaporoso di mal comprese casuali lezioni studentesche si apra al dubbio. Vedremo.Quale preambolo etico, affermo innanzitutto che la vittimizzazione dell'innocente o è incubo, nel pensiero, o è crimine, nell'azione. Si tratta di un'ovvietà, un'autoevidenza, dice il filosofo.
Noto che da subito non ti fai sfuggire l'occasione per compiere un peccato di presunzione quando sostieni con tracotante eccessiva enfasi che l'ateismo sia 'disimpegno che può sfociare in disastrosa distrazione", negando d'un sol fiato l'esperienza di decine di pensatori convintamente atei che hanno inciso tracce indelebili nella storia della cultura universale, ai quali certamente non puoi addebitare disimpegno e men che meno mancanza di profondità nell'analisi. Sostenere che sia ignoranza è un'altra delle tue perle di arroganza, ma la sciocchezza più evidente è la pretesa che l'ateismo sia un approdo provvisorio destinato a svanire come orizzonte esistenziale. Credi che certe sciocchezze, peraltro smentite dall'esperienza quotidiana che coinvolge tutti noi, meritino dei commenti o di essere confutate? Ho già scritto che sei autoreferenziale, ma qui più che altro mi pare che il tuo pensiero sia del tutto alieno dal confronto e conforto con e della realtà. Più spesso si è assistito all'abbandono fatale della fede, soprattutto dopo gli eventi cruenti del secolo breve.
In ragione delle tue poco accorte parole circa l'Infinito leopardiano, trova conforto la mia marcata e già evidenziata opinione che tu tenda a con-fondere Trascendenza (ribadisco, innegabile) con Dio. Non si tratta di sinonimi. È concepibile e percepibile una trascendenza che sia l'approdo speculativo, ma anche emozionale, della coscienza della finitudine e della limitatezza umane. Perciò ti scrissi, senza che tu abbia capito alcunché, che il dialogo con il proprio animo, col profondo (potrei inondarti di parole su questo tema), porta a lambire la percezione di un oltre, di una trascendenza che al suo fondo abissale non incontra alcun Dio (fattelo raccontare da Husserl), se non quando questo è posto e preteso dalla necessità di dar conforto per acquietare un animo che ribolle, un animo in tramestio. Nietzsche sosteneva che il cristianesimo e Dio stesso fossero la rivalsa e la risposta del risentimento dei deboli. Si tratta di una risposta pretesa dall'ansia, edificata da un'angoscia esistenziale, istituita da un male di vivere che ha impregnato di sé l'intera opera leopardiana (almeno dal 1819 – se insisti nel mostrarti ottuso ti inserisco i brani) e di cui l'Infinito è preclara testimonianza (vuoi la parafrasi del poema?). Sartre l'ha battezzato con il termine Nausea, cui diede un rimedio vitale come l'Impegno (l'uomo si edifica da sé, scaraventato nel mondo, nasce come una tabula rasa, da qui la necessità di edificarsi esistendo); Baudelaire con l'ennui e i suoi paradisi artificiali. Ma tu, ovviamente, limitato oltre che 'finito', non sei riuscito a capire nulla... non mi stupisco! Mentre faccio ammenda per Spinoza e Bergson: rileggendo mi son reso conto di essermi fatto prendere dalla fretta ed aver costruito un pastrocchio. L'elan vitale, il conatus essendi, come anche in buona misura la volontà di potenza di N., o l'arte di Shopi rappresentano delle vie di fuga, la cura alla percezione del non senso della vita.
In poche e conclusive parole, è nel fondo abissale dell'anima che si entra in contatto con il tramestio della trascendenza, dell'ulteriorità che ci abita. Questa percezione, questo lambire l'orizzonte degli eventi dell'oltre non ci collega ad una dimensione metafisica esogena, ontologicamente collocata e stabilmente ubicata all'esterno dell'essere; è l'essere stesso che sprofonda in sé stesso, come un astro in un buco nero. Dio o Marx (spero capisca l'allegoria di Marx... sii allergologo, una volta tanto) sono quel tanto che forniamo come risposte ultime e transeunti a questo richiamo abissale. Dio è l'ipostasi (credo inconscia) della percezione del Nulla (quello trovi oltre quell'oltre che ci abita); parimenti, Marx è l'idea (logica) che edifichiamo coscientemente per non udire la Nausea, l'ennui, la Noia, il Male di vivere che, se non calmierata, conduce alla follia. Perciò Dio o Marx (sii allergologo nel leggere Marx) hanno svolto un compito terapeutico come cura dal Male. Qui non hai torto. Ma si tratta di cure da farmacopea, entrambe. Volute e cercate o istituite dalla necessità espressa dal Nulla. Sono le illusioni (per tornare a Leopardi) che offrono riparo dal dolore che il non sense espresso dalla nullità di tutte le cose si trascina appresso, almeno fintanto che "Nobil natura è quella/ che a sollevar s'ardisce/gli occhi mortali incontra/ al comun fato, e che con franca lingua,/ nulla al ver detraendo,/ confessa il mal che ci fu dato in sorte..."
A grandi linee (perdonami la semplificazione di un pensiero complesso), Mircea Eliade, con piena ragione, ha sostenuto che l'umanità è una storia di religione. Innegabile, almeno fintanto che la ratio non sopravvenne per inverare questo predominio, che in un mondo secolarizzato è oramai sfumato e reso labile come non mai. È un bene? Un Male? Non sta a me dirlo... ma quantomeno è vero. Colgo anch'io nel respiro del Nulla la caducità dell'esistenza umana e i rischi insiti in questa fase storica di transizione.
Per quanto riguarda Cristo con questo intervento, per certi versi apprezzabile, chiarisci meglio rendendo maggiormente condivisibile il tuo pensiero. L'unico approccio possibile, concordo, non può che essere metafisico. Può anche non esserci un approccio e ritenere la narrazione dei Vangeli e le successive (stupende) interpretazioni solo filosofiche per la e della mente. In ogni caso, da ateo convinto, ti riporto un brano, interamente pensato e scritto da me ed inserito in un breve racconto che non ricordo se ho pubblicato su questo forum.
Son due personaggi che s'incontrano dopo tanti anni. È lei che parla:
"Io, dentro di me, sento che il Logos, facendosi carne, ha patito sulla croce non solo come carne, ma anche come divinità. Gesù è un paradosso. Non puoi pensare di scindere la divinità dall'umanità di Gesù; è la sua stessa natura che non lo permette. Diversamente, la morte sulla croce e l'intera vita di Gesù, sarebbero solo una finzione, una bugia – forse pietosa – raccontata all'uomo, poiché la divinità non avrebbe partecipato al dolore e non sarebbe stata quindi partecipe delle afflizioni dell'umanità. L'incarnazione, invece, impone proprio questo. Dio si è fatto uomo, nella sua interezza: carne intrisa di gioia e dolore, certezze e dubbi. E' per questo motivo che ti ripeto che è Dio stesso che soffre. Anche il dubbio insinuatosi sulla croce, i cui segni sono rinvenibili nel Getsemani, sono la cifra di un'agonia spirituale che coinvolge la divinità in prima persona, e Gesù, in quanto uomo divino, non poté sottrarsi a questa agonia, la quale trovò il suo epilogo nell'agonia della carne divina sulla croce. Ritenere che la sofferenza abbia coinvolto solo la carne, lasciando intatta la natura divina, significa sostenere un'algida alterità di Dio rispetto alle vicende umane, ciò sarebbe in aperto contrasto e negherebbe di fatto la passione amorosa che dovette convincere Dio a dare sé stesso per riscattare la creazione dal peccato, e sarebbe un'indelicatezza rispetto al mio amore, che non posso concedere".
Il cristianesimo si compie o muore ai piedi di quei quattro legni. Questo ci dice la teologia del Dio crocifisso di Moltmann, teologia del mondo riformato, ben diversa da quella di Benedetto XVI, che si mantiene forzatamente coerente alla tradizione tracciata da Sanctae Romanae Ecclesiae.
Ancora una volta ribadisco con ancor maggior enfasi che la vicenda di Gesù nell'analisi girardiana non è incuneata entro un 'contesto sociale criminologico fondamentale'. No, nel modo più assoluto. L'ira popolare descritta nei Vangeli è il momento culminante della tensione che, privata di sfogo, rischia di esplodere in maniera incontrollata. Furia violenta che va incanalata affinché la deflagrante violenza accumulata trovi uno via d'uscita e pian piano sia ricondotta a livelli comunitariamente accettabili. È, per l'appunto, la giusta esposizione di un evento, noto all'intero universo umano, da collocarsi pienamente nell'ambito della vittimizzazione dell'innocente, ovverosia del paradigma del capro espiatorio. Aspetto ben colto anche dalla liturgia cristiana con la definizione di 'agnello di Dio'.
Sul 'pastrocchio' ti ho risposto facendo pubblica ammenda per la confusione creata.
Sulla tragedia greca, Edipo, Girard evito di cercare di comprendere pensieri espressi male. Non creare pastrocchi tu, ora.
Il quid di cui parlo non è oggettivato o oggettivabile, non essendo neppure definibile né collocabile. È semplicemente quel di più che, pur essendo un prodotto del bios, lo trascende, lo sopravanza e supera. Quel di più che i nostri sensi e il nostro sentimento fugacemente colgono in un baluginare indecifrato ma ben sentito e avvertito. Quel quid tu pare lo riempi di un contenuto impersonale, immateriale che chiami Dio (oggettivandolo). Io mi limito a definirlo 'vita psichica': immateriale e personale (in quanto prodotto del bios individuale). Il tuo Dio si regge appellandosi alla tua filosofia, come la mia 'vita psichica' si aggrappa agli incerti sostegni delle neuro scienze. Non vedo dei nel fondo dell'abisso emerso dai forni di Auschwitz, ancor meno lo scorgo appeso alla forca di Wiesel, non lo vedo nei drammi del dolore degli innocenti. Se credessi nel tuo Dio restituirei il biglietto d'ingresso, perché l'armonia del creato che questo deus absconditus ci offre è costruita sul pianto degli innocenti. Grazie a Dio, Dio non esiste. La sua inesistenza salva Dio dalle giuste bestemmie che l'intero creato dovrebbe tributargli.
Urla Giobbe, urla Auschwitz, urla la madre che perde il sorriso del proprio bimbo, urla una donna stuprata nel corpo e dilaniata nell'anima... Ma la vita continua sorda ai lamenti, sorda a quel che accade... perché quel che accade è proprio ciò che deve accadere, senza finzioni, senza orpelli, senza barocchismi stucchevoli che rendano meno greve la visione di chi piange nell'anima perché ha dissecato la fonte delle proprie lacrime, di chi non ha più voce per gridare ed esigere una mano tesa che si sporga in un gesto d'aiuto, cui è rimasto solo un flebile filo di voce per restituire a quel Dio sì tanto indifferente la responsabilità che si deve accollare: <Padre, Padre perché mi hai abbandonato?>. "
E si ode ancora l'eco della protesta di Cioran: <<...Ecco perché, quando ingiuriamo il cielo, lo facciamo in virtù del diritto di colui che porta sulle spalle il fardello di un altro. Dio non è all'oscuro di quello che ci succede - e se ha mandato il Figlio, affinché ci tolga una parte delle nostre pene, lo ha fatto non per pietà, ma per rimorso.>>.
La profondità dell'urlo di protesta di Giobbe è tale da solcare il tempo e lo spazio, fino a congiungersi allo scoramento e al gemito di Gesù. Non vi è cesura fra i due eventi, solo un tratto di storia – dell'uomo – in assenza di Dio, costellato dal dolore, contrappuntato dal Male inconsulto che insorge bestiale a nutrire la vita. Non vi è cesura fra Giobbe, Gesù e le baracche di Auschwitz e Darkenau. Vi è continuità nel Male che s'insinua perfido nel cuore e prorompe dalla gola di madri che piangono figli, senza un perché, senza un motivo. Dio non ha mai fornito risposte, non vi è teofania che lo abbia giustificato. Quando, richiamato dall'urlo di Giobbe, fece udire la sua voce, non lo fece per svelare il mistero della vita e del Male, ma solo per accentuarli, per marcare una distanza incolmabile fra terra e cielo. Dio non è crudele, la crudeltà non trova ospitalità fra i suoi misteri. Dio parrebbe perseguire un progetto ineffabile, inconoscibile, intangibile ed inintelligibile, ma questo progetto dissemina la terra di vittime innocenti, le stesse vittime innocenti – i tanti bambini morti per caso, senza un perché - che indussero in un famoso personaggio di Dostoevskji un moto di ribellione, fino a rifiutare la coppa della vita, la cornucopia ricolma di tanti mali, fino ad infrangerla sul il pavimento per non volerne più cogliere i cocci, fino a restituire a Dio il biglietto d'ingresso nella mortifera Vita. L'Anima è ricettacolo di questa discrasia, e l'uomo avverte quest'antinomia presente nella vita, nella creazione. L'avverte in una visione tragica, che dilania, che accentua vieppiù la lacerazione dell'Origine. E non vi è sutura che possa redimerla. Chi soffre non è il corpo, è l'Anima. Quando l'Anima soffre, patisce l'intero corpo, patisce l'uomo nella sua interezza: mente, Anima, corpo."
Quale avvertenza estetica, metto in guardia il lettore dai fuochi d'artificio retorici oppostimi: si tratta di un sofisma e i sofismi sono pericolosi per gli ingenui e sprovveduti.
Io dicevo, a proposito di ateismo, di disimpegno nel còmpito prima o poi necessario verso l'Assoluto.
'Visechi' ha tentato di difendersi, alla mia critica contro l'oggettivazione del Mistero, dicendo che il suo quid è un prodotto del bios. Allora, così, nessuna Trascendenza, solo il trascendentale (che è diverso). Perché lui se ne vuol occupare e vuol insegnare agli altri che essa porta al Nulla? (Non si fa! - nel senso che non si "quaglia" così.)
Lui dice che io confondo Dio e trascendenza. Ma Dio è presente nel mondo e lo trascende! Jung notava: dire il mondo è la mia rappresentazione può valere addirittura come sintesi del sistema filosofico di Schopenhauer, ribaltarne l'affermazione dicendo "la mia rappresentazione è il mondo" invece è specchio di follia. Scambiare sé stessi per il Mistero e negare quest'ultimo, come fa tal Visechi, non è sbagliare sulle cose ma è pur sempre, specialmente a livello filosofico, una chiusura sbagliata. O uno si occupa della Trascendenza senza confonderla per una via verso il nulla, o lascia perdere. Wittgenstein, a riguardo, poteva insegnare qualcosa e bisognerebbe farla finita di voler assegnare ai sostenitori della fede in qualcos'altro il ruolo di folli.
Su Dio, sofferenza, unione uomo-Dio, i teologi ne dicono e ne discutono, Moltmann compreso, ma costui a distanza e senza poter raggiungere l'autentico pensiero greco antico sulla apatia divina ma restando alle soglie dell'ellenismo, che era anche oltre i domini romani raggiunti dal ricorso forte al Gesù di Nazareth.
Se si accoglie il pensiero dell'amor fati quale premessa, non quale approdo e per giunta tardivo, ecco che non c'è bisogno di rimproverare a Dio le sciagure del mondo. Questa è saggezza che possiamo fare, mentre quella del Libro di Giobbe è sapienza, di cui poter cogliere i frammenti. Nel primo caso, il cammino della virtù; nel secondo della santità. Se l'evento negativo è estremo, ci possono stare tutte e due anche, ma la prima diversamente. L'ateo ostinato si confina entro i termini della saggezza senza intenderne i limiti e ciò non basta per avere sicurezza anzi è incertezza assicurata.
Aggiungo: il ribadire dell'avversario contro l'affermazione del bisogno antropologico di Dio nella convinzione che sia un'angoscia travestita, il citare le inquietudini e dilemmi esistenzialisti, Leopardi, Baudelaire, Sartre... Per questi ultimi io consiglio di valutare e confrontarsi con l'esistenzialismo positivo formulato da N. Abbagnano senza confondere piani terapeutici per dimostrazioni logico-filosofiche né ingannandosi o illudendosi di autentiche teorie scientifiche che confermino l'ufficio del negatore di Dio... Mentre per la prima insistenza io direi ai malcapitati di notare che l'ateismo aggressivo contro credenze religiose e fedi ad esse connesse coincide e si identifica con l'oblio dell'umano, nel suo aspetto e condotta numinosi. E' questa affermazione che è connotabile scientificamente, anzi è stato già fatto psicologicamente, ma pure antropologicamente e sociologicamente.
Chiudo, con l'impressione di aver interloquito con l'espressione non di un paradigma scientifico (nonostante le pretese dell'interlocutore) ma con un parametro tipico dell'insoddisfazione del mondo ipersecolarizzato.
MAURO PASTORE