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Messaggi - niko

#2761
Cacciari sembra parlare di se stesso da uomo vecchio e stanco che è, ed esprimere il suo personale disincanto verso le utopie; ma in realtà io direi che le utopie moderne saranno pure esaurite come dice lui, ma quelle contemporanee sono più vive che mai.


Il mondo contemporaneo è una continua crisi, e le utopie dei potenti, che sostanzialmente si avverano sempre di più e/o sono vere da sempre, sono le distopie della stragrande maggioranza delle loro vittime: la mia generazione ha visto le contestazioni no-global, poi l'undici settembre, poi questo disastro del virus (zero virgola cinque per cento di mortalità) strumentalizzato politicamente per costruire un totalitarismo del consenso, l'avvento dell'uomo-virus: ad ogni supposta "emergenza", si è risposto comprimendo i diritti della stragrande maggioranza dei cittadini occidentali e creando facile consenso intorno a una politica e a una comunicazione mediatica del terrore, quindi io ci vedo una rottura della linearità del progresso verso un qualcosa, un sistema-mondo, che è sempre meglio per l'infima minoranza dei dominanti e sempre peggio per i dominati, l'utopia dell'uno è la distopia dell'altro, e in questo non c'è nessun compimento dell'occidente, ma un disvelamento del meccanismo -potrei dire della natura- che vi sta alla base, meccanismo e natura che mi sento facilmente di identificare con il capitalismo in senso marxiano e con la decadenza in senso nietzschano, sappiamo che l'uno inizia da circa l'ottocento, l'altra dai tempi di Socrate, ma strutturalmente hanno molto in comune.


Ma senza andare troppo fuori argomento, direi che il punto è che la decadenza (che è un inversione del ruolo tra debole e forte e un sentimento della direzione entropica e tanatologica del tempo) non può di per se stessa decadere, e il capitalismo (che è un sistema economico, non un Moloch omnicomprensivo) non può finire se non con la rivoluzione o con la rovina comune delle classi in lotta (socialismo o barbarie), quindi il concetto di attimo e di crisi/rivoluzione, sono stati più che mai presenti nella storia recente, solo che non ne è seguita l'utopia per i più, ma per i pochi.


La realtà dell'utopia è molto simile alla posizione del soggetto rispetto alla natura, quindi al discorso che si faceva in precedenza sul dovere, di amare la natura o no.
La natura è come lo stato di cose presenti di un mondo fondato sull'ingiustizia sociale e sull'irresponsabilità dei potenti; la puoi amare, odiare, razionalizzare, conoscere, ignorare, tentare di essere indifferente, ma la natura sempre quella è, sempre sublime e terribile, sempre più grande e più forte delle sue singole parti. Insomma la società è una "seconda natura" rispetto alla natura nel senso tradizionale del termine, alla natura "selvaggia"; ma la posizione di amore, odio, ignoranza o indifferenza del singolo verso la società attuale in cui questo si trova a vivere non è, non costituisce, di per sé, una terza natura, per questo le utopie "buone" raramente si realizzano... esattamente come chi ama, odia, ignora o è indifferente alla natura, non per questo è salvo dai suoi problemi, e dai suoi "doni".


Quello che voglio dire è che la natura nasce, sorge agli occhi dell'uomo, anche dall'oblio dell'artificiale e dell'artificio umano, oltreché dall'azione fisio-chimica delle cosiddette "leggi" della natura e da un "ordine cosmico" in certo grado reale; non possiamo mai dire se ci troviamo in un paesaggio realmente naturale, o in una natura "secondaria" che sorge dall'oblio dell'artificiale. Siamo dunque realmente vincolati da quello che i più credono e dalle convenzioni a cui i più aderiscono, non è, se non in minima misura, una nostra scelta: cose, fenomeni sociali, come il denaro, la legge, la morale, hanno potere vincolante come se fossero, leggi della natura, pur senza realmente essere, leggi della natura: possiamo maneggiare il denaro, amministrare la legge, rispettare al morale eccetera, solo obliando, in una certa qual misura, che tutto ciò sia del tutto artificiale, che le regole di scambio e di utilizzo dei dispositivi e delle conoscenze generazionalmente tramandate siano puramente convenzionali, quindi alla base del "gioco" della tecnoscienza e del sapere come potere, visto come un gioco proattivo, manipolatore, simulativo, incrementabile all'infinito, c'è sempre il gioco del fare finta che non sia un gioco, l'eterna natura dissimulante dell'umano, che non è mai cambiata nemmeno con il passaggio alla modernità, l'oblio dell'artificiale che ri-manifesta il paesaggio naturale; è questa la vera posta in gioco delle utopie e delle distopie: il velo di maya che ci fa accettare l'ingiustizia sociale non durerebbe neanche un secondo se si mostrasse l'artificialità della maggior parte di quello che consideriamo come "naturale", e per fondare una nuova utopia funzionante, che si contrapponga in qualche modo allo stato di cose presente, bisogna ri-tessere il velo di maya e obliarne la fondazione, il contrario esatto di una concezione giuridica o associativa del concetto di fondazione.

A ben vedere, anche in senso psicologico, la promessa stessa di felicità per come essa può essere significativa per l'uomo, non si riferisce mai a un indefinito futuro di felicità, volto all'accumulazione indefinita di qualcosa o tanto meno alla trasformazione indefinita di qualcosa, ma al desiderio e al bisogno di saturare lo "spazio" del futuro con una felicità in qualche modo esperita, quindi passata: nessun uomo può "insegnare" a nessun altro uomo come essere felice, e nessun uomo può auto-rappresentarsi la sua felicità, senza implicare in qualche modo il passato, e questo implica il fallimento delle utopie di progresso eterno, e l'insufficienza delle utopie di crisi: bisogna sempre in qualche modo fare un uso non scontato della storia in vista della propria e altrui felicità, come se la manifestazione improvvisa di futuri alternativi, la scelta, implichi sempre, in qualche modo, un desiderio verso il passato remoto.
#2762
Tematiche Filosofiche / Perché amare la Natura?
15 Febbraio 2021, 12:08:47 PM
Citazione di: Alexander il 15 Febbraio 2021, 00:45:15 AM
Buonasera Niko



Il problema è il "perché dobbiamo amarla?". Che è la domanda che pongo. Non sono costretto ad amare o odiare una persona, posso farlo o non farlo, ma la pressione sociale e culturale sul "dover amare" la natura si fa via via più forte. "Amare la natura" è l'autentico feticcio della nostra nuova era green. Vi invito pertanto ad un semplice esperimento per verificare se quello che dico è falso. Invitate a cena tutti i vostri amici (quando sarà finita la pandemia) e intavolate una discussione su Dio, sulla politica, sullo sport, ecc. Vedrete subito che criticare, anche pesantemente, questi soggetti non procurerà tensione, anzi, sarà motivi di indicibili offese, sfottò, battute, allegria,ecc. Poi provate a dire che non amate la natura e che anzi la trovate orrenda e verificate voi stessi la resistenza psicologica e l'indottrinamento subito dai vostri commensali.  Nella migliore delle ipotesi vi guarderanno strano o penseranno che sicuramente li state prendendo in giro. Come non ami la natura? Tutti amano la natura! Non sarai per caso un pò depresso?  C'è l'estratto naturale di wuchaseng!
Se invece dico che non amo Flavia, o Giulia, o Mauro (che sarebbero pure "esseri naturali") nessuno trova da ridire, né pensa che io sia "suonato" o disturbato. Nemmeno se dico che li odio o che mi sono semplicemente indifferenti. Ma non toccateci la natura (in senso astratto)! Perché non possiamo, liberamente, dire che non l'amiamo, non l'odiamo e che ci è indifferente? Tu stesso, velatamente, sembri dire: "uhm, ci deve essere qualche problema personale". io invece rivendico la libertà di dire che la natura di solito mi lascia indifferente, ma spesso mi disgusta esteticamente ed anche eticamente (eticamente perché il mio senso di giustizia, del tutto umano, pare  a me ben superiore di quello inesistente della natura).
Devo aggiungere che per me l'essere umano non è del tutto naturale. Lo è in parte, ma in parte, per fortuna, non più del tutto ormai. E' un ibrido. Qualcosa solo in parte naturale e in parte capace di portare in giudizio la natura stessa.




Ti sbagli se pensi che ho voluto dire che "hai un problema" o "sei depresso", la natura per me è mondo e vita, e l'indifferenza verso il mondo o verso la vita è anche essa, presa nella giusta misura e "a piccole dosi", un antidoto alla sofferenza e una possibilità di sperimentare stati più ampliati di coscienza e che siano al dì là del bene e del male, e non certo un atteggiamento eticamente ripugnante o sbagliato, insomma la "divina indifferenza" concepita come meta a cui potrebbe giungere, o quanto meno aspirare, anche l'uomo, o tutto il nichilismo orientale che prevede un certo grado di auto-osservazione e distacco, non sono certo cose solo per gente depressa, o che ha un problema, tutt'altro.


Quello su cui non ti do ragione è semmai l'esternità in generale della natura come prendibile a "oggetto" di un "soggetto"  e l'estraneità dell'uomo dalla natura, la natura siamo noi, per me c'è un ordine superiore in cui la nostra tecnologie e le nostre autoproclamate possibilità di scelta sono tutte già previste e contemplate, con la natura che si auto-continua in noi e nella nostra tecnologia, quindi se vogliamo essere indifferenti alla natura, siamo indifferenti a noi stessi, quello che dice la maestra conformista del tuo intervento, riportato quindi al mio punto di vista, è che amando la natura dobbiamo amare noi stessi, quello che tu hai ben ragione di replicare alla maestra conformista, è che degli esseri che si amano sempre e comunque -amano sempre e comunque loro stessi-, qualunque cosa succeda, che non hanno autocritica e auto spirito di sacrificio, sono esseri A narcisisti e B deboli, cose che vanno insieme, infatti Narciso tanto era innamorato di se stesso che si è indebolito fino a morire di fame e di sete, o, in altre versioni del mito, è affogato, che è quello che succede a chi non approccia la natura, appunto, con un grado minimo di antagonismo che possa servire per andare a caccia, evitare i pericoli eccetera, raccogliere le giuste bacche eccetera. Spero di essere stato più chiaro adesso.
#2763
Tematiche Filosofiche / Perché amare la Natura?
14 Febbraio 2021, 23:48:20 PM

"Niko (Buonasera!) suggerisce che un certo grado di odio sia quasi inevitabile verso la natura, forse necessario. Invece, nel mio post iniziale, io affermo che è assurdo odiare la natura, essendo una forza del tutto indifferente ai nostri sentimenti e che l'indifferenza (verso il suo destino) sarebbe la scelta più logica se non fosse, come giustamente dice anche Iano , che siamo in presenza di una disparità di forza: lei può fare a meno di noi, ma noi non di lei (almeno per il momento, nel futuro , con cibo artificiale, aria artificiale, piante e paesaggi artificiali, ecc.non si sa se in gran parte ne faremo a meno). Quindi, come vedete, non ho nessuna intenzione di "personalizzare" la natura, se non per necessità dialettica. Quello che mi interessa è la risposta umana (etica e ed estetica) a questa forza del tutto indifferente al nostro destino."
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L'odio e l'amore mica hanno senso e sono possibili solo se sono ricambiati, tante volte nella vita odiamo o amiamo chi ci ricambia o col sentimento opposto (amore per odio e odio per amore) oppure con l'indifferenza (non ci si fila), e così vale pure per la natura, le più grandi avventure spirituali e/o filosofiche dell'animo umano nascono per un sentimento d'amore o di odio non ricambiato dall'amato o dall'odiato, sentimento che quindi ricade tutto addosso a chi lo prova, definendo in lui una dialettica interna, definendo insomma il mondo interiore di chi lo prova senza definire o scalfire il mondo, interiore o esteriore, dell' "oggetto d'amore" qualunque esso sia, che rimante intonso e sconosciuto al di là dell'odio e dell'amore, che dunque in definitiva definiscono solo l'auto conoscenza o l'auto inganno dell'amante o dell'odiante.


La tua indifferenza per la natura, se la natura ti è indifferente, ricade su di te, e infatti io volevo dire che la natura è l'ordine che ci comprende, quindi quando esprimiamo o diciamo di provare indifferenza verso l'ordine che comprende anche noi stessi, stiamo prendendo una posizione esistenziale e filosofica, quando non anche spirituale, molto caratterizzata e particolare, io direi di distacco e annullamento dell'io, perché io non accetto né la premessa che la natura sia altro da noi (folle, anche se molti in questa epoca ne sono convinti) né che la natura sia la vita (sbagliato, la natura è l'ordine spaziale, temporale e materiale che comprende tanto l'inorganico quanto la vita e la coscienza, probabilmente non c'è una forza particolare a generare la vita quanto una forza emergente, ovvero la complessità dell'inorganico genera la vita senza un salto netto, in un processo che è difficile anche solo da immaginare, e non potrebbe non comprendere il singolo essere, che da oggetto passa a vivente, ma una distribuzione molteplice di esseri che possono passare a viventi solo in quanto molteplicità.


Quindi spero che capirai se io distorco un po' il tuo ragionamento, tu dici indifferenza verso la natura, io di quello che tu dici capisco indifferenza verso un ordine che ti comprende, e quindi in un certo senso indifferenza di te stesso verso te stesso.
#2764
Tematiche Filosofiche / Perché amare la Natura?
14 Febbraio 2021, 18:47:19 PM
Noi siamo natura, quindi io vedo l'amore per la natura come amore per noi stessi, e l'odio o il disamore per la natura come trascendenza, come amore per altro da noi stessi.


Lo ripeto, noi siamo nella piena internità alla naturala: la contrapposizione tra uomo e natura è gioco, è illusione, è frivolezza, ma non è realtà, la realtà è il logos, la realtà è che in natura c'è continuità tra oggetto, vivente e vivente cosciente, e anche ammesso che noi siamo l'unico vivente cosciente, questo di certo non ci emancipa dalla natura, semmai ci porta a chiudere il cerchio di quello che la natura stessa, nella sua complessità è e può essere; lasciatemi quindi dire che siamo buffi, e anche un po' ridicoli quando prendiamo il dualismo tra noi e la natura come reale.


Quindi quando amiamo la natura, amiamo noi stessi, quando la odiamo, beh, odiamo noi stessi, il che, questo odio intendo, se non è rielaborato verso un desiderio per l'altro da noi stessi, verso una qualche forma di evoluzione o trascendenza, è molto problematico in senso psicologico ed esistenziale prima ancora che filosofico, l'odio per se stessi di solito rovina la vita, e porta solo problemi.


Però un certo odio per se stessi in piccola dose è necessario a migliorare, se non ci si odia nei propri aspetti e nei propri momenti della vita peggiori, non si migliora, e la natura è tutto di noi stessi anche le parti di noi stessi che non sono facili né salutari da accettare, anche i mostri che abbiamo  dentro, la guerra, il cannibalismo eccetera, sono natura, quindi un certo tratto di natura va odiato, ed entro certi limiti la natura va odiata, bisogna vedere entro quali limiti, perché ogni atto di amore per se stessi e per l'altro in quanto completamento e proiezioni di noi stessi, è invece amore che ricade, nella realtà, sulla natura.


Quindi al di là dell'amore per il nulla, io in tutto questo discorso ci vedo l'alternativa tra amore narcisistico e amore oggettuale, quando amiamo la natura nel suo spettacolo sublime e ci sentiamo felicemente parte di essa vogliamo essere, quando combattiamo contro di essa e quindi sostanzialmente contro la prospettiva della morte e della nullità di ogni senso vogliamo divenire, e amiamo qualche suo aspetto in particolare contrapposto a qualche altro, perché questo è amore oggettuale, volere qualcosa di specifico al posto di
qualcos'altro, una necessità uguale e contraria a quella di amare se stessi nella pienezza attuale del cosmo e quindi lasciar disperdere la volontà nell'infinito: se accettassimo solo e soltanto l'ordine cosmico senza una minima contrapposizione ad esso, non avremmo nemmeno la forza per resistere alle sue avversità, moriremmo al primo temporale o alla prima tigre che ci si vuole mangiare, insomma l'ordine prevede la lotta, è ampiamente contemplato in natura che la natura sarà amata dai suoi figli, e che per altri versi e in altre occasioni sarà odiata, amandola, e odiandola, certo non la "sorprendiamo" in nessun modo.


Una breve parentesi che mi sento di aprire sul celebre passo del Sileno, l'uomo figlio del caso e della pena eccetera, il mito è metafora e ha dei significati profondi, qui il significato da non lasciarsi sfuggire secondo me è che il centauro (sileno) è metafora dell'uomo, l'uomo è l'animale che crede o sa di non essere completamente animale quindi il centauro è l'uomo, anche il re è l'uomo, quindi il tema del "sarebbe stato meglio non nascere", in senso sottile e oltre il significato letterale del mito, è il discorso dell'uomo all'uomo, non il discorso della natura all'uomo: l'ordine cosmico è già saturato dalla natura e quindi, come caso già contemplato in natura, dall' "uomo" corporeo come animale che negli istinti fondamentali dagli altri animali non si distingue; volersi distaccare dalla propria animalità è impossibile, e porta solo a un sovrappiù di sofferenza; in altre parole tutti i vivi dalla pulce alla balena sono figli del caso e della pena, non certo solo l'uomo, ma si può sperare e supporre che essi non lo sappiano, in quanto sono fuori dall'ordine della coscienza e del discorso, quindi il paradosso che il mito vuole farci cogliere è che per l'uomo, quantomeno per l'uomo adulto e razionale, il problema aggiuntivo è di saperlo e non poterlo ignorare, di essere figlio del caso e della pena, e lo sa per quell'ordine di amore e di discorso che gli proviene dall'aver interagito con altri uomini, piuttosto che con la natura. Delle bestie ci si può chiedere se siano dentro o fuori, da un destino di sofferenza sistematica e nevrotica dovuta alla consapevolezza della morte, del dolore e della fine di ogni senso, come farà ad esempio Leopardi nel canto del pastore errante; ma l'uomo può chiederselo degli animali, se soffrano o no in modo sistematico, perché egli è sicuramente dentro, questo sistema di sofferenza inevitabile, quindi la sua emancipazione dalla natura in un certo senso è, la sua sofferenza, va verso quello che sicuramente è sofferenza, distaccandosi da quello che è mistero e quindi può essere o non essere sofferenza, appunto il mutismo e la non comunicazione verbale delle bestie.
#2765
Questo modello c'è da un bel po' di tempo in occidente, ma adesso siamo alla sua apoteosi collettiva e
maturamente social-capitalista, siccome siamo tutti potenziali malati, di coronavirus naturalmente, siamo tutti potenziali "guerrieri" perché dobbiamo "difendere" noi stessi e gli altri dal "terribile morbo", quindi dalla retorica del duello e della battaglia, che già ci sorbiamo da decenni, siamo passati esplicitamente alla retorica della guerra -di massa e a cui nessuno può sfuggire-, io non riesco tanto a scrivere con lucidità di questo perché ne sono veramente, umanamente, nauseato, io penso che la società
post-moderna del duemila si stia riappropriando di aspetti disciplinari propriamente novecenteschi e uno di questi è la retorica, e purtroppo anche la prassi, della guerra applicata ad una -blanda e sovrastimata- pandemia.


Come prassi tale guerra è la guerra di trincea, prima guerra mondiale, nel migliore dei casi si sta chiusi in un buco a non fare un cavolo e ad aspettare il rancio/sussidio del governo, nel peggiore si crepa, fisicamente e moralmente, come teoria essa è invece la seconda guerra mondiale, guerra totale ad un nemico ideologico, perché un virus arbitrariamente distinto da tutte gli altri e da tutte le malattie simili, e considerato come un alieno e un pericolo esterno quando in realtà la morte, e tanto più la malattia, fanno parte della vita, è, un nemico ideologico, la sua essenza non ha nessuna realtà e nessun contatto con la realtà, serve solo a giustificare una dittatura.


Con questa storia della guerra, giustificano la cancellazione di tutti i nostri diritti, non si può più camminare liberamente per strada perché c'è la guerra, non si possono invitare più di due persone a casa perché c'è la guerra, se cambio regione ti devo dare giustificazioni perché c'è la guerra, ma scherziamo?!


Chi ha detto che un fatto naturale come un'epidemia si debba affrontare come una guerra?
La guerra a chi? All'uomo stesso?


Con questa pseudo volontà di vivere che dovrebbe giustificare il tutto che poi non c'è, è fuffa, anche la volontà di vivere che dovrebbe giustificare la guerra al virus è falsa, perché è mera volontà di sopravvivenza, respirare e avere il cuore che batte mentre si è in una squallida gabbia non è vivere, quindi è solo volontà di campare, di tirare avanti, che come argomento di persuasione funziona solo su chi è interiormente terrorizzato, già morto... lo schiavo deve essere in salute quel tanto che gli basta per produrre in efficienza, e comunque abbastanza ignorante e logorato perché non si ribelli, su questi parametri la calcolano e la calibrano, la nostra presunta "salute".


Ma il bello è che soprattutto, come massimo dovere militare, dobbiamo, e dovremo, tutti morire di fame, perché c'è la guerra: adesso ci presentano il conto, di tutto il bel sistema parassitario e securitario che ci hanno costruito intorno, che qualcuno ancora pensa che sia gratis...





#2766
Tematiche Filosofiche / La sicurezza
16 Gennaio 2021, 18:13:16 PM
Direbbe che scambiare -barattare- la libertà con la sicurezza ci rende malati, appunto esseri che non possono essere amati in quanto tali, ma in quanto ponte verso il superuomo.


La libertà non si scambia con niente: chi accetta di sottoporsi ad un potere, vuole potere a sua volta.


Il patto sociale nella sua intima essenza dà, o meglio promette, ad ogni servo un servo, e se uno è collocato "al fondo" nella piramide sociale che ne deriva e non ha nessuno di reale su cui rifarsi delle angherie subite in una gerarchia umana reale, lo ottiene disciplinarmente sul suo stesso corpo, il quanto minimo di potere che paga e giustifica la sua sottomissione ai membri del gradino più alto e alla società stessa, fa del suo stesso corpo un servo, e di se stesso smaterializzato un padrone, creando così allucinatoriamente il gradino ancora più basso di quello occupato da lui che prima non c'era, questa è la bella realtà che sta tornando, o meglio diventando sempre più evidente, dopo torri gemelle e il covid.


Frustrazione-aggressività, che quando non si sfoga diventa auto-aggressiva.


La paga di Giuda. Anche i servi sono padroni di qualcosa, perché la gerarchia sociale non finisce più con i servi, finisce con i nudi corpi.
#2767
Tematiche Filosofiche / Nulla e qualcosa.
15 Gennaio 2021, 17:28:31 PM
Anche in un mondo in cui tutto si trasforma, il nulla potrebbe essere l'irriconoscibile, ovvero non è affatto detto che, dato un mondo in cui tutto si trasforma, ne consegua un'organizzazione lineare della realtà per cui ogni cosa che si è trasformata conserva traccia e resto della forma precedente, potrebbe appunto esistere il nulla come non riconoscibilità e perdita della traccia.


Il nulla non è solo il vuoto, basta che si rompa la congenericità della natura, che emerga un dopo, assolutamente diverso da un prima, o un qui, assolutamente diverso da un lì, e nella differenza tra due epoche, o luoghi, del mondo irriconducibili l'uno all'altro, e del tutto scollegati, l'uno con l'altro, vivrebbe il nulla: nulla di conoscenza e di comunicazione. Noi siamo abituati a ragionare in senso aristotelico, con potenza ed atto, o in senso Hegeliano, per cui il vero è l'intero, e quindi secondo noi, per dire, da un seme, nasce una rosa, che fa un altro seme, da cui nasce un'altra rosa eccetera.


Ma non tutto quello che cambia, cambia così o secondo questa logica; non è stata ad esempio compreso il senso o il limite finale e materiale dell'evoluzione del vivente, quindi per esempio da un batterio nasce un pesce, che diventa dinosauro, che diventa scimmia, che diventa uomo, ma dove vada a parare tutto questo processo, o che fine abbia, o se sia reversibile o no, o se sia unico o no, nessuno lo sa; ma soprattutto la traccia di cui parliamo ora, il modo in cui i viventi si conservano l'uno nell'altro tramite il codice genetico, e il modo in cui la materia inanimata si conserva nel vivente che è pur sempre fatto di atomi e molecole, e l'animale si conserva nel vivente culturalmente evoluto come l'uomo, oltre ad essere una traccia non visibilmente ciclica e reversibile, ovvero parte da un punto ma non si sa quando se e come tornerà su se stessa, è anche una traccia che può in qualsiasi momento interrompersi, ad esempio la vita stessa nel suo complesso può estinguersi, o estinguersi la vita evoluta, o scomparire l'universo in modo tale che la materia inanimata stessa non esiste più.


La continuità della traccia è dunque questione di fede, ma certo noi, in quanto viventi, non siamo direttamente l'attività elettrica del nostro cervello, ma l'effetto di tale attività, e quindi il nulla dell'effetto allo scomparire della sua causa mi pare abbastanza indiscutibile: l'attività elettrica si trasformerà in altro, ma scomparirà la nostra coscienza come effetto di un suo stato in particolare trasfigurato ed evoluto in altri. Quindi la continuità, della catena causale, e il fatto che il futuro sia in linea di principio deducibile dal passato e dal presente, e l'interazione, di tutto lo spazio con i suoi contenuti, determinano la nullità del nulla, e la continuità di un mondo che procede per trasformazioni lasciando però traccia.
E' però interessante notare che, ogni volta che ci pensiamo come dotati di libero arbitrio, ogni volta che pensiamo di esercitare la nostra libertà, pensiamo di spezzare una catena causale almeno nel suo senso rigidamente deterministico, perché da una causa, pensiamo che possano derivare più effetti e ne "scegliamo" uno, e il nulla ritorna come effetto scartato dall'esercizio della libertà; quindi di sfuggita noterei che, ogni volta che abbiamo fede nel libero arbitrio, facciamo un atto di fede opposto a quello che facciamo quando pensiamo che l'insieme delle trasformazioni lasci traccia, prima o poi un essere libero, se mai ce ne sarà uno sulla terra o se mai noi pensassimo fino in fondo di esserlo, esercitando la sua libertà, spezza l'insieme degli effetti che abbiamo causato in vita anche oltre la nostra vita, fa epoca dando inizio ad un'epoca che ci esclude, o noi stessi, esercitando la libertà che crediamo di avere, spezziamo la catena causale dei nostri antenati morti e li escludiamo spazialmente e temporalmente, per questo nulla e libertà si implicano.


Quindi, riflettendo sul significato di in-ri-conoscibile, irriconoscibile secondo me è ciò che può essere conosciuto solo una volta, ciò che non è passibile di conoscenza duale o doppia perché in esso la traccia si è persa, mentre il riconoscibile è passibile di conoscenza doppia, perché conserva traccia di quello che un tempo era e fu, e perché può, in linea di principio ritornare.


Dunque direi che l'esperienza, e la vita racchiusa dai limiti della nascita e della morte hanno senso in questa discussione più della fisica, l'esperienza è la scienza dell'in-ri-conoscibile, mentre la conoscenza considerata a prescindere dalla vita è scienza del ri-conoscibile, perché la traccia lineare di residuo tra le trasformazioni potrebbe, al mondo, esserci in assoluto, non esserci in assoluto, o essere creata dalla vita stessa, insomma, nonostante i processi entropici in senso fisico, la coscienza ricorda gli stati precedenti della materia, e nonostante i processi identici in senso fisico, la coscienza costituisce differenza: per fare un esempio semplice; la lancetta dell'orologio giunge a un certo punto ad esempio sulle 12, e, stante che l'orologio funzioni e che passi abbastanza tempo,  vi ri-giunge un numero indefinito di volte, creando una circostanza concreta di stati fisicamente identici in cui solo la coscienza di un vivente può distinguere questi stati e attimi e capire che c'è una differenza tra 12 primo, 12 secondo, 12 terzo eccetera, una differenza che non è in natura, nel senso che  non è nella natura oggettuale ed organica delle cose, ma che è nella coscienza come espressione della vita.
E ugualmente per i processi entropici come la morte, ma anche la rottura di un oggetto ordinato, come un piatto o un bicchiere, è solo la coscienza a ricordare lo stato ordinato precedente dell'universo, lo stato entropicamente più disordinato conseguente al futuro sta al meno disordinato conseguente al passato come un irriconoscibile, e solo la coscienza come testimone lo rende riconoscibile.



Il passato, è dunque realmente il luogo, della coscienza? L'universo contiene solo trasformazioni reversibili, come in un modello ekpirotico e per eoni, e quindi passato e coscienza si implicano, oppure va verso la morte, o anche solo verso una variabilità tale da implicare l'irriconoscibile, e quindi passato e coscienza si oppongono, e il vivente fa da testimone di quanto secondo natura è "gettato" al non ritorno?


Quindi da un discorso in cui si è partiti dando per scontata l'esistenza della traccia di tempo lineare tra le trasformazioni, io propongo il trilemma della traccia che potrebbe non esistere, esistere, o non esistere nell'inorganico ed essere specificamente creata dalla vita cosciente, ma almeno due "corni" del trilemma implicano il nulla, poiché se non c'è traccia lineare intercorrente tra le trasformazioni, c'è l'irriconoscibile, se la vita testimonia della traccia, finita la vita, stante che essa non sia ciclica o eterna, finirà anche la traccia, e, per come credo di aver vagamente compreso la fisica moderna, non è esatto dire che la materia non è né corpuscolo né onda, ne che è corpuscolo e onda insieme, ma che è corpuscolo o onda a seconda delle circostanze, manifesta una possibilità trasformatoria in questo senso, quindi la presenza, o no, della traccia intercorrente tra le trasformazioni per ordinare il mondo anche qui ricorre; infatti il collasso della funzione d'onda, la decoerenza, gli esperimenti della doppia fenditura e dei percorsi laser, ci dicono che la materia è tutte e due le cose tra corpuscolo e onda, nel senso che si trasforma dall'una all'altra. Per completezza, andrebbe detto che è possibile una descrizione solo-ondulatoria della materia e non una solo-corpuscolare, ovvero anche la forma di corpuscolo può essere descritta come un'onda concentrata e statica e non viceversa, e questo significa che una descrizione dinamica prevale su una statica e non viceversa, abbiamo qualcosa che vibra nel vuoto-nulla, ma questo perché ogni oggetto è riducibile all'insieme della sue interazioni, non ha, in senso fisico, residuo ontologico una volta che si è descritto correttamente e completamente con che cosa esso interagisca, il che vuol dire anche che il tutto non è deducibile dalla parte, io giungo alla descrizione corretta e completa di un oggetto descrivendo con cosa esso interagisce, e ho ottime probabilità di restare ignorante sulla conoscenza di con cosa interagisce a sua volta la cosa che interagisce con l'oggetto che ho, sia pure correttamente, descritto, non dedurrò mai l'universo da nessuna delle sue parti, un sistema chiuso ha meno informazione, e quindi meno stati possibili, dello stesso sistema osservato da un terzo elemento/osservatore, non solo l'universo, se lo osservo, mi mostra aspetti di sé stesso a caso, ma il fatto stesso che lo sto osservando aumenta la gamma di aspetti possibili da cui verrà "scelto" quello che mi mostrerà, quindi è il grande sogno filosofico e teologico del rapporto tra micro e macrocosmo che viene spazzato via dalla fisica moderna, e il detto "non sappiamo se sappiamo o se non sappiamo" mi rappresenta molto di più del detto "so di non sapere" : non possiamo sapere nemmeno quanto del mondo è grazie a noi, e quanto sarebbe stato, anche senza di noi, la prudenza riconduce ogni cosa che ci sembra frutto del nostro atto di creare, alla possibilità del molto più modesto atto di trovare.






PS il carattere del mio testo a volte più grande è un difetto di redazione, quindi non voglio attribuirgli alcun significato particolare.
#2768
Tematiche Filosofiche / Nulla e qualcosa.
13 Gennaio 2021, 14:24:59 PM
Io non dico che la morte di un vivente sia un passaggio al nulla, dico che questa opinione esiste in filosofia ed è degna di rispetto, e, scusate se lo dico, già il fatto che voialtri argomentiate contro usando esempi di tipo esperienziale o sentimentale, e quindi non di tipo rigorosamente filosofico o logico, la dice lunga su quanto l'opinione in sé sia difficile da confutare;

se nulla passa al nulla, allora tutto si trasforma,

se allora tutto si trasforma, io ho chiesto: "in cosa si trasforma la coscienza, lo "spirito" di un vivente evoluto dopo la morte?"

Nessuna risposta che non vada sul mistico o sul poetico, e poco vi rendete conto dei problemi
logico-filosofici intrinseci nelle vostre risposte...

voi dite: un vivente muore ma dopo di lui non c'è il nulla, il tessuto dell'essere è ancora continuo, non lacerato; dopo di lui, e la sua morte, c'è ancora mondo che va avanti e la continuità dell'essere; allora, dico io, chi testimonia del campo di coscienza nullo di quel vivente espulso dall'essere e dal mondo, che non è più? Della verità di quel campo di coscienza?  Lui stesso? Allora il nostro concetto di nulla è una tomba che eternizza la verità del soggetto, anche in mancanza di percezione e di attività...


oppure il campo di coscienza proprio non c'è e non ha senso chiedersi della sua verità?
Allora non avete confutato quello che c'era da confutare, la morte è un passaggio al nulla.


La coscienza si trasforma, come il corpo putrefatto si scinde nei suoi elementi compositivi? Ok, allora da ciò la mia domanda: in cosa essa si trasforma?


#2769
Tematiche Filosofiche / Nulla e qualcosa.
11 Gennaio 2021, 19:01:50 PM
Citazione di: baylham il 11 Gennaio 2021, 12:13:38 PM
Il disagio psicologico è qualcosa, non nulla, quindi esso conferma soltanto che il nulla non esiste.

La morte è un processo, non è nulla. La mia morte futura non è un passaggio al nulla, è l'inizio di altro: i miei genitori, alcuni miei amici, miliardi di uomini sono morti, ma non sono diventati, passati o sfumati nel nulla.

Se la mia capacità di percezione, degli strumenti di percezione, della realtà da osservare sono sotto o sopra una soglia, percepirò il vuoto, l'assenza. Ma la mia percezione del vuoto, del silenzio, non è un nulla, è una conferma che il nulla non esiste.

Se il nulla non esiste, non è una forza, non è una negazione, non è un campo d'attrazione o d'origine.

Origine e fine dell'esistente che non esistono proprio perché il nulla non esiste.


Dopo la morte inizia dell'"altro", uno stato "successivo" del mondo, in cui non c'è (più) la coscienza del morto, quindi la morte viene pensata da molti come nulla, come annullamento di coscienza, della coscienza, non dico che si debba per forza condividere questa opinione, ma bisognerebbe quantomeno conoscerla, e rispettarla così com'è, senza stravolgerla con giri di parole strani.


La morte non è trasformazione di coscienza, ma proprio annullamento, perché è ben difficile spiegare, soprattutto in senso ateo e scientifico e senza postulare paradisi o reincarnazioni, o fantasmi vari, in cosa, dopo la morte, la coscienza di un poveretto che è morto dovrebbe essersi "trasformata"...


Quindi la morte, la morte degli esseri coscienti e autocoscienti, è la smentita della famosa massima: "tutto si trasforma e nulla si distrugge".


Semmai, e nulla si distrugge nel mondo materiale, ma nell'animico, ovvero nel sommamente semplice, non può darsi la scomposizione del sommamente semplice in componenti frazionati di esso che diversamente si ricompongono, o con esse stesse o col mondo esterno anch'esso pensato come composto di parti e passibile di varie possibilità di aggregazione di queste parti, il che ci induce a prendere posizione nella "dicotomia" dello stabilire se il sommamente semplice sia immortale, indistruttibile, o radicalmente mortale nel senso proprio dell'annullamento, a meno che non pensiamo, oltre la suddetta dicotomia,  che anche la coscienza, o anima, sia composita, e allora potrebbe avere strati mortali e strati immortali, o avere una possibilità di "resurrezione" nel ricorrere del rapporto combinatorio tra le sue stesse parti che la genera, o addirittura di altre parti simili.


Il nulla non esiste, ma non vedo perché dovrebbe non esistere nella forma di coincidere semplicemente con se stesso e non nella forma di essere l'essere, quindi è proprio da un punto di vista dinamico, che ogni fourclusione del nulla fallisce, oltre la soglia della percezione c'è il vuoto, ma in questo vuoto c'è del tempo, quanto meno perché poi, ad altre condizioni, la percezione meglio definita di qualcosa oltre il vuoto ritorna, quindi il vuoto tra le percezioni vale come intervallo, e poi perché anche nel vuoto puoi pensare e ricordare, attività che pur essendo adimensionali, e quindi non dipendenti dallo spazio, richiedono tempo. Siete sempre to o l'altro, come attività interiore o manifestazione fenomenologica, che fate in modo che questo vuoto non sia nulla, ma finché l'intervallo tra due percezioni distinte non si colma, o non si attribuisce realtà, o valore di inizio, di origine, al pensiero formulato nel vuoto, il vuoto potrebbe essere nulla, e la mediazione temporale che colma il vuoto sta a ricordarlo.


Il processo del morire poi, è interessante anche perché in natura non vi sono interazioni istantanee, quindi, mentre la filosofia e il senso comune distinguono dicotomicamente tra vita e morte, in natura il processo di morte si compie nel tempo, come tutti gli altri e senza distinzione particolare dagli altri, e vi è interregno, e intervallo, e mediazione, tra vita e morte.


Ma cosa altro potrebbe essere la coscienza, e la vita che contempla se stessa in questo intervallo se non nulla? L'agonia come inizio della morte stante il perdurare della vita, intendo, che secondo natura è necessario si compia nel tempo, e non ha quell'istantaneità che ha nel nostro pensiero e nel concetto che ci facciamo di essa... Che ci si impieghi un secondo, o un miliardo di anni a morire, in quel frangente non si è né nella vita, né nella morte... non è un intervallo vuoto tra due pieni, tra due stati dell'essere, ma un divenire, che quando non può più essere divenire, per la coscienza che si contempla mentre muore, passa al nulla, e non all'essere, quindi un divenire che ha in sé la sua propria ragione d'essere, che la trae finalisticamente dal nulla, non causalmente dall'essere, un divenire che non è in nessun senso un compimento...
#2770
Tematiche Filosofiche / Re:Nulla e qualcosa.
10 Gennaio 2021, 21:10:22 PM
Citazione di: viator il 10 Gennaio 2021, 20:41:55 PM
Salve niko. Per me non ci siamo.Nel nulla tu ci infili troppe cose. Alla fine poi, dopo averlo riempito ben bene, dichiari che esso potrebbe essere il contenitore di ciò che nega l'esistenza del nulla stesso, cioè l'essere. Saluti.




E' la realtà che è difficile... l'essere è un modo di essere determinato del nulla, che quindi non è solo indeterminato, contiene tutto (comunque, soprattutto qui, con l'essere intendo l'insieme degli enti, ciò che c'è).


Il nulla è anche la fine delle opposizioni, quindi lo abbiamo sia quando un opposto prevale in modo assoluto sull'altro, sia quando gli opposti sono perfettamente in equilibrio.


Io penso per esempio a luce e tenebre, è nulla quando abbiamo la tenebra senza un minimo di luce, o la luce senza un minimo di tenebra, ma anche quando abbiamo un perfetto equilibrio tra luce e tenebra per cui nulla emerge... quindi del nulla non sappiamo nulla, neanche se è un contenitore con un contenuto assoluto, o un contenitore con una varietà di contenuti che attualmente non può emergere...


Sappiamo solo che nella nostra esperienza comune cogliamo la luce, perché in essa c'è un minimo di tenebra e viceversa, quindi ci facciamo un'idea del nulla, non tanto come toglimento dei contenuti concreti dell'esperienza, quanto come toglimento delle sue modalità, delle sue leggi, potrei dire.


Da dentro l'essere, non possiamo dire se apparteniamo, o no, a una totalità nulla.







#2771
Tematiche Filosofiche / Nulla e qualcosa.
10 Gennaio 2021, 19:07:31 PM
Citazione di: baylham il 10 Gennaio 2021, 16:52:53 PM
Un fondamento per me certo è che il nulla non esiste. Da questa premessa ho tratto alcune conclusioni interessanti ed importanti per la mia, modesta, riflessione filosofica e per la mia vita.
Se qualcuno è in grado di fare un esempio del passaggio da qualcosa al nulla lo ringrazio.


Beh c'è chi pensa che dopo la morte ci sia il nulla, quindi se il corpo si disperde, la coscienza, o anima, si può pensare che non si disperda altrettanto nei suoi componenti fondamentali come il corpo (ad esempio perché essa, a differenza del corpo, la si pensa come unitaria) quindi, o pensiamo che sopravvia in qualche modo, o che si annulli.


Poi io penso che il nulla sia nullificato da sempre nell'essere, quindi non c'è reciprocità, immagino il passaggio dal nulla a qualcosa, ma non di qualcosa al nulla, il nulla è sorgivo, perché genera l'abisso dello spazio e del tempo in maniera irreversibile e non lo riaccoglie, è il non-ritorno, e, come si può pensare a una direzione di non-ritorno per la morte, altrettanto la si può pensare per la vita.

Comunque, il mio pensiero del passaggio del nulla a qualcosa è spaziale, non temporale, quindi non c'è prima il nulla e poi qualcosa, ma c'è il nulla che in un certo senso è il vuoto, della realtà o della coscienza; o anche il limite, o il contenitore, dell'essere.
#2772
Citazione di: donquixote il 08 Gennaio 2021, 21:10:19 PM
Citazione di: niko il 07 Gennaio 2021, 14:02:48 PM

Io vedo il cristianesimo e il socialismo come mediazioni, come pensieri dell'equità e dell'equanimità tra individuo e specie,
Accomunare socialismo e cristianesimo, in qualunque modo lo si faccia, è un errore logico e filosofico perché sono idealmente contrapposti e quando la Chiesa, pur degenerata, lo era un po' meno di adesso definiva il socialismo (o comunismo, a piacere) un'ideologia satanica e scomunicava automaticamente i cristiani che vi aderivano. Solo una totale superficialità di giudizio può ritenere che queste dottrine siano sia pur parzialmente sovrapponibili o intercambiabili, e le eventuali somiglianze fra loro sono esclusivamente formali.

Innanzitutto la famosa frase di Marx "da ognuno secondo le sue possibilità, a ognuno secondo i suoi bisogni" è tratta, sia pur non letteralmente ma sostanzialmente, da un brano degli Atti degli Apostoli (At 4, 32-35) e dunque non è invenzione di Marx o Engels. La questione principale da considerare è che quella frase assume valenze molto diverse nel cristianesimo e nel socialismo. Se nel Cristianesimo quel comportamento non è un "principio", un postulato dottrinale, un dogma, uno scopo, ma una semplice deduzione dalla dottrina, una logica applicazione nella prassi di un insegnamento (e poi di una morale) che realizza innanzitutto una solidissima unità spirituale in quella comunità, nel socialismo invece quello è il punto di partenza, lo scopo sociale, è in pratica sia l'inizio che la fine di tutta la dottrina. Lo dimostrano le parole di Marx ed Engels che, nel tanto celebrato "Manifesto del Partito Comunista" scrivono: "Tutto ciò che è istituito, tutto ciò che sta in piedi evapora, tutto ciò che è sacro viene sconsacrato, e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con sobrietà il loro posto nella vita, i loro rapporti reciproci." Negando pertanto ogni valore non solo spirituale ma anche, se così si può dire, sentimentale e innalzando un inno al nichilismo più spinto per tracciare il programma di una società basata sul nulla, che per realizzarsi ha la necessità che gli uomini che la compongono siano solo esseri biologicamente considerati, privi di quelle caratteristiche che determinano la loro "umanità" ovvero privi di valori che superino la mera sopravvivenza fisica. Ma siccome gli uomini non sono così, e a quanto pare non serve tentare di farli diventare tali con la violenza, alcune caratteristiche tipicamente umane come, fra le altre, l'avidità e l'egoismo che il capitalismo ha esaltato ai propri fini, rimangono presenti.

Oltre ad avere in comune con il capitalismo liberale innumerevoli altre idee mutuate dalle "rivoluzioni borghesi" del '700, le idee di Marx  esaltano soprattutto il fondamento su cui le idee moderne in generale si basano: il materialismo. Se si considera la materia come l'unico elemento esistente (o comunque l'unico che abbia senso) allora la felicità umana deve di necessità essere basata su di essa, ovvero sul suo possesso e il suo sfruttamento. Il capitalismo, basando appunto il raggiungimento della "felicità" sulla ricchezza materiale (e quel che ne consegue in termini di fama, successo, potere) ed esaltando a tal fine la competitività, l'avidità, l'egoismo e il cosiddetto "american dream" ha fatto proprio questo, oltre a creare strumenti consolatori più o meno validi per quelli che "non ce la fanno". Il socialismo invece non mi risulta abbia fatto altrettanto, e nemmeno ha fornito valori alternativi a quelli del materialismo capitalista, se non la ridicola idolatria dei suoi fondatori e dei suoi capi dopo aver distrutto idealmente e filosoficamente tutte le, per usare il gergo di Marx, "sovrastrutture" fra cui lo stato, la patria, la religione eccetera. La frase citata ha un senso non di per sé, perché è ambigua e si tratta di decidere quali sono le "possibilità" e i "bisogni" di ciascuno, ma solo se inserita in un sistema di pensiero che asseconda le caratteristiche umane (dell'uomo "reale", ovviamente, non di quello "ideale" sognato e immaginato da tutte le utopie della storia) per agevolare quelle positive e tenere sotto controllo quelle negative.



Per questo può aver senso solo nel cristianesimo (o in altre dottrine analoghe) che innanzitutto insegna agli uomini che la felicità (o, meglio, beatitudine) risiede nella ricerca e nell'acquisizione dei beni spirituali: questi sono per definizione eterni, dunque fuori dal tempo, incorruttibili, dunque rimangono inalterati per sempre, e infiniti dunque non hanno limiti; questo significa che anche se uno li possedesse tutti nella massima misura questo non impedirebbe ad altri di possederli a loro volta tutti nella massima misura. Al contrario dei beni materiali che essendo limitati e corruttibili (invecchiano, passano di moda, si deteriorano etc.) non potranno mai essere posseduti da tutti in massima misura e se per ipotesi uno solo li possedesse tutti, a tutti gli altri non rimarrebbe nulla. L'avidità e l'egoismo applicati ai beni spirituali sono prima di tutto superflui ai fini della loro acquisizione (non basta desiderarli per ottenerli e nemmeno si possono ottenere per gentile concessione di qualcuno) e in secondo luogo anche se potessero essere utili allo scopo questo non recherebbe danno ad alcuno ma solo beneficio a se stessi, innescando un circolo virtuoso. Le stesse pulsioni applicate invece ai beni materiali saranno ovviamente esaltate dato che risultano essere indispensabili alla bisogna ("non è bene accontentarsi di quel che si ha" diceva l'economista liberale Ludwig Von Mises), ma anche causa di conflitti permanenti perché chiunque voglia legittimamente aumentare la propria "felicità" possedendo più beni materiali si scontrerà inevitabilmente con il diritto alla "ricerca della felicità" altrui che a sua volta cercherà di sottrarre tali beni a quante più persone possibile. E in un mondo sempre più affamato di "felicità" (e "libertà", considerata ormai anch'essa un bene acquisibile con il denaro come qualsiasi altro bene materiale) come è possibile, come auspicherebbe quella frase declinata dal socialismo, convincere la gente ad accontentarsi di meno di quel che ha ora se quel che ha ora non è mai abbastanza?
"Da ciascuno secondo le sue possibilità a ciascuno secondo i suoi bisogni" è quindi applicabile solo ad una comunità (com'erano quelle dei primi cristiani descritte negli Atti degli Apostoli) che privilegia i beni spirituali,  utilizzando quelli materiali solo al fine di soddisfare i bisogni necessari alla mera sopravvivenza fisica, per cui il loro ammontare necessario sarà sempre alquanto limitato ed equivalente per tutti.   





Quello che hanno in comune il cristianesimo e il socialismo (quello reale, o comunismo storico novecentesco) è la costruzione di una metafisica della storia e quindi una visione escatologica del tempo, questo davvero non si può negare, in Marx c'è il comunismo primitivo e un comunismo futuro che è il punto di arrivo di tutto, la fine della storia, come quello primitivo ne è stato l'inizio, nell'apocalisse Dio dice "io sono l'alfa e l'omega" c'è il riapparire dell'albero della vita che stava nell'eden e dunque nella Genesi, la Gerusalemme celeste che sostituisce la Gerusalemme reale distrutta eccetera.


Il futuro è migliore del presente, ed è un futuro "strano" perché, se il tempo è una linea, più che realizzare le conseguenze di un punto intermedio qualsiasi, il futuro realizza le conseguenze dell'origine, rendendo l'intermedio sopportabile in quanto intermedio; noi non siamo condizionati tanto dallo ieri, quanto da avvenimenti critici avvenuti nei millenni precedenti e tendenzialmente nel luogo dell'origine, per questo abbiamo entro certi limiti il dovere di conoscere.


Comunque se vuoi un filosofo che spiega molto bene che cristianesimo e comunismo hanno in comune di essere una metafisica della storia e quindi di rigettare la visione greco-classica del mondo, puoi cercare qualche video di Umberto Galimberti.


Insomma il fiume che l'uomo è giunge al mare che è la morte, ma se qualcosa ci fa immaginare il mare stesso come diveniente, come agitato, il mare è come il fiume, la morte non è definitiva e ha avuto un senso; quindi un conto è l'immagine di tornare ad una "specie" umana aristotelica, sempre uguale, un conto è l'immagine di tornare ad una specie darwiniana, diveniente, perché ci domandiamo se il nostro divenire abbia avuto senso, e se torniamo all'identico, all'oceano infecondo dei greci, la risposta non può essere che negativa: solo se torniamo a un mare in tempesta siamo, paradossalmente, conservati, spiriti mutabili in un creato mutabile, abbiamo la stessa materia del mondo e il nostro rapporto col mondo è, o almeno è stato, reale, produttivo di conseguenze e altro movimento a tempo indefinito ben oltre la nostra morte, e realmente concatenato al movimento precedente che lo generò, osservati, per chi ci crede da un Dio che dovrebbe essere l'unico spirito immutabile, l'unico osservatore immobile.


L'aspetto antropologico di Marx è davvero in debito con Hegel e con il romanticismo, Marx ama l'uomo ma è un uomo diveniente, non ci sono bisogni universali, ma la necessità di realizzarsi tramite il lavoro, tramite l'interrogazione dell'altro: l'unico bisogno universale è semmai quello di ricreare il principio nella fine, l'uomo non nasce individuo, ma branco, formicaio, quello che tipicamente immaginano del socialismo quelli che non lo conoscono e non lo amano.


La socialità imposta per fame e per minaccia di morte è l'inizio, della storia umana, non lo sviluppo e la conquista. Il contrario esatto di tutti gli intellettuali illuministi secondo cui l'uomo nasce asociale o a-socializzato, e deve trovare il modo di diventare sociale.


La rivoluzione borghese inventa l'individuo, cioè, almeno per i più fortunati, la fine della socialità imposta per fame e per morte, il diritto per alcuni, di farsi radicalmente gli affari loro, liberi non solo dal lavoro manuale, come può essere una comunità dei proprietari di schiavi, come la polis o l'impero antico, o il feudo medioevale, ma dai condizionamenti mentali e sociali per cui bisogna apprendere la tecnica e il linguaggio dalla società al prezzo della libertà; il denaro è il nuovo oggetto di sacrificio, per cui si può avere tecnica e linguaggio restando se stessi, si possono comprare informazioni e concatenamenti di azioni, senza esserne invischiati, senza farne parte; fatto questo, questo è l'incompiuto, perché gli individui restano minoranza e restano individui, bisogna fare la comunità sociale degli individui, applicare l'origine, quello che fu il branco, il formicaio, oltre l'intermedio perché l'intermedio finisca; tutti devono essere individui, per questo tutti devono soddisfare i bisogni fondamentali nella forma dell'accesso dignitoso alle risorse e non nel crimine o nella carità, e deve esistere la comunità e il centro decisionale degli individui, quindi superamento dello stato, della famiglia, della società civile eccetera.


La fine è il principio, anche senza la sistematicità di un Hegel in cui la fine e il principio sono contenute entrambe alla pari nel sistema, in Marx, la fine è il principio attraverso la storia, la fine realizza tutte le potenzialità antropologiche ed etiche del principio, e questo è il contrario di un pensiero della decadenza, o eternalista, o fatalista, perché è un pensiero in cui il futuro è migliore del presente.
L'utopia novecentesca non è un'isola o un caso fortunato, non è una semplice possibilità dello spazio o del tempo che è "migliore" perché permette la possibilità di espressione e di realizzazione di un lato migliore dell'anima o della società umana che è in sé e per sé già esistente



(come può essere la Repubblica di Platone, per dire: la Repubblica è possibile perché c'è già il bene nell'anima, e il saggio, anche se non vede intorno a sé la Repubblica finalmente realizzata ma solo una comune polis degenerata e malgovernata, agisce come se fosse già egli stesso cittadino della Repubblica, di una Repubblica che vede solo lui, cioè in maniera migliore dei suoi concittadini degenerati, seguendo il bene presente nella sua anima; per contro, è solo un caso fortunato che si realizzi la Repubblica, la Repubblica è una possibilità del tempo come le altre non informa di sé tutto il tempo e non si espande, rimane un'isola nel letame, circondata da tutte le possibilità di combinazione spaziale e temporale peggiori di essa, e, conscia della sua ordinaria corruttibilità, deve darsi come scopo attivo e attivamente perseguito la sua eternità: gli ineducabili esiliati come primo atto del governo all'inizio della Repubblica, non faranno mai ritorno alla Repubblica, l'utopia Platonica e in generale ogni utopia di un pensiero della decadenza o dell'eternità, di un pensiero non ottimista verso il futuro e non istitutivo di una metafisica della storia, non solo non si espande, ma soprattutto non può educare chi non è predisposto ad essere educato, essa è una possibilità di realizzazione del bene che ha la necessità pratica e logica di essere circondata dal male, una perla nel letame che ha necessità pratica e logica del letame intorno, ad esempio, quanto meno, come termine di scarico dei suoi indesiderati)


La comune di Parigi, per fare un'esempio di utopia socialista, che è stata storia ma è stata anche sogno, è il contrario esatto della Repubblica di Platone, proprio perché non è una possibilità come le altre del tempo e dello spazio, ma pretende di educare e assimilare il tempo e lo spazio intorno, e non realizza il bene dell'anima già esistente, ma l'uomo nuovo, cioè un bene che non è neanche pensabile alle condizioni di esistenza passate, ad essa precedenti: in essa le possibilità di evoluzione dell'uomo si stanno realizzando, e si stanno realizzando in un verso, in una direzione che si intravede, quindi questo vuol dire che essa potrà combattere la sua possibile degenerazione, la sua corruzione e inerzia, di cui pure, come anche la Repubblica, è consapevole, divenendo intenzionalmente, inseguendo quella direzione di cambiamento che già nel presente ha, non intenzionalmente eternizzandosi, cercando il ricambio organico umano che restituisca lo stato di governo e delle cose sempre uguale; ma inseguire una direzione, vuol dire colonizzare il tempo e lo spazio; chiunque la Comune di Parigi abbia esiliato alla sua fondazione, alla realizzazione del comunismo mondiale sarà recuperato come cittadino, la Comune di Parigi non esilia nessuno per sempre, perché è una perla che non ha bisogno del letame intorno, dà un tale taglio al passato che non implica più la dipendenza strutturale con il passato...


quindi, se questo è un materialismo, è un materialismo manicheo, in cui il bene vale per sé e per le sue qualità intrinseche, e non in contrapposizione al male: per sostenerlo non c'è bisogno di sostenere lo spirito come mediatore tra l'individuo e la specie, di rimanere attaccati a Hegel sia pure in salsa di sinistra, ma la riduzione biologicista e nichilista dell'uomo al suo "solo" corpo apre possibilità infinite, perché quello è il punto zero in cui tutto può accadere, il silenzio grazie al quale scopriremo di esistere, non lo scopo e il termine di arrivo. La rivoluzione inizia, quando l'uomo è ridotto al suo corpo, non finisce, in quel punto; tornare indietro è interrogare la storia sulla sua necessità, fare la domanda su necessità o libertà a partire da una circostanza concreta, ed è implicito nell'andare avanti; ovvero la storia come la raccontano i vincitori, coloro che sono al potere attualmente, si arroga una necessità, un'astuzia della ragione, un non poter essere diversa da come è, che non può essere confermata o smentita se non tornando a un punto passato e rivedendo "sperimentalmente" se avvengono le stesse cose o no, se da quelle premesse seguono le stesse conclusioni o no: ora, è ovvio che questo non è un vero passato perché è un passato con la conoscenza di almeno uno dei futuri possibili, è l'immagine memorica di un passato a cui vogliamo tornare per cambiarlo, psicoanaliticamente è un rimorso, un irrisolto, ma il futuro, che non è inerzia, che non è quello che succede se nessuno sa, o fa, niente, è passato più conoscenza, passato in cui propriamente vi è disperazione, non speranza; la storia non cambierà mai a partire da oggi, o da domani, ma sempre da ieri, vi è una componente distruttiva nel fare la rivoluzione perché bisogna cambiare strada a partire da quello che si conosce, e quello che si conosce non è l'istante, ma una sequenza estesa di storia passata, gli spettri si aggirano sempre perché chiedono pace, ma portano guerra...


#2773
Tematiche Culturali e Sociali / Tempus fugit
08 Gennaio 2021, 22:05:01 PM
Io tendenzialmente parto da una definizione negativa del tempo: il tempo è quella cosa per cui le cose non accadono simultaneamente. E una sorta di filtro della realtà, tale per cui, se si immagina di toglierlo, tutto avviene insieme. Lo spazio dell'istante è incompenetrabile, infatti nell'istante, i solidi devono occupare sezioni diverse di spazio; viceversa, in un singolo quanto di spazio considerato attraverso il tempo i solidi possono sovrapporsi, ovvero, tolto uno, posso mettere nello stesso posto un altro.


Così esco subito da ogni presentismo: mi sembra reale e corrispondente al vero il fatto che le cose non accadano simultaneamente, dunque il tempo esiste. La condizione della sovrapposizione dei solidi è il loro movimento, e il loro movimento necessita di tempo.


Per recuperare anche solo un'immagine di presentismo, che poi vero presentismo non è, ho bisogno dell'infinito atomistico Democriteo, in cui gli atomi cadono e cadono in ogni direzione perché nell'infinito non c'è il basso, quindi l'assenza di una direzione di caduta, genera la possibilità di ogni direzione di caduta per gli atomi.


Ora, gli atomi si aggregano nell'infinito generando più mondi, di cui io ne vedo e ne conosco la piccolissima parte di uno. Per trovare anche solo un abbozzo di presentismo coerente, cioè di nuovo sistema che tolga dal vecchio sistema la variabile tempo e faccia accedere tutte le cose simultaneamente, devo immaginare l'immensità dell'infinito che non vedo, e gli altri mondi. E' ovvio che in questo mondo non c'è un'armonia o una correlazione causale per cui gli eventi possano accadere simultaneamente, ma viceversa c'è un'armonia e una correlazione causale per cui, nel senso in cui ho spiegato prima, esiste il tempo.


La simultaneità potrebbe derivare da un'armonia casuale, ma che prima o poi nell'infinito ricorre, tra più mondi, due o più, ovvero l'infinito può ospitare infiniti mondi sostanzialmente e destinalmente identici tra di loro ma anche temporalmente sfasati tra di loro, per cui è all'infinito che il tempo non passa, perché il passato del mondo a è il presente del mondo b e il futuro del mondo a è il presente del mondo c, ovvero io posso pensare il mondo come contenuto in un unico istante solo se riesco a figurarmi tutti gli intervalli di tempo come intervalli di spazio, e questo è ovvio che non riesco a farlo nel mondo che cade sotto i miei sensi e sotto la mia conoscenza, perché in questa parte conosciuta di mondo vi sono le sovrapposizioni e gli eventi irreversibili, ma naturalmente non si può escludere che all'infinito ciò che esiste nella mia memoria esiste anche altrove, e ciò che esiste nella mia aspettativa esiste anche altrove, con una somiglianza tale da avere una sovrapponibilità e un'identità di esperienza se io vivessi in tale altrove.


L'infinito potrebbe avere una varietà tale da restituirmi istantaneamente il tempo come spazio, posto sempre che il tempo sia ciclico e che non abbia una gradualità di variazione altrettanto infinita. In questa infinità ci sarebbe ancora movimento e scambio posizionale, ma non più irreversibilità degli eventi e cambiamento: ci sarebbe una regione di spazio molto più grande del singolo mondo, che comprende abbastanza mondi da contenere la storia del mondo, i cambiamenti locali dei singoli mondi sarebbero irrilevanti e gli eventi del tempo potrebbero sempre e comunque esistere senza sovrapporsi, quindi avendo quella che noi comunemente consideriamo un'esistenza istantanea, in cui ogni cosa occupa una ben definita posizione.


Ma finché la memoria del passato e l'aspettativa del futuro restano puramente mentali, e non ho prova degli altri mondi in cui i contenuti empirici di tale memoria e tale aspettativa esistono materialmente a distanza, fino a prova contraria per me il tempo esiste.


La versione animica del tempo, per cui il futuro non sarebbe che immaginazione, e il passato memoria, ha il problema che questa immaginazione, del futuro, influenza le mie decisioni, dal momento che parto dal presupposto di avere libero arbitrio, e a seconda di come mi immagino il futuro agisco in un modo o in un altro nel presente, quindi è un'immaginazione retro attiva che produce effetti sul presente, poi come sia ante-attiva la memoria, e produca effetti sul presente lo sanno tutti, quindi se il futuro è immaginazione, non è solo immaginazione, un'immaginazione innocua, e se il passato è memoria, non è solo memoria, una memoria non produttiva di effetti; dunque ciò che può condizionare il presente esiste, anche se non nel presente.


E penso anche che il tempo sia ciclico perché infinito, quindi se io esisto nell'infinito, l'infinito passato non mi ha impedito di esistere, emergo dall'abisso del tempo da cui se dovessi trapassare un'infinità di attimi tutti separati e tutti diversi tra di loro non dovrei proprio emergere, quindi devono esistere cause generiche (coestese a tutto il tempo, e non singolari in un solo punto del tempo) della mia esistenza, che anche se non esistono propriamente nel presente, condizionano il presente, e così vale per tutto, tutto quello che vediamo emerge dall'infinito, quindi la sua esistenza, non solo attuale, ma anche genericamente considerata, non è in linea di principio incompatibile con l'infinito, esprime una possibilità combinatoria che non si esaurisce per il solo fatto di essersi localmente o una sola volta verificata.



#2774
Tematiche Filosofiche / Nulla e qualcosa.
07 Gennaio 2021, 16:55:12 PM
Iano ha scritto:

"Se si può partire da qualcosa per giungere logicamente al nulla , perché non si può partire dal nulla per giungere a qualcosa?"

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Rispondo a questa che mi sembra la domanda principale...

A parte il miscuglio tra filosofia e fisica per cui forse alcuni i puristi della prima (quindi non io) ti criticheranno, penso che hai pienamente ragione, dal nulla si può giungere a qualcosa, perché il nulla del nulla è l'essere, il nulla non è stabile, non è auto-riferito, il modo di essere del nulla è non essere se stesso, ma essere l'essere: il nulla è l'effetto ultimo: poiché l'essere è compatto, è ininterrotto, come un tessuto continuo senza strappi, il nulla è nulla; ma anche la causa prima: il nullificarsi del nulla è creazione, è l'essere. Qualcuno ha detto che il nulla non ha in sé la causa e la forza per nullificarsi e questa causa è l'uomo, la coscienza dell'uomo, ma non mi sembra questo il punto fondamentale.

Se in un punto dello spazio c'è una farfalla, io non credo che il nulla preferisca essere nulla nel senso filosofico, o comune, del termine o molto più semplicemente essere la farfalla, se in quel punto c'è qualcosa, non c'è il nulla, ed il nulla compie perfettamente la sua funzione di non esserci, che la compia nullificandosi in se stesso, rimanendo se stesso, o nella farfalla divenendo farfalla, e quindi non-nulla, non fa differenza.
Comunque questo passaggio dal nulla all'essere in non lo vedo come temporale, il nulla è nulla da sempre e il "mondo" qualsiasi cosa sia, è eterno, e noi ne siamo contenuto.
Quindi il passaggio dal nulla a qualcosa mi sembra assurdo se pensato nel tempo, mentre nello spazio, da un punto di vista spaziale, mi sembra "normale", che il nulla generi lo spazio vuoto e il tempo vuoto, che sono le condizioni di essere di qualsiasi altra cosa, come in alcune gnosi e religioni vi è il ritrarsi di Dio come premessa della creazione, Dio inizialmente non deve creare niente, deve nullificarsi perché dalla sua continuità e compattezza emergano lo spazio e il tempo per il mondo, che sono anche spazio e tempo in cui Dio non avrà più pieno "potere" o piena conoscenza, se si pensa che l'uomo, che quello spazio e quel tempo abiterà, avrà libero arbitrio, cioè potrà entro certi limiti muoversi oltre la preveggenza e oltre la volontà di Dio.

Inoltre io non sostengo tanto l'identità tra essere e pensiero, quanto il nulla come differenza tra essere e pensiero: il pensiero ha sempre un oggetto, si riferisce sempre a qualcosa, non c'è il pensiero puro: il pensiero differisce dal suo proprio oggetto per pensarlo, anziché corrispondervi, e in questa differenza noi siamo, sappiamo di percepire, cioè pensiamo che il mondo esista oltre il suo fenomeno, e quindi quello che percepiamo è in termine noto di una differenza che ha il secondo termine nell'ignoto.
#2775
Non credo proprio che il cristianesimo o il socialismo si prefiggano come scopo di superare l'egoismo naturale

Basta riflettere sulle frasi

da ognuno secondo le sue possibilità, a ognuno secondo i suoi bisogni.

Per il comunismo


o, per il cristianesimo

ama il prossimo tuo come te stesso, oppure ancora di più,

amatevi l'uno l'altro come io ho amato voi.

L'egoismo naturale è naturale perché i bisogni dell'individuo sono trasparenti alla coscienza, in ogni momento pensiamo di sapere cosa volgiamo; i bisogni della specie invece ci sono, ma sussurrano e fanno sussultare come istinti, non sono in ogni momento presenti alla coscienza e quando si presentano sono perturbanti. I bisogni della specie prevedono la morte, il ricambio organico, quello che individualmente e coscientemente non possiamo accettare, ma anche l'amore come passione, il colpo di fulmine eccetera, l'utilità pratica del dolore come mezzo di sopravvivenza imprescindibile quando non diventa cronico e non diventa una malattia esso stesso.

Quello che il cristianesimo e il socialismo cercano di fare, è salvare l'individuo nella specie, quindi fare una grande mediazione, una grande trasposizione cosciente e mediata nel tempo, tra il noto e l'ignoto: l'egoismo naturale è conciliato, con l'altruismo, non c'è un rapporto di forza in cui qualcuno vince sull'altro.

La realtà, la dura realtà, è che le ragioni della specie sono più forti di quelle dell'individuo, tutto l'egoismo messo in campo dall'uomo violento e prevaricatore è egoismo genetico, quindi egoismo della classe del collettivo assunte come presenti o come fini futuri, egoismo della sopravvivenza divenendo non-uno, appropriandosi dell'altro: in questo sistema la vita del singolo (agito principalmente dai suoi istinti e dai suoi geni, e dalla sua cultura e condizionamenti tecnici e culturali, che seguono a loro volta un desiderio di sopravvivere collettivo, che guarda poco in faccia all'individuo e lo proietta in un mondo antropomorfizzato che egli lo voglia o no) è una formica, un granello di polvere, non conta nulla. L'equilibrio, tra individuo e specie, è sbilanciato nel senso della specie; la dike di Anassimandro, la specie è il nostro infinito, da cui ci siamo distaccati, a cui ben presto paghiamo il prezzo, il fio della nostra esistenza. Non tutto muore, ma se non tutto muore, la forma dell'eternità è conservata a prezzo del sacrificio degli dei, della morte dell'altro.
L'egoismo naturale, serve ad un padrone che non ha cervello e della cui coscienza nulla si può dire, perché è un padrone collettivo, naturale, genetico, al limite culturale, ma certo non è privo di fini o fine a se stesso, e non è autonomo, o padrone di se stesso.

Davanti a questa realtà, in cui la specie è più forte dell'individuo, la follia, la tracotanza, è pensare un pensiero in cui l'individuo sia più forte della specie: è l'evidenza stessa che si oppone a questo tipo di pensieri: nessuno vince la morte, nessuno può decidere di non essere umano.

Io vedo il cristianesimo e il socialismo come mediazioni, come pensieri dell'equità e dell'equanimità tra individuo e specie, gli opposti tornano all'uno ma in esso sono conservati: grazie a questi sistemi di pensiero non siamo così folli da alzarci, insorgere, contro la dimensione collettiva della nostra esistenza, ma non siamo neanche spazzati via dalla dimensione collettiva, persi nell'infinito: esiste il concetto di persona, di individuo sociale, che fa da altro dall'uno e che idealmente sopravvive all'atto del ritorno all'uno.

Anche questo equilibrio può essere impossibilità di vita e morte, un equilibrio da cui non nasce niente, uno spirito di vendetta per cui, ad esempio, Nietzche si scaglierà contro cristianesimo e socialismo, ma le reale essenza di questo dottrine secondo me è mettere l'egoismo naturale al servizio della specie con coscienza, sapendo di mettercelo, sapendo che mettercelo è imprescindibile e decidendo come mettercelo, perché chi non ce lo mette con coscienza, il suo egoismo al servizio della specie, e magari crede di non mettercelo proprio, di restare egoista e basta, monade e basta, ce lo mette comunque, e non sa neanche di mettercelo, in quanto l'egoismo naturale, che riesce a rimanere egoismo e a prescindere dalla specie e dalla natura non esiste. Prima o poi moriamo, facciamo spazio al resto della specie, e quello che abbiamo o non abbiamo costruito passa in eredità al resto della specie. E non possiamo non saperlo, che prima o poi questo ci tocca, perché la morte dell'altro la sperimentiamo, prima o poi.

La domanda a cui queste dottrine rispondono è come possiamo servire la specie e il collettivo, perché non c'è non esiste, un se possiamo servirlo. Il se è ovvio, e si determina nel sì: dobbiamo servirlo comunque, che ci piaccia o no.