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Messaggi - davintro

#271
Percorsi ed Esperienze / Re:DOMANDE
05 Marzo 2019, 02:38:55 AM
Per Ipazia

Riconoscere l'esistenza di un principio puramente spirituale non è una proiezione di me stesso, dato che quel principio non sono certo io, che come essere umano finito, ammetto la presenza di uno "spirito" come unito alla materia, impossibilitato a porsi come "spirito puro". Anzi, se si vuole, troverei più forte espressione di hybris l'idea di valutare i limiti di possibilità dell'esistenza di categorie come appunto "spirito" usando come metro di misura il modo in cui tale categorie esistono all'interno di un contesto determinato particolare come l'essere umano. Cioè, trovo più indice di antropocentrismo negare la possibilità di esistenza di un principio puramente spirituale sulla base del fatto che l'unica spiritualità di cui abbiamo umana esperienza non esiste in forma pura e nella sua pienezza, piuttosto che riconoscere una trascendenza proprio sulla base della percezione del limite della nostra visuale: senso del trascendente e del limite sono sempre connessi: proprio il riconoscere la nostra limitatezza avvertiamo la presenza di un "oltre" in relazione a cui siamo limitati: tutto l'opposto della hybris
#272
Percorsi ed Esperienze / Re:DOMANDE
01 Marzo 2019, 20:03:24 PM
scopro il topic in colpevole ritardo, chiedo scusa se mi inserisco rischiando di interferire in una discussione che, noto, ha già preso una tendenza che va al di là della semplice risposta alle domande di apertura

Per quanto riguarda il rapporto tra vivere e lavorare, penso sia necessario chiarire la motivazione primaria del "lavoro", nella misura in cui il lavoro si intende solo come attività che ha in una retribuzione economica il suo fine, allora certamente il lavoro ha senso solo in funzione della vita, e non viceversa. Questo perché il denaro è un mezzo e non un fine, il suo valore si riduce al permettere di acquistare degli oggetti di cui avvertiamo un bisogno. Per questo sono profondamente in disaccordo col principio che "chi non lavora, non mangia", chi pretende di misurare la dignità di un'esistenza sulla base del successo economico ottenuto tramite il lavoro, non è certo quello l'unico parametro per valutare il significato di una vita, nonché dello stesso lavoro, sarebbe come, esempio che avevo già utilizzato in altre discussioni, se uno scrittore di libri su oroscopi o libri di barzellette destinato a vendere molto di più rispetto a un autore di saggi su Platone o sull'astrofisica dovesse considerare per questo il suo lavoro come più nobile e dignitoso del secondo, anche se il suo successo commerciale è dato proprio dal trattare temi più banali e superficiali, di minor spessore culturale. Se invece si intende il lavoro come attività che, al di là della finalità economica, procura un piacere, una soddisfazione personale (la soddisfazione di rendersi utile alla società, di veder nei propri prodotti l'espressione delle proprie idee, o valori, sentirsi parte di una comunità di colleghi a cui affezionarsi ecc.) allora il lavoro non è più solo mezzo, ma come valore in sé, fermo restando che anche in questo caso non può mai esaurire la totalità degli interessi di una persona, cioè la persona mantiene un valore anche al di là del suo ruolo sociale, che sia piacevole o meno, fintanto che ha pensieri e sentimenti non rivolti solo all' attività lavorativa a cui si dedica.


Sono convinto che si viva per essere felici, e non si viva indipendentemente dalla felicità, ma questo vale per noi esseri umani, che in virtù del pensiero astratto che ci contraddistingue, non ci accontentiamo di soddisfare i bisogni primari, legati alla sopravvivenza biologica, ma sappiamo valutare la nostra vita in modo critico, relativizzandola sulla base del giudizio di aderenza a un ideale di felicità, e nel caso si riconosca un livello di distanza ampio oltre un certo limite tra vita reale e ideale regolativo di felicità, si ha disposizione la possibilità del suicidio, Tutto ciò, a condizione di non identificare il concetto di felicità con quello di "piacere sensibile". Identificandoli, la felicità non potrebbe essere assunto come ideale distinto dall'effettiva condizione materiale in cui si vive, al contrario noi poniamo, tramite l'immaginazione, uno scarto fra la vita come è e l'ideale di vita come vorremmo fosse, in quanto l'immaginazione implica sempre un'astrarsi dall'esperienza sensibile immediata diretta ai fatti. 



è vero che il cristianesimo condanna il suicidio e l'eutanasia, ma questo non implica che l'idea di vivere in funzione della felicità sia prerogativa unicamente degli atei/materialisti, son infatti convinto che nel porre la preservazione della vita biologica come un valore assoluto, in qualche modo il cristianesimo sconti una certa componente "materialista" consistente nella credenza in un Dio che si fa carne, per la quale forse si hanno delle ritrosie a considerare ragione e volontà individuale come facoltà legittimate a mettere in discussione il corso biologico dell'esistenza, come per un timore ad attribuire allo "spirito" una libertà e superiorità troppo nette sul corpo. Se da un lato è vero che il cristianesimo esalta e santifica i martiri che hanno accettato di sacrificare la loro vita pur di non abiurare alla loro fede, è anche vero che in questo caso non si può parlare di "suicidio" in senso autentico, in quanto il martire non desidera morire, ma in linea teorica, pur anteponendo alla propria vita un valore superiore, resta pur sempre speranzoso, fino all'ultimo, di un miracolo, cioè l'intervento divino che li salva dalla morte, senza bisogno di salvarsi commettendo peccato, è una sfumatura importante. Per quanto mi riguarda, trovo che la vita sia un valore relativo a un ideale di felicità di fronte al quale sarebbe anche legittimo scegliere di smettere di vivere, quindi mi distanzio dalla posizione cristiana in merito, ma non da un punto di vista ateo, ma, al contrario da uno ancora più "spiritualistico" di quello cristiano: si potrebbe definire un "deismo", credo nell'esistenza di un Principio puramente spirituale, che però non può essere rappresentato in una rivelazione umana, e dunque in alcuna confessione storica organizzata, condizionata dall'esperienza sensibile, e quindi in base a ciò riconoscere che la componente della persona che elabora aspettative di senso e ideali di realizzazione debba avere la priorità rispetto al puro corso biologico della vita, e quindi accettare la possibilità di sospendere quest'ultimo (la materia) quando troppo in contrasto con l'ideale esistenziale (lo "spirito")
#273
personalmente sono sempre restio a dar un peso spropositato alle misurazioni del Q.I o cose del genere, perché mi sembrano approcci derivanti da premesse teoreticamente discutibili, dal sapore pragmatistico e materialistico (non a caso, mi pare, approcci soprattutto diffusi nella cultura anglosassone, dove la tradizione filosofica è maggiormente orientante verso tali tendenze), per le quali l'intelligenza viene considerata soprattutto come facoltà da valutare sulla base di prestazioni esteriori (in questo senso trovo azzeccata l'annotazione di Jacopus sulla non identità tra intelligenza ed efficienza), misurabili quantitativamente, slegandola dalle sue fonti collocabili nella vita interiore della persona, mai totalmente studiabile sulle base delle realizzazioni osservate dall'esterno. Le facoltà intellettuali sono sempre contestuali al complesso dello sviluppo della persona comprendente i valori, le motivazioni, gli interessi soggettivi e sentimentali, e dunque la loro applicazione pratica, cioè ciò che il test valuta, è sempre condizionato da questa componente soggettiva/motivazionale: sono le nostre motivazioni, figlie della nostra sensibilità ai valori che ci spingono a impegnarci  e focalizzare le nostre energie psichiche verso la ricerca di determinati risultati, cosicché pretendere che l'intelligenza effettiva sia rappresentabile adeguatamente nell "output" esterno oggetto della valutazione del test è un atteggiamento astratto e parziale, frutto di un modello epistemologico materialista tutto impegnato a spazializzare, quantificare, cioè far coincidere l'intelligenza con le sue performance nel mondo esterno, astraendola, staccandola dall'unità, qualitativa, dell'Io, cioè l'unità del corso delle esperienze vissute, per le quali l'impegno profuso nella performance è figlio di motivazioni sentimentali pregresse, interiori, che il sistema di valutazione non è capace di considerare. Facendo un esempio stupido per chiarirmi meglio... se facendo il test del Q.I conto di informare del risultato una ragazza verso cui mi piacerebbe far colpo, avrò una spinta motivazionale in più che mi porterebbe a ottenere risultati migliori che nel caso in cui non abbia significative motivazioni affettive per impegnarmi, eppure, non avrebbe senso pensare che le mie doti intellettive siano realmente diverse nei due casi, ma solo che in uno dei due casi la volontà abbia avuto in incentivo più forte nel far passare da uno stato di latenza a uno esplicitamente attuale tali doti, che però, latenti o meno, sono comunque presenti in me.
#274
Oxdeadbeef scrive:

"Ciao Ipazia
Per dirla con la semiotica, è necessario "risalire la catena segnica" dei significati e dei
significanti; perchè altrimenti basta un nonnulla; un diverso significato che diamo ad un
particolare ed ecco che non ci si capisce più nemmeno sul senso generale...
Allora: per me la "morale" è la condotta individuale rivolta al Bene (o "bene", se preferisci
- ma la maiuscola è solo per sottolinearne l'importanza filosofica). Mentre l'"etica" è la
condotta collettiva verso il Bene (come nella nota distinzione di Hegel, insomma).
Dunque è di un agire che stiamo parlando; di un "mezzo"; non di una finalità (che è il "Bene",
che almeno per il momento non ci interessa).
La filosofia anglosassone, che come noto trova molti dei suoi fondamenti nell'empirismo, nello
scetticismo e nel naturalismo (a differenza di quella continentale, più orientata alla metafisica),
dice che la morale è il perseguimento dell'utile, o desiderio, o impulso individuale.
Senonchè, a causa di un evidentissimo influsso francescano (G.d'Ockham) in campo religioso, essa
arriva a teorizzare che la somma degli utili individuali coincidono con l'utile collettivo (è
la celebre "mano invisibile", base fondante di ogni tipo di liberalismo).
La filosofia continentale invece, a causa della sua centrale considerazione dell'"ambivalenza"
dell'essere umano (come in Apeiron), non crede affatto che la morale sia il perseguimento
dell'utile individuale; ma che sia il perseguimento di un "Bene" inteso come "in sè", come
dato una volta e per tutte, quindi come "oggettivo" (non legato all'utile soggettivo).
Ora, non stiamo ad indagare i motivi che hanno portato i due "sguardi filosofici" a queste
differenti visioni (qualcosina ho accennato): diamo insomma per buono che così è (e che non
è quel che io penso, ma quel che queste filosofie pensano...).
Quindi Ipazia, se tu affermi un "bene comune di tutti i viventi" come "vita", e precisamente come
vita individuale, hai a parer mio un problema di non facile soluzione, che ti è mostrato proprio
dal nostro amico cuculo (scusa il mio tornare su quest'esempio ma lo ritengo significativo), per
il quale il proprio utile, o desiderio, o impulso individuale (e anche ovviamente di specie),
non è certo il "bene comune di tutti i viventi"; perchè altrimenti non getterebbe giù dal nido
le uova dell'altra specie per deporvi il proprio (che sarà poi addirittura covato e nutrito dalla
"matrigna inconsapevole"...).
Il cuculo, cioè, è nella medesima condizione cui la filosofia anglosassone si sarebbe trovata senza
la "genialata" di considerare l'uomo come "parte di Dio" (l'"homo, homini deus" di Spinoza, il cui
utile, o desiderio o impulso NON PUO' essere maligno - come invece PUO' nell'ambivalenza della visione
della filosofia continenatale).
In altre parole, il cuculo è un perfetto "nietzschiano", e la sola cosa che per lui conta nel mondo
e nella vita è l'impulso NON alla "vita comune di tutti i viventi", ma alla propria.
La sua è ovvero una vera e purissima "volontà di potenza"...
saluti"



Vorrei ritornare su questo punto della discussione perché credo possa essere  in parte chiarificatore dell'ambito di cui ci stiamo occupando. Se ho ben inteso Oxdeadbeef (che ovviamente può smentire se l'ho involontariamente frainteso) pone un'associazione molto stringente fra le due diverse concezioni morali, quella individualista utilitarista anglosassone e quella continentale, e le due diverse impostazioni teoretiche (empirista quella anglosassone, metafisica quella continentale). Mi pare che questo schema implichi una concezione della morale come determinata dalla concezione teoretica che si ha nei confronti della realtà oggettiva, che è ciò su cui dissento, quantomeno in parte. Personalmente sono, a livello teoretico, convinto della validità di un discorso metafisico, e anche ispirato a dei filoni continentali come il platonismo, l'interiorismo agostiniano ecc,, mentre dal punto di vista etico-politico considero qualunque entità collettiva, intesa come slegata concettualmente dai singoli individui che la costituiscono come un'astrazione che non tiene conto di come il bene collettivo consista nell'insieme dei beni degli individui, che aventi delle personalità tutte diverse l'un dall'altra, con diverse esigenze, inclinazioni caratteriali, non possono essere omologati sulla base di un concetto di "bene" dei governanti politici che presume di dover essere imposto a tutti gli altri; insomma una visione certamente legata nello schema al fronte dell' "individualismo anglosassone". Non trovo questi due aspetti tra loro in contraddizione. Teoreticamente, il mio "antiempirismo" mi porta a pensare che nessun giudizio morale, e conseguentemente, nessuna azione, sarebbe concepibile in assenza di un ideale di "Bene in sé" la cui universalità è da intendersi nel senso formale, cioè criterio trascendentale di Bene in base a cui raffrontare i particolari eventi oggetti dei miei specifici giudizi morali. Tale necessità di assunzione di questa categoria è un dato strutturale di ogni coscienza umana, indipendentemente dalle differenze di contenuto in base a cui ciascuna persona attribuisce un significato "materiale" di tale "Bene", quindi compresi anche chi aderisce alla visione liberale e individualista: l'individualista che vede il bene comune come puro insieme dei beni dei singoli utilizza la categoria di Bene in sè non meno di come la utilizzi il "collettivista" fautore di uno stato etico interventista a livello economico/sociale: cambia il contenuto, ma non la forma, e fintanto che la forma, cioè il fatto di porre tale idea di Bene in sé, al di là del contenuto con cui la definiamo, come criterio valido in ogni circostanza ci troviamo ad agire, non ha alcun senso pensare che chi "riempie" tale idea sulla base di un certo contenuto anziché un altro sia più disposto a lasciar andare la coerenza nella condotta, sulla base del "tutto è permesso". In questo senso non trovo un nesso consequienziale tra teoria politica liberale individualista, ed empirismo: qualunque persona si preoccupi di fondare a livello di princìpi primi la sua scala di valori non potrà, proprio per necessità logica, non riferire i suoi giudizi morali a un ideale di "Bene in sé" trascendentale e non empirico. Nel caso dell'individualista il "Bene in sé" coinciderà con il valore della libertà individuale, il valore per il rispetto verso ogni persona di scegliere liberamente il suo percorso di vita sulla base delle proprie peculiari inclinazioni personali: ovviamente è legittimo discutere e criticare i presupposti teorici della concezione, antropologica e sociologica, che esprima il suo pensiero, ma non la sua onestà intellettuale nell'essere coerente con tale principio, non più che discutere la coerenza morale del collettivista che invece riempie la sua soggettiva (ma trascendentale nell'applicazione formale) idea di "Bene in sé", con l'idea di società o Stato organico. Perché si dia un etica degna di questa nome (ovviamente, non necessariamente condivisa) è sufficiente l'atteggiamento formale con cui la si utilizza come parametro ultimo e universale del nostro agire particolare, al di là dei contenuti. Ritengo questa distinzione tra forma e contenuto delle asserzioni morali come fondamentale per evitare di incappare in un pericoloso equivoco, cioè quello di considerare come arbitrio e puro relativismo infondato ogni concezione etica da cui dissentiamo sulla base dei differenti contenuti, non considerando che tali differenze non precludono per ciascuno la coerenza con la forma universale del valore che ciascuno pone come incondizionato e più importante degli altri
#275
per Ipazia

Mi pare di poter concordare con l'ultimo messaggio, senza dubbio la pericolosità è (e dovrebbe essere anche l'unica) è motivazione per infliggere pene, la rieducazione non dovrebbe essere intesa come un allentare i controlli sui carcerati col rischio di lasciarli poter tornare a compiere danni, ma proprio a escogitare percorsi di reinserimento finalizzati a disinnescare a livello interiore la volontà criminale. Per questo porsi il problema della rieducazione non è affatto buonismo o pietismo verso i criminali, o almeno, non solo questo, ma funzionale alla sicurezza dei cittadini: è funzionale alla sicurezza agire in modo che, una volta scontata la pena, il detenuto torni a vivere nella società motivato a rispettarne le norme e i princìpi e a non tornare a delinquere. L'unica alternativa in relazione a tale fine sarebbe imporre automaticamente l'ergastolo per qualunque tipo di crimine, cosicché per ogni reato il criminale, anche se non rieducato, non potrebbe più tornare a nuocere, ma appare evidente come tale soluzioni sia irricevibile, sia dal punto di vista della sproporzione della pena rispetto alla gran parte della gravità dei reati, sia dal punto di vista della conseguenza del sovraffollamento carcerario con tutto quel che ne consegue


Per Oxdeadbeef

non nego l'esistenza di sacche di impunità e lassismo come problema che giustamente colpisce e indigna l'opinione pubblica, ma non ritengo questo ragion sufficiente per venir meno al principio del rispetto della dignità del carcerato e della finalità rieducativa della pena insiti all'articolo 27 della Costituzione. Questi principi non hanno minor valore di quello della certezza della pena, e il fatto che quest'ultimo sia troppo stesso disatteso non toglie nulla all'importanza del rispetto verso quelli. Va bene comprendere le ragioni che possono alcune pulsioni a livello di massa, ma sempre stando attenti a non varcare il confine che separa la comprensione dalla giustificazione o legittimazione politica. A cosa si ridurrebbe una società nel quale ciascuno si sente legittimato a usare mancanze o inefficienze dello stato come un alibi per deviare dal rispetto di principi fondamentali, come se un errore potesse giustificarne un altro producente conseguenze in senso contrario, invece che determinare ulteriore male?
#276
ho l'impressione che uno dei motivi per cui non si investe come dovrebbe sulla rieducazione sta proprio in un timore da parte di chi ha responsabilità decisionali in questo campo di subire attacchi da parte di un'opinione pubblica sempre più ubriacata di mentalità giustizialista e forcaiola che etichetta come "buonismo" ogni misura inerente il principio per il quale la giustizia non è vendetta e la pena non è una punizione etica, bensì va intesa in  uno stato civile come un "male minore" che andrebbe applicata solo entro i limiti in cui serve a impedire che un criminale possa continuare a danneggiare da libero altri individui. Purtroppo, a livello emotivo/patetico il giustizialismo ha una voce ben più potente del garantismo: nell'immediatezza colpisce più la rabbia verso chi compie un crimine, la voglia di vendetta che ci spinge a provare piacere nel somministrare sofferenze anche inutili solo come sfogo per la nostra indignazione, rispetto a una lucida e calma razionalità che valuta quanto una pena sia funzionale o meno al benessere complessivo della società, evitando ogni eccesso che sia motivato dal semplice piacere sadico e gratuito di vedere soffrire persone oggetto della nostra rabbia. In questo senso il problema affonda le radici in una mentalità che fa leva su istinti strutturali antropologici, che solo una educazione improntata a comunicare un valore opposto ad essi, il valore che ogni essere umano mantiene una dignità interiore che trascende la malvagità delle azioni esteriori che compie, che ogni persona ha la possibilità di oggettivare le azioni commesse nel passato, pentirsene e diventare una persona migliore, tornando a giocare un ruolo armonico nel consesso civile, e se anche così non fosse, non potremmo togliere tale opportunità in modo aprioristico, potrebbe entro certi limiti minimizzare. Poi quando a livello politico ci troviamo un ministro dell'interno che si augura che un condannato "marcisca in galera"  anziché augurarsi un trattamento carcerario severo ma dignitoso e finalizzato ad un recupero, per lisciare il pelo agli istinti peggiori, più violenti, vendicativi dell'opinione pubblica, strumentalizzandoli per guadagnare ulteriore consenso, è inevitabile che tali istinti siano sempre più legittimati a livello politico-culturale, rafforzando il loro peso, e schiacciando i difensori dei principi dello stato di diritto in una posizione minoritaria, da etichettarsi spregiativamente come "elite indifferente ai sentimenti popolari", solo perché preferiscono usare un minimo di razionalità, anziché lasciarsi andare a esprimere posizioni frutto della pura immediatezza emotiva.
#277
per Sgiombo
una differenza fra materia inanimata e materia animata sarebbe possibile partendo dalla definizione di "vita" come condizione nella quale un ente è capace di sviluppo o movimento sulla base di un principio interno, quindi in effetti sembra esserci qualcos'altro al di là del riferimento generico a un "dinamismo". Possiamo chiamare dinamismo anche il volo della foglia sbattuta dal vento, foglia che però non rientrerebbe nella definizione di "essere vivente", in quanto il suo muoversi è totalmente determinato da un fattore esterno ad essa, cioè il vento, mentre esseri viventi come piante o animali, pur avendo la causa originante il movimento al di fuori di essi, perpetuano in modo automatico la tendenza (anche se non sufficiente, in quanto necessitante di integrazione con fattori esterni) ad attualizzare progressivamente le potenzialità insite nella loro natura originaria, quindi ammettiamo in essi un principio interno del dinamismo. Non tutti gli enti materiali avrebbero tale "motore interno" in loro stessi. Al di là di questo punto, importantissimo ma che ci porterebbe, penso, troppo fuori dal tema della discussione, che si tratti di materia animata o inanimata, ogni materia esiste con determinate caratteristiche che differenziano tra loro enti che condividono lo stesso tipo di materia, e questo, ne abbiamo già discusso molte altre volte, è la forma, la logica interna che organizza il complesso dello spazio che la materia occupa, e che non potrebbe svolgere tale ruolo di organizzazione se essa fosse a sua volta delimitata in uno spazio, cioè qualcosa di materiale, incapace così di applicarsi allo spazio della materia nel suo complesso, dandogli un'unità, e caratteristiche qualitative che differenziano il singolo oggetto materiale dagli altri. Ciò che fa di una sedia una "sedia" non può essere una parte dello spazio della sedia, cioè qualcosa di materiale, ma la logica unitaria che collega sulla base di un senso (in questo caso, l'idea di sedia nella mente di chi l'ha progettata) le singole parti della sedia fra loro senza essere a sua volta una parte. Nel caso del cervello umano possiamo chiamare "anima razionale", la logica organica, di per sé immateriale, ma sempre applicata su un materiale, che collega le singole parti tra loro in un'organizzazione funzionale, evitando che la materia, una volta lasciata a se stessa, non diventi massa informe e indifferenziata.

La dualità tra soggettività attiva della coscienza e staticità passiva del cervello osservato dall'esterno corrisponde a quella tra mente e materia. I fenomeni insiti nella nostra mente sono contenuti nelle nostre esperienze vissute che sentiamo dentro di noi, e in quanto "vissuti", sono attività dinamiche, nella nostra percezione interna sentiamo i nostri sentimenti come qualcosa di dinamico, che sorge, si amplifica, diminuisce d'intensità, si spegne ecc.. Tutto questo è assente nell'osservazione esteriore del cervello, considerato nella sua pura materialità, cioè colto dai sensi corporei. I sensi possono solo entrare in contatto con le cose nella misura in cui esse hanno materia, una spazialità. E nella misura in cui qualcosa occupa uno spazio manca di dinamismo, in quanto il dinamismo implicherebbe l'intervento di un principio a-spaziale che configura l'oggetto spaziale dandogli una determinata direzione e modalità di sviluppo e movimento, insomma un'unità di senso, per così dire, lasciato a se stesso, senza una forma, lo spazio sarebbe solo estensione, divisibile, passiva, senza alcuna organizzazione interna capace di imporre alla cosa in questione un suo autonomo e libero modo d'essere, anche contrastante i fattori esterni.
#278
per Viator

non ho mai pensato a una totale estraneità della vita rispetto alla materia, ma a una distinzione necessitata dal dover rendere ragione di due distinti aspetti, quello della vita e quella della finitezza, nella conoscenza degli esseri viventi. La vita rende, direi quasi tautologicamente, ragione di se stessa, mentre la finitezza è data dalla componente materiale, a cui la vita è legata, per cui essa non è puro atto del tutto capace di autodeterminarsi, ma sempre in relazione con uno spazio nel quale si entra in contatto con dei condizionamenti esterni che impediscono che tutte le potenzialità insite nel concetto, nella forma dell'essere vivente, possano attuarsi pienamente: ad esempio, il linguaggio è certamente una proprietà insita nell'idea dell'anima razionale, della forma, ma la nostra componente spaziale e materiale ci lega a un certo ambiente esterno, che influenza le possibilità di poter esprimere al meglio tale proprietà, e fa sì che un uomo cresciuto in un ambiente come la giungla avrà quantomeno grandi problemi a sviluppare un linguaggio allo stesso livello di altri individui come lui nati con la stessa forma ideale dell' "umanità", ma cresciuti in città e aventi un'istruzione. Quindi non trovo un rapporto di separazione tra vita (e anima, che intendo come "principio vitale", quindi come concetto sempre necessariamente connesso a quello di "vita") e materia, ma di distinzione interna però a un'unità, a una complementarietà.

Non vorrei aprire il discorso della vita oltre la morte, perché si devierebbe troppo dal topic, mi limiterei a dire che il vincolo della finitezza, in quanto costitutivo della vita umana, anche accettando la possibilità di una vita oltre la morte, vincolerebbe la vita, dovrebbe imporre alla forma, cioè all'elemento più specificatamente vitale e dinamico, a mantenere, al fine della sua preservazione, un  contatto con una componente identificabile con la materia (magari anche intendendola diversamente da come oggi concepiamo il nostro corpo)


Per Sgiombo

definendo la vita come quella condizione in cui un dinamismo è in atto a partire da un movente interno al soggetto a cui la vita viene attribuita, non troverei alcun ostacolo a comprendere tale condizione ad ogni materia vista come "dinamica", cioè capace di produrre azioni causali sulla base di una propria organizzazione interna. In parole povere, non trovo alcuna differenza concettuale tra "vita" e "dinamismo". Questo perché il dinamismo che tende a produrre vita può produrla, perché la vita, con tutte le sue proprietà insite nella specie particolare di "vita" a cui facciamo riferimento, è già presente come tendenza a orientare il dinamismo in direzione della progressiva attualizzazione delle proprietà che ne definiscono il concetto. Quella che trovo assurda è l'idea di dover dividere (il che è appunto frutto di una mentalità materialista, tesa a spezzettare, dividere, spazializzare, anziché cogliere l'unità, la durata complessiva di un processo) un tempo T1, in cui esisterebbe la materia "dinamica ma senza vita" e un tempo T2, in cui la vita sembrerebbe apparire dal nulla, senza alcun legame di continuità logica con il dinamismo presente nel momento T1. Se si vuole riconoscere le fasi del processo come connesse tra loro, allora è necessario che ogni fase sia già in qualche modo presente nelle precedenti, cioè che il dinamismo muova da un'origine in cui sia già predelineato ogni successivo sviluppo, cioè un dinamismo che esprime un'idea di sviluppo coerente con il suo punto di partenza, uno sviluppo autonomo e che dunque può tranquillamente essere ricondotto alla definizione di "vita". Anche il richiamo all' "organizzazione" mi pare rispecchi quello che provavo a intendere io con organizzazione, consistente in una forma che appunta organizza la materia imponendo una logica complessiva attrezzata a produrre determinati effetti, e nel caso degli esseri viventi, tale organizzazione si costituirà come organizzazione mirante allo sviluppo e alla preservazione della vita, a tutti gli effetti "organismo". In questa posizione non c'è rischio di pervenire a panpsichismi o animismi di sorta, anche se riconosco che potrei aver generato equivoci parlando di una "vita cosciente" presente fin dall'inizio nella materia. Non volevo dire che sin dall'inizio dell'innescamento del processo vitale degli esseri coscienti la coscienza sia già presente nella sua piena attualità, ma che è in qualche modo presente come tendenza a sviluppare progressivamente le sue proprietà, quindi come orientamento impresso al dinamismo che lo necessita internamente, fin dall'inizio. Fin dall'inizio la materia vivente a predeterminata a realizzarsi, nel caso degli esseri viventi coscienti, come vita cosciente. Il presupposto da cui cerco di muovere è l'idea che in ogni rapporto di causa-effetto, l'effetto non sia solo un momento secondario e accidentale, ma sia già contenuto necessariamente nella causa, in quanto fa sì che la causa produca quel tipo di effetto e non un altro. Condivido l'idea che la coscienza comprenda il cervello e non viceversa, quantomeno, la condivido nel senso che l'esperienza sensibile in cui il cervello viene osservato è uno tra le forme, non l'unica, in cui la vita cosciente si esprime, e quindi è impossibile pretendere di conoscere nel complesso dei suoi aspetti la coscienza, che in quanto soggetto stesso della stessa osservazione sensibile del cervello non può coincidere con le sue oggettivazioni visibili dall'esterno. Messa così, però mi pare che il discorso rientri nel riconoscimento della dualità tra soggettività vitale e dinamica che costituisce l'attività cosciente e la passività statica di un cervello che dal punto di vista dei sensi si coglierebbe come mera spazialità, che non troverei certo un'obiezione al mio punto di vista
#279
perché la materia cerebrale produca la coscienza è necessario che sia organizzata a produrre un'attività causale adeguata e proporzionata alla complessità dell'effetto. Dunque è necessario che fin dall'inizio la materia esista come materia formata e formata come materia dotata di vita cosciente. La materia lasciata a se stessa, senza forma sarebbe solo mera spazialità indefinita e indeterminata, è la logica interna che ne organizza le singole parti a renderla funzionale a produrre determinati effetti. Quello che trovo assurdo è l'idea per cui la vita (e conseguentemente la coscienza, che altro non è che una peculiare modalità della vita) possa essere la conseguenza derivata e secondaria di qualcosa che vita non è, cioè una pura materialità statica, che a un certo punto, non si sa perché, dovrebbe accendersi, negando se stessa come staticità, e producendo fenomeni complessi come la vita (cosciente e non) senza che fin dall'origine fosse già predisposta a produrre quegli effetti, cioè ad essere materia configuarata come dinamismo rivolto ad agire in una determinata direzione. La mia tesi è che la vita sia un fenomeno originario, non può essere la conseguenza di qualcosa che è "non-vita", perché l'azione causale necessaria a produrre la vita è a sua volta energia, dinamismo, e quindi vita, che quindi non sarebbe l'effetto secondario, ma azione causale originaria, che man mano si sviluppa sulla base di un senso prestabilito, la vita cosciente fin dall'inizio del suo sorgere possiede, anche se in moto latente, tutte le potenzialità inerenti l'idea di "coscienza" che poi si andranno progressivamente ad attualizzare. La vita, per definizione è autodispiegamento, "entelechia", dinamismo che si sviluppa a partire da un motore interno al soggetto a cui la vita va attribuita. Quindi la vita cosciente è già originariamente elemento formale che configura il cervello, altrimenti il cervello, inteso come pura materia sarebbe solo spazio passivo incapace di alcuna attività causale volta a produrre determinati effetti. E questo elemento formale e immateriale è ciò che possiamo chiamare "anima", forma che organizza lo spazio senza essere a sua volta delimitata spazialmente, delimitazione che le impedirebbe il suo porsi come tendenza unitiva volta a tenere unito lo spazio materico dandogli una certa organizzazione unitaria e funzionalità corrispondente alle proprietà del tipo di vita che si forma. Non sarebbe necessario pervenire a un dualismo sostanzialistico tra anima e materiale cerebrale, in quanto avremmo l'anima sarebbe solo forma e organizzazione interna sempre applicata però a un contenuto materico e spaziale. Il fatto che le neuroscienze o altre forme di sapere empirico, basate sull'esperienza sensibile, non riescano a individuare tale elemento immateriale non indica certo la sua assenza effettiva, ma solo i limiti epistemici dei metodi utilizzati, che basandosi sui sensi, adeguati al coglimento di realtà materiali, non possono che limitarsi a recepire gli effetti spazializzati sulla materia della forma che la rende funzionale, effetti adeguati ai sensi che li recepiscono, ma non la forma in sé che, in quanto unità dello spazio, coinciderebbe con l'unità individuale dell'Io. Ed ecco perché è nell'esperienza interna, nell'introspezione che avvertiamo la coscienza come insieme dinamico dei vissuti, cioè l'Io che riflette su se stesso, sulla sua unità individuale avverte l'unità della forma, della vita che opera dinamicamente sulla materia (potremmo intendere l'autocoscienza, coscienza da parte dell'Io della sua unità individuale come riflesso fenomenico dell'unità formale configurante la materia, che invece è concreto fattore ontologico), mentre nell'osservazione dall'esterno tale forma si manifesta solo nei suoi effetti spaziali sulla materia, cioè sull'ambito corrispondente alla modalità apprensiva in cui avviene tale osservazione dall'esterno, cioè i sensi corporei
#280
Attualità / Re:uno stato binazionale
08 Febbraio 2019, 17:07:26 PM
per Anthony

mi offri lo spunto per chiarire che la razionalità che trovo nella prospettiva che ho provato a esporre non starebbe tanto nelle realistiche possibilità di essere effettivamente accettata dalle parti in causa, ma dal considerarla, nell'ipotesi che davvero sia accettata, come la più valida per preservare la pace. Poi la storia insegna che non sempre le posizioni più razionali sono quelle che finiscono con l'essere realmente perseguite, ed è qui che "razionalità" e "realismo" non possono più essere considerate categorie necessariamente coincidenti.


Per Viator

Più che la Turchia, dovendo riferirmi a un paese dell'area che avrebbe senso si assumesse la responsabilità di offrire ai palestinesi un'opzione realista più o meno soddisfacente, e contemperato al diritto all'esistenza di Israele, citerei la Giordania. In fondo, prima della guerra dei 6 Giorni, al confine orientale di Israele non vi era alcuno stato palestinese, ma la Giordania, così come Gaza apparteneva all'Egitto, Prima che i nazionalisti di Fatah cominciassero intorno agli anni '60 a utilizzare il termine "palestinesi" per definire gli arabi abitanti nei territori occupati da Israele, quegli arabi erano riconosciuti a tutti gli effetti come "giordani" (e egiziani nel caso di Gaza). L'ipotesi di una confederazione tra palestinesi e regno di Giordania (magari come formula provvisoria prima di concedere progressivamente margini di autonomia sempre maggiori a un'entità politica specificatamente palestinese) potrebbe essere un'altra opzione percorribile, Israele è da anni in pace con la Giordania, e potrebbe accettare di avere come confinante uno stato retto da una monarchia moderata, capace di tenere a freno gli istinti ancora bellicosi dei loro confederati palestinesi. Ma mi pare che al momento la Giordania non abbia alcuna intenzione di accollarsi una patata bollente così scottante come uno stravolgimento statuale per integrarsi con i palestinesi e coinvolgersi in uno scenario così instabile (del resto i rapporti tra giordani e i loro "fratelli" palestinesi non sono mai stati idillici, vedi massacri di profughi palestinesi di Settembre Nero organizzati non da Israele, ma proprio dalla Giordania, che vedeva la presenza di basi armati e militanti palestinesi nel suo territorio di mal'occhio)


Le considerazioni storico-etniche esposte sono interessanti, ma penso, in fondo secondarie riguardo la questione sulla miglior strategia possibile attualmente. Ciò che conta nello sviluppo di un senso di appartenenza a un popolo e ad un territorio e nelle azioni che da questo senso di appartenenza discendono è la percezione attuale della propria identità che si esprime a livello coscienziale soggettivo, non necessariamente legati a un'oggettivo legame etnico o biologico da intendere in modo statico. Non è tanto sul sangue, ma sullo spirito, sulla coscienza degli individui che ne fanno concretamente parte, che si fonda l'unità di un popolo
#281
Attualità / uno stato binazionale
05 Febbraio 2019, 18:30:03 PM
la formula "due popoli due stati" ho l'impressione stia perdendo sempre più forza nel porsi come modello di risoluzione del conflitto arabo-israeliano. Gli insediamenti ebraici in Cisgiordania continuano a svilupparsi, o  quantomeno il governo israeliano (e forse nemmeno l'opposizione laburista) non sembra intenzionato a ridurli o smantellarli. Dall'altro lato ancora gran parte dell'opinione pubblica palestinese e le fazioni che la rappresentano non sembrano volersi rassegnare ad accantonare la speranza, magari su lunghi tempi, di veder scomparire lo stato d'Israele, e riconquistare la cosiddetta "Palestina storica" pre-1948, non accontentandosi di uno stato entro i confini del 1967, e stando così le cose gli israeliani hanno le loro ragioni nel temere la prospettiva di uno stato sui loro confini del 67 ancora capeggiato da fazioni ostili, fazioni che, anzi, potrebbero vedere rafforzata la loro fiducia nella possibilità di ottenere sempre di più, interpretando i cedimenti della controparte come un segno di debolezza di cui approfittare (come si dice, ti do un dito e tu vorrai prenderti tutto il braccio). Gaza è la conferma empirica della cosa. Il ritiro totale delle colonie ebraiche dalla striscia indetto da Sharon non è stato affatto interpretato come gesto distensivo da sfruttare per riaprire un negoziato, ma un ulteriore incentivo per proseguire la lotta armata: in breve tempo la Striscia di Gaza è diventata una continua base per il lancio di missili sul territorio israeliano ad opera di Hamas

Stando così le cose penso che lo soluzione migliore e più realistica per porre fine al conflitto sia quello di uno "stato unico binazionale", strutturato come una confederazione su base etnica con pari peso politico fra la comunità ebraica e quella araba. Ho provato, un po' per gioco, a immaginarmi uno scenario utopico che possa essere il più funzionale possibile in vista della preservazione della pace, e resto in curiosa attesa di vostre eventuali impressioni sull'idea (che sicuramente non sarà affatto originale, ma immagino già teorizzata da molti altri). Il territorio consisterebbe nell'unità dell'attuale Israele e dei territori palestinesi (Gaza e Cisgiordania). Occorrerebbe classificare giuridicamente ogni cittadino della Confederazione come ebraico o arabo (nel caso di figli di eventuali coppie miste, il figlio una volta maggiorenne dovrebbe decidere a quale delle due comunità aderire, immagino che man mano che i rancori cominceranno a diminuire coppie miste potrebbero diventare casi sempre più frequenti, ma al contempo diminuirebbero anche i motivi di tensione, favorendo da parte dei genitori la serena accettazione delle libere decisioni dei loro figli) e creare due parlamenti ben distinti, uno ebraico (immagino con sede a Tel Aviv) composto solo da membri di etnia ebraica ed eletto da cittadini della stessa stirpe, e un parlamento arabo (immagino con sede a Ramallah) composto solo da membri arabi ed eletti da cittadini arabi. Ogni legge per essere promulgata deve passare per l'approvazione di entrambi i parlamenti, nessuna esclusa. Il presidente della repubblica, incarnazione dell'unità dello stato, potrebbe essere a rotazione scelto tra la comunità ebraica e quella araba, mentre il capo del governo dovrebbe appartenere all'etnia diversa da quella a cui appartiene il capo dello stato. Il capo dello stato andrebbe eletto da entrambi i parlamenti in seduta comune, di modo che venga riconosciuta come figura stimata e riconosciuta anche dall'etnia diversa da quella di appartenenza. Anche il governo per restare in carica dovrà godere della fiducia di entrambi i parlamenti. Il punto decisivo in questo scenario è che le due principali questioni che ostacolano più fortemente la possibilità di un accordo, lo status di Gerusalemme e il "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi nei territori che dovettero abbandonare in seguito alla guerra del 1948 verrebbero risolte in modo ottimale (furono soprattutto queste due questioni quelle su cui Arafat si impuntò facendo fallire i negoziati di Camp David nel 2000): Il problema di come spartire Gerusalemme tra due stati non si porrebbe più perché non ci sarebbe alcuna necessità di spartizione. Come capitale confederale di un unico stato, Gerusalemme resterebbe unita e aperta, patrimonio in comune fra ebrei e arabi, distinta dalle due diverse sedi dei due parlamenti etnici. Per quanto riguarda il rientro dei profughi, il motivo che oggi rende impossibile a Israele accettare il riconoscimento di tale "diritto" è il timore di stravolgere completamente i rapporti di forza demografici, lasciando che gli arabi, stante anche un maggior tasso di natalità, in breve tempo diventino anche in Israele maggioranza, e lasciando gli ebrei sempre più in minoranza, quindi sempre più deboli. Una volta che le due comunità avranno lo stesso identico peso politico, essendo rappresentate da due parlamenti aventi tale peso politico come identico e la stessa possibilità di intervenire nel processo di formazione delle leggi, i rapporti di forza demografici diverranno irrilevanti: indipendentemente dalla forza numerica delle due comunità, il loro peso politico sarà distribuito in modo eguale, cioè anche l'ostacolo principale alla risoluzione del problema del ritorno dei profughi verrà meno. Unico dovrebbe essere l'esercito e soprattutto il sistema d'istruzione, i cui programmi dovranno essere fortemente mirati all'integrazione e all'educazione al reciproco rispetto e alla reciproca conoscenza della storia e della cultura dei due popoli. Unica la costituzione, incentrata sul richiamo alla funzione di tutela e rappresentazione del popolo e della cultura ebraica e del popolo e della cultura araba di Palestina, nell'eguaglianza dei diritti e dei doveri. Per quanto riguarda il nome troverei bella la scelta del nome "Terrasanta", fermo restando la laicità dello stato, che del resto sarebbe ben tutelata dal tipo di struttura politica che ho provato a tratteggiare

Personalmente, in linea di principio avrei molta poca simpatia per un sistema politico così incentrato sulle divisioni etniche anziché sull'individualità dei singoli, ma occorre ammettere che una soluzione del genere sarebbe l'unica possibile per risolvere i problemi di un contesto contingente così speciale, e in casi come questi sia lecito in parte deviare un po' dai principi assoluti, per prendere pragmaticamente in considerazione i problemi del contesto particolare. Poi la speranza sarebbe che, a lungo andare, man mano che le cose prendano a funzionare sempre meglio e i rapporti tra le due comunità procedano verso la normalizzazione, diventi opportuno pensare a stemperare il peso delle differenze etniche nei meccanismi istituzionali per giungere a una più coerente fusione in un unico popolo. Ma per quello ci vorrà tempo
#282
per Oxdeadbeef

Chiedo scusa per la mancata risposta alla tua domanda nel tuo messaggio di qualche giorno fa, è possibile mi sia sfuggita, oppure dopo averla colta me ne sia dimenticato

Mi sento di dover premettere che l'utilizzo di espressioni come "morte di Dio" o "morte del sacro" mi risultano indigeste, in quanto mi "puzzano" di storicismo, cioè la mentalità per il quale l'analisi concettuale dovrebbe lasciarsi riformulare sulla base delle valutazioni sul succedersi storico delle varie egemonie culturali. Certamente si può dire che soprattutto dopo Nietzsche la possibilità di attestare l'esistenza di Dio o più generalmente la verità di un sistema metafisico ha perso la sua priorità nel contesto storico-culturale, ma questo è qualcosa che interessa lo storico della filosofia, non il filosofo teoretico, che invece dovrebbe badare unicamente al rigore logico-argomentativo del discorso, senza lasciarsi condizionare in modo conformistico dalle mode dominanti tra le opinioni dell'ambiente in cui vive. Dio o il Sacro  non sono morti, la loro "morte" può essere intesa solo come una metafora, nulla di più, in sede di riflessione teoretica il loro utilizzo sistematico rischia di deviare il discorso verso derive extrateoretiche: o Dio è sempre esistito o non lo è mai, o un fondamento universale dell'etica è sempre stato possibile o non lo è mai stato, a livello teoretico ciò che conta è cogliere la struttura generale ed essenziale delle cose che tematizziamo  al di là del variare delle opinioni storiche. La "scomparsa del sacro" è un'espressione dunque che ha un senso prevalentemente storico, non teoretico, perché dal punto di vista teoretico non si danno scomparse o riapparizioni, ma solo realtà permanenti, e per quanto riguarda l'etica ciò che permane nell'uomo, è la sua natura di animale razionale. La razionalità si esprime nel raffrontare, connettere in relazione logica elementi molteplici, dunque connettere la valutazione morale di una singola azione, di un singolo evento a dei parametri di riferimento a cui si attribuisce una forma universale, cioè è proprio la razionalità che necessita di richiamo ad un piano trascendentale, un'idea di "giustizia in sé" come modello a partire da cui valutare l'adeguazione delle singole cose giuste, ideale che ciascuno di noi pone come valida al di là della particolarità delle circostanze, finché l'uomo resterà "uomo", cioè manterrà il tratto essenziale che lo definisce, la razionalità, il riferimento a questo piano non può venir meno. Resta arbitrario il contenuto con cui materialmente riempire tale ideale di giustizia, ma un riempimento in chiave teistico non lo troverei più logicamente fondato rispetto all'attribuzione di un valore laico (è vero che prima ho scritto che la legge morale emanata da un essere che riconosciamo "personale" può suscitare una spinta emotiva più forte rispetto al coinvolgimento derivante dall'adesione di un ideale astratto, ma penso anche l'intensità emotiva sia anche accompagnata da una maggior mutevolezza nell'avvertire il richiamo: la voce di un Dio/Persona può muovere con maggiore fervore a compiere la sua volontà, ma al contempo, una volta che le aspettative storiche nei suoi confronti vengono disattese, anche più forte sarà la delusione, la disperazione e la rabbia nel rigettare tale richiamo come vincolante, come quando ci sentiamo traditi da un amico, mentre al contrario di fronte a un ideale etico astratto magari siamo spinti a aderire meno intensamente a livello emotivo, ma offre maggior "solidità", dovuto al fatto che l'ideale, nella sua astrattezza, mantiene il proprio significato indipendentemente dalle aspettative nel fatto che esso effettivamente possa concretamente incidere sulla storia, come invece ci si aspetterebbe dalla volontà e dalla potenza di una Persona)
#283
per Oxdeaedbeef

l'idea che la confutazione di una tradizione metafisica debba necessariamente condurre alla perdita di qualunque fondamento etico universale mi pare implica una concezione di tipo etico/cognitivista, cioè l'idea che il giudizio morale derivi dalla conoscenza teoretica della realtà fattuale: una volta caduta ("confutazione" è una categoria che riguarda il piano conoscitivo, è la dimostrazione della falsità di una convinzione riguardante la verità oggettiva sulle cose) una determinata visione teorica sulla realtà cade anche la possibilità di un fondamento saldo dell'etica. Questo modo di intendere il rapporto tra teoretica ed etica mi pare rientri nella falsariga dell'intellettualismo socratico che identifica il male con l'ignoranza. Non condivido questo modo in quanto per il me giudizio etico e teoretico non si implicano ma attengono a punti di vista diversi, quello teoretico alla constatazione neutra della realtà "così come è", quello etico ad agire sulla realtà "come dovrebbe essere", ed è proprio lo scarto tra i due concetti che rende necessaria l'azione, e di conseguenza l'etica. Non esiste alcun dato fattuale oggettivo che renda un'etica più legittima di un altra. La differenza tra un credente e un ateo è essenzialmente una controversia teoretica, riguarda un'opinione sulla realtà oggettiva, ma nulla esclude in linea di principio che chi crede nell'esistenza di Dio possa non porre tale assunto teorico come fondamento etico (come può essere ad esempio in certe forme di deismo razionalista, dove ci si limita a pensare a un Dio creatore e ordinatore dell'Universo togliendo però la componente della rivelazione storica e di una serie di prescrizioni etiche che ne discendono), così come, viceversa, che un ateo non possa in nome dei suoi ideali secolarizzati impegnarsi con fervore e coerenza senza alcun bisogno di "come se", di dissimulare una posizione teoretica, che in realtà non è rilevante per la formazione di giudizi morali. Non va confusa l'universalità con l'oggettività: non è l'oggettività a fondare un sistema di valori, se lo fosse la realtà dei fatti dovrebbe sempre necessariamente coincidere con i valori senza alcun bisogno di agire per intervenire, cercando di colmare il divario tra "realtà così come è " e realtà "come vorremmo che fosse", bensì è sufficiente la forma dell'universalità applicata a un contenuto che però viene sempre posto da un sentimento soggettivo, una sensibilità morale comune a ciascuno a tutti, indipendentemente dalla diversità delle concezioni teoriche
#284
non ammettere l'esistenza di Dio non implica mancare di un fondamento su cui basare una morale, in questo caso il fondamento consisterà in un valore, un ideale "laico", non necessariamente consistente nell'obbedienza alle prescrizioni etiche espresse in una rivelazione pseudo-divina. Ciò che è necessario al fondamento, non è tanto il contenuto con cui viene definito, ma la forma universale con cui la si pone come ideale regolativo valido in ogni possibile circostanza in cui ci si trova ad agire. D'altra parte però trovo anche sensata l'idea per cui nel momento in cui l'ideale viene fatto coincidere con l'amore verso un principio di cui si ammette la realtà, a livello psicologico, l'obbedienza a un fondamento viene percepita come maggiormente rilevate e vincolante, perché associata a qualcosa di più concreto, rispetto all'adesione ad una categoria astratta e impersonale, di fronte a cui diviene più difficile (non impossibile) provare quel coinvolgimento sentimentale necessario per interiorizzare in profondità il comando. In fondo, questa è la stessa dinamica per cui spesso, nell'esperienza quotidiana, il consiglio, l'insegnamento proveniente da una persona concreta, un amico, un familiare viene avvertito in modo più profondo rispetto a un imperativo che riceviamo in modo più "intellettualista" come per esempio leggendo un manuale di etica. Il che non vuol dire che l'ateo che non associa l'ideale etico a un Dio personale avvertirà sempre e necessariamente con meno forza persuasiva le prescrizioni che ne derivano rispetto al teista, ma che il richiamo alla concretezza del fondamento (chiarisco che parlo di concretezza non nel senso che il Dio in cui crede il teista sia realmente concreto, ma nel senso che la sua fede lo porta ad avvertirlo, qua non stiamo discutendo della verità effettiva dell'esistenza di Dio, ma della relazione tra la fede in tale esistenza e la forza dei convincimenti etici che ne discenderebbero, cioè è un problema di percezione) è comunque un fattore, tra gli altri, che contribuisce a rendere più "vivida" la sua percezione e a rinforzare emotivamente la spinta a voler essere coerente con l'insegnamento etico, che per il credente non proviene da un'idea ma da una Persona che si ama, come si ama un amico o un parente, anche se la sua voce risuona ben più smorzata per la sua collocazione extramondana
#285
Citazione di: 0xdeadbeef il 28 Gennaio 2019, 19:06:24 PM
Citazione di: davintro il 28 Gennaio 2019, 15:10:54 PMl'idea dell'esistenza di un Principio assoluto trascendente il nostro mondo, rende, in un certo senso "tutto possibile" in quanto relativizza ogni potenza appartenente al nostro mondo, mondo,
Ciao Davintro Senonchè, con "allora tutto è lecito", Ivan intende la legittimità di perseguire il Male... Certo, "legittimità" nel senso morale del termine; ovvero nel senso che se non esiste nessuna legittimità, allora tutto è legittimo (persino uccidere il proprio padre...). Non mi sembra questo il senso del tuo: "se Dio esiste, allora tutto è permesso". Certo sarebbe "permesso" il Male (Dio non impedisce il Male), ma non sarebbe "legittimo"... saluti

sul modo di intenderla di Ivan non concordo, dato che penso che un sistema di valori fondato su criteri trascendentali (non necessariamente trascendenti), cioè su assunti morali che ciascuno di noi pone come universalmente validi sia una struttura comune a tutti gli uomini, indipendentemente dal contenuto "materiale" con cui tale sistema viene riempito. L'ateo e il teista probabilmente divergeranno sul contenuto, ma non sulla struttura formale delle loro impostazioni etiche. Quello che intendevo, cercando di intendere l'espressione "tutto è permesso" in modo opposto rispetto a Ivan, non riguardava il piano della legittimità di un etica, ma il suo riconoscimento. Se Dio c'è, e il suo carattere di trascendenza non può renderlo del tutto conoscibile e oggettivabile per la limitata mente umana, allora è impossibile riconoscere l'effettivo contenuto con cui definiamo l'idea di "Bene", cioè la volontà di Dio. Il che non impedisce che ciascuno possa formarsi soggettivamente il proprio punto di vista su cosa è giusto o sbagliato, considerando i propri parametri come aprioristicamente validi, a prescindere dalla certezza che il proprio punto di vista sia davvero aderente alla volontà di Dio