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Messaggi - davintro

#286
Citazione di: Sariputra il 28 Gennaio 2019, 16:20:30 PM@Davintro Se ho inteso bene... Posso essere libero perché ho un principio che fonda la mia stessa libertà che è esterno al mondo (trascendente), pertanto non sono soggetto a dover sottomettere la mia etica e i miei principi ad un'imposizione mondana (all'etica e ai principi apparentemente buoni del Grande Inquisitore...del pensiero dominante, dell'organizzazione religiosa secolare,della moda del momento, ecc.). Lo posso fare o non lo posso fare, nella misura in cui sono libero di farlo solo se questa etica è mia e risponde alla mia coscienza ( pali vinnana-sanscrito vijnana). Sonja (altro personaggio indimenticabile di Dostoevskij in Delitto e castigo) infatti, giovane prostituta costretta dalla famiglia a vendere il proprio corpo, nonostante l'esser stata usata/abusata laidamente da numerosi uomini, in ragione di questa libertà fondata nel credere in Cristo, ossia in qualcosa di 'grande' che non è "di questo mondo", che non è la puzza e il sudore di quegli uomini, che non è il loro sperma, nè i loro soldi gettatigli addosso, né la profondissima desolazione della sua esistenza, rimane profondamente libera interiormente e in ciò palesa la sua gigantesca statura morale rispetto proprio a quegli uomini che ansimano sopra di lei...e questo salverà Raskol'nikov...

sì, penso tu abbia inteso molto bene quello che volevo esprimere nel mio messaggio
#287
l'idea dell'esistenza di un Principio assoluto trascendente il nostro mondo, rende, in un certo senso "tutto possibile" in quanto relativizza ogni potenza appartenente al nostro mondo, mondo, che essendo stato creato dal nulla, non potrebbe rivendicare alcuna autorità o resistenza di fronte alla volontà di un Essere posto al di fuori di esso e al contempo unico responsabile del suo esistere e del suo valore. Di fronte alla volontà di Dio scompare ogni presunzione di assolutizzazione di logiche mondane, sia dal punto di vista teoretico (scienza), sia da quello etico/politico dei poteri immanenti, stato, famiglia, se si è davvero coerenti con questa idea di trascendentismo, nemmeno la chiesa, intesa come organizzazione storica costituita da uomini imperfetti dovrebbe pretendere di rappresentare la vera voce di Dio, e quindi a legittimarsi come autorità indiscutibile che i fedeli dovrebbero acriticamente seguire. Quindi, capovolgendo l'assunto di Ivan Karamazov (tralascio qui di considerare la questione di come tale messaggio debba davvero essere contestualizzato all'interno del complesso del romanzo, questione di natura filologica-letteraria, mentre a me interesserebbe azzardare un punto di vista teoretico, cioè la validità logica intrinseca a tale tesi), si potrebbe dire in un certo senso, che se Dio esiste "tutto è permesso", "tutto è permesso" in relazione alla libertà dell'uomo nei confronti dei poteri mondani, che proprio nei confronti dell'autorità di un potere che è loro infinitamente superiore (il Dio trascendente del teismo), perdono ogni pretesa di potersi imporre come riferimenti morali assoluti. Questa è la componente emancipatoria per l'umano che ho sempre intuito nella visione della trascendenza, al di là delle deviazioni storiche in cui tale afflato è stato tradito da chi si arrogava il diritto di agire per conto di tale trascendenza. Difatti ho sempre apprezzato lo spunto kierkegaardiano dello stadio religioso come implicante un salto qualitativo rispetto allo stadio etico, la relazione con Dio che non può consistere in un sottomissione etica ad un valore riferito a una realtà mondana, esteriore all'Io, ma in un'incertezza, per cui l'individuo si affida a Qualcosa, che non può rappresentarsi perfettamente, e che di fronte al quale nessuna osservazione esteriore può giudicare quando la vita del singolo credente sia con esso coerente. La prostituta, il pubblicano, l'assassino può superare il filantropo o il teologo sulla strada del Paradiso, se Dio lo vuole. Il che non vuol dire che il teismo trascendentista sbocchi nel relativismo o anarchia assoluta, semplicemente la fedeltà viene trasferita dal richiamarsi a un'autorità esteriore e oggettivabile (stato, chiesa, famiglia), al richiamarsi ad una presenza con cui ciascun credente si rapporta sulla base della sua individualità soggettiva, il suo autonomo e differente percorso vitale, insomma una presenza che vincola sì, ma non come qualcosa di esterno, ma vissuta nell'interiorità della coscienza individuale.
#288
Tematiche Filosofiche / Re:Esiste l'immateriale?
27 Gennaio 2019, 18:36:14 PM
Citazione di: sgiombo il 26 Gennaio 2019, 12:15:00 PMRisposta a Davintro Di indubitabile mi sembra evidente ci sia solo l' accadere del pensiero "io penso" (se e quando accade), e basta. Nient' altro che questi fenomeni (percezioni) mentali. E' la cartesiana critica razionale che induce a porsi il "dubbio metodico" circa qualsiasi credenza; compresa (se portata alle estreme conseguenze, con Hume) quella che oltre all' accadere dei fenomeni mentali "io penso" debba per forza realmente esistere anche qualcosa di da esse diverso, realmente persistente anche prima e dopo che essere accadano, che ne sia il soggetto (e anche riflessivamente l' oggetto), denominato "io". Il pensare si da sempre come pensiero "di qualcosa" anziché di qualcos'altro, nel senso che é un certo determinato pensiero (per esempio: "cogito"; reale) anziché un certo determinato altro pensiero (per esempio "sum"; reale, ma non necessariamente vero): non può esistere il pensiero " " (il nulla di pensato non esiste come pensato) ma solo il pensiero di "qualcosa" (il qualcosa pensato può esistere come pensato). Tutto ciò di cui può darsi certezza "al di là di ogni possibile dubbio" é che se si pensa, allora "capita" di pensare a qualcosa, come se la La sensazioni fenomenica dell' orientamento del ("proprio") pensiero sulla base di ciò a cui si VUOLE pensare di ciò che SI SENTE importante per la "propria" vita ( e non anche, inoltre: l' esistenza di me che oriento il mio proprio pensiero sulla base di ciò a cui VOGLIO pensare di ciò che SENTO importante per la mia vita), se accade, é tutto ciò di cui non può aversi dubbio. Non ho mai affermato che la misurabilità dei fenomeni materiali ne escluda le qualità. Comprendo l' affermazione che o' idea di cavallo è un'astrazione, ma non quella che non lo è il principio formale (?) che rende il cavallo "cavallo", operando realmente per tutto il corso della vita (?): il cavallo non ha alcun bisogno di "essere reso" cavallo: é già un cavallo "di per sé". Non seguo il tuo aristotelismo. Secondo perché la scienza possa misurare enti ed eventi materiali, basta che molto banalmente li distingua gli uni dagli altri. Pienamente d' accordo con Ipazia (di cui reitero la meritoria esortazione) che: L'immateriale è immateriale. L'energia lasciatela ai fisici che ci fanno già abbastanza meta-fisica sopra da soli, ma almeno ci capiscono qualcosa. L'energia vitale è metabolismo. L'energia psichica è una metafora, un'analogia.


quando si dice che il cavallo "necessita di essere reso cavallo" non si deve intendere l'espressione come se l'idea della "cavallinità" intervenisse in un determinato momento successivo all'inizio dell'esistenza del reale cavallo. Quando penso alle forme, alle componenti immateriale, certo non penso a delle specie di spiritelli che a un certo punto entrerebbero in una materia preesisentente, ma in delle condizioni ontologiche fondamentali che risultano necessarie sulla base delle questioni inerenti l'identità di qualcosa. Ma questo proprio perché non esiste alcuna materia prima di essere già configurata formalmente in un certo modo. Sarebbe assurdo pensare che il cavallo sia reso tale dopo aver iniziato a vivere. Ciò che rende un cavallo o qualunque altra cosa determinata sulla base del concetto con cui la identifichiamo è presente in modo originario in essa, il principio formale agisce orientando sin dall'inizio lo sviluppo dell'ente in direzione della progressiva acquisizione delle proprietà insite nel suo concetto (qui era il mio riferimento al "corso della vita" nel precedente messaggio).  Il che non esclude che questo processo possa interrompersi o deviare dalla linea originaria sulla base di interferenze esterne, ma questa possibilità non implica l'assenza della linea originale, della presenza della forma, ma il fatto che non essendo puri spiriti, pure forme, ma sintesi di forma e materia, accanto a una componente di attività data dalla forma, che ci porta a essere sulla base della nostro essere intrinseco, abbiamo anche una forma di passività, data dalla materia, che ci porta subire l'azione di cause esterne che impediscono ad alcune nostre potenzialità naturali di essere attuate.


"perché la scienza possa misurare enti ed eventi materiali, basta che molto banalmente li distingua gli uni dagli altri", esattamente, ma proprio questo distinguere presuppone il coglimento di differenze qualitative non dovute all'idea di "materia" in generale, ma al diverso modo in cui viene organizzata in un sistema di relazioni peculiare. Queste differenze qualitative sono date dalle forme. Se la "scienza moderna" si esprime tramite misurazioni, non è che perché la realtà nel suo complesso debba ridursi a ciò che è misurabile (a meno di non voler passare dalla scienza allo scientismo, che è in tutto e per tutto un orientamento metafisico e filosofico), ma perché le sue possibilità di conoscenza sono limitate allo studio delle leggi ricavate dall'esperienza sensibile adeguata alla materia spaziale e quantificabile. Ma se la misurabilità implica la distinzione qualitative delle diverse forme, allora essa resta, non il fondamento originario, bensì una conseguenza secondaria di un livello della conoscenza anteriore ad esso, quello nel quale abbiamo un'esperienza intuitiva delle qualità (credo sia questo, detto in modo estremamente grossolano, il succo della critica husserliana, non tanto alla scienza galileiana in generale, ma alla sua assolutizzazione positivista, la critica per cui pretendendo di rimuovere il problema della ricerca del "senso", del "che cosa" in favore dell'assolutizzazione  del "quanto", la scienza perde di vista i suoi stessi presupposti epistemologici, un livello di relazione coscienza-mondo di tipo non-quantitativo che a sua volta precede (in senso non tanto cronologico, ma logico) e rende possibile ogni tipo di quantificazione possibile. 
#289
Tematiche Filosofiche / Re:Esiste l'immateriale?
25 Gennaio 2019, 20:54:15 PM
Citazione di: sgiombo il 25 Gennaio 2019, 16:48:51 PM A Davintro ho due obiezioni da muovere. 1 Con David Hume rilevo che la deduzione cartesiana "cogito ergo sum" non ha certezza indubitabile: la realtà potrebbe limitarsi al solo "cogito", all' accadere di tale pensiero (e degli altri pensieri o sensazioni mentali, e delle sensazioni corporee) in assenza di qualsiasi altra realtà permanente (in qualità di loro soggetto e/o oggetti) se e quando tali sensazioni (compreso il pensiero "cogito") non accadono realmente.  2 Trovo cervellotica e irrilevante, superata dalla scienza moderna la distinzione aristotelica fra "materia" e "forma": il mondo materiale é costituito puramente e semplicemente da enti ed eventi misurabili, (postulabili essere) intersoggettivi e divenienti secondo modalità universali e costanti calcolabili (distinguere una pretesa materia inerte e informe e un preteso principio dinamico che la determini nelle sue differenti componenti mi sembra un' inutile "cattiva" astrazione di concetti del tutto inutili a conoscere il mondo fisico materiale).

nel procedimento metodico con cui scopro il Cogito come indubitabile è già compresa anche la necessità di connetterlo a un soggetto esistente individuale. Il procedimento proviene dall'ammettere la possibilità di illudersi riguardo la verità sulle cose oggettive, illusione che però lascerebbe intatto il residuo della certezza che se anche mi illudessi starei comunque pensando. Ma a me pare che la possibilità di illudersi e di errare per il pensiero sia sempre dovuta a un condizionamento della volontà o del sentimento che spingono un soggetto a non accettare, a livello più o meno conscio, alcune verità oggettive, così come, al contrario, la possibilità di rispecchiare tali verità è dovuta allo sviluppo di adeguate capacità intellettuali, derivante da un talendo innata o comunque da un impegno per cui sono motivato a rafforzare le mie doti razionali. In ogni caso, l'efficienza del pensiero è sempre connessa a tutto il resto del complesso di qualità che caratterizzano ogni persona come singolo individuo. L'idea di un cogito slegato dall'appartenenza a un "sum", da un soggetto esistente pensante è un concetto astratto, ma non può essere una realtà, in quanto il pensare si da sempre come pensiero "di qualcosa" anziché di qualcos'altro e ciò che dirige il pensiero verso determinati pensati anziché altri esprime gli interessi, le motivazioni inerenti la personalità di un singolo individuo. Il pensiero è un'attività intenzionale, non è che "mi capita" di pensare a qualcosa, come se la mia individualità fosse solo contenitore accidentale di un flusso sovrapersonale del pensiero. Oriento il mio pensiero sulla base di ciò a cui VOGLIO pensare di ciò che SENTO importante per la mia vita. E questa unità indissolubile tra pensiero, volontà e sentimento costituisce l'unità della struttura personale, quel "sum" da cui Cartesio fa, secondo me correttamente, discendere dal cogito (al di là delle distorsioni consistenti in un dualismo troppo esasperato fra anima e corpo in cui egli cade, che non condivido)

La misurabilità implica la delimitazione dell'oggetto che si misura, Misurare vuol dire fissare una quantità interna a un limite, e la limitatezza è data alla materia dalla forma, che appunto la delimita, dandole una determinata spazialità e una determinato modo d'essere. La misurazione implica la forma sia dal punto di vista della misurazione dello spazio di un singolo oggetto, sia come misurazione della molteplicità di enti, che possono costituire un'unità, un insieme misurabile, nella misura in cui singoli membri condividono la stessa forma, la stessa essenza. Non potrei in alcun modo contare una decina di cavalli di fronte a me, senza individuare la qualità formale dell' "essere cavallo" come categoria comune a tutti singoli cavalli la cui quantità misuro. L' "essere cavallo" non è un numero, una quantità, ma una qualità, la quantificazione presuppone dunque l'intuizione della qualità. E non è necessario aderire a un realismo estremo nella questione degli universali, per cui penso che la "cavallinità", sia platonicamente, una cosa reale, non condivido questa visione, anche ammettendo che i cavalli esistono solo come cavalli individuali di cui ho un'esperienza sensibile, la forma "cavallo" non è una totale astrazione, ma comunque fattore di realtà in quanto principio che interviene sulla materia passiva, per svilupparla sulla base del modo d'essere del concetto di "cavallo". L'idea di cavallo è un'astrazione, ma non lo è il principio formale che rende il cavallo "cavallo", operando realmente per tutto il corso della vita. Quindi non trovo come la misurabilità della materia smentisca la necessità per le cose materiali di esistere sempre come materie formate. La materia senza forme sarebbe materia infinita e indeterminata, e proprio queste caratteristiche la renderebbero impossibile da misurare. Non si può misurare l'infinito, altrimenti i numeri non sarebbero infiniti, ne esisterebbe uno che non può concepirne alcuno superiore ad esso. Tutto questo del resto conferma il rapporto epistemologico tra filosofia e scienze sperimentali, la scienza moderna sperimentale misura, ma per farlo deve implicitamente ammettere (senza però poterlo tematizzare) i principio metafisico e ontologico della forma e dell'immateriale come condizione necessaria dell'esistenza della materia, nonché della sua misurabilità: le "cause seconde", fisica, discendono da quelle "prime", metafisica, senza alcun conflitto
#290
Tematiche Filosofiche / Re:Esiste l'immateriale?
25 Gennaio 2019, 00:57:13 AM
condivido l'idea che la ricerca di una realtà immateriale debba avere come punto di partenza la percezione dell'immutabilità dell'Io, l'avvertire la continuità dell'identità attraverso il divenire e il tempo. La materia è indice di spazialità, di divisione, frammentazione, come ben fatto notare da Viator,  per esistere come realtà determinata necessita di una componente immateriale, cioè la forma, che delimita la materia come unità dandogli una determinazione specifica, differenziandola in cose aventi un distinto significato, di fatto, consentendo l'esistenza delle cose materiali. Senza tale componente immateriale la realtà resterebbe a livello di pura e totale indeterminazione, solo astratta potenzialità, in quanto gli assiomi logici del terzo escluso e del principio di non contraddizione ci dicono che una cosa non può essere al contempo A e non-A, dunque le cose esistono solo come aventi un senso determinato, cioè la loro materia necessita di essere strutturata in modo da essere (nel caso della materia vivente, anche muoversi) sulla base di una determinata modalità, che le delimita, anche solo spazialmente, sulla base di una forma, cioè di un principio immateriale, che spezza l'indistinzione della "materia pura", che dunque non potrebbe in alcun modo esistere. Partire dalla costanza dell'Io è fondamentale a livello metodologico, in quanto a livello razionale ogni argomentazione implica la fondazione in un ambito indubitabile, privo di oscurità e incertezze, il cogito: anche se dubitassi di tutto, resterebbe il mio Io con i suoi vissuti tramite cui abbiamo una certa esperienza del mondo e di noi stessi. Una ricerca dell'immateriale che non parta dal dato indubitabile di essere un Io, cade necessariamente già in partenza nel dogmatismo. Ma perché l'immateriale che cerchiamo abbia una consistenza non solo logica-concettuale, ma anche reale, l'Io come semplice autocoscienza non basta. Un materialista, pur accettando cartesianamente l'indubitabilità dell'Io, potrebbe ridurre l'autocoscienza a mera conseguenza secondaria di cause fisiche, cioè riscontrabili sulla base dell'esperienza sensibile (anche se supportata tecnologicamente da strumenti di osservazione progettati ad hoc). Di fronte a questo si può però riconoscere che la percezione, da parte del proprio Io, della propria costante presenza al di là del divenire, richiederebbe di essere giustificata individuando un atto di esperienza adeguato a cogliere il concetto di "unità" o "permanenza" "immutabilità", e dunque un esperienza che non può avere come contenuto una realtà materiale, per definizione, divisibile, transeunte, diveniente, ma di tipo opposta, immateriale, il cui contenuto reale corrisponda al significato dei concetti. Categorie come "unità" o "immutabilità" sono gli schemi tramite cui l'Io, a questo punto non più solo pensiero, ma agente reale, interviene sulla psiche ordinando la molteplicità dei fenomeni sensibili, ricavati mero contatto fisico tra corpo percepiente e mondo esterno, operando delle sintesi. L'immateriale (ma penso si potrebbe anche andare fino in fondo e parlare di "spirito" senza timore di apparire come arretrati e superstiziosi) è ciò che rende possibile alla mente rielaborare fenomeni, sia analiticamente che sinteticamente, operando un salto di qualità rispetto alla condizione in cui tali fenomeni si manifesterebbero sulla base di una causalità meramente materiale. E non c'è bisogno di arrivare ai livelli delle grandi universalizzazioni etiche o teoretiche, e nemmeno al livello della formazione dei giudizi, già al livello basico della percezione di entità sensibili è riconoscibile l'attività immateriale per cui l'Io agisce sulla base di criteri preesistenti al materiale sensibile su cui l'elaborazione viene attuata. Già nella semplice percezione dell'albero come unità dei singoli lati sensibili nei quali si offre ai nostri occhi, l'immateriale è all'opera, nella capacità di trattenere nella memoria i lati attualmente nascosti, al di fuori del contatto fisico con i sensi corporei. La capacità di conservare lati dell'oggetto non più fisicamente a contatto dimostra la trascendenza del pensiero sui sensi, la capacità della mente, sulla base di questa tendenza unificatrice spirituale, di comprendere fenomeni che dal punto di vista della mera sensibilità sarebbero dovuti annientarsi, sostituiti continuamente da nuovi stimoli sensitivi. Senza questa tendenza immateriale, i fenomeni sensibili si sostituirebbero gli uni agli altri senza alcuna possibilità di sintesi temporali, per i quali accanto alla sensazione presente il pensiero trattiene il passato nella memoria e ha un'aspettativa per il futuro, e questa tendenza non è un'astrazione concettuale, ma concreta attività nella realtà psichica
#291
Tematiche Filosofiche / Re:Elogio dell'individualismo
20 Gennaio 2019, 23:22:28 PM
avevo intenzione di aprire un topic riguardo la  necessità di rivalutare la positività dell'individualismo, Jacopus  in un certo senso mi ha anticipato!

L'individualismo viene, a mio avviso, considerato in modo dispregiativo perché si considera l'individuo come qualcosa sempre, necessariamente, come un valore da perseguire in antitesi con quello di comunità. Cioè si pensa che occuparsi dei propri interessi, del proprio piacere individuale distolga le energie dall'impegnarsi per qualcosa che contribuisca al bene di un gruppo, come se ciò con cui contribuiamo al bene del gruppo debba implicare uno snaturamento, un perdere di vista la nostra identità, che deve essere "tradita" nell'impegno comunitario. L'errore di questo modo di pensare sta nel non prendere in considerazione un dato fondamentale, cioè l'alimentazione delle energie determinata dalle nostre motivazioni, legate ai nostri desideri individuali. Quanto più agiamo facendo qualcosa che ci piace (intendendo qua "piacere" nel suo significato più vasto, tutto ciò che riflette i nostri valori personali, non solo il piacere sensibile-immediato), tanto più le motivazioni a far bene ci stimolano a impegnarci tirando fuori il meglio di noi, e quindi portando a realizzare qualcosa di alta qualità, di cui poi potranno godere altre persone. Insomma, la ricerca del piacere individuale, fare qualcosa che ci piace e ci motiva a livello soggettivo, conduce anche, se si vuole indirettamente, ad agire per il meglio anche dal punto di vista della comunità, mentre quando la libertà individuale viene ostacolata e si spingono le persone ad agire controvoglia, le motivazioni interiori non intervengono con il conseguente investimento energetico, e la conseguenza saranno risultati mediocri o comunque non all'altezza. Perché i risultati del nostro agire siano il più possibile adeguati alle esigenze di una molteplicità di persone occorre però che i valori di riferimento siano il più possibile universali, cioè validi al di là del mero interesse individuale, che può considerarsi opposto a quello della comunità solo se riguardano interessi materiali, anziché valori etici, spirituali (la materia spazializza, divide, lo spirito unisce). Ed è tramite la ragione, che l'individuo può, entro certi limiti, astrarsi dai propri piaceri immediati e riconoscere categorie etiche validi in ambiti sempre più comprensivi, sempre più universali, dunque indicare dei valori che ispirano una condotta capace di beneficare più persone possibili, massimizzando tale beneficio. Ma perché si dia ciò occorre passare dall'individualismo al personalismo, dall'individuo come mera unità, atomo indivisibile, alla persone, individuo, cioè sostanza (ricorda anche Boezio) razionale, capace di ordinare razionalmente il flusso caotico di tendenze, impulsi, una condotta coerente, perché fondata su valori stabili, riconosciuti come costitutivi dell'identità in modo profondo. Ma un conto, è trascendere, ammettere l'insufficienza, di qualcosa, nel nostro caso l'individualismo, un altro squalificare in assoluto, considerare in termini dispregiativi, come troppe volte erroneamente mi accorgo viene fatto. Occorre forse saper andare al di là dell' individualismo, superarlo, ma non negarlo, non disprezzarlo, riconoscerne gli aspetti costruttivi
#292
per Everlost

A livello individuale non trovo abbia senso provare sensi di colpa perché andando al centro commerciale di domenica si costringerebbe il centro commerciale a tenere aperto e a far lavorare le persone. I responsabili, i dirigenti di un'attività commerciale non hanno la palla di vetro, non stabiliscono gli orari di apertura potendo prevedere le persone che effettivamente verranno, come se, nel caso, la singola persona non verrà il negozio resterà chiuso. Mi è capitato spesso di recarmi un negozio e trovarlo chiuso, non è certo rimasto aperto ad aspettarmi. Tenendo aperto in un determinato momento il centro commerciale si limita a determinare una possibilità di consumo, ma ciò non implica la realizzazione effettiva di questo, questo resta alla libertà e disponibilità dei singoli clienti. Se fosse vero che le scelte in fatto di orari di apertura dei negozi fossero determinate dalla volontà dei consumatori, allora sarebbe inconcepibile la possibilità di fallimento di ogni attività commerciale, Ogni negozio potrebbe prevedere il flusso effettivo dei clienti e stabilire gli orari migliori, o addirittura se è il caso o meno di aprire l'attività commerciale, valutando se i ricavi supereranno le spese di gestione, ogni apertura di un'attività commerciale sarebbe un investimento sicuro, perché la si potrebbe operare a perfetta ragion veduta. Ovviamente, non è così, l'esperienza ci mostra purtroppo tanti esempi di negozi falliti, dovuti proprio al margine di imprevedibilità delle scelte dei consumatori rispetto alle aspettative di partenza dei responsabili dell'attività.

Portando il discorso su un piano più sociale e generale, è certamente vero che i comportamenti dei consumatori, intesi non come singoli individui ma coma totalità della massa, determinano le scelte dei negozi ed anche il loro destino, quindi dovremmo chiedersi quali sarebbero le conseguenze di una minore attitudine al consumo sulle persone sul lavoro delle persone. Rinunciando a consumare di domenica e demotivando il centro commerciale a tenere aperto quel giorno, credo che l'effetto principale consisterebbe nel disincentivarlo a progettare una redistribuzione del carico di orario lavorativo tramite turni e forme di part time: quanto più il tempo di apertura è ampio tanto più sarà possibile far lavorare più persone con orario ridotto, per cui chi sceglie di lavorare di domenica potrebbe restare libero in giorni infrasettimanali e viceversa. Forse ad oggi, ciò non si realizza, ma resta comunque una possibilità che finirebbe con l'essere ancor più inpraticabile, nel momento in cui si sceglie di operare una sorta di illogico boicottaggio teso a condurre l'attività commerciale a diminuire il tempo di apertura complessivo. Tale diminuzione sarebbe in realtà controproducente in relazione alla ricerca di carichi lavorativi meno opprimenti nella vita delle persone, in quanto proprio una più possibile ampia apertura oraria è ciò che può consentire un minor carico lavorativo per i singoli lavoratori, il cui minor contributo in carico di tempo lavorativo andrebbe meno a impattare sulla produttività, che ciò che perderebbe facendo lavorare meno il singolo lavoratore, lo recuperebbe allargando le possibilità di consumo complessive stando aperti più tempo possibile (senza contare gli ovvi benefici per i consumatori...). Continuo a pensare che la strategia migliore per l'obiettivo di far sì che più persone possibili possano svolgere il lavoro che più risponde alle loro esigenze resti quello di rafforzare ulteriormente il carattere concorrenziale del mercato del lavoro, con un'offerta sempre più variegata, di modo da stimolare i datori di lavoro, consapevoli della possibilità che un suo lavoratore che si sente sfruttato abbia tutte le possibilità di dimettersi per andare a lavorare in un'ente concorrente che gli possa offrire condizioni ben migliori, a fornire, per evitare che ciò accada, a sua volta condizioni di rapporto retribuzione/carico orario sostenibile migliori possibili, cosa che va in una direzione opposta rispetto a ciò che accadrebbe in un sistema collettivista/monopolista.

per Oxdeadbeef

a quel che so, il liberalismo non nasce come dottrina economica, ma come concezione giuridico-politica ispirata al giusnaturalismo, penso in particolare a Locke, cioè all'idea che gli individui possedessero diritti e una dignità naturale, presociale, mentre gli stati e le società esistono solo in funzione degli interessi degli individui che li fondano, senza avere alcuna legittimità morale instrinseca, sia essa di origine laica o religiosa. Mi pare che il liberismo economico sia la lineare conseguenza di questa impostazione, cioè l'economia, intesa come libera interazione e scambi tra individui e libera gestione delle risorse sulla base dei differenti interessi, come appannaggio della responsabilità dei singoli, senza un'imposizione governativa che gestisca la società sulla base di convincimenti morali, che altro non sarebbero che arbitrari e soggettivi assunti dei governanti, che finirebbero con l'essere imposte dall'alto. L'amoralità (non immoralità) della visione dell'economia fa sì che il liberismo non possa aver nulla da opporre a garantire una certa protezione sociale a chi ne ha bisogno, dato che l'autonomia dell'economia dalla politica non consiste in una presa di posizione morale di tipo economicista e materialista per il quale il valore delle persone coinciderebbe con la loro capacità di arricchirsi tramite il lavoro, che i poveri sarebbero tali per mancanza di meriti e operosità, e andrebbero lasciati al loro destino senza alcun supporto. Un'impostazione di tal genere, sarebbe a mio avviso, un'altra rappresentazione di "stato etico" (seppur di tipo ideologicamente antitetico a quello di tipo collettivista), che in base a una determinata concezione morale, cioè chi si arricchisce vale, chi non ci riesce non merita alcun tipo di aiuti, sulla base del sceglie di agire, o anche di NON AGIRE. Non mi trovo d'accordo sul fatto la rappresentanza dei corpi intermedi come i sindacati sia inconcepibile all'interno di una società liberale/liberista. Anzi, è proprio nel momento in cui la società viene concepita come complesso di diversi interessi, che allora ha senso pensare a degli organi di mediazioni che rappresentino istanze di determinate categorie di individui, che, liberamente, appunto possono trovare la loro condizione come non soddisfacente all'interno dei luoghi di lavori, e possono intervenire, per il tramite di persone competenti nella contrattazione, per migliorare la loro situazione. Invece, proprio nel momento, in cui, come nei regimi illiberali e totalitari, si pone una totale coincidenza fra chi offre lavoro e la comunità dei lavoratori, gli organi di mediazione tra parti diverse non hanno più senso di esistere, per il semplice motivo che non esistono più "parti diverse" tra cui mediare. Lo stato, unico proprietario dei mezzi di produzione, e dunque unico possibile datore di lavoro coincide con la collettività dei lavoratori, che così non potrebbero più auspicare alcuna modifica in senso migliorativo della loro condizione, in quanto i loro interessi, vengono, artificiosamente, fatti coincidere con quelli di chi il lavoro lo dà. Di qui la sostanziale staticità sociale dei modelli politico/economici totalitari. Tornando in topic, è invece proprio il populismo il modello in cui i corpi intermedi sono annientati: il populista fa coincidere se stesso e le sue idee con il "popolo" nella sua totalità, ed è chiaro che stando così le cose, non ha alcun senso mediare nulla, dato che viene posta una coincidenza diretta e immediata tra politica e popolo, mentre ogni differenza o dissenso viene considerata come del tutto esterna al "popolo", e dunque indegna di ogni forma di rappresentatività.


Per Ipazia

l'espressione "equa divisione del sacrificio lavorativo tra tutti gli uomini" è quella che mi mette più in sospetto, perché mi pare confermi dei presupposti che non posso condividere, perché consistenti in una visione non solo sociologica ma prima di tutto antropologica, di tipo materialista e "oggettivista" che trovo quantomeno molto discutibile. Il principio per cui l'equa distribuzione del benessere dovrebbe coincidere con un eguale possesso di ricchezza o con un eguale tempo di lavoro, avrebbe senso nel momento in cui il benessere soggettivo delle persone viene fatto coincidere con delle oggettive e standardizzate condizioni oggettive, come un' oggettiva quantità di tempo o ricchezze, non tenendo conto della diversità delle personalità individuali, da cui discendono diverse esigenze di quantità di beni materiali, e ancor più di lavoro, a seconda che il lavoro sia gradito o meno, sulla base delle differenti passioni o interessi, tramite cui lo stesso identico lavoro può risultare piacevole a un singolo e spiacevole all'altro. Accettando invece la diversità degli interessi e delle personalità, non avrebbe alcun senso mirare a raggiungere una media di orari di lavoro uguale per tutti, in quanto quella media risulterebbe inevitabilmente ancora troppo ampia per chi non ama quel lavoro, e troppo ristretta per chi non lo apprezza e preferirebbe lavorare ancora meno, senza contare tutte le persone che preferirebbero lavorare senza rigidi vincoli di orario, e quindi sarebbero maggiormente orientati al libero professionismo anziché al lavoro dipendente. In pratica permarrebbe, se non aumenterebbe, un'insoddisfazione e un'infelicità complessiva. Perché si riesca ad esaudire in modo più ottimale possibile le istanze di benessere di tutti, sulla base della realtà delle differenti preferenze individuali, il lasciare gli individui liberi di operare in modo spontaneo le loro scelte di vita, senza imposizioni aprioristiche e omologanti di uno stato totalitario programmatore, incapace di tener conto di tutte le diversità individuali, resta dunque l'orientamento più adeguato. Non è per fare un libello propagandistico anticomunista, mi spiace se i miei interventi risultino eccessivamente e superficialmente astiosi o polemici, comunque non è mia intenzione, è propria una consequenzialità logica che mi porta a pensare che questo egualitarismo applicato dall'altro presupponga una visione dell'essere umano tutta esteriorista e materialista, cioè l'idea di poter dedurre il livello di benessere interiore sulla base dell'osservazione della condizione sociale esterna in cui l'individuo vive, senza che una libera soggettività interiore, che nessuno meglio dell'individuo stesso può conoscere in quanto la vive in se stesso, possa intervenire a relativizzare il giudizio, rielaborando e reinterpetando il dato materiale oggettivo, che invece appare così del tutto vincolante e "appiattente"
#293
Citazione di: Freedom il 16 Gennaio 2019, 17:50:48 PM
Citazione di: davintro il 16 Gennaio 2019, 16:28:29 PMVorrei soffermarmi un attimo su questo discorso della "competenza", per togliermi un sassolino dalla scarpa (ora non sto polemizzando con Oxdeadbeef o con un altro utente in particolare, ma con una certa linea di pensiero che ogni tanto emerge), Mi viene da pensare in particolare all'esempio del topic sulla chiusura domenicale dei centri commerciali, dove alla posizione liberale per cui ogni limitazione della libertà individuale (compresa quella di voler lavorare o consumare in un centro commerciale di domenica) è illegittima, fintanto che non limita direttamente la libertà degli altri, veniva opposta l'idea, che molti dei desideri (e dunque delle libertà di soddisfarli) delle persone non siano davvero genuini, ma il portato di condizionamenti sociali, di cui la maggior parte delle persone non si renderebbero conto, ma che possono essere smascherati da dei sociologi, magari orientati in una certa direzione ideologica, che potrebbero insegare a tutti quali sono i desideri naturali che meriterebbero di essere soddisfatti e quali invece frutto della manipolazione sociale/comunicativa, da rimuovere. Le conseguenti implicazioni di tali premesse sono evidenti: una volta rimossa l'idea del libero arbitrio e della responsabilità individuale e considerate le persone alla stregua di come bambini incapaci di discernere il loro "vero bene", e la loro "vera libertà", ecco la necessità ci creare una ELITE COMPETENTE di sociologi o intellettuali, che alla luce della loro cultura provvederanno a stabilire per tutti la lista dei desideri esprimenti la "vera natura" delle persone, da soddisfare (come può essere ad esempio, quello di comprare i loro libri), e la lista dei desideri fittizi, (come quello di andare al centro commerciale di domenica), che paternalisticamente, "per il nostro bene" andrebbero repressi, perché non rispecchianti la "vera natura delle persone", natura che essi presumerebbe di conoscere meglio degli individui a cui tale natura appartiene. A questo punto mi chiedo: non è paradossale e ipocrita accusare il liberalismo di voler sottrarre spazi di sovranità ai popoli in favore di elite tecnocratiche, quando poi l'accusa viene da proprio da degli antiliberali che pensano che le persone siano incapaci di conoscere la loro vera libertà e che i loro desideri debbano essere approvati da dei sociologi che stabiliscono quando essi provengono davvero dalla loro personalità, e quando invece sono veicolati dai mezzi di comunicazione? Non è forse doppiopesismo contestare la tecnocrazia quando si parla di scelte economiche che i governi farebbero in contrapposizione alle esigenze sentite dai popoli, per poi farla rientrare dalla finestra quando si pensa che la sociologia (come se questa fosse una scienza più esatta e rigorosa dell'economia...) sia capace di decifrare meglio del sentire diretto delle singole persone comuni, l'autenticità dei desideri, e dunque di ispirare una serie di impedimenti moralistici al soddisfacimento dei desideri etichettati come inautentici? Al contrario Il liberalismo, proprio in quanto pone la libertà individuale come valore supremo, è la dottrina politica in cui è necessariamente più forte il richiamo al principio di autodeterminazione e di autconsapevolezza delle proprie esigenze degli individui, e conseguentemente dei popoli, che nella concretezza del loro contenuto, altro non sono che insiemi di individui
Hai così ben argomentato che, per un attimo, mi hai quasi convinto. 8) Caspita, mi son detto, come è possibile che sia d'accordo con Davintro che sta sostanziando un punto di vista che, da tempo immemore, è contrario al mio modo di vedere le cose? Bè, a mio modo di vedere, nella tua pur convincente analisi non hai considerato la prospettiva, decisiva, di chi mette in condizioni le persone di vivere il liberalismo che hai sostenuto. Non si tratta dunque di interpretare e governare i desideri delle persone (anche se due parole sul marketing andrebbero spese....) bensì di non obbligare altri a creare le condizioni per la loro soddisfazione. Nel senso che per tenere aperti gli esercizi la domenica si costringono diverse persone a lavorare. Ma sono disposto a discutere anche di questo (potresti sostenere che i benefici ripagano questo sacrificio tutto sommato, ma solo apparentemente, modesto); quello che però non sarei tanto propenso a prendere in esame è l'incontrovertibile valenza simbolica che questi comportamenti creano: lavorare 24 ore al giorno per 7 giorni alla settimana è cosa buona e giusta. Non esistono più spazi vietati al lavoro ed il feticcio della produttività regna sovrano. Il vero dio del nostro tempo. Ma come, sostengono i fautori di questa mentalità, si offre un servizio a tante persone, si fa girare l'economia, si crea allegria! Non credo. Penso, piuttosto, che sia l'inizio del pensiero unico. Lavorare, consumare, crepare. Ecco la trinità del mondo moderno. Uscire di casa solo per fare una di queste cose qua.


beh, peccato per quel "quasi" nel tuo convincimento! Scherzo...
Arrivare a lavorare 24 ore al giorno tutti i giorni o quasi, non la trovo una prerogativa specifica della società liberale, può tranquillamente essere un'imposizione di un regime totalitario collettivista, ed in questo caso i lavoratori, che anzi, a differenza che nella società liberale, non avrebbero strumenti giuridici per opporsi, non esisterebbe un datore di lavoro alternativo e concorrente al regime titolare dei mezzi di produzione che potrebbe loro offrire condizioni ben migliori. Il punto è che il liberalismo non è portatore di alcuna peculiare concezione etica, l'unico valore a cui si richiama è il rispetto delle libertà individuale, cioè di ciascuna persona di perseguire una vita coerente con i propri valori personali fintanto che non intralciano quelli altrui, e dunque non ha senso accusarlo di ispirare una determinata concezione morale come appunto può essere quella del lavoro come aspetto totalizzante della vita. Personalmente mi considero (magari rivisto un po' a modo mio), simpatizzante del liberalismo e al contempo sono lontanissimo dal moralismo che sostiene che "chi non lavora non mangia", "senza lavoro non c'è dignità" o che il "lavoro nobiliti l'uomo", perché per me la dignità è un dato innato e ontologico che attiene a ogni persona in base al suo modo d'essere, a prescindere dal modo in cui assume un ruolo sociale tramite il lavoro. Cioè, per me il lavoro può essere, a certe condizioni, ambito di espressione esteriore della dignità dell'uomo, insieme ad altri ambiti, ma non principio che la fonda intrinsecamente. E anzi, sono assolutamente convinto che queste due cose si leghino fortemente tra loro: l'idea che la persona possieda una dignità sulla base del suo essere anziché sulla base di come tramite il lavoro si rende utile alla società la trovo molto più legittimata sulla base di una visione liberale, giusnaturalista, umanista, per la quale è la società che esiste in funzione dei diritti naturali che gli individui possiedono a livello essenziale, innato, piuttosto che in una concezione illiberale, collettivista, materialista, nella quale l'individuo si riduce a valere solo nella misura in cui è una ruota dell'ingranaggio del sistema, una funzione, un ruolo, senza poter rivendicare alcun rispetto nella sua sfera intima e autonoma, e se considerati asociali o "buoni a nulla" possono essere distrutti o spazzati via. Stachanov era presentato come modello non certo dai liberali, ma dall'Urss stalinista, e a chiamarsi "laburisti", cioè esaltatori del "lavoro" sono partiti che si rifanno all'ideologia socialista, non certo liberale. Tutto ciò non va ovviamente estremizzato cadendo nell'errore opposto, cioè pensare che il liberalismo disprezzi il lavoro, penso che una concezione che pone la libertà come valore sommo debba tendere a una società nel quale lavorare sia sempre più qualcosa che si fa non spinti da un'urgenza materiale, biologica, ma espressione delle nostre passioni e della nostra personalità, qualcosa che si fa per piacere cioè indice di libertà. Questo però sarà possibile tramite, da un lato, un avanzato sviluppo tecnologico che limiti la necessità dei lavori più meccanici, alienanti, liberando tempo ed energie per attività più intellettuali, creativi, più liberamente gestibili sulla base del tempo della nostra vita, delle relazioni umane, della cura di sé. Il presupposto perché si vengano a determinare queste condizioni non può che essere la produttività, presupposto di tale rivoluzione tecnologica. Quindi associare la necessità oppressiva del lavoro alla produttività non è del tutto esatto, sarebbe come dire che rinunciando alla produttività, tornando in agricoltura dal trattore all'aratro pesante si emanciperebbero più persone dal lavoro, quando in realtà è l'esatto contrario. Poi, immagino, sarà necessario escogitare forme di sussidio per tutelare il reddito di quelle persone che rischierebbero di perdere il posto di lavoro a causa della tecnologizzazione, e un vero liberale non dovrebbe trovare nulla da contestare. Il liberalismo può contestare lo stato sociale col suo sistema di sussidi solo sulla base di motivazioni pragmatiche di contabilità, ma non su questioni di principio etico, del tipo "chi non lavora non mangia", proprio perché l'essenza del liberalismo sta nella distinzione tra giudizio di opportunità politica e giudizio etico. Il liberalismo contesta l'invadenza dello stato quando interferisce pesantemente a livello burocratico nei rapporti sociali tra individui, ma non può avere nulla in contrario per quegli interventi tramite cui si tutela la libertà delle persone, offrendo loro un'alternativa alla costrizione di dover accettar lavori sgraditi. Non è un caso, mi pare ma potrei dire inesattezze, che una sorta di corrispettivo del cosiddetto "reddito di cittadinanza" fosse già stato teorizzato dal liberista Milton Friedman, ministro e collaboratore di Reagan
#294
per Ipazia

la politica è prassi, e come ogni prassi consiste nel tentativo di adeguare la realtà fattuale ad un modello ideale di "società giusta", e quindi anche ad un modello di stato il più possibile efficace a garantire benessere e diritto alla comunità. Che tale modello ideale sia impossibile da realizzare compiutamente nella storia non gli impedisce di poter fungere come ideale regolativo a cui la prassi politica si ispira, e senza il quale sarebbe cieco affannarsi senza alcuna prospettiva, allo stesso modo di come l'inesistenza dell'idea di "cavallinità" non inficia la necessità che ogni giudizio in cui riconosco di avere di fronte un singolo reale cavallo presuppone come criterio trascendentale l'idea di "cavallo in sé" come parametro a cui raffrontare i reali cavalli particolari. Allo stesso modo, ogni giudizio sul valore dell'azione statale implica l'assunzione di un ideale sul "cosa" e "come" dovrebbe essere uno stato, in  base a cui valutare il grado di adeguazione dell'effettiva realtà dello stato, n assenza di questo ideale ogni giudizio di valore e ogni conseguente esigenza di trasformazione sarebbe insensata e l'unica cosa logica sarebbe la passiva accettazione dei fatti. Poi, possiamo discutere nel merito della validità dell'ideale liberale dello "stato neutro", ma le eventuali critiche andrebbero poste su un piano diverso rispetto all'accusa di "idealismo", che sulla base di quanto detto sopra, dovrebbe essere rivolta non solo alla visione liberale, ma in generale ad ogni ideologia o dottrina politica (compreso il marxismo, credo) che si ponga come modello fondativo di giudizi di valore sulla società


Per Oxdeadbeef

il costante richiamo alla centralità del popolo sovrano che fa il populismo è solo un artificio retorico, una falsificazione nella quale il concetto di "popolo" non esprime più il significato che dovrebbe assumere in una democrazia, "popolo" come totalità giuridica dei cittadini, ma un significato ristretto, escludente, proiezione dell'ideologia del populista, per il quale il popolo può essere rappresentato, a secondo della natura di tale ideologia, come un determinato ceto sociale, una determinata confessione religiosa, una determinata etnia, l'insieme di coloro che seguono una specifica etica, uno specifico orientamento politico (ovviamente lo stesso di quello della forza populista). E tutti coloro che stanno al di fuori della rappresentazione particolare, sono anche esclusi dal popolo, diventano "elite", nemici del popolo, privati della legittimità a sentirsi depositari degli stessi diritti e doveri di coloro che invece si rispecchiano nel concetto di "popolo" nella mente del populista", a sentirsi parte integrante della stessa comunità. Che bisogno ci sarebbe di richiamare ossessivamente il fatto di essere rappresentanti del popolo da parte del populista, se per "popolo" si intendesse, come dovrebbe intendersi" la totalità giuridica dei cittadini"? Lo si dovrebbe dare per scontato... il popolo si esprime eleggendo il parlamento, e da quel momento in poi ogni atto politico esprime un mandato e una rappresentanza popolare... se si sente la necessità di continuare a richiamare in modo così retorico e sistematico il "popolo" è chiaro segno che con questo termine non si intende la comunità giuridica nel suo complesso, ma un concetto caricato di un peso politico parziale, il popolo nella particolare visione del mondo etica/economica/religiosa/filosofica del populista, che però non può esaurire l'effettiva realtà della comunità nel suo insieme. In pratica, una mistificazione. La verità è che il popolo non è un monolite, a immagine e somiglianza del populista, ma un unità composta da differenze di ogni ordine, che le istituzioni sono chiamate a rappresentare e soddisfare (entro i limiti del possibile) in modo più comprensivo possibile, ed è a questo punto che arriviamo alla necessità della "competenza". Per competenza andrebbe intesa la capacità di una adeguata classe dirigente politica di saper sviluppare in modo più razionale ed efficace possibile una sintesi che tenga conto il più possibile della molteplicità delle differenti esigenze in seno al popolo, differenze di tipo economico e culturale, che nei fatti non produrrà mai un mondo perfetto per tutti, ma che è l'unico modo per avvicinarci a una società che massimizzi nel modo più equo possibile il benessere e la rappresentanza. Ecco la necessità dello stato imparziale come luogo di mediazione tra le esigenze della comunità e la traduzione in termini di azione politica tesa a soddisfarle, in assenza di questo filtro, contro cui si scaglia la retorica populista, il popolo verrebbe lasciato a se stesso, nell'irrazionalità di un conflitto interno fra le diverse componenti da cui non potrà che derivare la legge del più forte, delle parti materialmente più potenti che schiacciano le più deboli, oppure la dittatura della maggioranza, nel quale il potere politico populista che identifica il "popolo" con la maggioranza politica che lo sostiene, si sente legittimato a discriminare o perseguitare la minoranza.


Vorrei soffermarmi un attimo su questo discorso della "competenza", per togliermi un sassolino dalla scarpa (ora non sto polemizzando con Oxdeadbeef o con un altro utente in particolare, ma con una certa linea di pensiero che ogni tanto emerge), Mi viene da pensare in particolare all'esempio del topic sulla chiusura domenicale dei centri commerciali, dove alla posizione liberale per cui ogni limitazione della libertà individuale (compresa quella di voler lavorare o consumare in un centro commerciale di domenica) è illegittima, fintanto che non limita direttamente la libertà degli altri, veniva opposta l'idea, che molti dei desideri (e dunque delle libertà di soddisfarli) delle persone non siano davvero genuini, ma il portato di condizionamenti sociali, di cui la maggior parte delle persone non si renderebbero conto, ma che possono essere smascherati da dei sociologi, magari orientati in una certa direzione ideologica, che potrebbero insegare a tutti quali sono i desideri naturali che meriterebbero di essere soddisfatti e quali invece frutto della manipolazione sociale/comunicativa, da rimuovere. Le conseguenti implicazioni di tali premesse sono evidenti: una volta rimossa l'idea del libero arbitrio e della responsabilità individuale e considerate le persone alla stregua di come bambini incapaci di discernere il loro "vero bene", e la loro "vera libertà", ecco la necessità ci creare una ELITE COMPETENTE di sociologi o intellettuali, che alla luce della loro cultura provvederanno a stabilire per tutti la lista dei desideri esprimenti la "vera natura" delle persone, da soddisfare (come può essere ad esempio, quello di comprare i loro libri), e la lista dei desideri fittizi, (come quello di andare al centro commerciale di domenica), che paternalisticamente, "per il nostro bene" andrebbero repressi, perché non rispecchianti la "vera natura delle persone", natura che essi presumerebbe di conoscere meglio degli individui a cui tale natura appartiene. A questo punto mi chiedo: non è paradossale e ipocrita accusare il liberalismo di voler sottrarre spazi di sovranità ai popoli in favore di elite tecnocratiche, quando poi l'accusa viene da proprio da degli antiliberali che pensano che le persone siano incapaci di conoscere la loro vera libertà e che i loro desideri debbano essere approvati da dei sociologi che stabiliscono quando essi provengono davvero dalla loro personalità, e quando invece sono veicolati dai mezzi di comunicazione? Non è forse doppiopesismo contestare la tecnocrazia quando si parla di scelte economiche che i governi farebbero in contrapposizione alle esigenze sentite dai popoli, per poi farla rientrare dalla finestra quando si pensa che la sociologia (come se questa fosse una scienza più esatta e rigorosa dell'economia...) sia capace di decifrare meglio del sentire diretto delle singole persone comuni, l'autenticità dei desideri, e dunque di ispirare una serie di impedimenti moralistici al soddisfacimento dei desideri etichettati come inautentici? Al contrario Il liberalismo, proprio in quanto pone la libertà individuale come valore supremo, è la dottrina politica in cui è necessariamente più forte il richiamo al principio di autodeterminazione e di autconsapevolezza delle proprie esigenze degli individui, e conseguentemente dei popoli, che nella concretezza del loro contenuto, altro non sono che insiemi di individui
#295
il populismo lo intendo come atteggiamento direttamente implicato e implicante con il totalitarismo. Qualunque forza politica si voglia presentare come "vera rappresentante del popolo", magari in contrapposizione alle altre forze, che invece rappresenterebbero le odiate (e soprattutto invidiate...) elites, mostra di avere una concezione del tutto falsata del "popolo", che tanto retoricamente esaltano come primario riferimento della loro politica. Di fatto, creano una confusione tra il "popolo" inteso come l'insieme dei loro sostenitori, con il "popolo" inteso come totalità dei cittadini, tutti uguali di fronte alla legge al di là delle differenze di ceto, di sesso, di opinioni religiose o politiche.. In pratica, la parte viene presa come fosse il tutto, chi non appoggia le politiche delle forze populiste finisce con l'essere visto quasi (anche quando in modo non così diretto o esplicito) come un corpo estraneo che andrebbe spazzato via, non fa parte davvero del "popolo", che invece viene fatto coincidere con la rappresentazione che ne hanno i populisti. Il populismo snatura il corretto rapporto tra comunità di popolo e istituzione statale. Invece di considerare il popolo come un complesso variegato di differenti interessi economici, e soprattutto di differenti sensibilità ideologiche, politiche, culturali, etiche ecc. e la politica come strumento di mediazione fra queste diversità, al fine di includere più persone possibili nell'azione di tutela dei diritti fondamentali, evitando entro i limiti del possibile ogni discriminazione, ne si fa una caricatura, identificandolo con un modello su misura dell'ideologia della parte politica populista, modello che inevitabilmente taglia fuori tutte quelle componenti che l'ideologia avverte come ostili, e che finiscono per diventare figlie di un dio minore, agli occhi di una politica che invece di farsi umile strumento del benessere della comunità pretende di plasmarla sulla base di un concetto di "giustizia" arbitrario che viene imposto come l'unico possibile. Lo stato non è più un arbitro imparziale che si limita al rispetto delle regole costituzionali, ma diviene parte in causa, con un proprio particolare concetto, non più giuridico, del tutto ideologica e moralista di "popolo" più ristretta della effettiva e reale comunità di cui dovrebbe essere chiamato a fare gli interessi. Esempio tipico di questa impostazione è l'atteggiamento di Salvini, che invece di calarsi con coerenza nel ruolo di ministro degli interni, rappresentante delle istituzioni e di tutti gli italiani, si comporta come fosse in campagna elettorale permanente, non riesce a distaccarsi dal ruolo di leader di una parte (che vede come il vero "popolo", la vera "gente") perdendo tempo a polemizzare continuamente con tutti coloro che a vario titolo contestano il suo operato. Mentre nella corretta visione della dialettica società-politica, il pluralismo dei partiti riguarda principalmente una differenza di metodi e di programmi che però non mette in discussione la condivisione dell'obiettivo, cioè la tutela del benessere e della libertà della società nel suo complesso, nella retorica populista le differenze partitiche non riguardano solo i metodi, ma l'obiettivo stesso: solo il populista è sinceramente interessato al benessere della "gente", tutti gli altri partiti mirano in combutta con qualche potere occulto (l'Europa, le lobby demoplutocratiche, gli ebrei, la massoneria ecc.), mirano a tutelare interessi diversi da quelli del popolo, sono degli irriducibili nemici, che andrebbero spazzati via. Ecco il nesso populismo-totalitarismo: fintanto che con i partiti avversarsi del mio si dissente sulla razionalità e l'efficacia dei programmi possiamo sempre discutere, contestarci, ma nel rispetto dovuto al pensiero che il loro obiettivo è lo stesso del mio, la forza della ragione consente la possibilità di arrivare a una certa sintesi nell'azione politica, se invece essi perseguono intenzionalmente un obiettivo diverso e contrapposto, allora non sono più interlocutori con cui confrontarsi, ma solo nemici da distruggere, eliminare, l'unico partito legittimo è quello che vuole il bene del popolo, e il "popolo" è solo chi aderisce alla mia visione.
#296
Tematiche Spirituali / Re:coscienza: cos'è ?
12 Gennaio 2019, 00:44:02 AM
per Ipazia

per essenza intendo l'idea di qualcosa che risponde alla domanda sul suo senso, sul "cosa è", sul "quid", che resta tale indipendentemente dalle circostanze empiriche in cui si fa esistente, Il piano dell'essenza è inattingibile per ogni ricerca empirica, che delimiterebbe i suoi risultati all'interno della particolarità della situazione in cui la ricerca è stata effettuata, può essere raggiunto solo quando al corso naturale della nostra esperienza della cosa si attua un setaccio critico che spogli il vissuto dagli elementi dubitabili, accidentali, per far emergere la struttura della cosa che la caratterizza in ogni possibile contesto in cui si dà, e questo coglimento della struttura universale è ciò che poi consente le definizioni delle cose, che per l'appunto colgono le cose nel complesso di ogni loro possibile determinazione storica: se non avessimo in un certo modo un intuizione dell'essenza del rosso, non potremmo nemmeno concepirne la definizione, la parola segnica "rosso", che per l'appunto vale per tutti i "rossi" possibili. Nel caso qua in questione, la coscienza, direi che l'atteggiamento empirico, inadeguato a coglierne l'essenza, sarebbe quello di chi ritiene di poterla trattare e concepirne le varie implicazioni e caratteristiche partendo dall'osservazione delle determinate forme di vita in cui riteniamo sia presente, ad esempio l'essere umano, caratteristiche effettivamente presenti nella singola forma di vita che osserviamo, ma che non è detto debba necessariamente accompagnare la coscienza, in ogni possibile circostanza in cui essa si dà, mentre l'atteggiamento davvero adeguato a coglierne l'essenza sarebbe quello rigorosamente analitico, nel quale l'intuizione della coscienza viene il possibile isolata dal complesso di elementi all'interno del quale si rende presente, per poterla pensare nel suo livello di indipendenza rispetto a tutto ciò che è altro da se stessa, allo stesso modo per il quale quando si desidera, ascoltando un'orchestra, focalizzare l'attenzione sul suono di un singolo strumento, lo "isoliamo" mentalmente dal resto dei suoni, mettendo tra parentesi (epoche fenomenologica) i suoni di tutti gli altri strumenti, far finta che non esistano: quanto più riusciamo a farlo tanto più avremmo colto l'essenza del singolo suono che ci interessa, che poi resterebbe lo stesso in ogni altro tipo di contesto in cui si manifesta e in cui poi dunque potremmo sempre riconoscerlo.

Non ho mai voluto qua parlare di "superiorità" o "inferiorità", essendo categorie valoriali, per cercare di attenermi a un piano puramente descrittivo e slegato da giudizi morali.


per Sgiombo

Quando parlo di "materialismo" lo concepisco come una posizione metafisica e filosofica (anche se certamente deve negarsi come tale per cercare di mantenersi coerente con la nozione di "scientificità" che  esalta e a cui esplicitamente dice di far riferimento), per la quale tutta la realtà è materia o quantomeno si origina da essa, mentre restando in un puro punto di vista empirico nulla autorizza a legittimare scientificamente tale assunto. Infatti il concetto di "tutto", fuoriesce dai limiti dell'esperienza sensibile, i sensi possono "dirci" (la questione è più complessa, ora semplifico molto per non dilungarmi troppo) che una cosa esiste nel tempo e nello spazio in cui entra in contatto con essi, ma non hanno alcun titolo per assolutizzare come "unica realtà possibile" la realtà a cui essi sono adeguati a rappresentare. Quindi coloro che si limitano, citandoti "a cercare di conoscere la realtà effettivamente disponibile alla nostra osservazione" (qua per osservazione, mi pare che si debba intendere osservazione empirica fondata sull'esperienza sensibile) non li definirei affatto come "materialisti" necessariamente, cioè possono anche esserlo, come non esserlo, ma resterebbe una questione rientrante nell'ambito di cui non si occupano o che non li interessa. Come è ovvio, un conto è negare oggettivamente, in assoluto la sensatezza di ciò che sta al di là di un certo ambito del sapere, un altro la scelta meramente soggettiva e personale di fermare i propri interessi di studio a quel determinato ambito. Un ricercatore naturalista che dedica i propri studi alla realtà della natura fisica senza aver mai voluto formulare una propria opinione riguardo "l'al di là"" di questa realtà, non lo considererei un materialista, ma semplicemente "neutrale" in rapporto alla dimensione della realtà su cui materialismo e spiritualismo confliggono. Se poi considera "astruse" le questioni inerenti a tale dimensione, andrebbe chiarito su che basi esprime tale sentenza. Se la motivazione è il pensiero di una assoluta inesistenza di ciò che va oltre la realtà naturale, il suo oggetto di indagine, allora vuol dire che in realtà la sua è una metafisica inconsapevole: usa la categoria, metafisica e intelligibile di "totalità" che attribuisce alla realtà sensibile oggetto delle sue ricerche, oltre il quale non ci sarebbe nulla, se invece intende "astruse" come qualcosa di troppo complicato o contorto per potersene occupare con successo, allora non si tratta di "materialismo", ma di un riconoscimento dei limiti delle sue capacità conoscitive (limiti riferibili sia a se stesso come singolo o all'umanità in generale...), che si preferisce impiegare su obiettivi ritenuti maggiormente alla portata
#297
Tematiche Spirituali / Re:coscienza: cos'è ?
10 Gennaio 2019, 23:33:31 PM
ammettere un salto qualitativo dato dalla presenza della coscienza tra le forme di vita in cui essa è presente e quelle in cui è assente, fintanto che si intende la coscienza nella sua essenzialità, coscienza in generale, senza riferirla alle specifiche forme in cui si realizza in una determinata specie vivente come l'uomo, cioè come coscienza umana, non comporta alcun pregiudiziale antropocentrismo. Questo grazie alla distinzione, a cui avevo fatto cenno nel mio messaggio di prima, tra piano empirico in cui si cerca di collocare una specie animale nelle varie categorie osservando il loro comportamento, e piano essenzialistico in cui si cerca di individuare le implicazioni logicamente necessarie per ogni singola categoria. Grazie a questa distinzione nulla impedisce aprioristicamente di poter modificare la classificazione di ogni singola specie o individuo animale, nel caso vengano scoperti nuovi elementi. Tutto sta nel non pretendere di sovrapporre in modo necessario il salto qualitativo tra concetti originari e logicamente "primitivi" o "semplici" come "vita cosciente" e" vista sensitiva", e il salto, eventuale, tra categorie indicanti realtà composte  come "essere umano" o "essere animale", senza escludere che una di quelle "semplici" possa essere compresa tra gli elementi con cui definiamo una realtà "composta" nella quale inizialmente non si riteneva potesse essere presente. Il problema della distinzione qualitativa tra vita cosciente e vita sensitiva intesse nella loro essenzialità è insomma altro da quello della distinzione eventuale, empirica tra uomo e altri animali. Questo del resto sarebbe lo stesso errore in cui ricade un certo materialismo, che confondendo l'accezione universale e esaustiva dell'idea di "coscienza" con quella empiricamente determinata come "coscienza umana" (una determinazione nella quale la coscienza è legata a vincoli di dipendenza con il corpo e la sensibilità) pretende di dedurre l'impossibilità di una vita cosciente puramente spirituale in una dimensione sovrumana e sovramondana, prendendo un aspetto accidentale del concetto di coscienza (la situazione storica in cui si dà come coscienza umana) e trattandolo come fosse un dato essenziale.
#298
Citazione di: mtt94 il 09 Gennaio 2019, 20:05:34 PM
Citazione di: Socrate78 il 09 Gennaio 2019, 17:27:16 PMIn realtà dissento molto con l'idea comune secondo cui i criminali non siano empatici e non si compenetrino in qualche modo con le loro vittime. Ad esempio il sadico è in fondo empatico, poiché percepisce molto bene che la sua vittima sta soffrendo, solo che la percezione del dolore altrui nella sua mente perversa diventa fonte di piacere. Ma se il soggetto sadico NON percepisse il dolore dell'altro, non si accorgesse della sua sofferenza, anche la sua perversione verrebbe a cessare, proprio perché mancherebbe lo stimolo essenziale che la scatena, cioè la percezione del dolore! Alcuni psicologi dicono ad esempio che il sadico inconsciamente si identifica con la sua vittima, e quindi in realtà proverebbe piacere nel far soffrire se stesso, ecco perché sadismo e masochismo vanno a volte a braccetto. I soggetti che veramente non hanno empatia non sono tanto i criminali, ma semmai il discorso dell'assenza di empatia vale per definire gli autistici, infatti una caratteristica del soggetto autistico (vedasi sindrome di Asperger) è quella di non percepire il mondo emotivo degli altri, da qui tutta la serie di fraintendimenti, difficoltà, che sono costretti ad affrontare.
Non è un'idea comune, vengono fatte perizie psicologiche e psichiatriche su questi soggetti. Sono fortemente psicopatici e sociopatici e per nulla empatici, sono le principali caratteristiche che si riscontrano.

la filosofia, in particolare la fenomenologia, ha un proprio specifico metodo per analizzare e distinguere concetti a prima vista sovrapponibili, non c'è molto da sorprendersi se metodologie differenti come quelle della psicologia o psichiatria finiscano per utilizzare categorie e terminologie differenti da quelle filosofiche, magari intendendo come "empatia" significati distinti che invece la filosofia tende più fortemente a distinguere, anche a livello linguistico
#299
Citazione di: Jacopus il 09 Gennaio 2019, 17:28:51 PMMtt94: i pareri sull'argomento sono contrastanti. Baron Cohen la pensa come te e parla di grado 0 dell'empatia condiviso fra autistici e antisociali gravi (fa ulteriori distinzioni che non riporto). A me sembra più interessante la teoria di A. Raine che distingue fra empatia e compassione. Effettivamente essere empatico significa solo mettersi nei panni degli altri ma questo potrebbe anche non essere sufficiente. Mettermi nei panni della vittima che soffre non fa altro che aumentare l'eccitazione del sadico violento. Se non riuscisse a immedesimarsi in quella condizione non riuscirebbe a trarne piacere. Solo avendo compassione per la condizione degli altri riusciamo a orientare la nostra azione in modo solidale. Ma come al solito è questione di termini. Se con empatia intendi capacità di connettersi emozionalmente il significato cambia, anche se, insisto, anche il serial killer si connette emozionalmente con la vittima. In ogni caso il serial killer non è un prodotto di fabbrica. Vi sono diverse classificazioni anche del serial killer, oltre che della personalità antisociale. Inoltre si può ovviamente essere non empatici e fare una vita tranquilla o addirittura di successo, considerando che molti dei vigenti rapporti economici e sociali sono regolati secondo principi strettamente antisociali.

Sono d'accordo e a questo proposito mi sentirei di far notare che l'intendere l'empatia come avvertimento in se stessi di un vissuto proveniente da un alter ego, da cui il nostro vivere originario resta distinto e dunque libero di poter formulare giudizi di valore negativo sull'estraneo, e dunque distinta dalla "simpatia", nella quale invece troviamo una coincidenza fra vissuto del simpatizzante e vissuti su cui simpatizzare, e in cui dunque c'è condivisione morale, per la quale non mi limito a sentire in me la gioia o la tristezza altrui ma gioisco della sua gioia e soffro del suo soffrire, è un prezioso apporto della fenomenologia di Edith Stein. Più in generale, la fenomenologia, per cui ogni specie di vissuto cosciente viene ricondotto ad un Io da cui scaturisce, è l'atteggiamento più adeguato a riconoscere la differenza tra un sentire che sento in me, ma che non sento come proveniente dal mio Io e che dunque non implica una determinata presa di posizione etica (empatia), ma dall'Io di un altro, e sentire che invece sento promanare in modo originario dal mio Io, dunque dalla mia soggettiva sensibilità etica, che viene in tutto e per tutto condivisa con quella di un altro (simpatia). Senza questo forte richiamo all'idea dell'Io come punto di discrimine fra i vissuti originariamente miei, e quelli altrui, che posso "ospitare" in me, ma che non esprimono davvero la mia soggettività, questa importante distinzione fra due specie di vissuti resterebbe inavvertita, creando un certo livello di confusione
#300
Tematiche Spirituali / Re:coscienza: cos'è ?
07 Gennaio 2019, 00:04:36 AM
intendendo come coscienza quel complesso di vissuti nei quali un Io si dirige verso dei contenuti oggettivi, riconosciuti come tali, allora non si potrebbe considerare ogni forma di vita come necessariamente dotata di coscienza, dato che la coscienza starebbe proprio a costituire uno scarto, una presa di distanza rispetto allo spontaneo scorrere della vita. Di per sé la vita, nella pura accezione biologica del concetto, può intendersi come un flusso energetico del tutto spontaneo, irriflesso, mentre la presenza della coscienza consente di un margine di distacco, tramite cui l'Io può porre la propria stessa vita come "tema", oggetto di valutazione, concetto tra i tanti, e una cosa, nella misura in cui diviene oggetto, diviene anche passivo ricevente di significati da parte del soggetto riflettente e oggettivante. Nella coscienza la vita non è più un flusso impersonale di energie che sovrasta l'Io, ma tema da valutare, e dunque suscettibile messo in discussione nel suo valore, raffrontato a dei modelli ideali in relazione a cui riconoscerne il grado di adeguatezza, in ogni momento la coscienza ci consente di valutare quanto la vita che conduciamo rifletta le nostre aspettativi, il nostro ideale personale di "vita degna di essere vissuta". Ed ecco che ad esempio una cosa come il suicidio è  concepibile solo in soggetti dotati di coscienza, tramite la coscienza l'Io si ribella a lasciarsi trascinare in un mero istinto di autoconservazione, e in alcuni casi, può decidere di interromperlo, questa possibilità presuppone lo scarto, il margine di distanza che la coscienza segna tra l'Io valutante e riflettente e la vita biologica come oggetto da tematizzare, da cui l'Io, a questo punto non solo biologico ma spirituale, si rende autonomo nei suoi criteri di valutazione. Il suicidio è in fondo la più radicale, tragica, ma anche evidente manifestazione della spiritualità. Sicuramente è vero che non possiamo avere certezze dall'esterno della vita interiore di un animale o di una pianta, questo è un problema generale che riguarda l'epistemologia di ogni forma di sapere empirico, la mancanza di adeguate garanzie di corrispondenza fra percezione soggettiva e realtà oggettiva, ma tenuto fermo il richiamo a questo margine di incertezza, mi pare di poter dire che al di fuori dell'essere umano non sembrano notarsi manifestazioni di una esistenza nella quale le finalità trascendano quelli della sopravvivenza biologica, sia quella individuale o di specie, ovvero manifestazione di "coscienza" nel senso stretto del termine. Non solo l'uomo è l'unico essere a suicidarsi, ma anche l'unico che pare impegnarsi nella creazione di cose del tutto "inutili" o gratuite dal punto di vista biologico, la formazione di teorie scientifiche/filosofiche che appaiono del tutto  slegate della soddisfazione di bisogni materiali necessari alla vita, la creazione artistica, espressioni di una bellezza del tutto inutili dal punto di vista biologico, ma esprimente in modo simbolico valori universali, al di là del nostro vivere "qui e ora". Possiamo restare affascinati dall'ingegno di un formicaio o di un alveare, ma non credo potremmo trovarci alcun aspetto che non sia riconducibili ai bisogni di preservazione della vita, mentre un quadro, una scultura, una basilica sono dal punto di vista biologico solo uno spreco, ma dal punto di vista spirituale, di una coscienza slegata dalla funzionalità vitale, esprimono i valori personali dei loro creatori

Poi, se un giorno ci capiterà di scoprire una scimmia,  un cane, un gatto, che si suicidano, che cominciano a elaborare idee filosofiche, a creare per puro e disinteressato amore del bello... potremmo sempre  farli rientrare nella categoria di "animale razionale" che oggi riserviamo solo all'uomo... Le definizioni, le classificazioni in fondo sono sempre convenzioni linguistiche di comodo, che possono sempre essere modificate, allargate, ristrette... sulla base di come l'esperienza effettiva ci pone come maggiormente opportuno. Il lavoro filosofico sulla questione penso possa limitarsi solo a valutare la coerenza logica interna dei singoli "idealtipi", delle singole categorie o schemi terminologici, utilizzando il pensiero analitico e deduttivo per stabilire le implicazioni necessarie di una certa definizione o categoria, lasciando poi al ricercatore empirico il compito di stare sul campo a osservare in quale categoria sia più opportuno collocare il singolo cane, gatto, scimmia in base ai loro comportamenti