Io penso che se tutti diventassimo altruisti, sarebbe la stasi del mondo, perché al culmine della disponibilità a servire non ci sarebbe chi servire, nessun egoista a manifestare i problemi i desideri e la sofferenza a cui gli altruisti dovrebbero porre rimedio, quindi gli altruisti sarebbero come un immenso esercito in attesa dell'ordine di un generale silenzioso, che non darà mai nessun ordine.
Se tutti diventassimo egoisti, hobbesianamente le forze di azione umana nella possibilità di plasmare il mondo si contrasterebbero perfettamente tra di loro e di nuovo non ci sarebbe nessuna azione, nessun movimento, sarebbe una mischia così furibonda da essere composta da individui e forme di fatto indistinguibili, e quindi di una stasi.
Direi che la compresenza di egoisti e altruisti, o di gradi di egoismo e di altruismo nello stesso individuo, è quindi necessaria alla dinamica e alla distinguibilità dell'azione e dell'essenza umana.
Il porgere l'altra guancia ha a che fare con l'amore (intendo più che con il perdono), insomma con l'amare i malvagi anche se sono malvagi, il che non è ovviamente facile, perché se preso sul serio, come precetto e corso d'azione, vuol dire offrire alla loro malvagità, alla malvagità dei malvagi intendo, una vittima volontaria: la belva umana non è acquietata, ma anzi rinfocolata, dalla serie infinita delle suo vittime involontarie, che la fuggono o la contrastano, ma il maestro spirituale che si sacrifica, che si offre al martirio, lo fa nella convinzione "folle" che con una vittima volontaria la cosa possa essere diversa, e la belva possa esistenzialmente e psicologicamente calmarsi, quello che pensa chi porge l'altra guancia rispetto allo schiaffeggiatore è un "io ti do quello che vuoi anche se quello che vuoi è male, perché l'amore viene prima del giudizio" quindi non si vuole vedere nel malvagio a cui si porge l'altra guancia un sadico "sadiano", quindi un essere che intrinsecamente disdegnerebbe per noia la vittima volontaria e se ne andrebbe a cercare di involontarie, in questo senso irredimibile, ma un soggetto desiderante che tenta di obbedire ad una legge del desiderio in senso lacaniano, e quindi può non solo essere indifferente alla componente di volontarietà o involontarietà delle sue vittime, ma, nel migliore dei casi, pre-ferire la vittima volontaria, scoprendo così che alla base della sua furia "malvagia" che lo portava a schiaffeggiare vi era null'altro che il desiderio del desiderio, il desiderio, prescindente da ogni oggetto, che l'altro desideri il proprio stesso desiderio, e dunque l'amore.
Condividere lo stesso oggetto del desiderio è inimicizia e guerra, condividere lo stesso desiderio è amore e pace.
Il perdono invece ha a che fare con il recupero della disponibilità del passato alla volontà creatrice, se il passato non ferisce, o comunque non ferisce in modo così grave da essere incompatibile con il progetto per il futuro e la voglia di vivere, lo si può volere come passato, anche solo come pegno e prezzo da pagare per qualcosa che si pensa valere più di esso.
Viceversa, se non si vuole il passato, non si vuole quella cosa che, per definizione, a valanga, sommerge ogni lasso di tempo finito, il tempo è fatto in modo tale che ogni segmento di tempo finito si "passatifica", quindi non volere il passato è la fine, il destino di fallimento, di ogni volontà creatrice cosciente che voglia esercitarsi in un tempo finito, come ad esempio quella animale, quella umana, ogni volontà che non sia quella di Dio ammesso che esista.
Tale necessità di perdono vale però solo per la piena coscienza, perché un'entità istintuale, pulsionale, magmatica, cieca, direi che potrebbe agire anche senza perdonare sul passato semplicemente "prendendolo per la coda" dal futuro stante una struttura circolare del tempo, quindi è specificamente nella coscienza che la disponibilità del passato alla volontà si ricollega con la necessità del perdono perché è nella coscienza che il passato si costituisce falsamente e illusoriamente come immodificabile: entità e volontà puramente re-attive sono al di fuori di questa illusione.
Se tutti diventassimo egoisti, hobbesianamente le forze di azione umana nella possibilità di plasmare il mondo si contrasterebbero perfettamente tra di loro e di nuovo non ci sarebbe nessuna azione, nessun movimento, sarebbe una mischia così furibonda da essere composta da individui e forme di fatto indistinguibili, e quindi di una stasi.
Direi che la compresenza di egoisti e altruisti, o di gradi di egoismo e di altruismo nello stesso individuo, è quindi necessaria alla dinamica e alla distinguibilità dell'azione e dell'essenza umana.
Il porgere l'altra guancia ha a che fare con l'amore (intendo più che con il perdono), insomma con l'amare i malvagi anche se sono malvagi, il che non è ovviamente facile, perché se preso sul serio, come precetto e corso d'azione, vuol dire offrire alla loro malvagità, alla malvagità dei malvagi intendo, una vittima volontaria: la belva umana non è acquietata, ma anzi rinfocolata, dalla serie infinita delle suo vittime involontarie, che la fuggono o la contrastano, ma il maestro spirituale che si sacrifica, che si offre al martirio, lo fa nella convinzione "folle" che con una vittima volontaria la cosa possa essere diversa, e la belva possa esistenzialmente e psicologicamente calmarsi, quello che pensa chi porge l'altra guancia rispetto allo schiaffeggiatore è un "io ti do quello che vuoi anche se quello che vuoi è male, perché l'amore viene prima del giudizio" quindi non si vuole vedere nel malvagio a cui si porge l'altra guancia un sadico "sadiano", quindi un essere che intrinsecamente disdegnerebbe per noia la vittima volontaria e se ne andrebbe a cercare di involontarie, in questo senso irredimibile, ma un soggetto desiderante che tenta di obbedire ad una legge del desiderio in senso lacaniano, e quindi può non solo essere indifferente alla componente di volontarietà o involontarietà delle sue vittime, ma, nel migliore dei casi, pre-ferire la vittima volontaria, scoprendo così che alla base della sua furia "malvagia" che lo portava a schiaffeggiare vi era null'altro che il desiderio del desiderio, il desiderio, prescindente da ogni oggetto, che l'altro desideri il proprio stesso desiderio, e dunque l'amore.
Condividere lo stesso oggetto del desiderio è inimicizia e guerra, condividere lo stesso desiderio è amore e pace.
Il perdono invece ha a che fare con il recupero della disponibilità del passato alla volontà creatrice, se il passato non ferisce, o comunque non ferisce in modo così grave da essere incompatibile con il progetto per il futuro e la voglia di vivere, lo si può volere come passato, anche solo come pegno e prezzo da pagare per qualcosa che si pensa valere più di esso.
Viceversa, se non si vuole il passato, non si vuole quella cosa che, per definizione, a valanga, sommerge ogni lasso di tempo finito, il tempo è fatto in modo tale che ogni segmento di tempo finito si "passatifica", quindi non volere il passato è la fine, il destino di fallimento, di ogni volontà creatrice cosciente che voglia esercitarsi in un tempo finito, come ad esempio quella animale, quella umana, ogni volontà che non sia quella di Dio ammesso che esista.
Tale necessità di perdono vale però solo per la piena coscienza, perché un'entità istintuale, pulsionale, magmatica, cieca, direi che potrebbe agire anche senza perdonare sul passato semplicemente "prendendolo per la coda" dal futuro stante una struttura circolare del tempo, quindi è specificamente nella coscienza che la disponibilità del passato alla volontà si ricollega con la necessità del perdono perché è nella coscienza che il passato si costituisce falsamente e illusoriamente come immodificabile: entità e volontà puramente re-attive sono al di fuori di questa illusione.