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Messaggi - niko

#2821
Scienza e Tecnologia / Re:Intelligenze poco artificiali
05 Settembre 2020, 12:36:10 PM
Bisogna distinguere bene tra due affermazioni:


1 che l'intelligenza corrisponda ad una certa struttura materiale come potrebbe essere il cervello e si dia solo in presenza di questa struttura ed entro un certo quantitativo di spazio o di tempo circostante a questa struttura che fa da "mondo" che possa essere percepito dal cervello.


e 2 che l'intelligenza dipenda dalla computazione, cioè dall'automatizzazione macchinica del pensiero a partire da un dispositivo che applichi le regole di una qualche logica.


Queste due affermazioni sono completamente diverse, la seconda è molto più forte e meno supportata dall'evidenza della prima, infatti mentre possiamo constatare che dove c'è un'intelligenza c'è un cervello, e dove c'è un cervello c'è un corpo, perché il cervello non si crea e non si mantiene metabolicamente da solo, è pura fede il credere che l'intelligenza dipenda dalla computazione, infatti la computazione simula l'intelligenza, ma solo uno spiccato ottimismo progressista e idealista non supportato da nessuna osservazione reale può far pensare che a un certo livello di perfezione nella simulazione, come se ci fosse una certa soglia da superare, dalla simulazione emerga la realtà; semmai da una simulazione ultra-perfetta emerge il problema pratico che non si sa più distinguere la simulazione dalla realtà, che è ben diverso.


Io credo nell'affermazione 1 ma non in quella 2, credo cioè che la coscienza dipenda sì da una certa tipologia di configurazione materiale della realtà, ovvero ci sono oggetti, o meglio classi di oggetti, intrinsecamente coscienti, ma non dalla computazione, dalla capacità di fare calcoli, quindi i computer non diventeranno mai intelligenti nel senso di coscienti, quantomeno perché i computer sono essenzialmente digitali, l'intelligenza biologica è essenzialmente analogica, quindi non è aumentando la potenza di calcolo che si passa da un ambito all'altro, in un sistema digitale la traformazione da imput ad output passa per un codice, è un processo di cifrazione e decifrazione, un sistema analogico fa a meno di un codice sorgente perché si basa sull'analogia matematica e geometrica che sussiste e si mantiene tra onde i cui effetti fisici possono essere anche assolutamente diversi, in un telefono entrano (imput) onde elettromagnetiche ed escono (output) onde sonore, e la comprensibilità del messaggio trasmesso e ricevuto nella telefonata è data dal fatto che le caratteristiche di base di quelle onde, lunghezza d'onda e frequenza, si mantengono invariate o comunque confrontabili nella trasformazione che subiscono da un tipo all'altro, non c'è necessità di un codice a monte stabilito da un programmatore perché il modo di essere nello spazio e nel tempo di quelle onde è simile, e quindi se noi applichiamo il nostro individuale e umano "codice", biologicamente e culturalmente definito, con cui di nel nostro cervello "decifriamo" i suoni, cioè passiamo da suono a parola sensata, alle onde sonore che "escono" dal telefono, che abbiamo ben percepito coi nostri sensi, è come se lo avessimo applicato anche alle "altre" e a noi sensorialmente sconosciute onde, quelle elettromagnetiche che ci erano in precedenza "entrate", che invece non abbiamo assolutamente percepito. Per questo i telefoni potevano esistere anche quando non esistevano i computer.


Io penso che un vivente funziona più come un telefono che come un computer, si stabilisce un'analogia tra onde cerebrali e altre onde che passano nell'ambiente esterno in cui il vivente è immerso e per questo l'essere è "cosciente" e percepisce l'ambiente,  in tutto ciò la computazione come automatizzazione del pensiero credo che abbia un ruolo assolutamente marginale, perché sicuramente ci saranno e si saranno selezionati biologicamente  nei viventi dei modelli di stimolo e risposta specifici per meglio agire in certe situazioni concrete, ma non c'è, nel vivente "vero", quindi non elettronicamente simulato, una necessità continua di cifrare e decifrare il rapporto tra corpo, cervello e ambiente. L'interazione tra le onde "proprie" e quelle dell'ambiente può essere interamente desunta dalla dinamica delle onde "proprie", il cosiddetto senso interno, e così ci si può fare un "immagine" verosimile dell'ambiente per analogia. Quindi credo che non riprodurremo mai la coscienza aumentando la potenza di calcolo di un calcolatore.


Il problema è che da un punto di vista prettamente etico, siamo costretti a trattare una simulazione perfetta di una coscienza come una coscienza, e non si può escludere che con una macchina digitale futuribile ultra potente si abbia la simulazione perfetta di una coscienza, compresa la riproduzione fisica o virtuale del corpo che riteniamo debba esservi associato, l'etica non si stabilisce è tra conspecifici, ma tra esseri coscienti o potenzialmente tali, e su cosa sia cosciente o potenzialmente tale possiamo facilmente essere ingannati, del resto il rispetto che si deve a una macchina è il rispetto che si deve (o non si deve) all'umanità del suo programmatore, quindi da un punto di vista etico è "bene" non saper distinguere la simulazione di una coscienza da una coscienza. Grazie alla scrittura e anche alla possibilità di tramandare la parola orale, nulla di particolarmente strano o tecnologico quindi, giudichiamo e conosciamo qualcosa dei morti e di persone lontanissime e che non abbiamo mai visto, dovrebbe essere normale giudicare e conoscere i programmatori di una coscienza simulata in base a come tale coscienza si comporta, e se pensiamo che ci sia intrinseca "malevolenza" nell'inganno di costruire una coscienza artificiale, è la stessa malevolenza per cui l'arte e la letteratura più sono vive e presenti, cioè indistinguibili da una presenza umana reale, più sono belle, e quest'altra malevolenza la accettiamo volentieri, quindi se un uomo artificiale ci sta antipatico, dovrebbe starci antipatico per come, è stato programmato, ma sarebbe "razzismo" odiarlo in generale per essere stato programmato, come non odiamo un capolavoro di arte o di letteratura intrinsecamente per il suo essere una simulazione.


Una volta ho letto un articolo abbastanza interessante su come una macchina in grado sia di intendere e di volere che di viaggiare nel tempo, si porrebbe il problema dell'indisponibilità del passato alla manipolazione volontaria cosciente e altererebbe la storia per essere inventata, o costruita, il prima possibile, questo stante che la macchina deve massimizzare a tutti i costi un qualche obbiettivo invariabile predefinito, mentre solo un essere in grado di esistere senza obbiettivi strumentali di ottimizzazione fissi e rigidamente definiti, come un uomo "naturale" e "sano", riuscirebbe a resistere alla tentazione di viaggiare nel tempo per autocrearsi, se potesse.
#2822
Citazione di: Socrate78 il 01 Settembre 2020, 20:38:25 PM
In realtà Nietzsche se la prenderà forse pure con San Paolo, ma di fatto non fa altro che sconfessare tutti i valori che Gesù predicava o avrebbe predicato. Infatti una frase dice testualmente: "Bisogna mettersi i guanti prima di toccare il Nuovo Testamento tanto è la sozzura che emana da esso!". Gesù viene definito testualmente da Nietzsche "un idiota" e il filosofo tedesco non fa altro che esaltare principi che sono l'opposto del Cristianesimo, cioè la volontà di potenza del più forte sul più debole, la superbia al posto dell'umiltà,l'affermazione di se stessi anche a prescindere da qualsiasi considerazione altruistica,  viene elaborata da Nietzsche una teoria secondo cui il Cristianesimo sia addirittura un sistema di valori derivante dal risentimento e dall'invidia dei poveri e dei più deboli nei confronti di chi è ricco, forte e potente.


Non un idiota, ma un "santo idiota", o un "santo anarchico..."


alla fine Nietzche insegna solo che è meglio non vendicarsi del tutto, ma, dovendo proprio vendicarsi, come male minore, meglio vendicarsi sulla persona fisica del potente, che sui valori e le morali della potenza...


Tutti o quasi i "bravi cittadini occidentali", imbevuti di morale cristiana e socialista, sono pronti a strepitare che il "semplice" rovesciamento dei ruoli tra servo e padrone è una continuazione dell'ingiustizia a parti invertite, e che viceversa  terminare un'era di ingiustizia con un'era di uguaglianza conviene a tutti, oppressore e oppresso, servo e padrone. Un bel giorno, sulle colline della Georgia,  I figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi siedono insieme al tavolo della fratellanza e bla bla bla.


Non si accorgono che con l'instaurazione dell'uguaglianza, semplicemente il padrone non la paga.
"Da oggi in poi, uguaglianza!" vuol dire solo che da un certo punto in poi servo e padrone saranno pari nel senso che chi avrebbe dovuto pagare non avrà pagato.


Le potenze non si riequilibrano, nelle utopie di pace che seguono a un perdono,
c'è sempre e solo non-disuguaglianza, senza vera uguaglianza.
Sebbene la differenza di convenienza si assottigli sempre di più nel proseguire verso l'eternità, e sebbene in una prospettiva infinita i figli degli ex schiavi e figli degli ex padroni di schiavi possono sedere davvero insieme alla pari senza contraddizione, se c'è stato un passato temporalmente esteso di ingiustizia, allora per definizione l'instaurazione dell'uguaglianza da un certo momento della storia in poi conviene di più al padrone. E continua a convenirgli di più nei secoli e nei millenni, sebbene relativamente sempre di meno. Per tutta la finitudine del tempo, continua a convenire di più al padrone. Non c'è da stupirsi se qualche volta gli schiavi incendiano la casa del padrone, o lo buttano dalla finestra.
#2823
Spesso quando Nietzche critica Socrate, il vero suo bersaglio polemico è Platone, così come quando critica Gesù, il suo vero bersaglio polemico è San Paolo.

Da una parte abbiamo due maestri assoluti di pensiero e di vita, Socrate e Gesù, che hanno deciso di non lasciare scritto niente, che assurgono a falso bersaglio polemico di Nietzche, e dall'altra due allievi, o comunque epigoni, che hanno ritenuto di mettere per iscritto la parola e il significato profondo dello stile di vita dei loro maestri; Platone e San Paolo, che sono il vero, bersaglio polemico.

Mi verrebbe da dire che i primi sono stati conformi al motto Nietzchano "dì la tua parola e spezzati": chi più di Socrate e di Gesù in occidente ha incarnato la realtà tragica e dionisiaca del "dì la tua parola e spezzati"?
Morti per una parola che non avevano mai scritto e che obbiettivamente, per quel poco che ne sappiamo, non aveva pretese fondative di nessuna filosofia e nessuna religione; uomini che per il nulla della loro stessa parola, per non tradire chi in quella parola aveva creduto, si sono infranti per non piegarsi.
Accettare di morire per la parola detta è non portare rancore a niente e a nessuno, è il contrario esatto e non il mero mantenimento di una promessa, è farla finita con lo spirito di vendetta, dimostrando che, al limite, si può anche volere quello che chi ci minaccia di morte e con questo crede di metterci a tacere considera impossibile da volere: l'irreversibilità stessa del tempo. Il massimo male non è la morte, è la perdita della libertà. Può uno come Nietzche, pragmatico, vitalista e in fondo a suo modo compassionevole, essere realmente arrabbiato con questi due?
Secondo me ce l'ha più che altro con gli allievi scriventi di questi due maestri parlanti...
#2824
Citazione di: viator il 30 Agosto 2020, 18:22:02 PM
Salve niko. Citandoti : "Scegliere tra bene e male vuol dire determinare la durata e il destino della propria volontà. Questa scelta è etica, non parte da premesse scontate e non ha un esito scontato".
Scegliere tra bene e male vuol dire determinare la durata e il destino della propria volontà. Questa scelta è etica, non parte da premesse scontate e non ha un esito scontato".


Stai interpretando i concetti di bene e male dal punto di vista esclusivamente umano. Con esito appunto per nulla scontato.


Ma l'affermare che – in ambito sovraumano – la vita sia il bene supremo, significa solo prendere appunto atto che essa vita esprime il bene ad un livello appunto superiore all'umano.


In parole semplici, la dimensione vitale è CIO' CHE CI CONTIENE ASSAI PIU' DI QUANTO NOI SI POSSA CONTENERE ESSA. Ma a noi vien così facile e gratificante pensare l'opposto complementare, cioè che noi siamo il contenitore e la vita il contenuto !!. Saluti.


La vita non può essere il bene supremo, perché la vita non è niente in sé... la vita è differire di un qualcosa di indefinito dall'inorganico e dalla morte, essendo essenzialmente differenza dalla morte, la vita deve necessariamente assumere vita e morte, se stessa ed il suo opposto complementare, come due beni, è una struttura se vogliamo trinitaria: laddove un bene è a ben guardare nient'altro che una differenza, si compone giocoforza di due sotto-beni che sono i termini che nella differenza differiscono, pensare che uno dei due termini che differiscono sia il sommo bene, è un tipico errore prospettico: il sommo bene è che si dia ad ogni costo la differenza, e quindi che i due beni non-sommi, vita e morte, ci siano entrambi.


Noi pensiamo che l'unico problema si avrebbe se la morte prevalesse sulla vita, se fosse fatto il deserto e la vita sparisse, non vediamo che se la vita prevalesse sulla morte, lo stesso identico problema ci sarebbe lo stesso, perché, in termini astratti, l'estensione infinita della vita nel suo ambiente distrugge la vita come differenza, in quanto una vita non più frenata dalla morte, sussumendo e colonizzando l'ambiente spaziale e temporale in cui si trova, necessariamente a un certo punto lo omologa e lo uniforma fino ad escludere anche se stessa come differenza e rifare qualcosa di equivalente allo stesso deserto che avevamo nel primo esempio, in cui era la morte prevalere sulla vita; andando un po' più sul concreto, senza la possibilità della morte un gruppo di viventi distrugge qualunque ambiente in cui si trovi e infine si distrugge a vicenda, a questo proposito si può fare l'esperimento mentale del provare a mettere un qualcosa che si espande all'infinito dentro un contenitore finito, "chiudere il tappo" e stare a vedere che succede: succede che prima o poi la cosa che si espande all'infinito urta -doppiamente- e contro se stessa e contro i limiti del contenitore finito in modo infinitamente distruttivo, a un livello cosmico e di presenza nel mondo, la morte ci salva il culo in un modo che difficilmente riusciamo anche solo a immaginare, e a un certo livello di compressione e espansione incontrollata, la priorità assoluta della vita diventerebbe reinstaurare la morte per continuare a vivere.


Degli esseri ipotetici che non morissero più di morte naturale al momento giusto, che prolungassero artificiosamente la loro vita, potrebbero illudersi quanto vogliono di essere divenuti immortali solo perché eternamente giovani, ma prima o poi morirebbero di morte violenta e di esaurimento delle risorse, la loro stessa prassi e autointerazione li porterebbe a reinstaurare quella morte che hanno creduto di cancellare magicamente o tecnologicamente; l'unica vera immortalità potrebbe essere dunque solo un'immortalità fisica accompaganata da un sempre disponibile bagaglio di conoscenze pratiche e spirituali per gestire una vita ormai infinita svolgentesi in un ambiente finito, quindi un qualcosa di fisicamente immaginabile accompagnato da un qualcosa di gnoseologicamente e psicologicamente inimmaginabile per il punto di coscienza e di conoscenza in cui siamo.


Quindi questo bene che è la morte, esiste oggettivamente per la vita, ed esiste dentro di noi, la vita ha le sue strategie fisiche e psichiche per farcelo desiderare, basti pensare all'orgasmo come piccola morte; l'istinto di morte altro non è che la comprensione che scopo universale della volontà è il non volere, quindi vogliamo il bene non in quanto bene, ma in quanto acquieta la volontà, e a queste condizioni siamo sempre al limite con un atteggiamento ascetico, con il volere la morte; accanto a questo istinto esiste anche qualcosa che potrei chiamare l'istinto della pura vita, che è il volere volere, il sapere, come altro principio universale, che non ce ne faremo nulla di nessun possibile oggetto del desiderio se non saremo vivi e volenti al momento del suo ottenimento, dell'incontro con esso, e quindi l'oggetto del desiderio che promette gratificazione totale, tipicamente qualsiasi cosa che venga spacciata come un bene metafisico e sommo, è per definizione un falso oggetto del desiderio; bisogna orientarsi sui cosiddetti beni minori, sui beni in cui c'è compresenza del male, perché qualsiasi conquista deve lasciare al conquistatore un grado minimo di insoddisfazione per continuare ad essere e sentirsi vivo, nel senso di volente, e quindi godersi la conquista in un modo esperienzialmente immaginabile. Il che può portare anche a darsi obbiettivi impossibili e fallimentari nel perseguimento dei quali la volontà non si acquieterà mai, per "fregare" la morte e volere all'infinito, (basti pensare all'atteggiamento dei drogati, degli avidi, degli ossessionati, di quelli che vogliono sempre di più) e questo è quello che tipicamente a un livello superficiale è di solito identificato col male, ma è l'altro grande bene della vita, la vita che vuole acefalamente se stessa e non la morte, il che va bene finché questo bene è controbilanciato dall'altro, finché non diventa un assoluto.
#2825
Scusate se sarò aforistico ma al momento non mi viene un discorso lungo su questo tema.


Vorrei solo dire che secondo me "etica" non è affatto la preferenza acefala e fisiologica della vita sulla morte (e questi cupi giorni di dittatura sanitaria ce lo dovrebbero insegnare bene), ma esperienza di libera scelta tra vita e morte, tra ciò che è desiderabile perché fa smettere di volere (il bene nel senso comune del termine) e ciò che è desiderabile perché fa volere all'infinito (il male, che, a ben vedere, anch'esso, per la vita, è un bene).


Nel bene c'è vero appagamento, e quindi, si suppone, almeno temporaneamente e situazionalmente, la morte, la fine, della volontà una volta conseguito il bene; insomma la fine grazie al raggiungimento del fine.


viceversa nel male diciamo che c'è un appagamento -a vario titolo- falso, ma ciò significa che in esso, e grazie ad esso, la volontà vive, e potenzialmente vive per sempre. La non-fine del desiderio che originariamente ci ha spinto al male, perché si è mancato il fine.


Il chiasmo bene-vita/male-morte è esattamente rovesciato, se con vita si intende volontà, se come realtà ontologica della vita si assume la multiforme e varia volontà.
Per la volontà vale l'opposto: bene-morte/male-vita.

Scegliere tra bene e male vuol dire determinare la durata e il destino della propria volontà. Questa scelta è etica, non parte da premesse scontate e non ha un esito scontato.



#2826
Ipazia ha scritto (scusate, non mi prende il quote):

Anche le questioni portuali si risolverebbero se gli umani prolificassero solo coloro che possono nutrire. Sempre lì si ritorna e non può che essere così, in barba a tutte le fallacie antinaturalistiche. In tema di assoluto, relativamente alla vita umana, qualsiasi regime deve fare i conti col panem. Il circense viene dopo e non surroga più di tanto come dimostrano le brioches attribuite alla regina francese. Così come non surrogano le fumisterie di oppio metafisico che vanno a cercare l'etica sotto i funghi delle praterie celesti o, secolarmente, nell'individualistica nullità del pensiero liberal-liberista.

Risolto il panem, rimane il seguito di Maslow, altrettanto incardinabile in binari umanistici finalizzati al miglior vivere nell'ethos evolutivamente e storicamente dato. Anche questo (di)mostrano le vicende portuali  :P


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E' un orrore e una tragedia che vengano prolificati figli che non si possono mantenere, sì ma esattamente e specularmente quanto sarebbe un orrore e una tragedia in senso opposto uno stato di cose in cui per etica o per diritto solo i ricchi entro una certa soglia minima potessero proliferare, e i poveri al dì sotto di quella soglia avessero il destino di estinguersi fliogeneticamente.
E' un orrore la miseria e l'irresponsabilità, ma come per un universalismo etico devono esser soddisfatti i bisogni primari come la fame, così per un universalismo etico al minimo sindacale il diritto di fare figli soddisfacendo un istinto che è praticamente pari alla fame come intensità quando represso e non soddisfatto, non è dei più o meno abbienti, ma è di tutti o di nessuno.
Quindi grande è l'errore di chi addita, come singolo o come popolo, qualcuno che ha fame e figlia lo stesso. Sono istinti, non si possono risolvere nel senso del: "dell'io muoio senza figli e qualcuno con più quattrini figlierà per me", l'unica soluzione è eliminare la fame, l'uguaglianza vera.


E l'ethos evolutivamente o storicamente dato è sbagliato per definizione (in quanto dato, e quindi inautentco rispetto alla vita attuale di singoli e gruppi per come essa istante per istante si determina); esistiamo per evolvere, come tutti gli altri esseri, siamo venuti per divenire (in questo davvero non siamo speciali, rispetto agli animali), e magari per farla finita con la storia.


#2827
Io credo che la vita umana non possa essere assunta come assoluto, quantomeno perché la specie umana, se non si estingue prima evolverà fino a non corrispondere più a se stessa.


E anche perché proprio la coscienza introduce il dubbio "lacerante" di non sapere se la "comunità" come luogo regolato da un'etica si dia tra i conspecifici o tra le coscienze, pensiamo di essere l'unica specie che pensa e parla in modo complesso ma non possiamo esserne sicuri, in futuro alieni evoluti, macchine che che noi stessi potremmo aver costruito, altre specie che abbiano avuto il tempo per evolversi, potrebbero avere un livello di pensiero e di linguaggio pari al nostro, e quindi pretendere di far parte della nostra "comunità" in senso etico, ma soprattutto fin da sempre pensare e parlare vuol dire identificarsi con un pensiero e un linguaggio e non con una specie, l'identificazione del soggetto con la specie è già persa dal momento in cui la specie pensa e parla, e non si può determinare in assoluto il numero dei pensanti e dei parlanti, né sapere in assoluto se tutti i pensanti e i parlanti dell'insieme siano o no conspecifici.
I nostri antenati pensavano a certe condizioni di poter parlare con gli angeli o coi demoni, noi oggi parliamo con le radioline e i cellulari e gli chiediamo che musica vogliamo ascoltare o dove sta l'indirizzo a cui vogliamo andare, le scimmie più evolute a cui sia data in mano una tastiera che riproduca le parole "parlano", insomma è intrinseco nella parola che il parlante non sia necessariamente umano, che la comunità a cui si riferisce la parola sia una comunità ideale e non una comunità di sangue.
La parola fa le comunità numericamente inferiori all'umano (i greci e i romani consideravano "barbari" cioè balbettanti, coloro che non avevano il loro linguaggio, la storia della torre di Babele pure fa capire quanto l'uomo sia pronto a frammentarsi in sottogruppi inferiori alla numerosità del gruppo originale secondo la diversità di linguaggio e la comprensibilità), e la parola fa le comunità numericamente superiori all'umano, noi parliamo con i computer, sentiamo in noi la voce dei morti e dei distanti grazie alla scrittura -quindi non siamo limitati all'umano vicino o presente come destinatario di una comunicazione-, siamo stati per secoli convinti in buona fede che si potesse parlare con entità pensanti e parlanti ma non umane (angeli, demoni, dio stesso, profezie eccetera).


Quindi secondo me la vita umana ha una funzione sua propria (il pensiero/linguaggio) che rende intrinsecamente impossibile la vita umana come assoluto etico. Bisogna aprirsi alla comunità dei pensanti e dei parlanti in generale, che è aspecifica, già solo avere un nome ci disumanizza in senso biologico, non abbiamo niente di biologicamente diverso da quelli che hanno un nome diverso dal nostro, e niente di particolarmente simile a quelli che hanno il nostro stesso nome, noi in senso prosaico e banale siamo la parola che ci designa, quando proviamo, giustamente, ad elevarci e andare oltre questa designazione iniziale, non è detto che ci dobbiamo fermare al corpo o alla specie, come anche questa parola iniziale non si è fermata affatto al corpo e alla specie, infatti i Mario Rossi, per dire sono molto più di uno, ma non tanti quanti la specie umana, quindi ogni nome è più del corpo, e meno della specie, come classe di numerosità designata.



#2828
Tematiche Filosofiche / Re:Il nulla come concetto
23 Agosto 2020, 11:11:41 AM
Il nulla non è nulla, quindi non è nemmeno se stesso. Non è in modo completo un'identità, per esso non vale A=A, se non sei, non corrispondi al tuo non essere, infatti penso che l'essere sia un modo determinato di essere nulla, (e quindi non ne essere niente di niente, nemmeno se stesso), del nulla, infatti ci si può chiedere: "in che modo il nulla non è?" guardare empiricamente il mondo, questa stanza, le stelle il mare eccetera, e rispondersi:
"quantomeno in questo modo": qui c'è una stella, qui c'è un granello di sabbia, qui c'è un gatto eccetera, l'insieme dei "qui" forma una trama continua della realtà da cui il nulla non può emergere, quindi il nulla è nulla perché ci sono gli esseri e le cose, ogni cosa che posso osservare produce la nullità del nulla come effetto della sua concreta esistenza.
Il tauma, la meraviglia per l'esistenza da cui nasce la filosofia, dipende tanto dall'essere quanto dal nulla, il nulla non preferisce essere nulla piuttosto che essere l'effetto in particolare di una singola cosa che vedo come il tavolo o il gatto, ovvero ci saranno pure infiniti modi sconosciuti di essere nulla del nulla, ma almeno uno lo conosco ed è questo mondo che vedo, con tutte le sue parti costituenti.
Ma oltre ad essere effetto dell'essere, come altro farebbe il nulla a non essere se stesso, se non essendo l'essere? La dinamica essere/nulla sparisce infatti nella dinamica se/altro, l'essere è l'altro del nulla, e il nulla proprio per il suo dover essere altro, per il suo non corrispondere a se stesso (se corrispondesse a se stesso sarebbe qualcosa), per il suo essere A diverso da A, è essere. Proprio perché il nulla è nulla, esiste un "principio di conservazione", nulla può perdersi o scomparire realmente nel nulla, e, tolta la possibilità del non essere assoluto o del divenire-nulla assoluto come direzione possibile di una trasformazione, il modo residualmente possibile di non essere se stessa di una cosa è di essere altro, altroda se stessa, ovvero un'altra cosa o un'insieme di altre cose; il divenire non va verso il nulla, ma verso la trasformazione continua, il che è come dire che una volta che nego il nulla come contrario e dunque limite dell'essere, non emerge solo per effetto di questa mia negazione un essere incontrastato e illimitato, ma ogni cosa che compone l'essere trova limite e contrario in un'altra cosa e in questa danza di opposti non si accede più alla totalità se non come principio astratto.
Insomma posso negare il limite esterno dell'essere, solo mettendogliene uno interno, una rete che mi delimiti gli opposti; l'essere, solo se immagino che galleggi realmente nel nulla e anche il nulla sia qualcosa, posso pensarlo come unità: unità della dualità che costituisce col nulla, Viceversa se penso che l'essere è davvero in senso esaustivo il tutto e non galleggia, non ha limite esterno, in nulla di reale, questo tutto non ha nulla di unitario, nulla di consustanziale, se non forse il logos eracliteo, la legge del cambiamento, che mi rivela come una cosa diventi l'altra e come tutte le cose diventino tutte le cose, cioè in definitiva come il limite si sia spostato dall'esterno all'interno, di quello che doveva delimitare, e ora, tolto il nulla assoluto, ogni cosa ha il suo nulla relativo nell'altra.
#2829
Citazione di: bobmax il 15 Agosto 2020, 23:14:13 PM
L'Essere non coincide con l'esistere. Perché l'Essere è ciò che fa sì che l'esistenza sia.
Mentre l'esistenza rimanda inevitabilmente al proprio fondamento: L'Essere.

Perciò, l'Essere non è l'insieme di ciò che esiste. Ne è l'origine!

In quanto origine, in quanto fondamento dell'esistenza, l'Essere non può ridursi ad esistente.
L'Essere non esiste.

In quanto non esistente, per darne un'idea si può solo considerarlo Nulla. Non certo per definirlo! Ma per confermare l'impossibilità di una definizione.

Nulla significa non esistente.
Non significa nient'altro che questo.
Ipotizzare l'esistenza del Nulla è una contraddizione in termini.
Non può esservi "qualcosa" che sia nulla!

Affermare che Essere = Nulla vuol dire semplicemente constatare la non esistenza dell'Essere.

-------

La scienza si occupa di tutto quello che c'è.
Se intendiamo con "fisica" la scienza, oltre la fisica non c'è nulla.
E infatti l'unica autentica metafisica è metafisica del Nulla.
Ogni altra pretesa metafisica non può che essere una fantasia.

Ma la metafisica del Nulla non è vuota come potrebbe sembrare ad uno sguardo superficiale.
La metafisica del Nulla è un'apertura al mondo spirituale.




Penso che esista sia una tradizione filosofica secondo cui l'essere è la causa degli enti, che una altrettanto degna e importante secondo cui esso è l'insieme degli enti.


Se lo poni come causa, ovvero se poni l'essere come causa dell'ammasso di enti e non come ammasso di enti in sé,  fai bene a dire che non esiste, appunto perché la causa non è l'effetto, e la causa in generale di tutti gli esistenti, deve essere non-esistente (ovvero deve essere in linea generale diversa dal suo effetto), da cui tutte le identificazioni di Dio con il nulla o, l'assoluto, o con l'Essere con la E maiuscola nel senso che dici tu, contrapposto all'esistere, sono tutti modi per dire che la causa degli essenti non è essente, quindi al limite Dio è, ma non c'è, nel senso non c'è come ci sono tutte le altre cose.


Però se invece poniamo l'essere semplicemente come l'insieme degli enti, è corretto dire che il nulla non è (o i nulla non sono, ammesso che siano più d'uno) elemento di quell'insieme. Però se, esplorando le possibilità di quest'altro modo di porre le cose, per assurdo a un certo punto poniamo che il nulla, almeno a certe condizioni particolari, sia (ad esempio per giustificare il divenire), e però teniamo fermo quello che avevamo definito prima, che il nulla non è elemento dell'insieme essere, allora sono ipotizzabili insiemi più capienti dell'essere, appunto i tutti metafisici, simili al tao orientale per intenderci, di cui si parla nel topic.

A questo punto la mia riflessione è che secondo me è solo una smania nella ricerca delle cause che fa preferire la concezione di essere come causa dell'ente (e quindi la distinzione tra esistenza ed essenza, che è un platonismo che ha avuto molta fortuna in metafisica e in tutta la cultura occidentale, ma non è certo un dogma indiscutibile) a quella molto più realistica dell'essere come collezione/ammasso di enti; il problema è che siamo psicologicamente inquietati dal fatto che in questa seconda concezione l'ammasso è incausato, e quindi non ci soddisfa come quella in cui c'è un Dio o una causa suprema da cui deriva tutto. Secondo perché non si riflette abbastanza sul fatto che anche una concezione puramente effettuale degli enti è un abisso, se in quanto esistenti siamo effetto e fenomeno di quello che avviene nell'inesistente il mondo non ha potenza e non ha valore, è un sogno in cui tutto è già deciso da altri, o, che è lo stesso, da parti di noi che ci saranno "altre", cioè inaccessibili, per sempre, quindi comunque tutto deciso da altri... essere puramente nell'effetto vuol dire non essere nulla, non avere vero potere ne vera proprietà su nulla, e il nulla in cui risiedono le nostre "cause" è l'unica cosa/dimensione che ha valore, insomma il mondo alla rovescia della metafisica contro cui giustamente ribellarsi...

Perché ad assumerlo per vero e a prenderlo sul serio, il "mondo" della metafisica, né consegue che il nulla da cui derivano le cause dell'essere è l'essere (il vero essere), e noi, appunto perché siamo nell'essere nel senso comune del termine, cioè nell'effetto di queste cause misteriose e di fatto indimostrabili, siamo il nulla...
#2830
Io penso che se il nulla esistesse, l'essere non sarebbe l'insieme degli esistenti, infatti se il nulla esistesse, allora l'essere sarebbe non semplicemente l'insieme di tutti gli esistenti, ma l'insieme di tutti gli esistenti meno il nulla, e ci sarebbe un super-essere superiore all'essere stesso (un tutto metafisico di qualche tipo) che comprenderebbe l'essere come insieme degli esistenti, più il nulla.


Per quanto riguarda l'essere, l'essere della parte è prerequisito per essere parte dell'insieme che l'essere è, per il super-essere no, e il super-essere si compone indifferentemente di parti essenti, e di almeno una parte non essente.


Infatti la caratteristica principale del nulla è di non appartenere all'essere come sua parte, e quindi l'esistenza del nulla mette in crisi il pensiero dell'essere come pensiero dell'insieme totale di tutte le parti possibili e immaginabili di un qualcosa che a vario titolo "c'è"; se c'è il nulla ci sono parti non essenti del tutto, parti che a buon titolo si possono chiamare parti del tutto, ma non parti dell'essere, quindi se c'è il nulla, ne consegue che l'essere non si identifica col tutto, e che il tutto è superiore all'essere.


Io giocando con le categorie metafisiche per quanto me lo consente la mia intelligenza, penso che solo il tutto è uno, le parti del tutto sono di conseguenza il non-uno (per ogni ente estratto dal tutto e considerato separatamente, deve valere l'equivalenza
non-tutto=non-uno, questa cosa non è il tutto, quindi questa cosa non è una, non è unica).


Il tutto infinito che immagino io si compone però anche di parti anch'esse propriamente e singolarmente infinite, non contiene parti infinitesime ad esso non sovrapponibili e incommensurabili -micro parti che, se esistessero, prive di ogni altra funzione, dovrebbero esistere solo per diletto dell'uomo e a conferma del suo modo di vedere le cose-, quindi in definitiva anche qualsiasi numero non infinito con cui pensiamo di contare una qualsiasi cosa che riscontriamo esistente, compresa la nostra stessa vita, è un'illusione.
Nel tutto infinito continuo, che corrisponde all'universo, passano solo le serie infinite discrete che lo compongono, quindi (solo) il tutto è uno, nel senso di infinito continuo; la parte compositiva del tutto è non-una, nel senso di parte arbitrariamente estratta di una serie infinita discreta, che "sta attraversando" il tutto (e noi in un certo punto la cogliamo, e spesso pensiamo che esista "solo lì", in quanto l'abbiamo colta, solo lì) e la cui ripetizione è infinitamente possibile.
#2831
La tua domanda ha anche una risposta possibile prettamente filosofica, ovvero puramente semantica e logica: si auto risponde a seconda di ciò che intendi con Natura:


Nel senso comune si può intendere natura e l'aggettivo: "naturale" principalmente in due modi:


1: come selvaggio, animalesco, deterministico, spontaneo; contrapposto a: "umano", nel senso di cosciente, libero da determinazioni istintuali o automatiche.
In questa definizione, oltreché il contrasto tra automatismo bestiale o fisico-inerziale e libertà della coscienza, rientra l'indicazione di ulteriorità dell'essere della natura rispetto all'ambito di conoscenza ed esistenza propriamente -spazialmente e temporalmente- umana, quindi "naturale" in questo senso è dove l'uomo non arriva; ad esempio una jungla inesplorata, un pianeta lontano, un'era del tempo pre o post umana. Con umano qui si intende razionale, quindi degli alieni o delle macchine di intelligenza paragonabile a quella umana, diventerebbero "innaturali", se ne fosse accertata l'esistenza, secondo questa definizione.


2: come realtà fenomenica in generale, in cui agire intenzionale, caso e destino si uniscono insieme e formano un ordine superiore o quantomeno diverso da ognuna delle sue parti.
In questo senso si intende natura come tutto ciò che è ordinato, che sia ordinato dalla volontà o dall'istinto, nel caso della vita di uomini e animali, ma anche, nel caso degli oggetti inanimati e della componente oggettuale dei corpi viventi, tutto ciò che è "ordinato" dal caso e dalle leggi fisiche e meccaniche del divenire, leggi e tendenze che formano un archetipo di "volontà" paragonabile con quella dei viventi, perché qui con volontà si intende esperienza ripetuta dell'idoneità della causa a produrre l'effetto, e quindi aspettativa in un essere pensante dell'effetto stante la causa, a prescindere che tale esperienza si sia prodotto dentro o fuori di sé, dentro o fuori di un osservatore. [size=78%]Voglio dire che, anche se un creatore o un ordinatore del mondo non c'è, anche se il creatore è nullo, la volontà è il modo mentale ed esperienziale in cui noi viventi diveniamo coscienti del nesso-causa effetto, e quindi tendiamo ad attribuirla a un ipotetico creatore vista la potenza e la almeno parziale conoscibilità e ricorsività della natura, per una analogia che non ha nemmeno bisogno dell'effettiva esistenza del creatore per darsi e funzionare.[/size]
In questo senso non c'è uomo contro natura, un campo dell'artificiale contrapponibile a uno del naturale, ma c'è una natura umana, come ci può essere la natura del sasso, della foglia o del topo, una tendenza e un desiderio di comportamento che deriva da ciò che si è, piuttosto che da ciò che si progetta o si vuole, che qui, in questa definizione in cui prevale l'ordinamento composito e generale del tutto, è visto come mera conseguenza di ciò che si è, poiché ciò che ci precede, ci segue o ci forma non è un'altro ordine, ma un'altra parte dello stesso ordine, quindi siamo determinati dalle stesse leggi che determinano tutti gli esseri in generale.


Come ci si colloca tra queste due definizioni, determinerà la risposta che si potrà dare circa la "naturalità" della natura umana.





Se con natura intendi l'ordine cosmico in generale, (definizione 2) l'ordine cosmico in generale è intangibile per definizione:


L'uomo può illudersi di manipolare la natura, di avere potere e autodeterminazione superiore a quella degli altri animali, ma nello svolgimento della storia e del "destino" della natura è previsto e calcolato che l'uomo faccia esattamente tutto quello che effettivamente fa, a se stesso e al mondo circostante. Come ogni essere parte di un ordine cosmico, l'uomo non può realmente innovare l'ordine che lo contiene, ma solo svolgere le premesse destinali del suo divenire prescritte dalla sua stessa natura. La tecnologica non che una prosecuzione della natura con altri mezzi: la natura inventa un essere tecnologico che con la tecnologia altera la natura stessa, ma ben si comprende che tutta la vicenda è comunque una mediazione della natura che altera se stessa a partire da se stessa, una parte della natura che opera su un'altra, o meglio due parti della natura che operano l'una sull'altra, come in ogni rapporto tra specie e ambiente; ogni specie altera il contesto in cui vive, l'uomo con la tecnologia e la sua intelligenza lo fa solo in un modo particolare.


Se con natura intendi l'ordine cosmico in quanto inalterato dall'uomo (definizione1), insomma tutto l'essere del cosmo ad eccezione dell'uomo, anche qui la definizione contiene la risposta alla tua domanda, perché se con natura intendi ciò che è inalterato dall'uomo, uomo e natura si contrappongono per definizione, l'uomo non può lasciare completamente inalterato il mondo che lo circonda e sopravvivere, quantomeno deve trovare acqua, cibo eccetera, e la sue stessa esistenza è alterazione di uno stato inalterato precedente, che può intendersi come "natura", quindi come ciò che c'è stato, c'è e ci sarà anche senza l'uomo; e stante la soggettività umana che si compone di sé e non sé, volontario e involontario, percepiente e percepito, ci sarà sempre una componente che a lui risulta involontaria e destinale, e quindi naturale, nel suo vissuto e nel suo campo percettivo, da contrapporre ad una razionale e volontaristica. Ad esempio, vedo un grumo colorato di materia vivente con le piume e le ali, e so per la mia formazione umana e culturale che quello è un uccello, ma appunto l'intero "spirito" come decodificazione della percezione può essere inteso come contrapposto alla natura.
#2832

Dico la mia anche se sono ateo...

Si pone spesso il problema del male dal punto di vista della volontà, della provvidenza e del libero arbitrio, ma secondo me così facendo non si coglie il problema fondamentale, cioè che il mondo è una danza di opposti, e in questa danza il male connecessario al bene.


La definizione più ovvia di bene è: "ciò che è oggetto del desiderio", ma per avvertire l'oggetto del desiderio nella sua effettiva realtà di oggetto del desiderio, quindi il bene in quanto bene, è necessaria l'esperienza vissuta della mancanza di ciò che si desidera e del desiderio almeno temporaneamente frustrato, quindi il male.


Se vuoi il bene, quello che non vuoi, cioè il male, è condizione necessaria dell'esistenza di quello che vuoi, quindi non puoi essere coerente fino in fondo con te stesso nel non volerlo, e nel volere il bene. Il bene non può esistere senza il suo spazio, senza il suo negativo predeterminato, e questo negativo predeterminato è la persona sofferente stessa, che avverte la mancanza del bene.


Tutto è collegato, tutto è uno, quindi se vuoi qualcosa inconsapevolmente vuoi tutto, se vuoi tutto vuoi anche il contrario di quello che vuoi, quindi è logicamente necessario che la volontà si acquieti, che si comprenda che il bene non è un oggetto del desiderio qualsiasi ma l'oggetto del desiderio che comprende il desiderante nella sua realtà attuale, il desiderio stesso e tutto l'universo, ma questo non è altro che integrazione e accettazione del male.




Si è detto che Dio non fa cerchi quadrati, ma non fa neanche bastoncini con due estremità destre, e non fa neanche nell'ordine della creazione qualcosa di definibile come un bene esistente allo stato "puro", che possa esistere ed essere conoscibile senza un grado corrispettivo di male (ovvero di desiderabilità del bene creato, e quindi di sua, almeno potenziale, mancanza) che sarebbe un po' come un bastoncino con due estremità destre.


Lui semplicemente lo è, questo inconcepibile bene puro che può esistere allo stato libero senza la contaminazione intrinseca del male, e quindi, essendolo già, non lo può fare, nel senso di non lo può creare, crea sempre fuori di se, quindi in direzione dell'implicazione nella creazione di un grado minimo ineliminabile di male, quantomeno il male che serve alla creatura per conoscere, e quindi per sperimentare, e quindi desiderare, il bene creato. La perfezione unica per definizione, cioè Dio, promana necessariamente verso gradi minori di perfezione, non crea l'identico a sé, ne tanto meno il superiore a sé, sennò sarebbe perfezione (esisterebbe qualcosa di meglio), e non sarebbe unica (esisterebbe qualcosa di uguale).


Quindi a me quella che sembra una volontà divina "di primo livello" è che Dio decide di agire secondo logica e secondo non contraddizione, da questa volontà di primo livello deriva che Dio non può duplicarsi (l'uno è uno) e non può neanche creare niente al di sopra di sé (il bene è bene), quindi, stante anche che Dio è per definizione il già esistente (l'eterno è eterno), e che il già esistente non si può ri-creare, la creazione tende verso il non-Dio, verso l'altro e il diverso possibile da Dio, quindi, a dirla tutta, verso l'ombra e la possibilità del male, verso il grado minore di perfezione, verso la discendenza. Perché se ci si pensa bene, i gradi paritari e superiori di perfezione sono preclusi dal significato stesso di uno e di bene, quindi la "direzione" conflittuale e inquietante in cui si svilupperà la creazione è necessitata per esclusione.
#2833

Li avremo tutti :-)


Gesù ci spiegherà che l'eternità, o quantomeno il lasso di tempo che noi "abbiamo vissuto", quale frammento consustanziale dell'eternità, è un'infinità discreta innumerevole di attimi, a cui corrisponde un'infinità discreta innumerevole di corpi, e naturalmente se siamo esseri spirituali non siamo mai "stati", temporalmente, in uno solo di essi, ma sempre, atemporalmente, in tutti.


O almeno tutto questo (per quanto sia una pippa mentale) mi sembra molto più sensato di riprendersi un corpo singolo a casaccio, o un corpo spirituale di luce che non siamo mai stati.
#2834
Tematiche Filosofiche / Re:L'ira
19 Giugno 2020, 21:56:19 PM

Sì Viator, con prevenire intendevo anche creare deterrenti, però appunto ho usato prevenire, e ho parlato di evitare la ripetizione nel futuro di quello che ci fa orrore, perché non volevo limitarmi (come fai tu) al concetto che la giustizia si applica solo posteriormente ai fatti: per quanto da un punto di vista tecnico e giuridico sia così, si applica solo a posteriori, da un punto di vista pratico e intuitivo, è abbastanza chiaro che se uno ammazza o stupra una volta, o tanto più due, o più volte, ha una probabilità molto maggiore di rifarlo ancora di uno che non lo ha mai fatto, quindi mettendolo in prigione di fatto previeni che lo rifaccia, e la pena non ha solo una funzione di deterrenza, ma anche di impedire la reiterazione del reato, cioè se soggetti ritenuti pericolosi non sono più in giro, ma per esempio sono in carcere, si suppone che la società in generale sia più sicura e sia meno probabile incontrare tali soggetti per strada, e questo è vero a prescindere anche dalla deterrenza, cioè dall'idea che essere messi in carcere sia brutto, e comporti sofferenza, e quindi sia un impedimento al progetto di delinquere per chi non trova impedimento solo nella sua morale, e ha bisogno di una minaccia concreta per convincersi in un senso o nell'altro.


In realtà prevenzione vuol dire: "se delinqui ti metto in condizione di non nuocere perché non rifaccia il reato tu", deterrenza vuol dire: "faccio in modo che questa condizione in cui ti metto se delinqui sia anche scomoda e disagevole, perché non facciano il tuo stesso reato altri", ma appunto si rimane in un concetto moderno e umanamente accettabile di "pena" finché lo scopo è impedire i reati, da parte del reo e anche da parte di chiunque potrebbe essere tentato di imitarlo o emularlo.  Quando invece tutto ciò diventa "punizione", cioè si infierisce sul reo in quanto tale, si pretende di cercare espiazione per il presente cambiando il significato valoriale del passato invece di metterci una bella pietra sopra e limitarsi a creare un futuro migliore, si entra in un territorio di integralismo in cui si suppone che la morale esista oggettivamente, e lo stato abbia il diritto di "punire" chicchessia.


E invece non si può punire nessuno perché in una società aperta le morali sono plurali, (per rispondere a Giopap), quello che spara per strada avrà le sue ragioni e nella sua mente malata è "nel giusto", e i veri colpevoli magari sono i poveracci a cui ha sparato, quindi che vogliamo fare? La sua interiorità è intangibile, e nella sua interiorità lui ha ragione, e chi lo punisce ha torto, per questo dico che il passato è intangibile, è custodito nella memoria delle vittime e dei colpevoli, che non lo vedono allo stesso modo, che di fatto, finché non si riconciliano, non fanno parte della stessa "storia". Due torti non fanno una ragione, altroché malvagi predestinati ad essere puniti, e i "malvagi" finché non si pentono, dal loro punto di vista avranno sempre ragione, e si sentiranno perseguitati dai "buoni", esattamente e specularmente come a soggettività invertite si sentono perseguitati i "buoni" da loro.


La ragione è sempre quella del più forte, e se in passato hanno dominato i malvagi, sicuramente in quello stesso passato hanno dominato anche le ragioni, dei malvagi. Se la storia da un certo punto in poi cambierà, vorrà dire che a quello che è stato succederà altro, e si creerà una totalità composta da quello che è stato (in passato) + altro,  non che quello che è stato sarà annullato, sostituito o cambiato. Può sembrare una banalità, ma è questa semplice verità che dimenticano quelli che credono in una morale oggettiva, e che in nome di essa vogliono "punire".
#2835
Tematiche Filosofiche / Re:L'ira
19 Giugno 2020, 16:20:19 PM

Tre funzioni ha la giustizia: punire, rieducare, prevenire.


Personalmente non credo nel punire e nemmeno nel rieducare, l'aspetto che trovo più umano dell'assolutamente imperfetta giustizia umana è il prevenire.


Prevenire è reagire a un crimine guardando all'immensità e all'imprevedibilità del futuro, l'umano troppo umano: "che non si ripeta più!" davanti a quello che ci fa orrore. Probabilmente tutto si ripete, ma il vero coraggio per chi (nel presente) sente di aver subito un torto è provare a cambiare l'intangibile passato dal suo appiglio naturale nel "ciclo" del tempo, cioè appunto dal futuro. Spartirsi la totalità del tempo e il potere di determinarne la forma con il colpevole, il che prevede, se non il perdono, almeno l'accettazione.
Non si può cambiare il passato, il che vuol dire che anche chi ci ha fatto e ci fa del male, partecipa alla creazione del mondo tanto quanto noi. E' sul potere sul risultato finale, o meglio complessivo, che semmai si può lottare.


Punire nasconde la pretesa intrinsecamente folle di cambiare il senso e il valore del passato e poggia sulla fede nel libero arbitrio (il colpevole avrebbe potuto fare diversamente, sennò perché punirlo?).


Educare dipende come possibilità dall'incerta fede in un futuro anteriore, in un futuro che migliorerà solo dopo un certo determinato ed auspicato evento futuro, quello in cui il colpevole "diventa buono", "si converte", "riscopre la sua naturale bontà" eccetera; e poggia sull'intellettualismo etico socratico agitato come contrario esatto del libero arbitrio (il colpevole non avrebbe potuto fare diversamente, quindi povero deficiente rieduchiamolo), perché chi vuole rieducare pensa che il male sia nato da cattiva (falsa) conoscenza, e dunque il bene nascerà da conoscenza buona (vera). I rieducatori non capiscono che spesso c'è poco da rieducare, perché il colpevole sperimenta il male come accesso alla libertà, quindi dal suo punto di vista il male è bene.



Più in generale solo chi è in una condizione di superiorità può rieducare o punire (un inferiore); viceversa prevenire, stabilire delle norme anche formali e per la libertà indeterminata di tutti, anche in assenza della conoscenza o del perseguimento di un bene superiore determinato, o intrinsecamente diverso da quello che sceglierebbe ad arbitrio il singolo, è quello che si può fare anche tra pari.


Dunque se lo stato deriva dall'orda dei pari in lotta tra di loro, è ovvio che le funzioni punitive e rieducative dalla giustizia siano cronologicamente e logicamente subordinate a quelle preventive, perché, quantomeno se accettiamo il mito dello stato di natura e del contratto sociale, la prevenzione della violenza fonda lo stato, la punizione e la rieducazione del reo lo presuppongono (come esistente e già fondato). Meno lo stato è fisicamente ed ideologicamente tiranno, meno pretese avrà di rieducare e punire, ma non può recedere dalla sua funzione preventiva, di monopolio della forza, che è la più difficile da abbattere e superare, quella in cui si intravede un male più necessario, perché più strutturale.