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Messaggi - niko

#2701
Tematiche Filosofiche / Filosofi nel 2021
14 Giugno 2021, 00:42:02 AM
Il signor Fusaro ha il suo bel partitino oltreché il suo bell'orticello intellettuale, quindi il suo obbiettivo a breve-medio termine, oltre ai libri, le marchette televisive eccetera, per chi ancora non lo avesse capito è fare il parlamentare, tipica professione produttiva nel senso settecentesco e giacobbino prima, e coscienzainfelicesco ed hegeliano poi, del termine (se domani sparissero tutti i parlamentari, il mondo, ma penso anche l'universo intero, si incepperebbe nella sua intrinseca possibilità di andare avanti stante la dinamica antropologica attuale, e si fermerebbe).

Quindi il minimo che si possa dire di un personaggio del genere è che crede nella possibilità di cambiare il sistema dall'interno, o almeno vuol far credere che lo creda, sta di fatto che quando ci riuscirà, e quindi molto presto (a diventare parlamentare, non a cambiare il sistema), pagheremo tutto noi, a lui e a famiglia (rigorosamente non arcobaleno), come al solito. Arrivato dove deve arrivare, il saluto del prof diventerà sempre più "caro".Comunque la fine del urss secondo il verbo del fusarismo/fusaresimo non segna neanche il trionfo della borghesia (magari...) ma l'epoca in cui il proletariato e la borghesia sono schiacciati insieme dalla mano della finanza turbo masso capitalista, e quindi sono tutti fratelli(ni) nella lotta nazional popolar Stato-etist rossobrun comunitarista che ne deriva.

E dico questo senza malizia, di un personaggio che di recente ho rivalutato tantissimo insieme a Sgarbi in quanto forse le uniche due voci "note", se non "autorevoli", del paese (siamo messi bene), che si sono levate in modo eclatante contro la dittatura sanitaria del covid, ma come "serietà" umana e politica complessiva li metto allo stesso livello, i due personaggi, Sgarbi e Fusaro intendo, solo che l'uno è in politica da tempo, l'altro sta per entrarci.
#2702
Citazione di: viator il 12 Giugno 2021, 17:26:29 PM
Salve niko. Intervento dotto e quasi chiaro il tuo, secondo me e come quasi sempre sai produrre. Grazie.


Comunque, soffermandosi sulla seguente tua citazione : "La cosa interessante è che da questo stallo non se ne esce ponendo l'essere (l'insieme degli enti) come causa, perché l'essere/insieme degli enti non sembra causare nulla al di fuori di sé, quindi l'effetto ultimo dell'essere è il nulla".............................in effetti l'essere, a parere anche mio, non appartiene alla categoria delle cause.

D'altra parte il non causar nulla fuori di sè - sempre a mio parere - non implica affatto l'essere il nulla. La logica infatti a questo punto vorrebbe che ciò che non esiste sia il "fuori di sè". Saluti.


Il fatto è che per molti pensatori, soprattutto antichi, è necessità logica che
la causa, qualsiasi causa, sia "fuor-dell'-effetto" di cui è causa, spesso troviamo ragionamenti del tipo, se x è causa di y, allora x non appartiene a y e non si esaurisce in y, da cui derivano gerarchie cosmogoniche e cosmologiche in cui spesso la causa ha più dignità, più durevolezza o più importanza dell'effetto. Questo perché la causa genera, ma non si esaurisce nella generazione o nel generato, rappresenta la possibilità eterna e in-temporale di ri-generare. Il problema, con ragionamenti di questo tipo, quando estesi all'essere come concetto e quando con essi si tenta di comprendere l'essere o di predicare qualcosa di definitivo su di esso, è che quando con y nell'equazione metti l'essere, x, in quanto residuo/esterno di y è il nulla, quindi si finisce per pensare il mondo come generato da una sorta di Dio/nulla, insomma i pensieri che all'origine del mondo pongono l'uno, non  sono identici a quelli  che all'origine del mondo pongono l'essere, perché l'uno è anche al di là della distinzione essere/nulla, quindi non esiste nella superiorità ontologica o gnoseologica dell'un termine sull'altro.


I paradigmi ontologici sono più realistici e pensabili di quelli ena-logici (basati sull'uno) dell'esistenza, e ancora più realistici e pensabili sono quelli che all'origine del mondo pongono un qualche tipo di molteplicità.
#2703
Fin da Platone il superessente/uno è stato identificato come causa dell'essere, poi, al procedere e al precipitare del pensiero e del sentimento umano occidentale in questa "mistica della ragione" che è risultata egemone rispetto al (vero) razionalismo e a agnosticismo dei presocratici, determinano una prevalenza della metafisica sulla filosofia, si è avuta anche una sorta di identificazione uno/nulla, quindi la conseguente posizione come causa dell'essere dell'uno/nulla (mi vengono in mento Plotino, lo Pseudo Dionigi, Per certi versi lo stesso Agostino, nel senso che l'infinita potenza di Dio e la creazione dal nulla, implica, l'identificazione Dio-nulla), quindi uno stallo in cui la causa dell'essere è il nulla, e l'essere è effetto rispetto a un Dio-nulla-superessente.


La cosa interessante è che da questo stallo non se ne esce ponendo l'essere (l'insieme degli enti) come causa, perché l'essere/insieme degli enti non sembra causare nulla al di fuori di sé, quindi l'effetto ultimo dell'essere è il nulla, il rimando dei due estremi/pseudoconcetti essere e nulla, si trova sia cominciando dal primo che dal secondo, è il nulla che come continuo toglimento, disvelamento e auto-negazione di se stesso fa essere essere l'essere, e l'essere che fa essere nulla il nulla come compiutezza dell'insieme che si tenta di immaginare sotto il nome di "essere" e assenza di effetti al di fuori di tale insieme anche stante la catena causale posta come più o meno eterna.


Dire che ciò che esiste è "situato", è sempre in qualche luogo e contesto, apre alla realtà di spazio e tempo come condizioni dell'esistenza del singolo ente e dell'insieme degli enti, spazio e tempo che però, perché l'esistente sia "situato", non hanno lo stesso livello di realtà e solidità l'uno rispetto all'altro e ridivengono metafore ed echi di quello che prima della "situazione" fu essere e nulla, lo spazio come ciò che non muta e non patisce è per analogia l'essere, che partecipa della situazione di qualcosa, il tempo come luogo del solo pensiero e del mutamento è il nulla, la tendenza al nulla che completa quella stessa situazione, mentre se si vuole essere idealisti e ci si mette dal punto di vista del pensiero/processo/durata, l'estensione, e dunque lo spazio, è il nulla, ma ciò implica che il tempo sia l'essere, nel senso che il pensiero/coscienza sembra avere realtà fondamentale, nel senso di cartesianamente innegabile, e questa realtà implica il tempo come luogo dell'anima, che permette di avere coscienza e pensare, mentre lo spazio è sempre mediato dal pensiero/coscienza, quindi dall'inesteso, l'estensione è un percepito o un pensato dell'inesteso, e quindi non ha, realtà fondamentale.


Insomma se l'esistente è situato potrei chiedere "situato dove?", e si torna alle categorie di spazio e tempo, o dell'essere ogni cosa potenzialmente "vuota", riducibile all'insieme delle relazioni con tutte le altre: non sappiamo dire cosa sia una cosa al di là delle sue relazioni con tutte le altre, come non sappiamo se il trascorrere solo temporale, e non evidentemente spaziale, del pensiero, o meglio dell' effetti che ci fa il pensiero (vita), esprima, in senso ontologico e gnoseologico, una superiorità, oppure un'inferiorità, su ciò che è anche spaziale, materiale, quindi porre l'esistente come "situato" apre alle categorie di tempo, spazio e movimento/relazione, che, rispetto all' "insieme" dell'essere, indicano che di tale insieme stiamo considerando solo una parte o un'insieme di parti quando pensiamo tale parte come situata, mentre ciò che non ha limiti noti, non è e non può essere situato.
#2704
 Il limite posto dal principio di indeterminazione non è solo strumentale, ma teorico, ovvero alcune grandezze non hanno significato simultaneo proprio perché alcuni eventi reciprocamente escludentisi su un piano macroscopico a livello microscopico si verificano simultaneamente.


L'elettrone in orbita intorno al nucleo ha tutte le posizioni possibili prima di essere osservato, non ne ha una inconoscibile che viene perturbata dalla misura, esiste l'effetto tunnel, l'esperimento della doppia fenditura, la non località degli stati entangled eccetera, quindi il linguaggio formale e matematico con cui descriviamo la simultaneità di quello che normalmente (macroscopicamente) non è simultaneo, non può implicare
anche, come possibilità espositiva dello stesso linguaggio, la "consueta" simultaneità di quello che normalmente (macroscopicamente) è simultaneo, pena il non riuscire a nominare correttamente quello che tale linguaggio si propone di nominare; un sasso che lancio con la fionda, per fare un esempio qualsiasi di oggetto macroscopico, ha una posizione e una quantità di moto simultaneamente significative, possiamo fotografarlo in una serie di istantanee del suo tragitto avendo cura di includere nell'immagine anche un metro o un qualche sorta di spazio graduato a cui farlo corrispondere e di tener conto del tempo a cui corrisponde ogni istantanea; possiamo attribuirgli, una serie, o meglio, due serie, di valori per la posizione e per la quantità di moto, tutti simultaneamente escludentisi come singoli valori di una possibile serie esprimente quel valore nel tempo, e tutti correlati in coppie simultaneamente significative di un valore e dell'altro allo stesso attimo; l'elettrone no, in ogni suo possibile tragitto è nella cosiddetta nuvola di probabilità, cioè in un'onda matematica astratta che trasporta la probabilità variabile di trovarlo in certo punto dello spazio ad un certo tempo, per questo dobbiamo entro certi limiti scegliere se rilevarne la posizione o la velocità e non possiamo rilevarle insieme.


Quindi, se riflettiamo bene, la perdita di simultaneità nella conoscibilità di posizione e quantità di moto di una particella quando passiamo dal percorso del sasso a quello dell'elettrone, dal linguaggio descrittivo della fisica classica a quello della fisica quantistica, corrisponde al guadagno per l'"oggetto" elettrone considerato nell'evento "percorso", di un'infinità di posizioni e velocità -simultaneamente significative- che a livello macroscopico, quindi nell'altro possibile linguaggio, si escluderebbero. L'impossibilità dell'accoppiamento dei valori di una serie e dell'altra per istante, corrisponde alla confluenza di più valori possibili per un singolo parametro di una singola serie per un singolo istante, al fatto che le cose siano probabilisticamente diffuse dappertutto ma non in un caos, ma in maniera in linea teorica ordinata e descrivibile, quindi la sopravvenuta indescrivibilità di alcuni stati di cose corrisponde alla sopravvenuta descrivibilità di altri, per questo la natura secondo i filosofi non farà pure salti, ma il modo fisico e matematico in cui
descriviamo la natura non riesce ancora a prescindere dal "salto" tra microscopico e macroscopico, quindi tra relatività generale e fisica quantistica.


Per fare un esempio più concreto, esiste l'effetto Zenone quantistico, per cui effettuando una grande quantità di misurazioni su una particella quantistica, e quindi provocando una grande quantità di collassi della sua funzione d'onda, la particella appare localizzata in una piccola porzione di spazio e quasi ferma e non evolventesi nel tempo, la misurazione impedisce al normale "tragitto" della particella di svolgersi e la riporta sempre allo stato iniziale pre-misurazione, nell'esempio del sasso lanciato, sarebbe come se il fatto che noi lo fotografiamo tante volte lungo il tragitto impedisse al sasso di procedere nella sua normale parabola e il sasso riproponesse all'infinito le condizioni in cui lo abbiamo colto nella prima foto, rendendo tutte le foto indistinguibili dalla prima e l'una dall'altra, finché non smettiamo di disturbarlo fotografandolo, insomma non solo in fisica quantistica la misurazione altera l'evento, ma una quantità enorme di misurazioni possono tendere a farlo svanire del tutto, l'evento, e a restituirci l'immagine della ripetizione indefinita e non più evolvetesi di un singolo attimo.


Quindi il limite posto dal principio di indeterminazione non è solo tecnico o tecnologico, ma epistemico, non si può costruire una macchina, ad esempio un microscopio, che misuri simultaneamente la posizione e la quantità di moto di una particella con arbitraria precisione così, come non si può costruire, in termodinamica per dire, la macchina del moto perpetuo che fa andare la filanda all'infinito, o in senso relativistico, l'astronave di star trek che va più veloce della luce; per quello che ne sappiamo attualmente di come funzione l'universo, queste macchine non sono possibili, mai, perché non sono solo un assurdo materiale e immaginativo, ma anche logico e formale rispetto al linguaggio con cui, a livello scientifico, pensiamo, descriviamo e comunichiamo l'universo stesso, quindi dovrebbe cambiare prima completamente il modo in cui descriviamo l'universo e la conoscenza che ne abbiamo, prima che queste macchine diventino possibili. In altre parole, sono macchine che nella loro impossibilità esprimono i limiti conosciuti del mondo e della natura, non solo dell'uomo nel suo essere storico e contingente. Se anche una sola di queste macchine impossibili esistesse, tutta la fisica da Newton in poi sarebbe da buttare, da riscrivere, cioè non esiterebbe nessuna conoscenza a disposizione nel bagaglio scientifico umano per giustificare non solo la costruzione, ma anche la mera esistenza, di tali macchine, tra cui a pieno titolo il microscopio che viola il principio di Heisenberg.


Il principio di Heisenberg è importante anche perché è violato in caso di una singolarità gravitazionale puntiforme arbitrariamente densa (la singolarità avrebbe energia e tempo simultaneamente significativi, non corrisponderebbe a nessuna oscillazione di energia nel tempo da un minimo a un massimo e quindi a nessun fenomeno fisico possibile), quindi è uno dei principali argomenti contro l'ipotesi teorica del big bang se assunta letteralmente; la singolarità gravitazionale del big bang, o anche quella che si trova nel centro di massa di un buco nero, secondo il principio di Heisenberg può essere micro estesa, piccolissima, qualcosa che possa avere degli estremi sia pur ravvicinatissimi, estremi tra cui avviene e si dispiega il processo corrispondente alla stessa esistenza, ma non inestesa, puntiforme.
Cosa che è anche molto intuitiva per l'uomo comune per quante altre cose controintuitive ci possano essere nella scienza moderna; infatti nell'esperienza quotidiana nessun oggetto reale o materiale può corrispondere all'astrazione del punto geometrico, astrazione che è sia spaziale, ma anche per estensione temporale: ogni segmento ha una lunghezza e ogni lasso di tempo ha una durata, punti e istanti puntiformi sono artifici di linguaggio che possono essere molto comodi a descrivere la realtà o la natura ma a cui non corrisponde nulla di reale o naturale, quindi arrivare a sostenere che un qualche cosa di esistente e producente effetti, sia davvero inesteso come un punto geometrico, indica con grande probabilità un errore nella teoria.




Far nascere il cosmo dall'inestensione, è come farlo nascere da un'entità metafisica.


In generale in filosofia da Cartesio in poi l'inestensione è l'attributo del pensiero, e l'estensione quello della materia; e io non credo che il mondo nasca dal pensiero, da entità che per definizione esistono sempre e solo in quanto pensate, e quindi nemmeno dal punto geometrico, o da qualcosa che ivi possa essere "contenuto".
#2705
Tematiche Spirituali / Re:Riflessioni sul suicidio.
21 Maggio 2021, 19:42:28 PM
Citazione di: anthonyi il 21 Maggio 2021, 19:05:11 PM
Citazione di: niko il 21 Maggio 2021, 17:41:59 PM
Probabilmente il Socrate storico non credeva che una vita migliore o un paradiso di qualche tipo lo attendesse dopo il suo suicidio-condanna a morte, ma già il Socrate platonico, cioè il personaggio di Socrate per come lo racconta e lo descrive Platone, lascia più volte intendere qualcosa del genere.


Celebre è il passo del canto dei cigni, nel Fedone, che è secondo me uno dei punti di massima vicinanza e anticipazione tra cristianesimo teologico tradizionale e pensiero di Platone, e quindi anche una delle principali e più famose svolte in senso metafisico o, a voler essere critici, "necrofilo", o quanto meno antimaterialistico, del pensiero occidentale in generale.


In esso il personaggio di Socrate, stravolgendo la concezione naturalistica precedente del pensiero greco, per cui si pensava che i cigni cantassero in prossimità della loro morte per il dolore e la tristezza di stare per perdere la loro (unica) vita, come un tragico saluto ad essa e un effimero tentativo di godere appieno degli ultimi istanti, afferma invece, tutto al contrario, che i cigni sanno che una vita migliore li attende dopo la morte, e, in prossimità del momento fatale, cantano per la gioia di stare per raggiungere questa vita migliore, quindi non in saluto della vecchia vita che se ne va, ma di una presunta nuova che viene.


E naturalmente anche Socrate da questa bizzarra e anti-tradizionale interpretazione di un fatto naturale, ne trae un ulteriore motivo per non temere il suo imminente martirio-morte, perché quello che vale per i cigni, ovvero la prospettiva della vita ultraterrena, vale anche per gli uomini.


E così il duro realismo e la tragicità intrinseca del primo modo di interpretare il canto e i suoi motivi, si perde nel razionale quanto indimostrabile ottimismo del secondo.
Ciao niko, ma poi cos'è che ti dice che la certezza di una vita oltre la vita ti fa desiderare la morte. Tutto dipende dalla bellezza della vita che ti aspetti di trovare rispetto a quella che vivi.


Certo siamo nell'ambito di concezioni ottimistiche che credono che, quantomeno per il giusto, ci sarà una vita migliore, appunto "passare a miglior vita" , che non può essere anticipato col suicidio perché  il giusto per definizione  affronta le prove e le difficoltà della vita e non si sottrae, almeno non senza un ottimo motivo per sottrarsi..
#2706
Tematiche Spirituali / Riflessioni sul suicidio.
21 Maggio 2021, 17:41:59 PM
Probabilmente il Socrate storico non credeva che una vita migliore o un paradiso di qualche tipo lo attendesse dopo il suo suicidio-condanna a morte, ma già il Socrate platonico, cioè il personaggio di Socrate per come lo racconta e lo descrive Platone, lascia più volte intendere qualcosa del genere.


Celebre è il passo del canto dei cigni, nel Fedone, che è secondo me uno dei punti di massima vicinanza e anticipazione tra cristianesimo teologico tradizionale e pensiero di Platone, e quindi anche una delle principali e più famose svolte in senso metafisico o, a voler essere critici, "necrofilo", o quanto meno antimaterialistico, del pensiero occidentale in generale.


In esso il personaggio di Socrate, stravolgendo la concezione naturalistica precedente del pensiero greco, per cui si pensava che i cigni cantassero in prossimità della loro morte per il dolore e la tristezza di stare per perdere la loro (unica) vita, come un tragico saluto ad essa e un effimero tentativo di godere appieno degli ultimi istanti, afferma invece, tutto al contrario, che i cigni sanno che una vita migliore li attende dopo la morte, e, in prossimità del momento fatale, cantano per la gioia di stare per raggiungere questa vita migliore, quindi non in saluto della vecchia vita che se ne va, ma di una presunta nuova che viene.


E naturalmente anche Socrate da questa bizzarra e anti-tradizionale interpretazione di un fatto naturale, ne trae un ulteriore motivo per non temere il suo imminente martirio-morte, perché quello che vale per i cigni, ovvero la prospettiva della vita ultraterrena, vale anche per gli uomini.


E così il duro realismo e la tragicità intrinseca del primo modo di interpretare il canto e i suoi motivi, si perde nel razionale quanto indimostrabile ottimismo del secondo.






#2707
Tematiche Filosofiche / Sottosopra.
20 Maggio 2021, 14:23:35 PM
Io credo che l'esistenza di ogni cosa si esaurisca nella sua stessa relazione con la prossimità e col tutto, una cosa é  riducibile e riconducibile all'insieme delle sue interazioni con altre cose, e non esiste come ulterioRiTa rispetto a queste relazioni e interazioni ovvero non esiste fuori dal contesto che la determina (e quindi anche la nega, in un certo senso).


ma ciò non significa che ogni cosa sia soggettiva, viceversa l osservatore in quanto prossimo alla cosa é in relazione costitutiva e costituente con la cosa, quindi tanto la cosa determina l essere di lui quanto lui determina l essere della cosa.


Dunque c'è  un ben preciso limite di oggettività a quanto si possano soggettivamente descrivere le cose senza mentire, ed è  lo stesso limite che si avverte in se stessi come limite della propria coscienza: io percepisco il mondo circostante con un atto che non è del tutto separabile dal percepire me stesso, vedo il mondo come oggetto della mia coscienza, e se in un certo istante c'è davanti a me un gatto, percepisco che quello é un gatto, poi posso ben dire che invece è  un cane, ma nel dirlo mentirei sapendo di mentire, non importa se a me stesso a a un altro. Quel gatto in quel momento esprime la mia relazione col mondo e la mia posizione nel mondo, entra nella mia coscienza, e sebbene la coscienza abbia degli ambiti e delle funzioni in cui si auto percepisce come più libera e in grado di plasmare autonomamente  il mondo è se stessa, come l'immaginazione,  la narrazione, la facoltà di mentire e il pensiero volontario in generale, ha anche la funzione molto più terra terra di farci vedere la realtà per quello che è, e che abbiamo culturalmente e linguisticamente imparato che sia, di decodificare le cose del mondo per farcene essere parte attiva e per farci sopravvivere, ed è nell'ambito di questa funzione basilare minima della coscienza che non posso dire che il gatto che vedo in un certo momento é cane senza trascendere la funzione stessa, uscire dalla percezione correttamente decodificata e entrare invece nell ambito della fantasia o dell'inganno prodotto volontariamente.


Insomma la coscienza é la nostra relazione col mondo e ad essa si riduce, ma l oggettività del mondo esiste nella misura in cui non possiamo determinarne tutti i contenuti, non determiniamo tutto ciò che ci risulta essere nel mondo, dunque non determinismo tutti i processi e i contenuti della nostra coscienza.  Se per assurdo così fosse, tutti si plasmerebbero dei contenuti di coscienza ottimali e sarebbero  continuativamente felici quindi la sofferenza é la prima e più inconfutabile prova del oggettività del mondo e della sua non rispondenza all'umanità volontà, direi anzi che percepiamo il mondo come differenza continuomente manifestantesi tra desiderio e realtà e quindi come sofferenza, quando siamo temporaneamente felici la differenza è tolta e coincidiamo misticamente col mondo o in altri termini lo viviamo come sogno lucido, cioè come contenuto integrale di autocoscienza SenZa residuo di coscienza vissuta come coscienza dell'esterno.
#2708
Tematiche Filosofiche / Filosofia dell'anarchismo
18 Maggio 2021, 08:40:22 AM
Una democrazia non classista puo essere solo il socialismo nella forma idealtipica della dittatura del proletariato. perché una maggioranza cosciente di essere maggioranza e con in mano il potere e il controllo dello stato non si fa dominare ne tanto meno governare da una minoranza.


Il rispetto delle minoranze può essere un rispetto di pensiero e di libertà di parola ma se un uomo vale un uomo e una vita vale una vita all'atto pratico si fa quello che decidono le maggioranze e si distribuiscono i beni e si organizza la produzione come esse decidono. insomma nel comunismo i borghesi possono pensare quello che vogliono ma devono lavorare e possedere beni come tutti gli altri non essendo cosi di fatto piu borghesi.


poi se si pensa che il potere possa per definizione essere esercitato solo dalle minoranze allora si dovrebbe pensare anche che la democrazia stessa sia impossibile e non solo l'anarchia o il comunismo.


Il mercato è appunto il caos che deve essere ordinato dalla presa di potere dell uomo su se stesso e deve scomparire in quanto caos .  sostituito da un nuovo caos che idealmente dovrebbe essere la coincidenza di comunismo e anarchia successiva alla liquidazione e musealizzazione dello stato.  è  proprio la forma merce  che deve essere superata e l'esistenza fisica e virtuale del denaro che deve finire. Il che implica il vaglio politico collettivo  di ogni singolo desiderio individuale appunto comunismo e anarchia come le parallele che si incontrano all'infinito  .sembra una impresa folle e titanica e implicante un immenso grado di paranoia e fine della sfera prossemica  egoica e personale per come è la psiche umana attualmente ma è l unico futuro non di autodistruzione possibile per l'uomo.


Abbiamo visto tutti l'esempio negativo della pandemia e di come è stata strumentalizzata politicamente per ridurre la libertà e mal gestita l'utopia per rovesciare questo esempio negativo in uno positivo sarebbe il Passagno da uno stato continuo di emergenza come lo abbiamo visto in questi mesi a uno stato discontinuo e autoeliminantesi di eccezione[size=78%] nel senso che anche la legge è il diritto che hanno caratterizzato tutte le societa classiste puenamente organizzate in stato dovranno tramontare in una intelligenza collettiva in grado di decidere caso per caso appunto senza la merce e il denaro ogni desiderio umano dovrà essere deciso in un certo senso caso per caso quindi neanche la legge come regolazione astratta di casi concreti similari tra di loro esisterà piu l'unicità  di ogni essere umano non prevede ne uno stato di emergenza ne uno di diritto ma uno stato transitorio di eccezione la legge dovrà guardare in faccia ogni singolo uomo che pretende di giudicare e con questo non sarà più legge.[/size]
#2709
Tematiche Spirituali / Scienza e religione.
15 Maggio 2021, 11:09:40 AM
Citazione di: paul11 il 13 Maggio 2021, 15:05:42 PM
Alcune precisazioni.


Citaz. Niko #42
Ma non vi viene in mente, signori che assumendo che il mondo/cosmo sia ingenerato e imperituro (e in qualche non immediatamente evidente senso noi con esso!), la domanda
"da dove veniamo" possa semplicemente essere mal posta? 


Semplicemente perché un universo "ingenerato" e "imperituro" non è né religione e neppure scienza.


Chi parlò di "ingenerato e imperituro" fu un certo Parmenide della scuola di Elea riferito all'ESSERE. Quando Parmenide sostiene che l'essere non può diventare non-essere, attribuisce i sopra indicati attributi. Un universo ingenerato e imperituro come fa a diventare non- universo? Come fa a divenire, sarebbe eterno e senza tempo ,come fanno a formarsi galassie ,stelle sistemi planetari e le stelle avere internamente reazioni di fusioni atomica fino ad esaurirsi. E' l'evidenza prima ancora che la scienza a dichiarare che c'è una dinamica temporale universale. E perché noi viventi , nasciamo e moriamo se il sistema universale sarebbe ingenerato e imperituro?


Citaz. Niko
io credo piuttosto sia interno alla buona filosofia accogliere la domanda sulle origini solo ed esclusivamente nella misura in cui essa è utile alla felicità terrena. 


E cosa si intende per felicità, la mia senza la tua, la nostra escludendo qualcuno, insomma quella egoistica o quella sociale? Direi più semplicemente che una buona filosofia è colei che speiga il motivo per cui debba esserci un "buon governo" della polis, della società e indichi i motivi e argomenti perché sia necessario esservi e come vi si giunge (la Repubblica e Leggi di Platone sono un buon esempio)


citaz. Niko
Qualcuno ha parlato di "vivere nel qui e ora" come se fosse una questione esclusivamente etica, 


Beh, potresti indicare chi è quel "qualcuno", non mi offendo. Si può vivere anche senza morale, che per me è interpretabile come concetto razionale, nulla a che fare con istinti animali  o pulsioni psicoanalitiche che da oltre un secolo si fanno elucubrazioni senza cavare un ragno nel buco, ma c'è sempre un'etica. L'etica la intendo come comportamento sociale, costruito quindi da miriadi di atti sociali: es. acquistare un giornale in edicola, fare un cenno di saluto, fare la coda....ai vaccini.
Nascono da convenzioni sociali, educazione famigliare e scolastica. Questo spiega perché ogni popolo umano, pur essendo tutti i popoli umani, hanno diversi comportamenti sociali: è la cultura che indirizza un modo di essere e di fare . Un'etica senza morale diventa essenzialmente fondata dalle forme giuridiche che limitano i singoli comportamenti sociali in funzioni di concetti ritenuti fondamentali nella società, ma può benissimo non fondarsi assolutamente su una morale.
Ma accade, come avviene periodicamente e poco tempo fa, che alti funzionati dell'antimafia, o il Presidente della Repubblica giustamente indichino che se la corruzione è molto diffusa è perché manca la moralità.........noi stiamo decadendo proprio in questo e le leggi non possono entrare nelle coscienze di ogni indviduo, non è questo il compito della scienza giuridica , manca educazione e "buon esempio" a cominciare dalle famiglie...che infatti decadono. La moralità è arrossire, avere una remore , avere il pudore della coscienza che un atto anche semplicemente di scortesia,come saltare una coda o fare i "furbetti" non si deve fare  . Oggi si uccide ,si bruciano i cadaveri, si tengono in frigo........."fuori di testa" . Se non capiamo ancora che stanno saltando le più elementari remore, quei "freni inibitori" dettati dalla psicologia ,che sono evidenti sempre più i "malcostumi".....bisogna essere allenati alla cecità per non vedere che decadiamo sempre più.
La moralità non può insegnarlo la scienza moderna, che al massimo dice "è utile", "è opportuno", quindi tratta la morale come se fosse economia, come convenienza egoistica. Applica la teoria dei giochi alle teorie delle scelte e delle decisioni, ......come se fossimo algoritmi. E a me, pare chiaro dove l'umanità andrà a finire. Se non si compiono serie riflessioni che non sono solo di ambito disciplinare o interdisciplinare, come antropologia, sociologia, psicologia, che continuano a menarla da un secolo sull'utilitarismo, perché sono mainstream del sistema ,assecondano il sistema culturale in atto ,sono loro stesse ancelle del sistema culturale, finiremo male: a me pare sicuro. Cosa me ne faccio di una casa domotica ,dell'auto "connessa" a tik tok, facebook,....se ho paura dei miei simili , se tutto mi appare così precarizzato e mi fido della scienza ,ma non dei miei fratelli e sorelle? E' chiaro perché la morale è così importante? Si può essere allora felici per i comfort, ma chiusi in casa e con la paura a mezzanotte su un marciapiede quasi solitari  di sentire passi dietro di sé e pensare male? La sicurezza, la felicità , la danno i comfort ?


Ciao non ti rispondo su tutto ma mi pare ovvio che universo ingenerato e imperituro non significa immodificabile gli esempi di pensatori greci che ti posso fare sono tantissmi gli atomisti. Empedocle gli stoici. lo stesso Aristotele secondo cui certo il mondo non e' creato e non finira' mai. Lo stesso esiodo secondo cui in principio vi era il caos e non il nulla quindi implicitamente l'universo e ordinato dal caos e non creato dal nulla


il cocentto di infinito spaziale o temporale poi rientra nel pensiero greco ancora quantomeno con Aristotele per cui lo spazio e' finito ma il tempo e' infinito .con gli atomisti  per cui sono infiniti spazio e tempo con .melisso per cui l'essere di  Parmenide comincia a coincidere con l'infinito spaziale temporale e naturale. insomma il cosmo secondo i greci antichi  e' ingeneraTo e imperituro lo affermo perché ne sono abbastanza sicuro.


anche quelli come Parmenide che lo vedevano immodificabile in senso forte poi ammetteva il divenire sia pure come apparenza ma se l'essere e' eterno e immodificabile anche la falsa apparenza di divenire che proietta o emana sui sensi degli uomini e' altrettanto eterna
Quindi ne risulta sia pure come illusione per l'ennesima volta un cosmo ingenerato e imperituro.
#2710
Il modo in cui il nulla non corrisponde a sè stesso lo rende dinamicamente  e verirativamente uguale all'essere infatti il nulla non corrisponde a se stesso in modo indefinito, non ce' una realta locale semantica o temporale unitaria del nulla che ce lo faccia riconoscere come tale in un reperimento esperienziale possibile, quindi riscontrare estensivamente ed esaurientemente  l'essere nella sua uniformità o varietà e' lunico modo "pratico" per accertarsi delle verita e quindi della nullità  del nulla o meglio lo sarebbe perché anche esaurire il catalogo dell essere per assicurarsi che il nulla sia nulla e' impossibile. Insomma io penso che se del nulla si può dire qualcosa di sesto e' che il contrario di nulla a livello filosofico e' tutto, non già essere e siccome il tutto e inattingibile alla conoscenza e all'esperienza  per quanto si cerchi di rimuoverlo il nulla continua sempre ad esistere quantomeno come possibilita
#2711
Tematiche Spirituali / Scienza e religione.
12 Maggio 2021, 23:43:54 PM
Citazione di: Ipazia il 12 Maggio 2021, 16:43:33 PM
Creazione e causalità vanno a braccetto fin dalla preistoria sulla base del modo induttivo/deduttivo dell'intelligenza umana. I moderni (FN e MH) se la sfangano allegramente bypassando la questione perché si sono resi conto che la questione è ontologicamente, e quindi anche filosoficamente, insolubile. Già Epicuro metteva in guardia i suoi contemporanei dal porsi domande che non hanno risposta (gli dei, se ci sono, si fanno i fatti loro) e Socrate, a forza di testare l'infondatezza delle verità di fede, si trovò a bere la cicuta.

La scienza ha fatto propria la lezione di millenni di riflessione filosofica sulle cause e i causanti primi , confezionandoci una cosmogonia plausibile (bigbang) con le sue brave pezze d'appoggio scientifiche, che ha pure il vantaggio, scansando l'intenzionalità, di non dover sottoporre gli eventuali soggetti trascendenti ad un processo etico da cui difficilmente uscirebbero indenni.

Lo snodo di tale passaggio metafisico epocale lo dobbiamo al tornitore di lenti ebraico-olandese che, analogamente a Socrate, venne scomunicato addirittura due volte dai depositari della verità del suo tempo, cristiani e giudei. I cristiani lo scomunicarono per definizione in quanto ebreo, e gli ebrei, con vista più acuta, perchè il passaggio dal Deus sive Natura al Natura sine Deus era così breve da saltare agevolmente l'abisso sottostante. Cosa di cui pure i cristiani si accorsero ben presto di fronte alle orde di illuministi che in quel passaggio si avventarono come orsi verso un mare di miele. Passaggio divenuto sempre più agevole per chi si occupa di filosofia e scienza. Al punto che la contrapposizione tra scienza e religione appare superata sul piano filosofico e rimane soltanto come residuo ideologico di politiche di dominio che si servono tanto dell'una che dell'altra, secondo le necessità e gli interlocutori da sottomettere.


Forse non sono stato abbastanza sintetico da farmi capire, ma io ho risposto a te a a Paul11 perché:


Ipazia, tu parli di nesso tra causalità e creazione,


paul11 dell'ineludibilità della domanda "da dove veniamo?"


Ma non vi viene in mente, gente, che, assumendo che il mondo/cosmo sia ingenerato e imperituro (e in qualche non immediatamente evidente ma reale senso noi con esso!), la famosa ed epica domanda "da dove veniamo", possa semplicemente essere mal posta?


Da dove veniamo "noi", ma noi chi? Mi viene in mente il recente argomento sul logos eracliteo, se il logo è impersonale, e guadagna verità progredendo nell'intersoggettivo fino a culminare nel non-soggettivo, non c'è neanche un "noi"/"io" che possa provenire da qualche parte...


Ci sono sistemi di pensiero in cui le domande sulle origini non esistono, o meglio, soprattutto, non esistono in senso creazionista. Banalmente, ad esempio, i filosofi che si sono rotti la testa sulla differenza tra creazione ed emanazione, e hanno a vario titolo sostenuto la seconda escludendo la prima (direi Platone e tutti i neoplatonici a seguire), penso che ci credevano veramente in quello che sostenevano, non erano, diciamo così, nella modalità mentale dell'accontentarsi del discorso sul possibile per non poter attingere l'impossibile, o del parlare per metafore.


Quindi non è che la domanda sulle origini sia impossibile, e dunque il filosofo, messo di fronte a tale dura impossibilità, psicologicamente sublima/surroga, gnoseologicamente aggiusta il tiro, occupandosi di altro; io credo piuttosto sia interno alla buona filosofia accogliere la domanda sulle origini solo ed esclusivamente nella misura in cui essa è utile alla felicità terrena.

Qualcuno ha parlato di "vivere nel qui e ora" come se fosse una questione esclusivamente etica, e ha visto in una certa misura la scienza corrispondere bene a questa funzione da cicala propria di un certo tipo di filosofia, immanente e immanentista, mentre la religione sarebbe la formica propria di un certo altro tipo, diciamo così della trascendenza o più teologico.
In realtà anche qui il banco secondo me deve saltare, rispetto alla domanda sulle origini, e sulla vita dopo la morte, e sulle altre domande fondamentali, "viviamo nel qui e ora", dico io, nella misura in cui ci identifichiamo e ci entifichiamo come esseri viventi con la nostra coscienza e conoscenza, e dunque da questa prospettiva in cui si è solo coscienza/conoscenza, in cui si è totalmente lucidi e trasparenti come un diamante o non si è, è giocoforza assumere l'equivalenza tra ignoto e nulla; quindi viviamo eccome "nel qui e ora", ma non per qualche etos derivante da qualche phisis tramite un qualche nomos, bensì perché, proprio dal punto di vista del qui e ora, ignoto=nulla, e quindi, per contro, qui e ora=essere.

Per uscire da questa eterna condizione di cicale e cominciare a fare un po' anche le formiche, nell'equilibrio che serve per la felicità, che della filosofia dovrebbe essere il vero scopo, non ci vuole un' altro tipo di etica, perché non è un problema etico che ci ha portato a fare le cicale (progressiste, pragmatiste e scientiste e quant'altro), ma un problema di identificazione e auto-identificazione; non è dal punto di vista della conoscenza che si può sopperire all'ignoto (che ci circonda e circonda le nostre origini e destinazioni finali, come un grande nulla intorno a un piccolo essere) con altre indispensabili facoltà umane quali  l'immaginazione, la mitopoiesi, e la buona filosofia stessa, perché, dal punto di vista della conoscenza, queste soluzioni vengono riassorbite nella conoscenza umana stessa e nella trasparenza dello scibile nel momento stesso in cui vengono poste, quindi allargano i confini del noto senza mai, in nessun caso, entrare nel merito dell'apparente inconoscibilità delle origini e della fine, allargano il campo l'originato senza entrare nel merito dell'origine.

e dunque, è solo spostando il campo di identificazione, ed identificandosi non con la coscienza/conoscenza, ma con la vita/esperienza in tutte le sue contraddizioni, anche sensoriali, psicosomatiche e corporee, che si può apprezzare la differenza sottile, e non a comodamente portata di mano, intercorrente tra quanto supportato dai sensi e dal senso comune, e quanto posto solo immaginativamente e speculativamente, la differenza tra verità e certezza, che contraddistinguerà la filosofia moderna da Cartesio in poi, mentre potrei dire che quella antica era segnata dalla differenza tra verità e opinione: non è dal punto di vista della conoscenza, che una fiaba su Zeus o su Babbo Natale o su Dio si differenzia da una verità attestata dai sensi (come "oggi piove") o confermata dal metodo scientifico (come "la luna è un satellite"), ma dal punto di vista dell'esperienza (nessuno ha mai visto Babbo Natale, mentre la luna si vede, la pioggia si sente e gli esperimenti scientifici dovrebbero essere standardizzati e ripetibili); e l'esperienza è vita, ed è proprio facendo esperienza del fatto che le risposte sulle origini necessariamente non sono esperienza, che le risposte sulle origini si possono provare dare in quanto tali, si possono dare trascendendo e sapendo di trascendere l'esperienza, ma non la conoscenza e segnando così intenzionalmente il confine tra le due.

E' come la differenza tra sognare e basta e sapere di sognare, che è già difficile a concettualizzarsi, e tanto più difficile a mettersi in pratica: le facoltà che ci portano a inventare i miti sulle origini, sul dopo morte, su quello che si vuole, si attivano sempre spontaneamente e ci caratterizzano come umani, ma la filosofia è la storia del riconoscimento e della negazione/determinazione di tali facoltà come tali, quindi non sono le domande sulle origini a sfumare o a essere abbandonate in quanto insolubili nella mente del filosofo, ma le risposte tipizzate, banalizzate, strumentalizzate e logore a tali domande, compresa, forse prima tra tutte, la presa alla lettera della domanda stessa.



#2712
Tematiche Spirituali / Scienza e religione.
12 Maggio 2021, 12:08:46 PM
Ipazia ha, tra l'altro, scritto:



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Religione e scienza hanno un'origine comune nella domanda fondamentale di tipo creazionista e causale. Domanda che richiede un certo livello di capacità induttive e deduttive. La tesi teologica ha guidato le danze per millenni e su questo vale la pena di interrogarsi. La risposta che mi dò è che essa rispondeva in pieno al bisogno, altrettanto fondamentale, di senso, protezione, giustizia e immortalità. Questi 4 cavalieri della religione si ritrovano in tutti gli argomenti teologici.

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paul11 ha, tra l'altro, scritto:

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Se si supponesse che sia scienza che religione fossero  un falso paradigmatico, vale a dire che lo statuto della condizione umana cerca certezze, per natura umana, non sarebbe  né trascendenza e nemmeno l'immanenza la risposta: ci hanno provato da Nietzsche ad Heidegger che non erano ,fra tutte e due, filo religiosi o filo scientisti, ma cercavano , ognuno a suo modo, risposte immanenti sulle domande esistenziali.
Perchè le tre condizioni; filo religiose, filo scientifiche, e la terza via appunto di Nietzsche ed Heidegger falliscono? Questa è la filosofia del futuro che ancora non c'è. Ognuna delle tre strade da sola ,forse è errata e forse, e ridico forse, è solo prendendo il meglio delle tre strade in una argomentazione solida e forte, che se ne potrebbe  uscire. La religione è forte nella morale e nell'etica, ciò che non lo  è affatto la scienza che per sua costruzione è neutra, non si pone giudizi se sia giusto o ingiusto, lascia al diritto la contesa, nel negozio giuridico che oggi come oggi è opportunismo, egoismo, proprietà possesso, cinismo, potere forte, quindi è la contesa delle pratiche nel sociale che costituiscono e modificano il diritto stesso. La scienza ha la sua forza nell'indagine della natura fisica, attraverso la tecnica, sforna continuamente tecnologia che si applica nelle pratiche, civili e militari. Quindi dà potere fisico, ma in un contesto privo di morali ed etiche( non gli intenti morali che sono diversi da una vera e seria morale) La terza via "laica" immanente è fingere, ed è questo il problema non risolto, che l'esistere possa essere privato dalla domanda "da dove veniamo", cercando nel "ma siamo nel qui ed ora, ed è inutile porci altre domande impossibili da risolvere", come "ma la morte, il cadavere che vedo è davvero la fine?" A mio parere, ma forse mi sbaglio, la via intentata da Nietzsche e in altro modo da Heidegger non trova risposte, perchè pur non essendo filo scientifici(positivisti) sono più propensi all'aspetto scientifico che religioso.

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quello che m ha colpito di quanto scritto è che Ipazia parla di:


domanda "creazioniste E causale", a cui scienza e religione secondo lei risponderebbero.
Come se le due cose, non tanto creazionismo e causalità, come "ismi" ideologici o sistemi raffinati e complessi di pensiero, ma proprio i due costituenti elementari della sua affermazione, la creazione E la causa, dovessero necessariamente e per forza di cose andare insieme.
E' logico, mi domando io, per l'essere umano tipico, che ogni causa sia un po' anche una creazione, e ogni creazione sia un po' anche una causa? O quanto è meno ana-logico, ovvero nesso tra i due, sia pure non pienamente dimostrabile e giustificabile, è sempre tale per poesia o per metafora?


Paul11, pur dal suo punto di vista ben diverso, su questo punto sembra rincarare la dose quando parla di fallimento, o comunque non completa adeguatezza, della terza via tra scienza e religione, quella secondo lui principalmente ascrivibile a Nietzsche e Heideggher, quando scrive:


"La terza via "laica" immanente è fingere, ed è questo il problema non risolto, che l'esistere possa essere privato dalla domanda "da dove veniamo", cercando nel "ma siamo nel qui ed ora, ed è inutile porci altre domande impossibili da risolvere", come "ma la morte, il cadavere che vedo è davvero la fine?" A mio parere, ma forse mi sbaglio, la via intentata da Nietzsche e in altro modo da Heidegger non trova risposte, perchè pur non essendo filo scientifici(positivisti) sono più propensi all'aspetto scientifico che religioso."


E io, facendo l'avvocato del diavolo (o quantomeno l'avvocato di Nietzsche e Heideggher per come li ha presentati lui) mi domando, e gli domando:


"ma, noi, intendo noi come esseri umani e pensanti, dobbiamo per forza venire (nel senso di pro-venire) da qualche parte?!Nel senso di, da qualche parte del tempo o dello spazio, ma l limite anche "parte" metafisica o intemporale?Con la morte, la vita deve per forza o finire o non finire, terzium non datur?E quindi Nietzsche e Haideggher sono stati un po', diciamo così, con tutto il rispetto, "superficialotti", nel loro sorvolare sul principale di-lemma di tutte le teologie e di tutte le filosofie "serie" e concentrarsi solo sul qui-ed-ora? Hanno glissato sulle due risposte possibili perché non avevano una posizione precisa da prendere?


Insomma spero che si sia già intuito dove voglio andare a parare con tutto il discorso, quando si parla di origine della vita, della coscienza e dell'universo stesso, la creazione (dal nulla e ad opera del dio-nulla) non è la sola forma possibile di causa perché, nella piena dignità di tutto o quasi il pensiero filosofico occidentale pre-cristiano, si può prescindere da una potenza creatrice infinita (potenza che poi finisce, guarda caso, per corrispondere a un dio personale, perché nel suo essere in-finita è anche arbitraira, logica/verbo e volontà divina devono coincidere senza che l'una possa prevalere sull'altra, pena l'implosione di tutto il sistema) e sostituire il concetto di creazione, con il, secondo me molto più soddisfacente concetto di ordinamento dal caos: in principio non vi è il nulla ma la hiule/xora, non nel senso che ci siano davvero un momento A in cui tutto il cosmo è disordinato e un momento B in cui invece è ordinato, ma nel senso che l'eternità pertiene alla materia e la possibilità eterna di ordinamento al caso/forma, generandosi e alternandosi così per sempre "isole" e "momenti" di ordine e di disordine.


(prescindendo un attimo dal caso, a cui Platone non avrebbe mai attribuito importanza creatrice, è interessante leggere e capire il Timeo, sciogliendone la chiave di lettura principale: da una parte viene affermato che "tutto quello che è deve aver avuto non solo una causa, ma anche proprio un'origine nel tempo" dall'atra che "il tempo è l'immagine mobile dell'eternità" è increato e riflesso "simultaneamente" da un principio superiore rispetto a cui sta con lo stesso nesso che c'è tra realtà e immagine, quindi, per chi comprende davvero profondamente, l'apparentemente da prendere alla lettera "origine nel tempo di tutte le cose", si riduce a un principio ordinativo formale agente appunto su una non meglio definibile materia).


Se siamo in questo, nemmeno eterno, ma direi omminitemporale senso, "ordinati dal caos" e non mai "creati dal nulla", bisogna passare ai due grandi filosofi della modernità più legati all'antichità classica, Nietzsche e Haideggher, che i due se ne infischino della presunta domanda fondamentale "da dove veniamo" perché proprio in alcuni sistemi di pensiero, come i loro, la domanda non ha senso: il tempo è estensivamente infinito ma, a differenza del Dio cristiano, non ha potenza infinita, contiene solo gli elementi e gli attimi che può contenere, e tra questi elementi e attimi, ordinati in un certo modo, ci siamo anche noi umani, ed ecco tutto.


Senza pretendere nemmeno lontanamente che questa sia una sintesi, direi che è questo quello che hanno in comune Nietzsche Heidegger e antichi greci: c'é sempre spazio e c'è sempre tempo, queste due grandi, misteriose cose, sono increate e non iniziano, quindi i pensieri dell'inizio, devono riferirsi a cosa accade e a cosa può accadere, per caso, per libertà o per necessità che sia, nel tempo, all'interno del tempo, che non è oggetto di creazione, ma di composizione secondo la sua facoltà di contenere e mostrare eventi diversi fra loro.


L'affermazione per cui "ogni causa è anche una creazione", si risolve nel suo contrario: "nessuna causa è anche una creazione"

Il mondo è da sempre e per sempre, e, presso l'increato "operano", eternamente, cause increate. Naturalmente, Paradossi vi sono in questo modo di porre le cose, come paradossi vi sono nel pensare la possibilità della creazione del nulla; principalmente per provare anche solo un minimo a risolvere i paradossi nell'ipotesi dell'increato, è importante che il circolo causale, oltreché spaziale o temporale, sia chiuso, e l'effetto ultimo possa re-innescare o sostenere la causa prima, insomma retroazione del futuro sul passato.


E, sempre in questo ambito di pensiero e a proposito di questo modo di mettere la questione, chiedersi se dopo morti si sopravviva o non si sopravviva, non è un dilemma, ma può essere un tri o multi-lemma, si muore e si vive secondo l'ordine del tempo e naturalmente, finché non è dimostrata l'unità compositiva dell'uomo, resta lecito affermare che alcune parti compositive di esso alla morte si annichiliscano e altre sopravvivano.


Spesso mi trovo a dire e a pensare, che l'idea teologico-cristiana della creazione dal nulla (che poi, molto probabilmente, la bibbia presa alla lettera e per lo spirito dei tempi di come alla lettera fu scritta, con l'inizio di Genesi intende un ordinamento dal caos simile alla concezione greco classica) e l'ipotesi scientifica del big bang per come la concepiscono, probabilmente in modo inesatto, la maggior parte delle persone, hanno in comune questa idea della creazione del mondo dal nulla, che è un'idea secondo me sbagliata e perniciosa se presa in modo assoluto e non confrontata e ponderata criticamente con altre idee di origine e causa che si possono altrettanto legittimamente avere, come l'eternità di spazio e tempo e l'origine come ordinamento dal caos; deduciamo il big bang principalmente dal fatto che l'universo si espande e dal fatto che la singolarità puntiforme è una soluzione possibile delle equazioni relativistiche. ;a ad esempio un'opera divulgativa di Tonelli:


Genesi, il grande racconto delle origini


spiega molto bene che il vuoto quantistico in cui si originò il big bang, non solo non è un nulla ma è un qualcosa brulicante di eventi che lo rendono spazialmente e temporalmente definibile, ma anche un qualcosa che il big bang stesso come evento (tra gli eventi possibili nel vuoto) ha trasformato in alcuni suoi aspetti e non sostituito del tutto: l'energia complessiva dell'universo è zero, il che significa che l'universo è un tipo particolare di vuoto, rientrante tra le trasformazioni e le permutazioni possibili del vuoto, il che implica che il suo inizio potrebbe non essere davvero primo e la sua fine non davvero ultima, e anche la sua localizzazione nello spazio non unica.




#2713
Tematiche Spirituali / Scienza e religione.
11 Maggio 2021, 14:47:09 PM
Citazione di: inquieto68 il 11 Maggio 2021, 13:19:53 PM
Citazione di: iano il 10 Maggio 2021, 01:22:22 AM
La scienza si vanta con alterna fortuna di poter leggere il futuro a partire dalla considerazione del  presente, fidando che un futuro vi sia, mentre la religione auspica al minimo  un eterno presente,  fidando ancor meglio in un ritorno al passato, considerato quale sia  il presente.
Ma in verità la scienza ammette di non sapere dove andiamo , mentre la religione lo crede, perché in fondo si tratta di percorrere al contrario una strada gia' fatta.
Tanta fatica per nulla. Che peccato. Meglio sarebbe stato se non ci si fosse mai mossi.
Il primo passo per  tornare indietro è quindi fermarsi ,trasformando già così  il presente in un futuro certo, in attesa di un radioso regresso futuro.


Provo a raccolgo l'invito a rimanere sul tema del post.


La religione (non solo il cristianesimo) contempla l'idea della trascendenza, un "altrove" che  fedeli, appartenendo alla realtà immanente, si raffigurano in termini di spazio-tempo. A mio avviso questa riduzione del trascendente all'immanente è un'errore (teo)logico: la "pienezza dei tempi" della religione cristiana non è il nostro futuro, e il "principio" in cui "era il Logos" non è il nostro passato.


Ma in un ottica laica la trascendenza, il divino, sono concetti assurdi, mentre la religione, pur come costruzione umana, esiste nei fatti, per cui avrà pur assolto a qualche necessità.
E tali presunte necessità sussistono anche dopo la rivoluzione scientifica?


La scienza si occupa certamente di futuro.
Il motto dei positivisti recitava: "Sapere per prevedere, prevedere per potere" (poter agire sulla realtà)
Scopo della conoscenza scientifica è appunto quello di fare previsioni future, cosa utilissima per poter agire sulla realtà con cognizione di causa.
In un ottica laica la religione è assimilabile alla dimensione etica, che ha il compito di valutare la liceità, il valore morale, la desiderabilità delle conseguenze delle nostre azioni.
La scienza potrà dirci , a partire dalle nostre azioni presenti, quale saranno le conseguenze future. Stabilire se tale futuro sia migliore o peggiore, desiderabile o meno, utile o meno al nostro benessere interiore e umano, attiene all'etica, la cui dimensione collettiva (laddove esiste) è la  morale, e la religione.

Un saluto




Io penso che l'uomo si sia inventato la religione principalmente per rispondere alla domanda esistenziale fondamentale sulla coscienza e alla domanda esistenziale sul destino, e dunque, ancora, sulla coscienza, dei defunti.
Duplice domanda dunque, quella che secondo me soggiace alla ricerca della verità a cui inizialmente danno risposta i miti e la religione: " 1 chi sono io come essere cosciente, 2 che fine fanno i defunti, quindi, per estensione, che fine farò io".

Abbiamo, penso in generale come esseri umani, non solo i moderni e non solo gli occidentali, abbastanza facilità a concepire il fatto che lo spazio e l'estensione non siano costitutivi della coscienza e non vi abbiano a che fare (Cartesio insegna); andiamo invece in crisi se proviamo a pensare la rottura del nesso tra coscienza e tempo perché il tempo rientra nella coscienza sia come presupposto che come "costitutivo".


Quindi credo facilmente che l'aldilà delle religioni non sia, appena si impone un certo livello di astrazione e complessità, un altrove spaziale, ma, non altrettanto facilmente, credo che quello della religione non sia o possa non essere un altrove temporale, perché, in un luogo intemporale o eterno, l'uomo non troverebbe risposte su quello che originariamente lo ha interessato e per cui originariamente si è inventato il mito e la religione, cioè la coscienza come processo e la coscienza dei defunti come processo eventualmente eternamente conservantesi, ma pur sempre processo. L'intemporale può essere bellissimo, essere il mondo platonico delle idee, della bellezza eccetera, ma non si può immaginare di vivere nell'intemporale, quindi l'intemporale non può essere originariamente una risposta sulla vita, ne tanto meno sulla sopravvivenza.

Quindi facile a dirsi che quello della religione non è un altrove spaziale o materiale, molto più difficile a dirsi che non sia un altrove temporale, molto più logicamente è un altrove temporale che non è anche nello spazio, quindi la risposta naturale al sentirsi vivi nel senso del sentirsi coscienti, assolutamente differenti dall'ambiente, avere un qualcosa di speciale assolutamente irriducibile allo spazio così come il suo apparire come durata non contiene attimi uguali, e pensare, o quanto meno sperare, di poter sopravvivere in tale condizione anche dopo la disgregazione del corpo.

Insomma io non credo che il tempo sia l'essere, l'essere lo identifico più che altro con lo spazio; il tempo, che riempie lo spazio ed è il fondo non visto dell'essere, è il nulla, e la domanda sul nulla non può essere elusa perché ivi, nel nulla rispetto ad un essere di spazio, sembra svolgersi la coscienza fin anche da vivi, e tanto più ivi, nel nulla assoluto, sembra destinata ad andare dopo la morte se non si ammette una qualche forma inesperibile di sopravvivenza della coscienza come processo, anche dopo che non è più manifesto il corpo come elemento materiale dello spazio.
#2714
Tematiche Spirituali / Scienza e religione.
10 Maggio 2021, 11:38:23 AM
Citazione di: iano il 10 Maggio 2021, 01:22:22 AM
La scienza si vanta con alterna fortuna di poter leggere il futuro a partire dalla considerazione del  presente, fidando che un futuro vi sia, mentre la religione auspica al minimo  un eterno presente,  fidando ancor meglio in un ritorno al passato, considerato quale sia  il presente.
Ma in verità la scienza ammette di non sapere dove andiamo , mentre la religione lo crede, perché in fondo si tratta di percorrere al contrario una strada gia' fatta.
Tanta fatica per nulla. Che peccato. Meglio sarebbe stato se non ci si fosse mai mossi.
Il primo passo per  tornare indietro è quindi fermarsi ,trasformando già così  il presente in un futuro certo, in attesa di un radioso regresso futuro.




Purtroppo è vero che Dio/o gli dei  delle principali religioni vivono in un eterno presente è sono entità eterne, per Epicuro gli dei vivevano negli intermundi, spazi tra un mondo e l'altro, già Boezio riguardo al dio cristiano chiarisce che il suo attributo deve essere l'eternità (guardare il mondo dal centro del tempo come si potrebbe guardare un teatro, che a quei tempi era circolare, dal suo centro) e non l'onnitemporalità.


Però nell'ebraismo e ancora di più nel cristianesimo, la rivelazione, cioè il modo in cui questo Dio eterno si rivela ai sensi, alle conoscenze e alle tradizioni agli uomini che eterni non sono, prevede l'idea che il futuro sia migliore del presente, ed è per questo che le religioni abramitiche sono incompatibili con il pensiero filosofico Greco classico, che prevede l'idea che il futuro di per sé sia uguale ed equivalente al presente, quantomeno finché non interviene la virtù umana a tentare di cambiarlo solo temporaneamente in meglio, o sia addirittura peggiore del presente, configurandosi nel presente una decadenza da una precedente "età dell'oro".


Insomma nella logica della rivelazione il concetto di intermundia come spazio per Dio è invertito, la pienezza dell'esistenza di Dio, la rivelazione del suo eterno presente, si ha, se immaginiamo una linea semiretta o meglio ancora un segmento del tempo, nel punto di massimo passato (prima della creazione dell'oggetto di creazione mondo/uomo, insomma nella coincidenza pre-temporale di Dio col nulla) e nel punto di massimo futuro, quando tutte le cose si saranno compiute e il piano di Dio per l'uomo si sarà realizzato: ad essere finita nell'intermundia è tutta la parte di mezzo e consistente del segmento, la storia come svolgimento intermedio del cammino e luogo possibile dell'esperienza umana è svalutata e ridotta a puro mezzo, serve ad andare dalla creazione all'apocalisse ma non ha valore di per sé, così come l'uomo in quanto creatura è un puro nulla senza Dio; rimane solo l'ineliminabilità dell'evidenza della sofferenza, tale per cui, appunto, in questa concezione, il passato è il problema a cui il futuro pone rimedio, si soffre per avere eventualmente la fortuna di essere consolati e di trovare incommensurabilmente più felicità fuori dal mondo di quanta infelicità si sia trovata nel mondo, ma appunto il tempo e il mondo non sono l'inizio e la fine di ogni cosa, sono creati, e quindi rimandano inevitabilmente ad "altro".

Questa concezione del tempo con il futuro migliore del presente e quindi vera rottura tra età classica ed età cristiana dell'occidente, secondo il noto filosofo Umberto Galimberti ben lungi dall'esaurirsi nella modernità, ha poi ispirato il marxismo, la scienza galileiana e psicoanalisi, che sono tutte concezioni del mondo, per quanto assolutamente e apparentemente anticristiane per certi versi, in cui sempre il futuro è migliore del presente, in cui sempre il presente è il problema a cui il futuro è chiamato a trovare la soluzione (malattia e cura, progresso, rivoluzione eccetera), e io sono abbastanza d'accordo con quest'idea.

Il fatto è che finché non immaginiamo il tempo come eterno, e quindi increato, e infinito, antecedente e fuori della portata anche di eventuali esseri divini stessi, noi stessi non riusciamo a immaginare la nostra esistenza come in grado di "attraversare" l'eternità e l'infinita e giungere finalmente nel presente; se c'è tempo infinito dietro di noi eppure noi ci siamo, un lasso di tempo infinito passa per farci essere, e se questo sembra un paradosso, il paradosso va risolto immaginando una struttura e un contenuto del tempo tale da risolverlo...



#2715
Citazione di: viator il 06 Maggio 2021, 17:16:00 PM
Salve niko. Disamina interessante e profonda, come abbastanza spesso ti succede di produrre. Solamente mi pare che - al suo interno - la interpretazione dei Testi Sacri prorio non ci sia, bensì sia chiara la tua volontà di cercare di interpretare la presunta volontà di un Dio..........guarda caso (e non potrebbe essere diversamente !) applicando concetti, termini, significati, PSICOLOGIE !) unicamente umani. Saluti.




Viator, io cerco di scrivere le cose il meno fuori posto possibile, e se scrivo una cosa come interpretazione testuale, è perché penso che sia tale, che di decifrare la volontà di un Dio in cui non credo non me ne importa niente, tanto meno di fare della psicologia spicciola...


Dunque, nei testi sacri si dice: "se mangerai il frutto dovrai certamente morire", poi, dopo che l'uomo ne ha mangiato, le maledizioni che vengono scagliate da Dio sull'uomo sono tutte implicanti la sofferenza e i rapporti di potere (lavorerai col sudore, partorirai nel dolore, egli vorrà dominare su dite, porrò un'inimicizia eccetera) e non implicanti la morte, che è indicata solo per metafora e solo per quanto riguarda l'uomo ("perché polvere sei e polvere ritornerai", che allude più alla disgregazione del corpo che non all'oblio dell'anima; e alla donna e al serpente neanche viene detto in forma allusiva, che dovranno morire, cioè tornare polvere).


Quindi prima Dio minaccia con la morte, poi quando la trasgressione si verifica, impone la sofferenza, che, notare bene, inizialmente non aveva minacciato, quindi o Dio si è rimangiato la sua stessa volontà (e Dio non può rimangiarsi la sua stessa volontà!), o il problema non è la morte ma la sofferenza, che dipende dalla coscienza di morte.


Acquisendo la scienza del bene e del male gli uomini sono diventati limitati, non più potenti di prima, ma meno potenti di prima, stante che lo scopo della potenza sia procurare felicità: il male è il nulla che delimita e "contiene" l'essere del bene, bene e male sono dunque due  sovrapposti, non due alternative, non due cose separate, ma la stessa cosa unita ai suoi limiti; e prendere coscienza di questo causa sofferenza.


La scienza del bene e del male è la scienza della contraddizione in atto, non della chiara veduta che come spada separa i due, per questo "delude" l'uomo che l'ha appena acquisita, insomma la libertà è libertà di interpretare la morte come sofferenza, libertà non ponderare solo la morte di sé, inesperibile, ma anche la morte dell'altro, esperibile, soprattutto come morte del limite, dilatazione del sé verso il non senso e il cattivo infinito.



Notare anche che polvere sei vuol dire che l'anticipazione della morte era implicita anche prima del peccato dell'uomo, al massimo polvere ritornerai, può essere la conseguenza di un peccato, un qualcosa che inizia da un certo punto, ma polvere sei, vuol dire che la morte è costitutiva della vita e della creazione anche da prima del peccato, quantomeno come materia del corpo: il soffio che anima la polvere é di Dio e resta di Dio, e il ricettacolo del soffio è polvere, materia inanimata, quindi in questo senso la vita non è "propria" dell'uomo fin dall'inizio. Il problema è che la morte "entra nel mondo", col peccato, diviene immanente, ma la creazione intelligibile della morte tramite il logos/sapienza è trascendente al tempo come tutti gli altri enti creati, e come tutti gli enti creati la morte è nella mente di Dio a prescindere dal tempo e dalla creazione. Ma il mondo è la coscienza dell'uomo, quindi la  metafora della "morte che entra nel mondo" è la "morte che entra nella coscienza dell'uomo".


Al di là del bene e del male, il "mondo" in cui il serpente fa entrare la morte, è la coscienza.
La coscienza, e la memoria, di morte è anticipazione di essa, e quindi sofferenza.