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Messaggi - davintro

#256
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
02 Aprile 2019, 19:54:36 PM
Citazione di: 0xdeadbeef il 31 Marzo 2019, 21:35:43 PMA Davintro Concordo senz'altro sull'affermazione che già il dire del noumeno che è inconoscibile presuppone un certo grado di conoscenza "positiva". Un pò come il socratico "sapere di non sapere", o il non essere, o nulla, che non è, insomma... Ma a me sembra che Kant fosse, se non del tutto, almeno in un certo qual modo consapevole di questo. E che anzi cercasse questa "positività", ma che questa gli sfuggisse come in realtà non può che sfuggire a chiunque la cerchi. Nella risposta #148 all'amico Paul11 affermo come Kant cerchi di ri-andare al concetto, di radice stoica, di "intuizione" ("l'intuizione è la rappresentazione quale sarebbe per la sua dipendenza dall' immediata presenza dell'oggetto"). Quindi quest'oggetto è presente, eccome, nella sua "noumenicità", ma deve fare i conti (e sono conti a parer mio inesorabili...) con il fondamento cartesiano del "cogito" (per me, come dico in quell'intervento, "punto di non ritorno"), che affermando l'idea come solo oggetto immediato di conoscenza esclude necessariamente la conoscenza "diretta" dell'oggetto. La teoria della conoscenza di Kant è la storia del tentativo (pressoché impossibile) di conciliare questi due opposti... A mio parere la Fenomenologia, come dire, la fa facile... Siccome un pensiero è pensiero di qualcosa, dice questa, allora...questo qualcosa è un oggetto e va inteso oggettivamente. Che è come dire: il pensiero di Dio, essendo Dio l'oggetto di questo pensiero, comporta l'esistenza oggettiva dello stesso. A me sembra somigli parecchio alla "prova ontologica" di S.Anselmo... saluti


non vedo l'intenzionalità come qualcosa che legittimerebbe la pretesa di esistenza dei propri oggetti, in quanto tali, come la prova ontologica (per quanto anch'io tempo fa mi ero accorto di una certa affinità tra le due impostazioni, ma non da estremizzare così). Va sempre considerato che l'evidenziazione dell'intenzionalità è frutto della messa in sospensione (riduzione eidetica) proprio del problema dell'esistenza delle cose di cui abbiamo fenomeni, cosicché non ha senso pensare che gli oggetti intenzionati siano necessariamente esistenti, proprio perché la loro qualifica di "esistenza" è ciò che è stato necessario mettere da parte per evidenziarli come termini degli atti intenzionali. Quindi non trovo valida l'associazione tra essenze fenomenologiche e essenze di tipo platonico, intese come Idee di per sé autosufficienti nella loro realtà separata dalle cose sensibili: in fenomenologia la distinzione tra piano essenzialistico ed esistenziale è basilare (il che non esclude che in un secondo momento anche il problema esistenziale non possa essere in un certo senso ripreso, in un certa ottica, per la quale la "ripulitura delle lenti" è già stata effettuata, chiarendo un livello di conoscenze, se si vuole, "astratto", ma atto a fondare ogni altro discorso)

Invece penso che il significato profondo dell'intenzionalità stia nel richiamo al riconoscimento di un legame di corrispondenza e adeguazione tra le varie tipologie di modalità soggettive di esperienza e apprensione (noesi) e varie tipologie di oggetti (noemi): ad ogni forma di atto intenzionale è correlata una certa forma di oggettività che, anche non associata a una effettiva esistenza, esprime un certo contenuto di un sapere da poter tematizzare in modo autonomo dagli altri, una certa "regione dell'essere", che va indagata con una propria metodologia, distinta da quelle atte a indagare gli altri contenuti, sulla base del tipo di intenzionalità soggettiva a cui è correlato: non si può indagare un oggetto sulla base di un punto di vista soggettivo diverso da quello che lo pone come suo contenuto intenzionale. Ed è l'infrazione di questo fondamentale principio a produrre l'errore kantiano: aver elaborato una critica che sulla base delle sue stesse conclusioni "solo il materiale dei sensi può essere contenuto di una scienza", non può legittimarsi essa stessa come "scienza". Per farlo si sarebbe dovuto riconoscere come materiale scientifico, accanto, e a maggior ragione, al contenuto intenzionato dai sensi, un contenuto intenzionato dalle intuizioni intellettuali su cui la critica deve necessariamente fondarsi. L'errore sta nel non aver considerato la correlazione soggetto-oggetto nell'intenzionalità, presumendo di poter applicare le pretese di scientificità di un punto di vista intelligibile e trascendentale "la critica", non all'oggetto corrispondente, il materiale delle intuizioni intellettuali, ma a un altro, quello fisico dei sensi, posto come l'unico possibile di una scienza, non seguendo la corretta correlazione
#257
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
31 Marzo 2019, 17:59:08 PM
per Tersite

certamente tematizzare implica che da parte del soggetto tematizzante  l'utilizzo delle regole della logica, senza le quali sarebbe impossibile alcuna conoscenza oggettiva di ciò che si tematizza. Fermo restando però che la necessità della logica nella tematizzazione non dovrebbe penso essere vista come una mero passaggio logico-deduttivo, alla stregua del modello di procedimento che Kant indica tipico dei giudizi analitici apriori, cioè una pura esplicitazione dei significati già compresi in una definizione, bensì un'applicare la logica a un "materiale" appreso sinteticamente tramite sintesi, che riflette un oggetto reale, e non un semplice ente logico-formale come una definizione. "Intenzionalità" indica una sorta, se si vuole metaforicamente, di tensione, di movimento della coscienza che si "dirige" verso l'attribuzione di senso a degli oggetti posti come qualcosa di "altro" dalla coscienza intenzionante soggettiva". La tematizzazione è sempre intenzionale, cioè indica il riferirsi del pensiero a questo altro da sé, e quindi una visione di questa alterità, che quindi non può essere ridotta alla scomposizione analitica di una definizione, cioè di un puro concetto immanente al pensiero, ma tende alla rappresentazione di qualcosa di reale. Quindi certamente la tematizzazione è logica, ma non come pura dialettica formale mirante alla valutazione della coerenza interna di un discorso chiuso in se stesso, ma sempre applicata a un concreto materiale (non materiale nel senso fisico, ma in senso più ampio come contenuto oggettivo riempiente un atto di conoscenza soggettivo) riferito al mondo reale e appreso tramite intuizione, per così dire


Per Sgiombo

una volta che si conviene sull'idea che ogni giudizio circa l' "inconoscibilità" di un livello della realtà comporta anche un certo margine di sapere in positivo, non vedrei problemi nell'ammettere la possibilità di una conoscenza scientifica anche del noumeno, anche intendendolo nella sua oggettività, distinta dalla fenomenicità immanente alla coscienza soggettiva. Tutto sta nel come intendere questa distinzione: intendendola nel modo kantiano, in senso gnoseologico, come dualismo conoscibile-inconoscibile, diviene fatalmente anche distinzione ontologica, fra una tipologia di realtà conoscibile (quella oggetto dei sensi, fisica) e una inconoscibile (intelligibile, metafisica), oppure intendendola, più opportunamente, in chiave strettamente logico-concettuale: non due tipologie di realtà distinte, bensì la stessa realtà solo intesa da punti di vista diversi, il punto di vista di cui ne abbiamo un'esperienza, e quello in cui la intendiamo come realtà oggettiva in sé, esistente indipendentemente dal fatto di esperirla. Il primo punto di vista non nasconderebbe il secondo, ma lo manifesterebbe, in quanto attinente alla sua stessa realtà, riflettendola, comunicandocela. Quindi, accettando la premessa del margine parziale di conoscenza positiva, come qualcosa sempre presente anche quando giudichiamo qualcosa come "inconoscibile", possiamo dire che questo margine di conoscenza positiva coincide con la misura in cui la cosa, oltre a essere "cosa in sé" è anche fenomeno, mentre resta inconoscibile nella misura in cui non lo è. Cioè è necessario che fenomenicità e oggettività siano due modi d'essere distinti della stessa realtà, cosicché la prima rifletta l'altra e non due ambiti ontologici separati. L'errore dell'accezione kantiana nell'intendere la dualità fenomeno-noumeno sta nel fatto che una volta identificato il noumeno come "inconoscibile" diviene impossibile non solo una scienza della metafisica, ma anche una scienza della realtà naturale, nonché della realtà delle strutture fondamentali della conoscenza umana verso cui si dirige la critica, insomma... diviene impossibile una scienza della realtà in generale! Questo perché, una volta intesi i fenomeni come scollegati dalle cose in sé, e impossibilitati a manifestarle, essi non rimarrebbero che come i MIEI fenomeni, qualcosa che solo arbitrariamente posso presumere di associare a una realtà al di là della mia soggettività, insomma l'esito è lo scetticismo o il solipsismo. Perché si dia scienza della realtà è necessario che all'interno della sfera dei fenomeni, accanto alle intuizioni sensibili, che manifestano la cosa senza necessariamente corrisponderne alla loro realtà (ipotesi dell'allucinazione o del genio ingannatore"), vengano comprese anche le intuizioni intellettuali, quelle tramite cui l'oggetto è visto come essenza ideale, coincidente con la cosa nelle sue proprietà necessarie: una volta intuita l'idea di una cosa, traiamo di quella il suo modo d'essere al di là di ogni contingenza, e quindi, diviene il terreno su cui operare speculativamente, indagando le relazioni logiche tra i vari concetti di cui cogliamo il senso generale, e ricavandone un certo livello, seppur minimo di certezze, di conoscenza trascendentale che poi sarà il presupposto fondamentale che le varie scienze applicheranno nei loro vari ambiti di ricerca. Come diceva giustamente Aristotele, la scienza, è sempre scienza dell'universale, mai del particolare. Ma in questo non c'è nulla di strano o astruso... ogni epistemologia, compresa la critica kantiana lavora in questo modo, non empiricamente ma speculativamente, come ad esempio fa Kant quando si occupa di indagare le relazioni tra categorie estetiche o categorie dell'intelletto, quando elenca le dodici categorie dell'intelletto ricavandole dalla tavola dei giudizi ecc. Il suo limite sta nel fatto che tutto questo lavoro di riflessione non può essere teoreticamente giustificato, fintanto che ci si ferma all'idea che la scienza sia possibile solo sul materiale delle sensazioni: non sono certo le intuizioni sensibili quelle tramite cui pensare a concetti  come categorie, apriori, giudizi analitici, noumeno ecc. Se la critica vuole legittimarsi come scienza deve estendere alle intuizioni intellettuali il materiale su cui una scienza è possibile, quindi rompere la scissione fenomeno-noumeno, così come è stata concepita
#258
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
29 Marzo 2019, 23:52:48 PM
Se conoscere, e mi pare, spero di non sbagliare, che anche per Kant, è giudicare, allora qualunque tematizzazione del noumeno, anche mirante a intenderlo come "idea-limite", strumento necessario per la delimitazione delle pretese della conoscenza sensibile, o puro oggetto di conoscenza negativa, ecc. presuppone dei giudizi rivolti alla sua sfera, e dunque una conoscibilità della stessa. Anche l'idea di una conoscenza "in negativo" (e del resto lo stesso problema che, in un contesto diverso, riguarda la teologia del negativo, come tempo fa cercai di trattare in un topic  che avevo aperto) finisce in un certo senso, con l'essere autocontraddittoria, in quanto l'affermazione circa l'inconoscibilità di una cosa implica sempre necessariamente una visione della cosa che GIUDICHIAMO vera, dunque ne abbiamo una conoscenza, se restiamo coerenti con l'assunto "conoscere è giudicare". Quando dico che qualcosa è "inconoscibile" sto operando un raffronto tra i miei strumenti conoscitivi e la cosa che qualifico come inconoscibile, e ogni raffronto, come è evidente, presuppone sempre la conoscenza di entrambi i termini. In questo caso presuppone che riconosca la cosa "inconoscibile" come dotata di caratteristiche che la rendano irriducibile alle nostre facoltà soggettive di conoscenza. La contraddizione sta nel fatto che il riconoscimento di queste caratteristiche nella cosa è incompatibile con l'idea della sua totale inconoscibilità: se davvero ci fosse inconoscibilità, non potremmo nemmeno attribuire alla cosa quelle prerogative in base a cui la consideriamo come inattingibile per le nostre possibilità conoscitive, insomma il giudizio di una inconoscibilità di qualunque cosa nasconde sempre necessariamente un livello di conoscenza positiva, e l'unico modo per uscire dalla contraddizione sarebbe quello di ammettere, non una totale inconoscibilità, ma piuttosto una conoscenza parziale, l'impossibilità di un sapere esaustivo, ma comunque adeguato a cogliere degli aspetti che legittimino la sua  pensabilità, tramite cui riconosciamo la sua stessa, parziale, irriducibilità alle nostre pretese conoscitive. In fondo la metafisica classica, contro cui tanto Kant si è contrapposto, non si è mai sognata di negare i limiti della conoscenza umana riguardo un livello metafisico della realtà da essa trattato, solo che questi limiti erano giustamente accompagnati dall'affermazione di un certo grado di conoscenza positiva, anche se parziale, nella misura in cui tale grado appariva fondato su argomentazioni razionali, e non superasse una certa soglia oltre la quale sarebbe diventato incompabatibile con il riconoscimento del piano del mistero e della trascendenza. Non credo che Platone, Aristotele, Agostino o  Tommaso pretendessero da esseri umani di raggiungere una perfetta conoscenza della dimensione sovrasensibile da essi indicata, e i loro sistemi di conoscenza in positivo di tale dimensione, seppur magari discutibili per altre motivazioni, non avevano il difetto di essere in contraddizione con lo scarto tra l'ideale di una piena e perfetta adeguazione del pensiero alla realtà. Senza quella conoscenza in positivo anche se parziale, nemmeno il riconoscimento dello scarto sarebbe possibile (ad esempio, molto opportunamente Tommaso distingueva in Dio delle proprietà come l'esistenza, valutabile dalla teologia razionale, da altre che delegava al mistero della fede, distinta dalla scienza, la teologia rivelata). La contraddizione non è in loro, ma in chi come Kant, presume di poter tematizzare concetti come "noumeno", apriori", "trascendentale", tutti di natura intelligibile, affermandone al contempo la loro inconoscibilità, cioè l'impossibilità di porli come materiale di una scienza. In questo modo, la critica stessa viene squalificata nelle sue pretese di scientificità, dato che non è certo rivolta direttamente al materiale sensibile (l'unico su cui secondo Kant poter fare scienza), ma alle condizioni trascendentali, cioè sovrasensibili  della conoscenza stessa, con tutto l'apparato concettuale che ne consegue. L'intenzionalità fenomenologica in questo supera il criticismo svelandone l'errore: se ogni atto di pensiero è intenzionale, cioè ogni pensiero è sempre pensiero "di qualcosa", cioè rivolto a un oggetto, allora anche l'intuizione intellettuale, come atto intenzionale possiede il proprio oggetto in quanto tale, cioè proprio in quanto oggetto, non meno di come avviene per l'intuizione sensibile con i propri oggetti. A questo punto la sfera dell'intelligibile, intesa come complesso di oggetti tematizzabili come tali, si presta ad essere terreno di giudizi e di conoscenza oggettiva nella stessa misura di come ciò è possibile per quanto riguarda la realtà materiale, ed è per questo che una critica trascendentale della conoscenza è possibile: è possibile in quanto intenziona il livello trascendentale tematizzandolo come particolare oggetto di conoscenza da studiare scientificamente, così come le scienze naturali intenzionano la realtà fisica (presupponendo implicitamente, anch'esse una visione trascendentale, in realtà... ma questo è un altro discorso anche se connesso con questo). Se le categorie dell'intelletto apriori, se il noumeno, fossero, poichè non sensibili, impossibili da oggettivare come contenuto scientifico, fossero solo riducibili a forme vuote, astrazioni, strumenti che si limitano a funzionare nel meccanismo della conoscenza, potrebbero continuare tranquillamente a svolgere il loro ruolo senza essere tematizzate da una critica che le tematizza trattandole a tutti gli effetti come oggetti della sua scienza, dunque non certo inconoscibili. In sintesi, la fenomenologia supera il kantismo nel senso che individua i presupposti stessi della possibilità di una critica della conoscenza in generale: l'intenzionalità, l'oggettivazione del proprio ambito di ricerca come disciplina peculiare e autonoma.
#259
Citazione di: viator il 28 Marzo 2019, 22:09:14 PMSalve Menandro. "Così Dio non è responsabile nemmeno della sofferenza degli infanti.". In questo modo tutto il bene sta dalla parte di Dio e tutto il male risulta di radice umana. E questo non sarebbe manicheismo ? Efficacissima trovata dottrinale che ha pure il pregio di poter venir giustificata filosoficamente : Dio è al di là, al di sopra, estraneo al male (ma a questo punto......anche al bene !!) in quanto è l'Entità assoluta, il Tutto (consistente od includente il Mondo e la natura, nei quali male e bene sono privi di senso perchè concetti esclusivamente umani e relativi). Ovvio che la contrapposizione tra bene e male possa quindi essere lasciata al (libero arbitrio ?) del genere umano, il quale quindi ne diventerà l'unico responsabile. Unico problema dottrinale : Se Dio è estraneo al male non potrà che esserlo (come dico sopra) anche al bene. E quindi, se non possiamo maledirlo per quel che ci capita, non dovremmo neppure avere di che ringraziarlo. Saluti.


non comprendo bene il senso dell'affermazione "se Dio è estraneo al male non potrà che esserlo anche al bene". L'estraneità del male in Dio sarebbe secondo il teismo cristiano la conseguenza dell'idea di Dio come Bene per essenza, la massima e perfetta sua realizzazione. Se due contrari tendono reciprocamente a escludersi l'un l'altro, per cui quanto uno è più forte tanto più è debole l'altro, e se dunque un certo contrario nella sua essenza, nella sua pura e piena datità non può comprendere il suo contrario, allora mi pare del tutto lineare e coerente che l'estraneità di Dio al male implichi la sua qualifica di "Sommo bene". Al di là delle umane e soggettive nostre valutazioni sull'effettiva "bontà" di Dio, mi pare che in questo senso la visione cristiana sia del tutto internamente coerente
#260
trovo che l'utilizzo dell'immagine di "tenebra" sia abbastanza evocativo di una concezione del male come negatività, assenza, mancanza di pensiero, conoscenza, senso, che deriva dall'oscurità, cioè l'idea del male agostiniana, che, in opposizione proprio al manicheismo, definisce il male non come realtà autonomamente effettiva, ed efficiente, (nel senso aristotelico della causa efficiente che produce reali effetti nel mondo), ma come concetto indicante un'assenza, una mancanza, ciò che differenzia la positività imperfetta degli enti creati rispetto alla pienezza e perfezione del loro Creatore. In contrapposizione alla tenebra, la luce indica la condizione di manifestabilità. di presenza delle cose, la partecipazione al Logos, al Pensiero divino, quindi il loro bene, che è tale nella misura in cui ogni cosa, partecipa, in relazione a diversi livelli di adeguazione, all'Essere divino, cioè ne condividono il fatto di "essere", essere che di per sé è bene, positività, presenza che la luce rivela.

Al di là dell'esegesi del passo,  penso che l'idea manichea del male come realtà a se stante sia incompatibile in modo evidente con il principio teistico cristiano dell'Onnipotenza, in quanto introdurrebbe la realtà del male come limitante l'azione benefica di Dio, limitandone appunto l'Onnipotenza, oppure dovrebbe negare la bontà divina, in quanto responsabile diretta della creazione di qualcosa di totalmente ed essenzialmente malvagio. Il modello agostiniano del male come mancanza, invece preserva in Dio sia l'onnipotenza, in quando nega un principio opposto al bene come reale, che la bontà, in quanto ogni cosa da Lui creata è, anche se imperfettamente, buona,
#261
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
27 Marzo 2019, 19:28:01 PM
intanto premetto che non vorrei rischiare di finire a far brutta pubblicità alla fenomenologia, che è molto più ricca delle modalità in cui penso di averla compresa e in cui cerco di esprimerne i contenuti. Del resto, come per ogni cosa, non mi considero un esperto o uno specialista, ma cerco di trarne degli stimoli per riformularli in un modo mio personale, che può anche divergere dall'ispirazione originaria...

Per Sgiombo

La passività nell'apprensione dei dati fenomenici motiva l'ulteriorità del reale rispetto al pensiero, nel senso che se l'apprensione dei dati è passiva allora la causa, agente e attiva che produce l'evento della sensazione deve essere "altra" rispetto all'Io che li riceve, quindi posta in un mondo di cose oggettive, il che non vuol dire che ogni fenomeno sensibile necessariamente sia corrisposto a un fatto reale (realismo ingenuo), ma che esiste pur sempre un'oggettività X, indeterminata, responsabile del darsi in noi dell'apprensione di tali fenomeni, non necessariamente esistente con le proprietà che a noi si manifestano, ma comunque causa del loro prodursi. Il fatto che l'assenza di arbitrarietà sia constatabile anche nell'accadere di fenomeni psichici, come il ricordo, pensieri ossessivi non contravviene questo principio per il motivo che l' "ulteriorità" o "oggettività" non si riduce necessariamente alla cose fisiche del mondo esterno, ma può indicare anche una realtà psichica, interiore all'Io ma distinta da esso, da cui scaturiscono determinati contenuti, che l'Io non crea a partire da sé, riceve da qualcosa che deriva dal suo interno. Va cioè distinto l'Io inteso come puro soggetto libero e responsabile di propri atti coscienti, e l'individualità psichica su cui l'Io cosciente e volontario ha un potere di controllo solo parziale (da questa dicotomia discendono tutti i conflitti interiori, le indecisioni, il trovare anche in noi stessi delle resistenze mentali ai nostri propositi) e che si pone come realtà oggettiva, anche se interiore, che interagisce con l'Io suggerendo pensieri non completamente voluti o posti arbitrariamente da esso, alla stessa stregua dell'oggettività delle cose fisiche, esterne, che interagiscono dall'esterno col nostro corpo. Questa oggettività interiore in fondo credo sia quello che la psicanalisi ha tematizzato come "inconscio", in contrapposizione con l'Ego conscio, ma penso che anche utilizzando categorie diverse da quelle della psicanalisi per concettualizzarle, se la psicanalisi non convince, questa dimensione sia comunque sempre riconoscibile.

Per quanto riguarda Cartesio preciso che personalmente approvo il metodo della radicalizzazione del dubbio, indipendentemente dal giudizio sulla validità delle effettive applicazioni cartesiane, su cui si possono condividere delle perplessità


Per Oxdeadbeef

non trovo un nesso logico necessitante tra l'ammissione di una componente di pregiudizi e condizionamenti soggettivi nella visione del mondo e il rassegnarsi all'impossibilità di una conoscenza oggettiva, al di là delle interpretazioni. Il tentativo fenomenologico di evidenziazione delle essenze non pretende di essere tuttologia, ma di portare alla luce un livello di conoscenze certe e oggettive che sia fondamento di tutti gli altri livelli, corrispondenti alla molteplicità delle scienze particolari, e sui quali il sapere delle essenze si fa da parte per lasciare il posto a delle metodologie, di tipo empirico, in cui la provvisorietà, l'incertezza sono da sempre accettati come componente ineliminabile nei loro risultati. Questo livello fondamentale, trascendentale, non esaurisce tutta la realtà in sé, quindi la sua parzialità è coerente con la parzialità del margine entro cui possiamo svincolarci dai condizionamenti che ci vincolano alla nostra contingenza soggettiva, senza dunque  che sia in conflitto o contraddizione con il riconoscimento di tali condizionamenti. Parzialità non vuol dire falsità, ma solo delimitazione dell'ambito di ricerca, sui cui però, fintanto che si resta al suo interno, si può legittimare la verità oggettiva di alcuni discorsi. Del resto, la stessa riflessione sui condizionamenti, sulla relatività delle interpretazioni, testimonia quel margine di distacco del pensiero rispetto ad essi, la possibilità di tematizzarli, oggettivarli, quindi di potersene, almeno in parte affrancare per poter fare su di essi le considerazioni che ora, anche in questa discussione, tutti stiamo facendo. Se fossimo del tutto immersi nella relatività delle interpretazioni non saremmo nemmeno in grado di accorgercene, non avremmo a disposizione quel margine di distanza che ci consente di svolgere una considerazione oggettiva su di essa, anche quando la si riconosce come presente. Insomma, come si dice... "il riconoscere la propria malattia è il primo sintomo di guarigione"
#262
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
25 Marzo 2019, 21:42:04 PM
Per Oxdeaedbeef

che ogni modo di pensare la realtà sia sempre condizionato dalla situazione culturale in cui viviamo, e che i nostri interessi pratici finiscano inevitabilmente col sovrapporsi alla visione oggettiva delle cose è un dato di fatto, ma questo non impedisce di individuare la messa fra parentesi di questi fattori come ideale regolativo della ricerca, e, anche se sempre in modo imperfetto e parziale, di mirare a evidenziare il più possibile la struttura apriori dei fenomeni come livello in cui riconoscere verità oggettive e incontrovertibili. E all'interno di questa parzialità imperfetta ottenere alcuni risultati. Anche se la componente pregiudiziale e arbitraria influenza sempre, possiamo impegnarci a minimizzare tale influenza e il più possibile purificare le lenti tramite cui vediamo le cose. Questo era probabilmente anche l'intento della critica kantiana, ciò che contesto, nei limiti in cui penso di averla intesa, è che tale critica sia lo strumento più adeguato per raggiungere tale fine demistificatorio. Penso che il dualismo fenomeno-noumeno inteso in chiave gnoseologica come dualismo tra conoscibile e inconoscibile renda impossibile, al di là delle intenzioni, ogni oggettività della conoscenza, in quanto l'oggettività è relegata al livello dell'inconoscibile, mentre a essere conoscibili sono solo fenomeni, etimologicamente, "manifestazioni", apparenze soggettive, che non possono dirci nulla circa la loro eventuale corrispondenza con una realtà oggettiva al di fuori del pensiero, dato che la cosa in sé resta inconoscibile. Il passaggio metodologico dalla certezza della coscienza a quella di un livello, per così dire, minimale e trascendentale di certezza sulla realtà, necessitato dalla prima certezza, come invece sarebbe possibile in Cartesio e in modo più raffinato nella fenomenologia, è impossibile, nel momento in cui il dualismo fenomeno-noumeno è inteso in un'accezione così rigida, il circuito dei fenomeni, resta chiuso in se stesso senza collegamenti a una realtà oggettiva da svelare. Perché il collegamento si dia è necessario trattare la dualità fenomeno-noumeno non in chiave gnoseologico conoscibile-inconoscibile, ma in chiave logica: l'essenza come fenomeno coincide con un dato immanente alla coscienza, ma che riflette una realtà oggettiva, che esiste al di là del pensiero stesso, che il pensiero può riconoscere in quanto il suo stesso processo, ha come momento iniziale la ricezione passiva, cioè non volontaria, non arbitraria, del dato (non a caso Husserl, parla di sintesi passiva), sono due accezioni diverse ma corrispondenti, in quanto riferiti alla medesima cosa. In questo senso penso di trovarmi d'accordo con la lettura di Sgiombo, sulla non inconciliabilità tra pensabilità delle cosa e sua indipendenza dal pensiero: la pensabilità rende ragione del fatto che la cosa sia pensata, cioè sia fenomeno, l'indipendenza rende ragione del fatto che tale pensabilità è una conseguenza secondaria determinata da una causa che è immanente non al pensiero, ma alla cosa stessa, che se da un lato è pensabile in quanto le sue proprietà coincidono con le categorie con cui ne facciamo esperienza, dall'altro pone questa coincidenza come espressione di un sua condizione naturale, oggettiva, e non come prodotto di un Io pensante, come nelle varie forme di idealismo attualista
#263
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
24 Marzo 2019, 22:19:27 PM
la distinzione tra realismo ingenuo e realismo critico a mio avviso è soprattutto metodologica, prima che riguardante il contenuto specifico delle tesi. Il realismo ingenuo si fonda su una sorta di dogmatismo della datità, accettare i dati dell'esperienza come riflettenti la realtà oggettiva delle cose sulla base di un certo livello di costanza delle verifiche: una volta che l'esperienza ripete oltre un tot di verifiche lo stesso contenuto, mi convinco l'esistenza transcoscienziale di tale contenuto. L'errore sta nel non considerare come ogni fissazione di una quantità di verifiche oltre le quali poter conseguire la certezza di tale esistenza oggettiva sia arbitraria: la possibilità dell'inganno non viene eliminata oltre un determinato numero di verifiche, ma sussiste fintanto che non si riconosce la validità degli strumenti soggettivi coscienziali tramite cui conosciamo i dati. Occorre cioè orientare lo sguardo dall'apprensione ingenua e immediata dell'oggetto alla riflessione autocritica del soggetto su se stesso. Ed ecco che subentra il realismo critico, che riconosce l'esistenza oggettiva delle cose come indipendente dalla mente, ma criticamente, cioè sulla base di un approccio poggiante su una base certa e indubitabile. In questo l'epoche fenomenologica ripercorre le orme di Agostino e Cartesio, nell'individuare la coscienza e i fenomeni a essa immanenti come residuo indubitabile certezza da cui dedurre un livello di realtà oggettiva. Nella misura in cui l'esistenza della realtà oggettiva è riconosciuta come necessaria per il costituirsi stesso, nella loro essenzialità, dei vissuti coscienti, allora tale esistenza condivide con questi la certezza del loro esistere, Il fatto che questa realtà oggettiva sia stata convalidata a partire dalla riflessione sulla coscienza non implica che la coscienza sia la condizione effettiva del suo esistere. Cioè, non va confuso il piano metodologico/euristico del "come si è arrivati a conoscere", con il piano ontologico del "cosa siamo arrivati a conoscere". Il metodo è uno strumento teoretico, cioè constativo, ma non direttamente performativo, non produce la realtà che serva a riconoscere. Certamente esiste una correlazione fra i due piani, in quanto la realtà scoperta del metodo deve pur sempre essere adeguata in qualche modo agli strumenti conoscitivi operati dal metodo. Nel momento in cui riconosco l'esistenza di una realtà indipendente dal pensiero la sto pensando. Ma questo non è contraddittorio, se la pensabilità resta proprietà secondaria e conseguente e non fondamentale all'esistenza della cosa pensata. Il fatto che la posizione della realtà oggettiva come pensabile può interpretarsi come una sorta di "corrispondenza, di "armonia" tra realtà e pensiero, per la quale ogni aspetto della realtà è associabile a una categoria del pensiero che consente di averne un concetto e un livello di conoscenza. Ma questa corrispondenza non va necessariamente vista nell'ottica idealista del pensiero che determina l'esistenza di ciò che pensa, ma può essere vista in quella di un realismo per cui è la realtà stessa che nel suo esistenziarsi autonomo sviluppa proprietà adeguate a essere contenuto dei concetti. E la validità di questa seconda interpretazione ha anche una convalida fenomenologica, nella distinzione del senso del "pensiero" rispetto alla volontà. I dati su cui il pensiero lavora sono sempre appresi in un processo il cui primo momento è sempre passivo, sia nella passività del contenuto che i sensi ricevono da stimoli posti nel mondo esterno con cui il nostro corpo viene a contatto, sia nella passività intrapsichica che emerge nella necessità di riconoscere il significato oggettivo, cioè non posto arbitrariamente dall'Io, dei contenuti mentali su cui l'Io stesso dirige l'attenzione, non è l'Io che decide arbitrariamente il contenuto dei suoi ricordi, quando lo fa, riconosce implicitamente, che sta effettuando un altro tipo di vissuto, non un ricordo, bensì una fantasia liberamente attuata, e questa distinzione è resa possibile, proprio per il fatto, che al contrario della fantasia, il ricordo viene ricevuto dall'Io passivamente. Questa passività testimonia il carattere attivo della realtà che determina una corrispondenza fra se il pensiero per il quale essa è pensabile, ma una corrispondenza nella quale è il pensiero che recita il ruolo di termine, almeno inizialmente, passivo. Tale carattere attivo della realtà la pone come autonoma
#264
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
21 Marzo 2019, 01:23:08 AM
Citazione di: 0xdeadbeef il 20 Marzo 2019, 16:51:27 PMCiao Davintro Ma se quella che chiamavo "elevazione" del fenomeno ad essenza è solo un: "passaggio metodologico finalizzato a riguadagnare un punto di vista il più possibile oggettivo", che bisogno c'era di non prendere in considerazione l'"io penso" kantiano (come unità originaria dell'appercezione)? Voglio dire, questo "passaggio metodologico" già era stato individuato da Kant, non credi? Ma non solo, direi che lo era stato su basi molto (ma molto) più razionali, che evitano (come la peste...) le conseguenze inevitabili della sintesi idealistica di soggetto e oggetto (fra cui, la principale, il considerare il soggetto come creatore dell'oggetto). Una di queste (per me nefaste) conseguenze è visibile proprio nel concetto di "epoché", cioè di quel qualcosa che: "dovrebbe ripulire dalla componente di arbitraria soggettività" ("mirando ad una conoscenza il più possibile disinteressata, contemplativa"). Su questa base, l'affermare che il "fenomenologo ortodosso si occuperà dell'etica tematizzandola come OGGETTO" significa null'altro che affermare la coincidenza di reale e razionale, come fa Hegel. Nulla di particolarmente sbagliato, ma c'è a parer mio da essere consapevoli del fondamento idealistico di tutta la costruzione fenomenologica (che, come ben argomenta Levinas, finisce col risolversi in una "ontologia dell'io"). saluti


l'Io penso kantiano è insufficiente a legittimare a livello metodologico il riconoscimento di una realtà oggettiva, se viene visto solo come una forma vuota da riempirsi materialmente di fenomeni, cioè di mere apparenze soggettive, nell'accezione kantiana del termine, cioè, fenomeno (ciò che si può conoscere), rispetto a noumeno (inconoscibile). Restando nel dualismo fenomeno-noumeno, si priva il fenomeno di ogni ancoraggio alla realtà oggettiva, resta "manifestazione", apparenza a una coscienza soggettiva, l'esito inevitabile è lo scetticismo. La fenomenologia recupera la possibilità di una scienza rigorosa, superando questo dualismo, cioè considerando la cosa nel residuo di indubitabilità che resta, una volta messo fuori circuito gli aspetti dubitabili e contingenti della cosa. Il fenomeno si fa essenza, ma questo non implica idealismo, la riduzione del reale nel suo complesso con il pensabile o il fenomenico, per il motivo che la realtà delle cose non si riduce alla loro essenza, alla loro fenomenicità, l'essenza rispecchia la loro struttura apriorica, costante, necessaria, ma nell'esistenza l'essenza convive con gli aspetti empirici, contingenti, che l'epoche mette tra parentesi, ma di cui non pretende di negare l'esistenza. Il sapere delle essenze non pretende di essere sapere della realtà nella totalità, ma si limita evidenziare una struttura di leggi necessarie, che è fondamentale per la realtà, senza però esaurirla. Quindi non c'è una totale coincidenza tra pensiero e realtà, associare i fenomeni all'essenza fissa solo un livello di conoscenze necessarie ma non esaustive. Del resto, proprio l'identificare idealisticamente l'essere col pensiero, e porre il pensiero come atto creatore del reale sarebbe una prospettiva incompatibile con l'assunzione metodologica dell'epoche, che è proprio uno strumento di "purificazione", autocritica, del soggetto nei confronti della sue arbitrarie proiezioni della soggettività sul mondo. Se tale soggettività fosse il fondamento creativo, non avrebbe senso questo autoridimensionamento, questo farsi da parte per lasciar posto al manifestarsi delle cose stesse nella loro oggettività. Non sarebbe il soggetto chiamato a adeguarsi a ricevere la verità delle cose, ma quest'ultima a storicizzarsi per seguire la mutevolezza dell'uomo che la fonda. La visione del pensiero creatore della realtà la trovo una visione prettamente storicistica: dato che il pensiero umano muta storicamente, non esiste una verità che non muti, che non sia relativa a una contingenza storica, e non avrebbe senso il tentativo fenomenologico di mettere fuori circuito proprio i condizionamenti derivanti dalla tradizione, dalla storia delle idee che influenzano la soggettività, per mettere a fuoco l'essenza, la cosa stessa. Al contrario, questo tentativo testimonia, almeno nella mia fallibilissima lettura, la proposta di un realismo, del riconoscimento dell'autonomia delle cose dalla soggettività, ma che per porsi come realismo non ingenuo, ma critico, necessita metodologicamente di partire dall'evidenziazione dei fenomeni e della coscienza
#265
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
19 Marzo 2019, 18:42:03 PM
il momento fondativo della fenomenologia è l'epoche, cioè la sospensione del giudizio riguardo il piano esistenziale e fattuale della realtà a cui si attestano le scienze naturali, quindi non penso che la fenomenologia possa vedersi come influsso, almeno non diretto, dell'evoluzioni della fisica. Al contrario trovo la fenomenologia come pervasa dalle sue fondamenta da una chiara critica al positivismo, in difesa dell'autonomia della filosofia, o comunque del modello di scienza trascendentale, rispetto alle scienze empiriche, sia dal punto di vista metodologico che del contenuto oggettivo di indagine (i due piani sono correlati), quindi nel dover dipendere dagli sviluppi di una scienza sperimentale, la fenomenologia negherebbe la sua stessa ragion d'essere. Sono d'accordo nel pensare la fenomenologia come superamento della rigida separazione soggetto-oggetto, in particolare nell'accezione del dualismo kantiano fenomeno-noumeno: l'essenza delle cose, che la riduzione mira a evidenziare, non è più un noumeno trascendente, separato e inconoscibile, ma coincide proprio con la cosa nella sua accezione di "fenomeno", contenuto intenzionale di coscienza, vale a dire l'accezione per la quale la cosa è vista nel suo carattere di assoluta indubitabilità, cioè come fenomeno immanente a una coscienza, al di là della possibilità della sua non-esistenza esterna. Però questo, come era per Cartesio, è solo un passaggio metodologico finalizzato a riguadagnare un punto di vista il più possibile oggettivo e adeguato al rispecchiamento delle "cose stesse", che è un recupero inevitabilmente di natura teoretica; accanto alle asserzioni delle scienze sperimentali, a essere messe fuori circuito sono le nostre arbitrarie proiezioni sulla visione delle cose, compresi i nostri condizionamenti storici, i nostri valori morali soggettivi, per lasciare che le cose stesse si manifestino il più possibile per come sono, al di là delle nostre precomprensioni. In questo la distanza soggetto-oggetto resta anche per la fenomenologia fondamentale, e il superamento della rigida separazione (per cui la cosa diviene "fenomeno") è più un necessario passaggio procedurale per delineare una distanza su basi più razionali

Per questo, quando ho l'impressione che nel momento in cui con Levinas si parla di "etica come filosofia prima" venga tradito l'assunto fenomenologica del ritorno alle cose stesse. Tale ritorno coincide con una visione teoretica che l'epoche dovrebbe mirare a ripulire della componente di arbitrarietà soggettiva, per la quale la visione teoretica rischierebbe di essere confusa con la visione della realtà come vorremmo fosse in base ai nostri valori, oppure la visione di come potremmo utilizzarla pragmaticamente per i nostri soggettivi fini. Quindi il metodo fenomenologico deve mirare a una conoscenza il più possibile disinteressata, contemplativa, insomma a porre non l'etica, ma la teoretica come filosofia prima. Il che non vuol dire che il fenomenologo ortodosso non si occupi di etica... se ne occuperà ma tematizzandola come OGGETTO di riflessione, una delle modalità in cui si articola il complesso delle esperienze con cui la coscienza si rapporta al mondo, una delle tante. Ma non potrà porre il suo approccio, l'impostazione formale delle sue riflessioni come "etica", pena la perdita dello sguardo disinteressato sulle cose stesse, l'etica per lui dovrebbe solo essere un tema da affrontare in modo assiologicamente neutrale, teoretico appunto. Se invece si parla di etica come filosofia prima, mi pare che forse siamo al di là di una fenomenologia dell'etica. Forse più che prosecutore dell'indirizzo fenomenologico, Levinas, da francese (naturalizzato)  si è per questo aspetto più avvicinato agli orientamenti e al clima di tipo esistenzialistico, dove la rivendicazione, se non di un primato, quantomeno di un'autonomia, dell'etica dalla teoretica è molto forte.
#266
il fatto che, storicamente, la violenza sia stato un fattore decisivo per le trasformazioni politiche e sociali, non implica che queste trasformazioni non sarebbero potute avvenire, sulla base di movimenti e processi non violenti, come può essere un percorso graduale di riforme politiche, né implica che in assenza di violenza non si sarebbe potuti pervenire a risultati anche migliori a cui si è effettivamente arrivati, specie se si pensa, come al termine di una rivoluzione violenta, proprio chi ha fomentato tale violenza, anche una volta conquistato il potere potrà rivolgerlo contro chiunque sia sospettato di essere un oppositore, proprio perché una volta che si è legittimata in una certa occasione il metodo violento, si creerà un precedente per poterla continuare a imporre in forme via via sempre più arbitrarie (come nel caso della Rivoluzione Francese, dove il fanatismo e i massacri del Terrore giacobino, avrebbero potuto essere evitati, se solo, da entrambe le parti si fosse dato fiducia e motivazione alla possibilità di risolvere i problemi più scottanti in sede di dialogo politico). Senza contare l'enorme differenza che rende improbabile un raffronto tra epoche passate e quella odierna. L'Ancien Regime pre-1789 era una società bloccata prima di tutto dal punto di vista politico-giuridico: il terzo stato, effettivamente, al di là della strada della rivoluzione armata, aveva ben pochi margini per poter avanzare con possibilità di successo le sue istanze a livello di mediazione politica: tutta la società feudale si fondava sui privilegi attribuiti all'aristocrazia e al clero. Molto diversa la situazione di una odierna liberaldemocrazia fondata sul suffragio universale, dove nessuno impedisce a movimenti o istanze critiche verso il sistema economico-sociale corrente di poter avere voce e legittimità politica, farsi partito, contare il proprio consenso in libere elezioni. Libere elezioni che hanno sancito solo poco tempo fa una grande vittoria di Macron, e hanno a lui consegnato un mandato popolare a esercitare una sua politica. Nulla impedisce a chi contesta tale politica di poter presentarsi alla prossima tornata elettorale e valutare quanto le loro istanze siano realmente condivise dal popolo francese. Fino a che questo momento non arriverà, sarà legittimo utilizzare forme di protesta nel rispetto delle leggi vigenti, ogni infrazione della legge legittima il caos sociale nel quale a imporre la propria linea non è la ragione o il consenso popolare ma solo la forza fisica, sia quella dei dimostranti o quella della polizia: in entrambi i casi a essere sconfitto sarebbe il principio della rappresentanza popolare. Pensare che la violenza, il caos, la sospensione dello stato legale, siano giustificati dal fatto che i Gilet Gialli siano i veri rappresentati delle "istanze popolari tradite dal nemico del popolo Macron" è pura arbitrarietà: manca la controprova, rispettino la legge, fondino un partito politico e  valutino se il reale consenso elettorale ottenuto legittimi la validità della loro proposta politica nel contesto di un metodo democratico. Cosa che non è affatto scontata: c'è sempre il rischio di confondere le urla di un gruppo minoritario con l'autentica espressione di un sentire diffuso e prevalente nella società, e nell'opinione pubblica, è l'errore di non tenere conto della cosiddetta "maggioranza silenziosa", tante persone che, sebbene non vengano riprese dalle televisioni mentre bruciano negozi, e sebbene possono essere in disaccordo con le ragioni della protesta, esistono e hanno diritto di rappresentanza al pari di tutti gli altri, e hanno diritto a che le loro opinioni non soccombano di fronte a chi, invece della dialettica e della ragione, usa la forza fisica come arma di lotta politica
#267
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
16 Marzo 2019, 00:56:56 AM
Citazione di: Ipazia il 13 Marzo 2019, 08:24:17 AML'Io è il settemiliardesimo di sette miliardi di Altri. La solitudine dei numeri primi naufraga nella complessità dei grandi numeri. Cosa su cui certamente Nietzsche, a differenza dei metafisici, disse qualcosa. Così come, più fecondamente, Marx.

dal punto di vista, quantitativo, certamente l'Io è solo un settemiliardesimo di altri Io, senza particolari tratti che lo contraddistinguono e lo valorizzano. ma da quello qualitativo, quello più legato alla concretezza, all'essere oggetto della nostra esperienza vissuta, le cose stanno molto diversamente. Su questo piano, il nostro Io non è solo uno dei tanti, ma possiede i criteri in base a cui alcune persone, i nostri cari, i nostri conoscenti acquisiscono un'importanza per la nostra vita ben superiore al resto dei sette miliardi. Un accadimento che colpisce, nel bene o nel male, uno di loro, ha per noi un peso insostituibile rispetto allo stesso accadimento riguardante una massa di estranei. E da ciò discende la possibilità di fare scelte, scegliere vuol dire selezionare, ogni momento passato con la nostra famiglia, con i nostri amici, è un momento che in tutta coscienza togliamo alla compagnia di qualunque altra persona. Senza tale differenziazione di valori, operata sulla base della sensibilità soggettiva del nostro Io, nessuna scelta sarebbe possibile, sulla base di una visione omologatoria, livellatrice, quantitativa, in cui ogni individuo è solo un' unità indifferenziata, il nostro impegno quotidiano nel coltivare relazioni umane smarrirebbe ogni senso, non avrebbe più coscienza di una meta verso cui rivolgersi, ogni scelta cadrebbe nell'indifferenza, perché il bene di ciascuna persona varrebbe come quella di chiunque altro, nessuna valutazione di priorità possibile. Ogni relazione cadrebbe nella superficialità del tentativo di espandersi a più persone possibili, seguendo un criterio meramente quantitativo, perdendo di vista la profondità, che invece presuppone il soffermarsi sull'ascolto di un singolo "tu", lasciando sullo sfondo tutti gli altri. Perché perdere minuti, ore ad ascoltare un amico, quando oltre lui ce si sarebbero miliardi di altre persone, di fronte a cui lui è solo uno dei tanti? Solo riferendoci a noi stessi, al mio Io, che recupero il senso di soffermarmi sulla relazione con il mio amico nella sua singolarità: lui non è uno dei tanti, lui è il MIO amico, merita dal MIO punto di vista un tempo, un'attenzione DECIDO di non dare agli altri. Quindi direi, questa soggettività, così demonizzata, superata, direi di tenercela stretta: solo partendo da essa preserviamo il senso delle differenze di valore, e conseguentemente del senso delle nostre scelte. L'appiattimento omologatorio del giudizio di valore fra tutti gli esseri umani non può che condurre alla stasi, cioè all'in-differenza delle scelte, cioè dell'agire vitale.
#268
Tematiche Filosofiche / Re:L'Io e l'Altro
12 Marzo 2019, 20:21:59 PM
il riconoscimento dell'Altro in quanto "Altro" è reso possibile sempre sulla base dell'Io, cioè sulla base di un raffronto di distanza tra il mio Io e l'Alter Ego, ed è questo margine di distanza che ci consente di non riconoscere la nostra soggettività come l'unica possibile. Trovo inevitabile che ogni punto di vista sul mondo sia sempre incentrato sull'Io, sul soggetto pensante che elabora il punto di vista, utilizzando i propri parametri di giudizio teorico e di valore, se così non fosse l'Io non sarebbe tale, assorbirebbe in modo del tutto passivo e acritico gli stimoli del mondo esterno, senza alcuna traccia di intenzionalità, che presuppone sempre un orientamento dell'Io intenzionante sulla base di strutture e categorie interiori, a partire da cui aprirsi al riconoscimento di un mondo trascendente, altro, e entro cui comprendere anche la presenza di altri soggetti. Il problema di quando questa centralità dell'Io assume ripercussioni morali, credo dipenda dallo stabilire se dobbiamo intendere l'Io nell'accezione trascendentale, l'Io inteso come semplice punto originario degli atti di esperienza del mondo, e l'Io inteso come Io empirico, la mia persona particolare, con la sua individualità ed anche con i suoi limiti e mancanze. I due piani non coincidono in toto, l'arroganza del soggetto che pone la sua esistenza come l'unica degna di valore e importanza e vede l'alterità come un ostacolo da superare per i suoi fini soggettivi riguarda l'Io nella seconda accezione, il mio Io individuale. Nella sua prima accezione, l'Io come soggetto riflettente, l'lo ha la possibilità di esprimersi a livello autocritico, riconoscendo l'imperfezione dell'Io individuale, i suoi limiti, i suoi torti, e conseguentemente anche la positività della relazione con l'Altro, la sua autonomia da rispettare ecc. Penso sia stato un errore dell'idealismo immanentista far coincidere i due livelli dell'Io, passando dall'Io come punto di partenza metodologico della filosofia, l'indubitabilità della coscienza come fondamento razionale della conoscenza della realtà, all'Io che assolutizza se stesso come esistenza negando ogni alterità, ogni ulteriorità del mondo rispetto a se stesso. Ma non è affatto detto che quest'ultimo fosse l'unico esito teoretico possibile  a partire dall'Io come premessa metodologico, come ad esempio è inteso da Cartesio (il fatto che storicamente sia stato così non esclude percorsi alternativi a livello teoretico, dato che un conto è la valutazione teoretica un altra quella storico-filosofica), Resta sempre valido quel filone ad esempio di tipo agostiniano (che nel complesso si può accettare anche a prescindere dall'adesione confessionale, a livello laico-filosofico), che pur partendo dalla certezza dell'Io pensante e vivente, riconosce anche come questo Io viva sempre in connessione con qualcosa che trascende i limiti dell'esistenza individuale in cui questo Io si realizza, un'alterità, sia nel senso "orizzontale" interumano, sia nel senso verticale della Trascendenza divina, connessioni che si rivelano nei conflitti interiori (pensiamo alle Confessioni) di un'esistenza mai del tutto padrona di se stessa, e quindi impossibilitata a risolvere nella sua immanenza assolutizzata i problemi che la attraversano, e conseguentemente necessitata a riconoscere l' "Altro", riconoscimento che però non ha implicato l'abbandono del piano di ricerca dell'Io, dell'interiorità, della coscienza soggettiva, bensì proprio il suo coerente approfondimento
#269
non sono d'accordo nel pensare che il rispetto del diritto di scelta di ciascuno sul proprio corpo e sulla propria vita implichi necessariamente una prospettiva atea o materialistica. Anzi proprio un certo senso della trascendenza, che in qualche modo trovo che le confessioni basate sulla rivelazione tradiscono, nell'immanentizzare il divino all'interno delle rappresentazioni umane e storiche che pretendono di porsi come loro rappresentante, dovrebbe portare ad accettare l'impossibilità di decifrare puntualmente la volontà di Dio, stabilendo quando le scelte della persona la infrangono o meno. Pretendere di stabilire in cosa dovrebbe consistere in cosa consisterebbe la volontà di Dio significa in fondo pretendere di porsi al suo stesso livello. Se è vero che la vita è un dono di Dio è anche vero che lo è anche la coscienza tramite cui ciascuno di noi può oggettivare la vita e valutare le condizioni entro le quali resterebbe ancora degna di essere vissuta, e silenziare tale coscienza, finendo con l'assecondare aprioristicamente la conservazione della vita biologica, vuol dire disprezzare un dono di Dio, la coscienza con i suoi soggettivi parametri di giudizio, non meno che rinunciare alla vita. La vita che Dio ci ha donato non è una vita che scorre irriflessa e autoreferenziale, ma una vita capace di valutare se stessa in nome di libertà e valori soggettivi. Trovo molto più materialista una visione in cui il valore della vita biologica, cioè materiale, viene assolutizzata al punto di dover essere perseguita anche quando non viene più percepita come degna sulla base di determinati valori, che sono riconosciuti sulla base della nostra componente spirituale, cioè la coscienza.
#270
Percorsi ed Esperienze / Re:DOMANDE
05 Marzo 2019, 21:36:52 PM
per Sgiombo

mi è impossibile accettare il principio del "chi non lavora non mangia" perché figlio di una mentalità collettivista, che riduce la persona a semplice strumento e ruota dell'ingranaggio sociale, lontano anni luce da me. Vincolare il benessere al lavoro vuol dire ridurre il valore della persona a quanto si rende utile nel suo agire sociale, non considerando tutta la sfera interiore, di pensieri e sentimenti che si possiede indipendentemente dall'avere un lavoro o meno. Per me è sufficiente che si dia questa sfera per poter parlare di dignità e conseguentemente diritto di vivere, cioè per me la dignità è un dato ontologico, naturale, non il frutto di uno scambio, per cui in cambio di come ci si rende utili alla società si ottiene dignità e rispetto. Pensare a uno scambio presupporebbe un rapporto alla pari tra individui e società, cosa assurda, in quanto mentre gli individui sono esseri concreti, in carne e ossa, datati di bisogni vitali e di sentimenti, la società è solo un sistema di mezzi funzionale all'esaudimento dei bisogni degli individui che la istituiscono, al di fuori di tale strumentalità non ha alcun significato. Pensare che sia la società, tramite il lavoro ad assegnare dignità alle persone vuol dire attribuire ad essa un'autorità etica del tutto incompatibile con la sua accezione di mero strumento. Come mero strumento la società dovrebbe limitarsi a cercare di garantire a un numero più ampio di persone possibile un livello massimo di benessere, e questo va in controtendenza con l'imposizione di un ricatto per cui la garanzia dell'esistenza viene vincolata ad accettare qualunque tipo di lavoro, anche il più sgradevole e lontano dalle nostre aspirazioni. Tutto l'opposto della funzione fondamentale della società, quella di rimuovere il più possibile ostacoli alla libera realizzazione di ogni persona a vivere in base alle sue diverse inclinazioni. Insomma, condivido l'imperativo kantiano di agire trattando ogni persona come fine e non come mezzo (anche se, probabilmente non condividendo in toto le premesse teoriche kantiane a partire da cui questo pensiero è nato). E anche, ammesso e non concesso, di concepire l'utilità sociale  come fattore necessitante la dignità e il diritto all'esistenza, trovo molto limitante ridurre l'utilità alla produzione di mezzi di sussistenza, come se il lavoro creativo e intellettuale, quello di insegnanti, artisti, scrittori, non producenti beni materiali ma idee e emozioni non fosse considerato un vero lavoro, ma solo un hobby da parassiti fannulloni. Tramite il loro lavoro offrono un contributo alla società non meno importante di quello materiale e al contempo realizzano se stessi in coerenza con le loro inclinazioni e interessi, che non sono certo gli stessi (e non si vede perché debbano esserlo per forza) di chi svolge un lavoro manuale o di gestione aziendale. La nostra stessa costituzione repubblicana, che pure da al valore del lavoro così tanta centralità accosta al progresso materiale il progresso spirituale (morale, recita lletteralmente) nell'elencare i fini del contributo dei cittadini. 



Trovo l'esistenza del limite necessariamente implicante l'esistenza di un "oltre" positivo, altrimenti il nostro limite non ci sarebbe, dato che ci sarebbe, appunto, nulla oltre esso, senza il nulla oltre di noi saremmo tutto e non ci riconosceremmo come limitati. Riconoscere la positività di questo oltre non vuol dire avere la pretesa di averne una conoscenza razionale esaustiva. Questa pretesa implicherebbe la caduta dell'immanentismo, cioè l'idea che tutta la realtà coincida con le nostre possibilità conoscitive, e questo, come evidente, è in contraddizione con la premessa del limite, il mio pensiero coinciderebbe con la totalità degli aspetti del reale. Non c'è invece alcuna contraddizione nel riconoscere, da un lato l'esistenza di questa realtà trascendente i nostri limiti, dall'altro la sua irriducibilità rispetto le possibilità di averne una conoscenza esaustiva, a meno di non pensare assurdamente che l'esistenza di un ente sia l'unica proprietà che lo caratterizzi, e che dunque riconoscendo che qualcosa esiste solo per questo sapremmo tutto di esso