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Messaggi - niko

#2866
Tematiche Spirituali / Scienza e religione.
11 Maggio 2021, 14:47:09 PM
Citazione di: inquieto68 il 11 Maggio 2021, 13:19:53 PM
Citazione di: iano il 10 Maggio 2021, 01:22:22 AM
La scienza si vanta con alterna fortuna di poter leggere il futuro a partire dalla considerazione del  presente, fidando che un futuro vi sia, mentre la religione auspica al minimo  un eterno presente,  fidando ancor meglio in un ritorno al passato, considerato quale sia  il presente.
Ma in verità la scienza ammette di non sapere dove andiamo , mentre la religione lo crede, perché in fondo si tratta di percorrere al contrario una strada gia' fatta.
Tanta fatica per nulla. Che peccato. Meglio sarebbe stato se non ci si fosse mai mossi.
Il primo passo per  tornare indietro è quindi fermarsi ,trasformando già così  il presente in un futuro certo, in attesa di un radioso regresso futuro.


Provo a raccolgo l'invito a rimanere sul tema del post.


La religione (non solo il cristianesimo) contempla l'idea della trascendenza, un "altrove" che  fedeli, appartenendo alla realtà immanente, si raffigurano in termini di spazio-tempo. A mio avviso questa riduzione del trascendente all'immanente è un'errore (teo)logico: la "pienezza dei tempi" della religione cristiana non è il nostro futuro, e il "principio" in cui "era il Logos" non è il nostro passato.


Ma in un ottica laica la trascendenza, il divino, sono concetti assurdi, mentre la religione, pur come costruzione umana, esiste nei fatti, per cui avrà pur assolto a qualche necessità.
E tali presunte necessità sussistono anche dopo la rivoluzione scientifica?


La scienza si occupa certamente di futuro.
Il motto dei positivisti recitava: "Sapere per prevedere, prevedere per potere" (poter agire sulla realtà)
Scopo della conoscenza scientifica è appunto quello di fare previsioni future, cosa utilissima per poter agire sulla realtà con cognizione di causa.
In un ottica laica la religione è assimilabile alla dimensione etica, che ha il compito di valutare la liceità, il valore morale, la desiderabilità delle conseguenze delle nostre azioni.
La scienza potrà dirci , a partire dalle nostre azioni presenti, quale saranno le conseguenze future. Stabilire se tale futuro sia migliore o peggiore, desiderabile o meno, utile o meno al nostro benessere interiore e umano, attiene all'etica, la cui dimensione collettiva (laddove esiste) è la  morale, e la religione.

Un saluto




Io penso che l'uomo si sia inventato la religione principalmente per rispondere alla domanda esistenziale fondamentale sulla coscienza e alla domanda esistenziale sul destino, e dunque, ancora, sulla coscienza, dei defunti.
Duplice domanda dunque, quella che secondo me soggiace alla ricerca della verità a cui inizialmente danno risposta i miti e la religione: " 1 chi sono io come essere cosciente, 2 che fine fanno i defunti, quindi, per estensione, che fine farò io".

Abbiamo, penso in generale come esseri umani, non solo i moderni e non solo gli occidentali, abbastanza facilità a concepire il fatto che lo spazio e l'estensione non siano costitutivi della coscienza e non vi abbiano a che fare (Cartesio insegna); andiamo invece in crisi se proviamo a pensare la rottura del nesso tra coscienza e tempo perché il tempo rientra nella coscienza sia come presupposto che come "costitutivo".


Quindi credo facilmente che l'aldilà delle religioni non sia, appena si impone un certo livello di astrazione e complessità, un altrove spaziale, ma, non altrettanto facilmente, credo che quello della religione non sia o possa non essere un altrove temporale, perché, in un luogo intemporale o eterno, l'uomo non troverebbe risposte su quello che originariamente lo ha interessato e per cui originariamente si è inventato il mito e la religione, cioè la coscienza come processo e la coscienza dei defunti come processo eventualmente eternamente conservantesi, ma pur sempre processo. L'intemporale può essere bellissimo, essere il mondo platonico delle idee, della bellezza eccetera, ma non si può immaginare di vivere nell'intemporale, quindi l'intemporale non può essere originariamente una risposta sulla vita, ne tanto meno sulla sopravvivenza.

Quindi facile a dirsi che quello della religione non è un altrove spaziale o materiale, molto più difficile a dirsi che non sia un altrove temporale, molto più logicamente è un altrove temporale che non è anche nello spazio, quindi la risposta naturale al sentirsi vivi nel senso del sentirsi coscienti, assolutamente differenti dall'ambiente, avere un qualcosa di speciale assolutamente irriducibile allo spazio così come il suo apparire come durata non contiene attimi uguali, e pensare, o quanto meno sperare, di poter sopravvivere in tale condizione anche dopo la disgregazione del corpo.

Insomma io non credo che il tempo sia l'essere, l'essere lo identifico più che altro con lo spazio; il tempo, che riempie lo spazio ed è il fondo non visto dell'essere, è il nulla, e la domanda sul nulla non può essere elusa perché ivi, nel nulla rispetto ad un essere di spazio, sembra svolgersi la coscienza fin anche da vivi, e tanto più ivi, nel nulla assoluto, sembra destinata ad andare dopo la morte se non si ammette una qualche forma inesperibile di sopravvivenza della coscienza come processo, anche dopo che non è più manifesto il corpo come elemento materiale dello spazio.
#2867
Tematiche Spirituali / Scienza e religione.
10 Maggio 2021, 11:38:23 AM
Citazione di: iano il 10 Maggio 2021, 01:22:22 AM
La scienza si vanta con alterna fortuna di poter leggere il futuro a partire dalla considerazione del  presente, fidando che un futuro vi sia, mentre la religione auspica al minimo  un eterno presente,  fidando ancor meglio in un ritorno al passato, considerato quale sia  il presente.
Ma in verità la scienza ammette di non sapere dove andiamo , mentre la religione lo crede, perché in fondo si tratta di percorrere al contrario una strada gia' fatta.
Tanta fatica per nulla. Che peccato. Meglio sarebbe stato se non ci si fosse mai mossi.
Il primo passo per  tornare indietro è quindi fermarsi ,trasformando già così  il presente in un futuro certo, in attesa di un radioso regresso futuro.




Purtroppo è vero che Dio/o gli dei  delle principali religioni vivono in un eterno presente è sono entità eterne, per Epicuro gli dei vivevano negli intermundi, spazi tra un mondo e l'altro, già Boezio riguardo al dio cristiano chiarisce che il suo attributo deve essere l'eternità (guardare il mondo dal centro del tempo come si potrebbe guardare un teatro, che a quei tempi era circolare, dal suo centro) e non l'onnitemporalità.


Però nell'ebraismo e ancora di più nel cristianesimo, la rivelazione, cioè il modo in cui questo Dio eterno si rivela ai sensi, alle conoscenze e alle tradizioni agli uomini che eterni non sono, prevede l'idea che il futuro sia migliore del presente, ed è per questo che le religioni abramitiche sono incompatibili con il pensiero filosofico Greco classico, che prevede l'idea che il futuro di per sé sia uguale ed equivalente al presente, quantomeno finché non interviene la virtù umana a tentare di cambiarlo solo temporaneamente in meglio, o sia addirittura peggiore del presente, configurandosi nel presente una decadenza da una precedente "età dell'oro".


Insomma nella logica della rivelazione il concetto di intermundia come spazio per Dio è invertito, la pienezza dell'esistenza di Dio, la rivelazione del suo eterno presente, si ha, se immaginiamo una linea semiretta o meglio ancora un segmento del tempo, nel punto di massimo passato (prima della creazione dell'oggetto di creazione mondo/uomo, insomma nella coincidenza pre-temporale di Dio col nulla) e nel punto di massimo futuro, quando tutte le cose si saranno compiute e il piano di Dio per l'uomo si sarà realizzato: ad essere finita nell'intermundia è tutta la parte di mezzo e consistente del segmento, la storia come svolgimento intermedio del cammino e luogo possibile dell'esperienza umana è svalutata e ridotta a puro mezzo, serve ad andare dalla creazione all'apocalisse ma non ha valore di per sé, così come l'uomo in quanto creatura è un puro nulla senza Dio; rimane solo l'ineliminabilità dell'evidenza della sofferenza, tale per cui, appunto, in questa concezione, il passato è il problema a cui il futuro pone rimedio, si soffre per avere eventualmente la fortuna di essere consolati e di trovare incommensurabilmente più felicità fuori dal mondo di quanta infelicità si sia trovata nel mondo, ma appunto il tempo e il mondo non sono l'inizio e la fine di ogni cosa, sono creati, e quindi rimandano inevitabilmente ad "altro".

Questa concezione del tempo con il futuro migliore del presente e quindi vera rottura tra età classica ed età cristiana dell'occidente, secondo il noto filosofo Umberto Galimberti ben lungi dall'esaurirsi nella modernità, ha poi ispirato il marxismo, la scienza galileiana e psicoanalisi, che sono tutte concezioni del mondo, per quanto assolutamente e apparentemente anticristiane per certi versi, in cui sempre il futuro è migliore del presente, in cui sempre il presente è il problema a cui il futuro è chiamato a trovare la soluzione (malattia e cura, progresso, rivoluzione eccetera), e io sono abbastanza d'accordo con quest'idea.

Il fatto è che finché non immaginiamo il tempo come eterno, e quindi increato, e infinito, antecedente e fuori della portata anche di eventuali esseri divini stessi, noi stessi non riusciamo a immaginare la nostra esistenza come in grado di "attraversare" l'eternità e l'infinita e giungere finalmente nel presente; se c'è tempo infinito dietro di noi eppure noi ci siamo, un lasso di tempo infinito passa per farci essere, e se questo sembra un paradosso, il paradosso va risolto immaginando una struttura e un contenuto del tempo tale da risolverlo...



#2868
Citazione di: viator il 06 Maggio 2021, 17:16:00 PM
Salve niko. Disamina interessante e profonda, come abbastanza spesso ti succede di produrre. Solamente mi pare che - al suo interno - la interpretazione dei Testi Sacri prorio non ci sia, bensì sia chiara la tua volontà di cercare di interpretare la presunta volontà di un Dio..........guarda caso (e non potrebbe essere diversamente !) applicando concetti, termini, significati, PSICOLOGIE !) unicamente umani. Saluti.




Viator, io cerco di scrivere le cose il meno fuori posto possibile, e se scrivo una cosa come interpretazione testuale, è perché penso che sia tale, che di decifrare la volontà di un Dio in cui non credo non me ne importa niente, tanto meno di fare della psicologia spicciola...


Dunque, nei testi sacri si dice: "se mangerai il frutto dovrai certamente morire", poi, dopo che l'uomo ne ha mangiato, le maledizioni che vengono scagliate da Dio sull'uomo sono tutte implicanti la sofferenza e i rapporti di potere (lavorerai col sudore, partorirai nel dolore, egli vorrà dominare su dite, porrò un'inimicizia eccetera) e non implicanti la morte, che è indicata solo per metafora e solo per quanto riguarda l'uomo ("perché polvere sei e polvere ritornerai", che allude più alla disgregazione del corpo che non all'oblio dell'anima; e alla donna e al serpente neanche viene detto in forma allusiva, che dovranno morire, cioè tornare polvere).


Quindi prima Dio minaccia con la morte, poi quando la trasgressione si verifica, impone la sofferenza, che, notare bene, inizialmente non aveva minacciato, quindi o Dio si è rimangiato la sua stessa volontà (e Dio non può rimangiarsi la sua stessa volontà!), o il problema non è la morte ma la sofferenza, che dipende dalla coscienza di morte.


Acquisendo la scienza del bene e del male gli uomini sono diventati limitati, non più potenti di prima, ma meno potenti di prima, stante che lo scopo della potenza sia procurare felicità: il male è il nulla che delimita e "contiene" l'essere del bene, bene e male sono dunque due  sovrapposti, non due alternative, non due cose separate, ma la stessa cosa unita ai suoi limiti; e prendere coscienza di questo causa sofferenza.


La scienza del bene e del male è la scienza della contraddizione in atto, non della chiara veduta che come spada separa i due, per questo "delude" l'uomo che l'ha appena acquisita, insomma la libertà è libertà di interpretare la morte come sofferenza, libertà non ponderare solo la morte di sé, inesperibile, ma anche la morte dell'altro, esperibile, soprattutto come morte del limite, dilatazione del sé verso il non senso e il cattivo infinito.



Notare anche che polvere sei vuol dire che l'anticipazione della morte era implicita anche prima del peccato dell'uomo, al massimo polvere ritornerai, può essere la conseguenza di un peccato, un qualcosa che inizia da un certo punto, ma polvere sei, vuol dire che la morte è costitutiva della vita e della creazione anche da prima del peccato, quantomeno come materia del corpo: il soffio che anima la polvere é di Dio e resta di Dio, e il ricettacolo del soffio è polvere, materia inanimata, quindi in questo senso la vita non è "propria" dell'uomo fin dall'inizio. Il problema è che la morte "entra nel mondo", col peccato, diviene immanente, ma la creazione intelligibile della morte tramite il logos/sapienza è trascendente al tempo come tutti gli altri enti creati, e come tutti gli enti creati la morte è nella mente di Dio a prescindere dal tempo e dalla creazione. Ma il mondo è la coscienza dell'uomo, quindi la  metafora della "morte che entra nel mondo" è la "morte che entra nella coscienza dell'uomo".


Al di là del bene e del male, il "mondo" in cui il serpente fa entrare la morte, è la coscienza.
La coscienza, e la memoria, di morte è anticipazione di essa, e quindi sofferenza.
#2869

Propongo una mia risposta e interpretazione anche se sono ateo, perché le interpretazioni di tutti i testi, anche quelli sacri, mi interessano:

Se Dio avesse lasciato peccare il mondo/uomo lasciandolo perfetto, la sua volontà sarebbe stata incoerente, perché egli annuncia chiaramente all'uomo che ci sarebbe stata una punizione/conseguenza negativa per il peccato del cogliere il frutto proibito, appunto la morte. Se poi questa punizione/conseguenza negativa non ci fosse stata a peccato compiuto, ciò avrebbe voluto dire che, davanti alla realtà del compimento effettivo del peccato, Dio si sarebbe rimangiato la sua stessa volontà per come precedentemente espressa, e la volontà divina è fissa, eterna e immutabile; quindi tale sviluppo "felice" delle cose era impossibile, non tanto per il modo di essere dell'uomo, ma piuttosto per il modo di essere di Dio.


In realtà da un punto di vista più spirituale e profondo secondo me il punto centrale è che, a ben vedere, la morte di per sé non può essere una punizione, e quindi, naturalmente, la volontà divina risulta intrasgredibile; sciolta la metafora della minaccia della punizione, secondo me si afferma semplicemente che la vita dell'uomo e della creazione tutta esiste entro i limiti posti da Dio, e oltre quei limiti c'è la morte.


Insomma il comando di Dio superficialmente appare binario, (o mi obbedisci, o non mi obbedisci) ma a ben guardare è unitario, è uno come il Dio che lo esprime, dato che l'opzione del rispetto della volontà divina da parte dell'uomo porta di conseguenza alla continuazione dell'esperienza e dell'autocoscienza umana, al non-essere-ancora-morto, l'opzione della trasgressione alla cessazione dell'esperienza e dell'autocoscienza, all'essere-morto, quindi l'uomo, volente o nolente, stante che sperimenti qualcosa sperimenterà sempre il rispetto, il non rispetto e oltre il suo campo dell'esperibile e dello scibile, quindi non esiste per lui, l'opzione a lui posta con la proibizione, del frutto o di qualsiasi altra cosa Dio voglia proibire, non è reale.

Continuando quindi questa interpretazione, l'uomo non può peccare prendendo il frutto, quindi il problema non è che l'uomo prenda il frutto, è che l'uomo usa la sua presunta libertà (presunto libero arbitrio) per interpretare la prossimità e la possibilità della morte, quindi l'ulterioriorità di Dio alla realtà della creazione e alla sua stessa realtà di uomo, l'intrasgredibilità effettuale della volontà divina, il non avere opzioni davanti a Dio, il fatto che Dio non si esaurisca nel creato e quindi non sia solo il "suo" Dio, ma anche il dio di "Altri" come sofferenza; è l'uomo che "sceglie" di soffrire dalle prossimità della morte, che di per sé è una conseguenza neutra dell'ordine delle cose. O meglio è l'uomo che è portato, per il suo intelletto simile ma non uguale a quello di Dio (a sua immagine, quindi a immagine dell'incorporeo) a soffrire per questo.
#2870
Citazione di: viator il 04 Maggio 2021, 19:13:22 PM
Salve niko. Citandoti : "L'esercito usa ha in servizio sacerdoti e cappellani militari rappresentativi di cinque religioni diverse, tutte le principali branche del cristianesimo e anche induismo, ebraismo e islam e comunque in esso, (e in linea purissimamente teorica neanche in Italia), nessuno soldato può essere obbligato ad assistere a una cerimonia religiosa come parte obbligatoria della vita militare, insomma negli eserciti il problema del pluralismo è sentito e ci sono stati dei grandi cambiamenti negli ultimi tempi per renderlo effettivo, quindi Viator, non capisco proprio dove vuoi arrivare col tuo discorso..."Circa il dove io voglia arrivare..........non sto a ripere quanto qualche minuto fa ho replicato alla cara Ipazia.

Del tutto gustoso il tuo inciso circa il rapporto tra culto e Forse Armate : ........NESSUN SOLDATO PUO'ESSERE OBBLIGATO AD ASSISTERE A UNA CERIMONIA RELIGIOSA....................OK, OK, OK, OK................ma ti sei dimenticato di aggiungere : NESSUN SACERDOTE E' MAI STATO SOGGETTO AGLI OBBLIGHI DI LEVA E NESSUN SACERDOTE MILITARE PUO' VENIR OBBLIGATO ALLA SUBORDINAZIONE NEI CONFRONTI DELLA AUTORITA' MILITARE SIA IN TEMPO DI PACE CHE IN TEMPO DI GUERRA.

Ma ti rendi conto che - ad esempio nel caso di sacerdoti cattolici - gli Eserciti arruolano, mantengono, pagano, esentano dall'obbedienza.............delle persone che hanno prestato giuramento di fedeltà ed obbedienza (spirituale e coscenziale, per carità !) al Sovrano assoluto di una Potenza Straniera ?.


si, è come dici, i preti benedicono le armi e le guerre e restano pure non subordinati formalmente all'esercito...
#2871
Citazione di: viator il 04 Maggio 2021, 12:53:12 PM
Salve Ipazia e niko. Vedo che siete entrambi lesti nell'approvare come atto eticamente e costituzionalmente dovuto qualsiasi provvedimento che tuteli od allarghi i diritti di genere.



Cosa mi dite della parità di doveri (esempio : difensivi o comunque bellici) ai quali ho accennato nell'ultima parte del mio intervento di esordio ? Approvate oppure eccepite ?. Saluti.


Il servizio militare obbligatorio non esiste più da anni e certo non tornerà, quindi sulle ipotesi fantasiose al limite del sofisma non so proprio che risponderti, se tu mi citassi un "dovere di genere" attualmente sensato e sentito come tale dalla popolazione, mi sarebbe più facile risponderti.


Comunque ogni esercito dei paesi occidentali (quindi professionale e volontario) ha ormai la possibilità di arruolare sia uomini che donne, che e in alcuni paesi, come gli usa che hanno il più grande e importante esercito dell'occidente, anche transessuali.


L'esercito usa ha in servizio sacerdoti e cappellani militari rappresentativi di cinque religioni diverse, tutte le principali branche del cristianesimo e anche induismo, ebraismo e islam e comunque in esso, (e in linea purissimamente teorica neanche in Italia), nessuno soldato può essere obbligato ad assistere a una cerimonia religiosa come parte obbligatoria della vita militare, insomma negli eserciti il problema del pluralismo è sentito e ci sono stati dei grandi cambiamenti negli ultimi tempi per renderlo effettivo, quindi Viator, non capisco proprio dove vuoi arrivare col tuo discorso...
#2872
Citazione di: Ipazia il 04 Maggio 2021, 10:22:28 AM
La modifica al C.P. previsto dalla legge Zan nella sua sostanza è una norma di buonsenso, che va a sommarsi ad altre aggravanti, nello spirito della parità di diritti prevista dalla Costituzione.

Diventa un'arma di distrazione di massa, con imbecille miracolato e followerato al seguito, quando la si trasformi in una bolla ideologica, come sta avvenendo.

Diventa una mannaia autoritaria quando i rapporti sociali vengono intossicati da minoranze risentite che mettono il bavaglio alla libertà di pensiero e di vita di chi non accetta la loro omologazione.

Il conflitto giuridico tra stato e genitori, che in nordamerica si sta generando su bambini che vogliono cambiare sesso, è emblematico di certi aspetti pericolosamente inclinati di questo piano.


a parte che

"Diventa una mannaia autoritaria quando i rapporti sociali vengono intossicati da minoranze risentite che mettono il bavaglio alla libertà di pensiero e di vita di chi non accetta la loro omologazione."


è oggettivamente una frase difficilmente comprensibile (io non l'ho capita),

appunto la legge è di buon senso, ed esplicita valori di rispetto e di parità già iscritti nella Costituzione, e la battaglia (tu dici bolla, ma vabbè) ideologica, c'è proprio perché su tale "semplice" legge di buon senso non sono d'accordo tutti.

Ora, quelli che non sono d'accordo, guarda caso sono quelli che hanno come compagni di partito, o comunque di merende, i signori parola per parola sputtanati dal palco da Fedez; quindi per una volta la questione non è quanto sia miliardario e stronzo Fedez, ma è che qualcuno abbia scoperchiato il vaso di Pandora di quanto sia impresentabile certa destra italiana, leghisti, sentinelle in piedi, Pillon eccetera.
#2873
Io temo principalmente il pensiero di cose non fatte, perché anche se ci fosse vita oltre la morte, quanto facciamo nella vita terrena si iscrive nell'eternità, e l'infinità delle cose non fatte è molto più grande del piccolo novero di quelle fatte.


Se la morte è destino universale, tutte le strade portano alla non-sofferenza, ma pochissime strade portano alla felicità intesa come entità positiva correlativa della sofferenza.


Quindi la morte per me è un invito a riflettere sull'ineffabile differenza tra il non soffrire e l'essere felici, insomma sciogliere il dilemma del senso e capire se la sofferenza, che è la realtà di base da cui partiamo, ha un contrario nell'ordine della natura, come stanno tra di loro l'acqua e il fuoco, la terra e l'aria, o solo un negativo logico-esistenziale come la luce e il buio, il bene come essere e il male come mancanza d'essere, perché il negativo, che è la morte, è per tutti, il contrario, che è la felicità, se è, è per pochi.


La via stretta insomma, che, al contrario di un cammino filosofico classico, si svincola del senso come senso della vita e arriva al senso come sensazione.


Io penso che il tempo non abbia ne inizio ne fine, ogni cosa che viene immersa nel fiume infinito del tempo ne è mediana e spartiacque, è il presente che crea il passato e il futuro, e li crea come infiniti e insieme trapassati, inconcepibilmente e per assurdo già superati nella verità stessa dell'attimo; se la perennità del passato non mi ha impedito di esistere, se ho attraversato l'infinito per esistere, in qualche modo, ugualmente, la perennità del futuro non mi impedirà di esistere, il miei attimi sono struttura del tempo; la mia esperienza, iscritta nella sensazione, vale più della mia conoscenza, iscritta in quello che è culturale e acquisito,  in quello che soggettivamente, a torto o a ragione, ritengo essere il senso della mia vita; perché io possa essere nato, infinito tempo è passato, perché io possa tornare infinito tempo passerà, e questo vale per ogni essente; il cosmo non ha stadi definitivi in cui qualcosa possa morire per sempre, non li ha all'inizio, non li ha alla fine, non li ha in nessun punto mediano, l'impermanenza stessa è impermanente, è il nulla della morte che nega la morte...


penso anche che dovrei essere coscienza del tutto coscienza per morire nell'oblio, ma io non mi esaurisco già qui in vita nel fatto stesso della mia coscienza, ho corpo, ho inconscio, ho istinto, ho volontà, quindi anche in morte non penso che mi esaurirò nel fatto stesso del mio oblio.


Rimane solo l'angoscia per le cose non fatte, e il rimpianto per quelle fatte non al meglio.


Non bisogna avere paura di terminare, bisogna avere paura di riempirsi di contenuti di vita e di coscienza indegni, perché la vita e la coscienza sono tutto quello che abbiamo, e probabilmente che avremo per sempre. Il valore di quello che in vita ci succede e ci circonda è infinito, ma è difficile assaporarlo e goderne.



#2874
Viator, Che la sinistra attualmente al governo rappresenti le categorie da te citate (marginali, atei, disoccupati eccetera) è già un'affermazione talmente ridicola che potevo anche fermarmi lì a leggere, che poi, andando a ben vedere quello che tu chiami "la sinistra", cioè il pd, da terzo partito che erano, come risultati numerici oggettivi delle elezioni intendo, sono arrivati al potere grazie al voltafaccia epico dei cinque stelle che contro ogni promessa elettorale (mai col pd, piuttosto da soli o con la destra eccetera) si sono alleati con loro, il che è tutto dire...


Questa accozzaglia ha poi gestito il paese in tempi di pandemia, con risultati di cui non voglio nemmeno parlare, riscuotendo inizialmente perfino un discreto consenso, canti dai balconi eccetera, diciamo che sono le circostanze storiche e naturali a volte imprevedibili a stabilire quanti danni al paese e alla civiltà in generale un governo di inetti corrotti possa fare, a questi qui gialloverdi è toccata la massima potenzialità di danno possibile dalla seconda guerra mondiale in poi, a loro discolpa si può solo dire che non se la sono andata a cercare, gli è proprio toccata, e vabbè.




La legge zan, semplicemente andrebbe a mettere in risalto l'impresentabilità politica e umana di certa feccia come quella testualmente citata da Fedez nel suo intervento dal palco, quindi i partiti che hanno tale feccia nell'organico non ci stanno e la ostacolano, anche qui linearissimo e non c'è molto da speculare o capire.
#2875
Citazione di: Phil il 25 Aprile 2021, 22:59:01 PM
Provo a sbrogliare due questioni filologiche:
Citazione di: niko il 25 Aprile 2021, 16:51:18 PM
Io una volta ho letto una teoria molto interessante e convincente sulla causa dell'intelligenza umana. La riassumo brevemente, no ricordo la fonte, ma è qualcuno di illustre, non una roba presa così da internet.
[...]
Quindi la nostra grande intelligenza connessa a linguaggio e tecnologia, deriverebbe dal poter applicare, nei primi momenti di vita, al mondo esterno una percezione e una elaborazione dei dati di coscienza di tipo sostanzialmente fetale ed embrionale, rivolta però ad un ambiente extrauterino, e quindi estremamente più variabile, ricco di stimoli e pericoloso di come sarebbe quello uterino, insomma con l'uomo abbiamo un embrione "mancato", che fa esperienze da embrione, ossia altamente plasmanti le sinapsi e gli altri aspetti micro-fisici dell'organismo, in un ambiente niente affatto tipico di un embrione o di un feto perché tale ambiente è già, in relativo "anticipo", l'ambiente terrestre esterno; insomma la grande intelligenza umana è una conseguenza dell'incontro "felice" tra la plasmabilità di un essere ancora in formazione e la ricchezza infinita dell'ambiente terrestre e culturale relativo ad altri umani amichevoli che un tale essere in formazione può trovare.
Alludi alla «prematurità fisiologica» (intesa come "gestazione extrauterina passata nell'incubatrice della società") di Adolf Portmann?

Citazione di: iano il 25 Aprile 2021, 21:36:48 PM
Vorrei darvi come riferimento un altro libro, ma questo davvero non lo ricordo.
L'autrice è una scienziata, che senza  volere è diventata ta oggetto di un suo  esperimento.
Essa si riteneva una persona priva di difetti sensoriali.
Paradossalmente  infatti, ad esempio, credeva di vedere il mondo in tre dimensioni, quando scopri occasionalmente di vederlo in due dimensioni.
Ma neanche tanto occasionalmente perché il suo difetto , prima di apparire tale, rientrava nel campo dei suoi studi.
Il libro è forse «Vedere e rivedere» di Susan Barry?




Sì esatto, hai ricordato l'autore che spiega l'intelligenza umana in questo modo, con l'idea di un essere prematuro che continua a svilupparsi in un ambiente terrestre e sociale, laddove il suo sviluppo "ideale" sarebbe uterino, ed è ovvio che ad uno sviluppo uterino corrisponde un quanto di istinto determinato, legato alle modalità corporee ormai definite a seguito dello sviluppo, ad uno sviluppo extrauterino invece corrisponde un quanto di istinto "libero", indeterminato, non legato alle modificazioni corporee, che potrebbe spiegare l'intelligenza.


Quindi è sempre un grado di istinto "libero", slegato dalla sua funzione originaria che genera l'intelligenza nell'uomo, che sia istinto libero grazie alla tecnologia, che soddisfa i bisogni basilari per cui prima erano indispensabili la sensorialità acuta e l'istinto, o che sia istinto libero in conseguenza dell'essere prematuri.


Ma in realtà in molte illustri teorie in cui c'è un sovrano a-morale e molto più potente dei suoi sudditi, un padre padrone interiorizzato o esteriore, penso a Freud, Hobbes, in parte anche Hegel e Nietzche, propongono una situazione in cui solo il sovrano si comporta per istinto,  mentre tutti gli altri, proprio in quanto sudditi,  sono legati a un destino intelligente e tecnologico perché viceversa l'essere, o il tentare di essere, altrettanto istintuali del sovrano corrisponderebbe alla sfida diretta al sovrano e dunque alla morte o destino di morte, è dunque il terrore per il dominio e per la realtà del dominio, che nega o introietta un quanto di istinto tale in ogni suddito da cui può poi sorgere l'intelligenza o la tecnologia; l'ultimo grado della gerarchia umana è sempre il corpo, e anche i servi, quelli che non possiedono nulla in termini di potere e di prestigio, possono, una volta acquisito lo stile di vita disciplinare e ascetico della loro stessa società, possedere e dominare il loro corpo.


Se il sovrano è e resta istintivo, unico radicalmente diverso, e quindi unico istintivo, tra un gregge che egli stesso plasma, nel suddito il terrore dell'istintivo in generale è il terrore per la figura del sovrano in particolare, che li porta ad essere legalitari e tecnologici, quindi in senso lato intelligenti, mentre la mente del sovrano è e resta inattingibile, si manifesta solo tramite ordini che in quanto "ordinati" la società stessa, pur potendo essere istintivi, conseguenza di istinto, agli occhi del sovrano, non lo sono mai agli occhi dei servi e dei sudditi, che devono reprimere il loro stesso istinto per accoglierli e obbedire ad essi.


In linea generale, potrei dire che fin dai tempi della Genesi come racconto biblico, l'imposizione di un comando è una repressione dell'istinto che si attua e viene vissuta come tale nel comandato, perché l'istinto è determinazione univoca, hai istinto di far una cosa x, e la fai, hai istinto di mangiare, mangi, di dormire, dormi, mentre ogni ordine o domanda proveniente dall'altro è, anche nella sua forma minima, un aut aut, o fai x o fai y, o mi obbedisci, o non mi obbedisci, o mangi il frutto proibito, o non lo mangi, quindi l'istinto si distoglie dalla sua forma "normale", ordinaria, di portare a un risultato univoco, secondo la forma elementare del bisogno, e si libera nella nuova condizione del dover portar a un risultato molteplice, almeno duale, a seguito della conoscenza del comando e dell'accesso a una dimensione di desiderio, e quindi cessa di essere istinto proprio cessando di avere destinazione univoca, e diventa spazio vuoto nell'interiorità, in cui può, almeno potenzialmente nascere l'intelligenza o comunque l'altro dall'stinto, il suo almeno parziale trascendimento.


#2876
Io una volta ho letto una teoria molto interessante e convincente sulla causa dell'intelligenza umana. La riassumo brevemente, no ricordo la fonte, ma è qualcuno di illustre, non una roba presa così da internet.


La specie umana, confrontata con quella di molti altri grandi mammiferi (cavallo, gorilla, elefante eccetera) ha una gestazione più breve, di prole indifesa che non può sopravvivere autonomamente per un lungo tempo e dipende dalle cure genitoriali e del groppo etnico di riferimento per poter sopravvivere, la prole umana viene gettata nel mondo oggettivamente "non ancora formata" se con "essere formati" si intende camminare autonomamente, comprendere e usare il linguaggio della propria specie e imparare a procurarsi il cibo ed essere autonomi in un tempo relativamente breve, come fanno tutti gli altri animali, il cui lo svezzamento dei cuccioli tramite il gioco e le simulazioni di caccia dura molto di meno di quello dei bambini umani o è del tutto inesistente.


Quindi la nostra grande intelligenza connessa a linguaggio e tecnologia, deriverebbe dal poter applicare, nei primi momenti di vita, al mondo esterno una percezione e una elaborazione dei dati di coscienza di tipo sostanzialmente fetale ed embrionale, rivolta però ad un ambiente extrauterino, e quindi estremamente più variabile, ricco di stimoli e pericoloso di come sarebbe quello uterino, insomma con l'uomo abbiamo un embrione "mancato", che fa esperienze da embrione, ossia altamente plasmanti le sinapsi e gli altri aspetti micro-fisici dell'organismo, in un ambiente niente affatto tipico di un embrione o di un feto perché tale ambiente è già, in relativo "anticipo", l'ambiente terrestre esterno; insomma la grande intelligenza umana è una conseguenza dell'incontro "felice" tra la plasmabilità di un essere ancora in formazione e la ricchezza infinita dell'ambiente terrestre e culturale relativo ad altri umani amichevoli che un tale essere in formazione può trovare.


Tale teoria mette insieme l'intelligenza logica con quella emotiva e la cosiddetta empatia, perché essere precoci e poter applicare un'intelligenza plasmabile al mondo esterno, è adattivo solo se la famiglia o il branco si prendono cura del piccolo, dato che la precocità, pur essendo prerequisito di intelligenza si paga con l'alto costo essere indifesi e restarvi per anni, quindi perché il rapporto costo beneficio resti valido, il branco umano deve continuare ad occuparsi con abnegazione di cuccioli che si svezzano in un tempo di anni, lunghissimo rispetto a quello di altri mammiferi, quindi a riflettere un po' su questo si vede benissimo come intelligenza "fredda", logica, quella che a volte può portare a scoprire ed applicare armi e mezzi di sfruttamento micidiali, ed intelligenza empatica volta ad amare l'altro o quanto meno a solidarizzare, siano due aspetti del medesimo processo: l'uomo è intelligente perché precoce, ma i precoci in generale in natura, sopravvivono solo in un contesto dove i loro simili sono in grado di amare e solidarizzare, altrimenti essere precoci per quanto chiave dell'intelligenza, resterebbe sempre comunque svantaggio e la natura continuerebbe a selezionare i più autonomi e i più rapidi nello svezzamento: la strana inversione di tendenza per cui ad essere selezionati sono viceversa i più precoci, ci può essere solo quando le cure parentali e l'amore delle seconde generazioni verso le prime si sono affermati come obbligo morale stabile e universale in tutta la specie.


Quindi non è solo l'intelligenza che ci porta a sopperire a non avere armi naturali, grande resistenza eccetera, e quindi costruiamo armi, riparo, artifici vari e conquistiamo il vertice della catena alimentare, l'intelligenza selezione gli intelligenti tramite le cure parentali, è come dire che un ipotetico  feto umano di dieci mesi, e non di nove, terminerebbe la sua conformazione fisica, e quindi anche psichica, in un modo rigidamente deterministico, viceversa il nostro reale feto di nove, si struttura in un modo almeno in parte manchevole di qualche tratto di sviluppo necessario e dunque in un modo indeterminato rispetto alla maggior determinazione che potrebbe avere essendo gestato più a lungo, ad esempio se fossimo cavalli, o elefanti, e questa indeterminazione è la chiave della straordinaria intelligenza umana, poiché quei tratti che non si sviluppano come determinati, si sviluppano come correlati alle mutevoli condizioni ambientali e rispondenti ad esse nella loro varietà e complessità.


Intelligenza è non essere determinati dall'istinto, e in noi l'istinto si sviluppa meno per il trauma di una separazione connessa alla nascita anticipata, e questo vuoto di istinto, questo quanto indeterminato di istinto che viene meno, lo ricolmiamo con la nostra intelligenza, che altro non è che indeterminazione rispetto all'istinto, gestazione in compiuta in senso lato.

#2877
Tematiche Filosofiche / I limiti della conoscenza.
21 Aprile 2021, 13:32:35 PM
Come detto in un'altra discussione di recente, lo riprendo perché secondo me c'entra molto con i limiti della conoscenza:

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Jalal Ad-Din Rumi, mistico sufi, proclamava:"

La Verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio, e andato in frantumi.Ognuno ne raccoglie un frammento e sostiene che li è racchiusa tutta la Verità.

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Questi per me sono i limiti della conoscenza, la conoscenza non semplicemente "ha" dei limiti, ma "si compone" intrinsecamente dei suoi stessi limiti, quindi dei limiti tra conosciuto e sconosciuto, tra se ed altro, per quanto grande o ingrandibile essa sia, quindi tali limiti non se ne andranno, non si supereranno mai, finché la conoscenza sarà conoscenza.


Lo scetticismo è iscritto nella mancanza desiderante che la filo-sofia come amore del spere indica, quindi se come ha detto qualcuno dietro il desiderio di conoscenza c'è l'ossessione del controllo, vale la pena di essere pessimisti fino in fondo e aggiungere che tale controllo, cioè tale conoscenza soddisfacente, non si realizzerà mai definitivamente, non possiamo controllare tutto come non possiamo sapere tutto.


L'unica ad essere un diamante in sé conchiuso, a non avere limiti intercorrenti tra sé ed altro ma solo tra sé e nulla, ad essere perciò un'entità in-finita, è, diversamente dalla conoscenza, quella che potrei chiamare l'esperienza (non solo quella sensibile, esperienza in senso lato) o l'appercezione immediata, in quanto essa è un nulla di conoscenza, non è di per sé in nessun senso conoscenza, anche se con la conoscenza entra in relazione.


E per tornare alla metafora dello specchio, non tutti i frammenti di esso vengono raccolti, alcuni vengono raccolti dagli uomini, altri giacciono sulla sabbia per sempre, o comunque a tempo indefinito; fuor di metafora, il prospettivismo non esaurisce la realtà per questo la realtà su cui si aprono le varie prospettive umane è essa stessa in divenire.




#2878
Il "paradosso" di Monty Hall non è un paradosso, ma solo una situazione statistica un po' controintuitiva da comprendere: se sai che dei concorrenti precedenti hanno scelto a caso tra le tue alternative inizialmente "scartate", da te non scelte, e se sai che quegli altri concorrenti hanno perso, è molto più probabile che l'oggetto di scelta finale che ti viene proposto sia vincente rispetto a quanto lo è quello iniziale, quindi devi sempre cambiare.
Gli ingenui possono pensare che se cambiano non "scelgono", accettano "supinamente" l'alternativa rimasta o quella che gli propone il presentatore come alternativa "imposta", mentre all'inizio hanno "scelto" e quindi la loro scelta "intenzionale" iniziale, se confermata, gli conferirebbe chissà quale magica o mistica probabilità in più di vincere, ma la probabilità di vincere, a ben vedere ovviamente, non dipende dall'aver scelto inizialmente tra possibilità equiprobabili, ma dall'accaparrarsi sempre quella che corrisponde a maggiori probabilità di vittoria, che ci sia scelta intenzionale o no.
Quindi, se sei una persona razionale e ti capita di essere invitata al fantomatico gioco, che poi non potrebbe mai esistere nella realtà, cambi, cambi sempre, e massimizzi la probabilità di vincere la macchina, il diamante i centomila dollari eccetera.
#2879
Tematiche Filosofiche / Re:Ethos, anthropoi, daimon
16 Aprile 2021, 13:13:38 PM
 In Eraclito il logos è la legge del cambiamento, la legge che domina il cambiamento, quindi vi è divenire e non essere alla base del cosmo, ma non un divenire assolutamente caotico, un divenire abbastanza "ordinato" da permettere il pensiero e il discorso, da cui i tre significati principali del termine logos:


1 pensiero 2 discorso 3 legge ordinatrice del cosmo


"Ascoltando non me, ma il logos, è necessario convenire che tutto è uno"


Insomma il discorso vero è quello che supera la differenza tra un io e un tu, tra un sé e un altro e arriva al cuore della convergenza di tutte le differenti possibili soggettività, il discorso falso è quello che rimane soggettivo ed escludente l'altro e dunque mera opinione; la verità non può essere "detta" o "pensata" come un enunciato o un pensiero qualsiasi, (ascoltando non me, ma il logos...) ma implica l'identificazione del parlante o del pensante con l'ordine cosmico (è necessario convenire che tutto è uno); vi può essere accordo e comprensione tra gli (effimeri) uomini sulla terra perché sono tutti divenienti ordinati dalla stessa medesima legge ordinatrice del divenire.
Tale legge si può definire anche come ragione, razionalità, quindi se non una legge, una ragione universale domina il divenire, ma in Eraclito armonia e contrasto sono lo stesso, la cetra e l'arco, strumenti di concordia e di conflitto hanno lo stesso funzionamento.

Insieme a un pensiero del divenire e del flusso continuo, vi è un pensiero dell'unità del cosmo: "da tutte le cose l'uno e l'uno da tutte le cose".
Inoltre, da un punto di vista gnoseologico, abbiamo il bellissimo frammento secondo cui "la natura ama nascondersi", e questo è il precedente e il degno antenato del concetto che poi sarà di Platone della filo-sofia come amore per la conoscenza che nasce da mancanza e desiderio di conoscenza nel cure del tipo umano del filosofo, nella filo-sofia è l'uomo che ama il sapere e quindi ne sente e riconosce la mancanza laddove esso manca, nella natura che ama nascondersi è il sapere, la verità stessa, che "ama" mancare alle possibilità sensoriali e cognitive dell'uomo per suscitare in esso come un corteggiamento o una sfida. La natura non semplicemente si nasconde, ma ama nascondersi, quindi si nasconde specificamente in quello che ha in comune con l'uomo, cioè il fatto e l'atto stesso di amare, e si manifesta, si non-nasconde, come esplicita differenza di se stessa, come natura, dall'uomo.

Ma il punto fondamentale è che ovviamente la teoria dell'unità dell'universo, e la teoria del flusso continuo di tutte le cose non sono separate, ne tantomeno opposte, ma sono convergenti: se c'è flusso di tutte le cose, e unità di tutte le cose, il punto fondamentale in Eraclito direi che è l'unità stessa del divenire, quel possibile elemento in comune che possa mettere d'accordo uno e divenire: il divenire è unitario perché, e nella misura in cui, tutto diviene; a ben guardare, se potessimo abbracciare l'universo con uno sguardo e osservarlo per un po' per coglierne gli aspetti divenienti, constatare che in esso tutto diviene attraverso il tempo, tutto ciò che esiste e si distacca dallo sfondo è inpermanente e destinato a morire o trasformarsi, e constatare che in esso il divenire come processo, l'impermanenza stessa, è uniformemente diffusa come l'unico elemento davvero omogeneo e universale in grado di riempire senza mancanze lo spazio effettivo, so dell'universo sono la stessa cosa la stessa constatazione: tutto è impermanente e l'ubiquità stessa dell'impermanenza rende l'universo stesso come quanto unitario di spazio e di tempo abitato e riempito dallo stesso elemento/processo, e quindi unico, unitario.
In altre parole l'unità del divenire, l'assunto logico e metodologico che il divenire sia unitario, impone che il divenire stesso come totalità divenga, ma non divenga mai essere, divenga altro-divenire all'infinito. Dunque tutto il divenire diviene, sempre, dal divenire come processo non sorge mai l'essere neanche al termine finale di tale processo di trasformazione, l'essere può esistere neanche come il definitivamente divenuto, niente è mai definitivamente divento, perché se qualcosa fosse definitivamente divenuta, il divenire come processo non sarebbe unitario, sarebbe privo, mancante, delle sue parti definitivamente divenute, qualunque esse siano.

L'"essere" come concetto ammissibile in questo tipo di pensiero, significa solo che in un tale mondo, come non c'è spazio per l'essere non c'è spazio nemmeno per il nulla perché anche l'impermenza è impermanente, la fine diviene non fine e la non fine diviene fine, in un gioco di tempo ciclico in cui nessun abitante del mondo è eterno ma nessuno si perde mai definitivamente; in effetti è necessità logica che se l'impermanenza fosse permanente, allora il divenire come processo non sarebbe unitario, perché alcuni enti "trapassati" darebbero origine alla possibilità eterna dell'essere nella forma del definitivamente divenuto; per questo alcuni filosofi stoici a lui successivi hanno interpretato Eraclito in senso escatologico: se tutto diviene, anche il nulla, il non luogo dove sembrano tramontare tutte le cose che non sono più, il luogo dove vanno i morti e le cose distrutte, un giorno sarà nulla, e la natura riproporrà per similitudine o per identità assoluta quelle cose, insomma il modo di divenire proprio del nulla è la non corrispondenza di se stesso con se stesso e col suo significante e la genesi e il riassorbimento continuo dell'essere e degli enti.

Il motivo per cui il fatto che non si può scendere due volte nello stesso fiume dovrebbe suscitare meraviglia è sempre che se il divenire è unitario, ogni attimo di tempo è diverso, il ritorno di tutte le cose nel tempo non è reale, ma è più un atto concernente la similitudine e la volontà: non c'è unità di tempo tra la prima, la seconda e l'ennesima volta che una persona scende nello stesso fiume, quegli attimi considerati di per sé sono sia vuoti che diversi, la serie dei momenti di tempo è la serie di come mondi che l'uomo con i suoi sensi e la sua cognizione considererebbe tutti vuoti di enti e quindi tutti nulli, tutti vuoti uguali, possano impercettibilmente differire tra di loro, ci possono essere mondi vuoti diversi tra di loro, ma non per l'uomo e per le capacità cognitive umane, e ognuno di questi mondi vuoti più essere nominato e indicato con l'attimo di tempo di una serie in sé, in parole molto più semplici l'unità del divenire implica che il divenire continuerebbe ad essere tale anche in un mondo nullo, e questo è il tempo, il modo impercettibile ma reale in cui il divenire in sé sarebbe tale in un mondo nullo, è il tempo; quindi, tanto più in un mondo pieno, in cui possiamo misurare e avere l'illusione di percepire di per sé  quello che è il tempo perché lo relazioniamo alle cose e agli eventi, non c'è comunanza di tempo tra la prima, la seconda e l'ennesima volta in cui si scende nello stesso fiume, il tempo è durata in senso bergsoniano ed è fatto di attimi tutti diversi, e pure il fiume in quanto tale è, e resta, sempre intelligibile, il bagnate anche, e la relazione tra il fiume e il bagnate anche, quindi la meraviglia, il tauma da cui dovrebbe nascere la filosofia è che se non c'è alcuna comunanza di tempo tra i vari momenti dei vari bagni (cito a questo proposito anche un altro frammento eracliteo importante e bellissimo: "il sole è nuovo ogni giorno"), eppure il fiume, il bagnante e l'esperienza del bagnante sono sempre intelligibili e reali, a fare da elemento comune agli elementi singolarmente considerati di questa serie di bagni e di momenti di vita deve esserci comunanza di qualcosa di altro che vada al di là del tempo e "differisca" dal tempo: comunanza che può essere di materia (forse l'acqua stessa?), di forma, di memoria, di causalità, insomma non è il tempo a rendere comuni, e confrontabili, e ordinabili in serie quei momenti, ma una questione di volizione e intellezione, che nasce ovviamente in prima battuta nella mente di chi fa il bagno e riconosce i momenti precedenti e successivi della propria vita, ma in senso astratto e filosofico può essere attribuita anche all'universo, che riconosce e "vuole" il bagnante e il fiume permettendone l'esistenza, il bagnante non potrebbe fare questo se le leggi che regolano l'universo non lo permettessero, e non si tratta di attribuire una volontà o una personalità all'universo, ma appunto la comunanza tra i vari momenti non è di tempo, ma di movimento, causalità e materia, che risultano come apparizioni e rivelazioni ulteriori al tempo, e quindi intelligibilmente governati da una legge eterna, legge di parola pensiero e linguaggio che è l'unico aspetto a manifestarsi all'uomo come permanente di un mondo per il resto interamente diveniente, diveniente anche nell'impermanenza dell'impermanenza, e quindi nella tendenza, sia pure incompleta e incompletabile, al ritorno di tutte le cose.
#2880


Figurati, la filosofia nasce come un una ricerca del sapere finalizzato alla felicità individuale e collettiva, che esclude per principio e per metodo ogni forma di nozionismo e di sapere frivolo. Una sorta di esercizio dialettico e spirituale, volto però a vivere bene su questa terra, nei limiti del possibile, accettando e conoscendo tali limiti.
Il nesso della filosofia con la politica, e con la vita felice, comunque la si voglia vedere, è sempre stato imprescindibile; e se questo nesso ora sembra decadere, e la filosofia comincia sembrare una cosa, un ambito del sapere, solo per professori e grandi esperti, o solo per parlare di se stessa e di realtà molto marginali, è perché c'è un'unica filosofia, la tecnoscienza, o meglio la scienza nel suo essere non neutra ma ideologica, con un'unica visione del mondo, e quindi è finita la filosofia come critica e pluralismo, è finita nella sua ragione di essere.


Epimeleia ten psuche, cioè "cura dell'anima",è una celebre definizione di filosofia che dà Platone, uno dei padri fondatori della filosofia greco classica, nel Carmide, uno dei suoi dialoghi. Curare l'anima, è curare ciò che può sentire e soffrire proprio nel suo poter sentire e soffrire, insomma fin dall'inizio il contrario di un nozionismo ozioso o di un qualcosa di elitario ed escludente.


In greco epi-meleia etimologicamente, oltreché "cura", significa anche mettere-il-miele-su, quindi abbiamo la figura retorica poetica che passando dal greco all'italiano si perde, dell'atto materiale e spirituale insieme di mettere il miele (cosa materiale) sopra l'anima (cosa immateriale), che poi significa addolcire l'anima, appunto prendersi cura dell'anima.


La filosofia è una prassi, una cosa anche materiale, la forma stessa in cui scrive Platone sono dei dialoghi che nonostante tutto il loro interessa nel contenuto manifesto verso la spiritualità, cercano, in quanto dialoghi, di cogliere l'attimo reale della conversazione tra due esseri umani, cercando di superare gli inganni e le astrazioni della "mera" scrittura.


La "cura" invece, prescindendo un per un momento dal significato "addolcito" di epimeleia, è un concetto altrettanto chiaro tanto in greco quanto in italiano, la cura non è la guarigione, perché è rivolta al sintomo piuttosto che alla malattia e rimane la possibilità, dopo la cura, di ammalarsi di nuovo, quindi il sapere filosofico è sempre provvisorio, c'è una imprescindibile componente scettica, di sospensione del giudizio, nel pensiero di Platone e di molti altri filosofi che lo hanno seguito; sicuramente la cura non è oblio, può iniziare solo a partire da una ferita e anche dopo l'eventuale successo della cura resta la memoria di quella che fu la ferita, insomma il sapere volto specificamente alla ricerca della felicità non può iniziare che dalla sofferenza e a partire dalla sofferenza; il filosofo si pone nella condizione di curare, non di guarire, perché la sua ricerca non si propone di ripristinare l'innocenza perduta dei sofferenti ma è un attraversamento della sofferenza verso una condizione ulteriore, che a differenza della guarigione non esclude il ricordo stesso del dolore e non esclude ulteriore cura e così via, insomma l'epimeleia ten psuche, la cura dell'anima/il mettere il miele sopra l'anima, è l'aleteia, la verità in greco, altra parola che chi si interessa di filosofia dovrebbe conoscere anche etimologicamente, a-leteia, togliere il velo/l'oblio, senza-velo o senza-oblio, il miele è il velo trasparente per eccellenza, il velo che non è velo/non ha funzione di velo, è qui ricorre la risposta provvisoria al male della "cura", non si potrà mai togliere il velo sull'orrore e il non senso dell'esistenza, la ricerca della verità è aggiungere un velo trasparente laddove prima vi erano solo veli opachi, grondare miele anziché sangue da una ferita che resta ferita, capire e interrogare il problema del velo.
Verità è reminiscenza, non adeguamento delle parole alle cose, qualcosa che non può prescindere dalla vita e dall'esperienza, il contrario dell'ottundimento del dolore.


Il miele è anche la cosa-buona per eccellenza, il cibo degli Dei, liberi dal dolore, gli esseri viventi sono comunque ancora vincolati al piacere, finito di lottare per la sopravvivenza, inizia la possibilità della filosofia.


Anche il termine e la sostanza di psuché, come anima intesa nel senso di coscienza, soprattutto coscienza individuale, stato di coscienza trasparente/normale, io come lo intenderebbe la psicoanalisi o anima come la intenderebbe una religione come il cristianesimo, è il risultato della ricerca e del cambiamento culturale operato nel panorama culturale greco antico dalla filosofia stessa, psuché nel senso in cui compare in epimelia ten pusché, che poi è appunto psuché-anima come lo intendiamo noi moderni e leggendo possiamo capire nel complesso la frase (cura dell'anima), non esiste prima della filosofia, la filosofia "inventa", nel bene e nel male, il concetto corrispondente a pusché che tutti noi possiamo capire e condividere, il concetto di io-anima-coscienza. Come tutte le invenzioni, lo inventa "dal nulla", o se volgiamo come costrutto di termini e significati precedenti, e l'importanza di questo concetto, il concetto di io-anima-coscienza, il concetto quindi di anima nel senso di coscienza concernente lo stato vitale di un corpo, mortale o immortale che sia, attraverso i secoli della storia culturale dell'occidente e non solo, anche attraverso scienze, religioni e concezioni di per sé ulteriori rispetto alla filosofia, è evidente. Dunque, prima di Socrate vi sono, nel panorama culturale greco, quindi nell'insieme di significati possibili all'epoca in uso che possano corrispondere al termine psuché, principalmente due grandi polarità di significato: l'anima in senso omerico, e l'anima in senso orfico-pitagorico, che sono due concezioni una super-egoica e una sub-egoica del termine anima. L'anima in senso omerico è il soffio vitale, quello che rende vivi i vivi, e dunque, se separata dal corpo, la larva, quello che rende morti i morti, un qualcosa che non certo la coscienza ma anzi il contrario esatto di coscienza, la totale assenza di coscienza in cui da vivi ci si può metaforicamente figurare lo stato esistenziale di un morto; le larve sono gli spiriti dei defunti che si aggirano nell'Ade, e con la notevole eccezione di Tiresia, sono cieche, incoscienti, una metafora per dire che cosa è un uomo quando non è più, quindi qualcosa di assolutamente inferiore e peggiore dell'anima nel senso di coscienza, e quando questa psuché intesa in questo senso è il soffio presente in un corpo, comunque è qualcosa che concerne la "mera" animazione, non la coscienza, tanto è vero che è la stessa sia per gli uomini che per gli animali, e riguarda le temporaneamente in corso funzioni vitali, che con la morte non saranno più, psuché anche come respiro. Tale concezione assolutamente minimale e mortale dell'anima, è assolutamente funzionale al discorso dell'epica, e della poesia in generale, come forma di vita comunitaria ed enciclopedia del sapere possibile presso popoli non ancora organizzati ancora nella forma dello stato: proprio come modernamente il concetto ricorre nei Sepolcri del Foscolo, anche in Omero, chiunque egli sia stato e a prescindere da se sia mai esistito, è la poesia (e non l'anima certo l'anima) a rendere immortali gli uomini, si è immortali nella gloria della tribù, nel soffio organizzato e sincronizzato in canto, non nel mero soffio "animante" del singolo uomo, che è nulla e si disgrega al disgregarsi delle sue membra, insomma in questa concezione del mondo, che è la concezione del mondo che ha definito la stato pre-filosofico del mondo greco, non c'è niente di simile di nemmeno vagamente simile all'"anima" nel senso cristiano, o psicoanalitico, o neuroscientifico del termine. Questa polarità di significato del termine anima è sotto all'io, inferiore all'io, è il soffio/larva quello che è soffio, pura funzione vitale e metabolica che accumuna tutti gli animali finché collegato a un corpo, e poi spirito eternamente vagante nel buio quando non lo è più.


Accanto a questa polarità "inferiore" vi è nell'Atene di Socrate la polarità "superiore" del termine anima, che è quella degli orfici e dei pitagorici, delle religioni misteriche: questo tipo di anima è una forma di super-coscienza, ed è immortale ma non nel senso dell'immortalità individuale, ma dell'immortalità del vero e dell'intersoggettivo, questa anima può e deve risalire dall'ade e dallo stadio larvale e incoscienziale, ma appunto se lo fa è secondo un archetipo mitico e non in nessun senso personale, i teoremi della matematica e della geometria "esistono", e "sono veri" che esista o no un mondo vitale ed esperienziale a cui applicarli, esistono a prescindere dall'io e dalla coscienza e semmai sono l'io e la coscienza che devono adeguarvisi. Questa psuché è puro intelletto, depurato dalla coscienza e dall'esperienza, è sì immortale, ma nel senso che di fatto non vive e non ha mai vissuto, è pura contemplazione, e qui veniamo a un'altra celebre definizione della filosofia per non citare solo quella di Platone, che mi pare, se ben ricordo, viene attribuita da uno dei tanti pitagorici posteri a Pitagora, che è la seguente:


"quando ci sono le olimpiadi, ci sono tre tipi di uomini che si mettono in moto per raggiungerle: gli atleti, quelli che vanno lì per gareggiare, i commercianti, quelli che vanno lì per vendere qualcosa e realizzare un guadagno approfittando della folla, e gli spettatori, che vanno lì semplicemente per assistere allo spettacolo: se le olimpiadi sono la vita, gli spettatori sono i filosofi"


Si vede bene come questa definizione ponga l'accento sulla contemplazione pura, e gli aspetti ambiziosi, o comunque bassi e banali dell'"anima" non sono considerati degni, o cmunque propri, del filosofo: lo spettacolo, l'oggettività matematica e geometrica del cosmo, è molto più importante dello spettatore; se nell'anima secondo Platone gli aspetti appettitivi, e ambiziosi, quelli che possono rappresentare l'operato e l'interesse tipico dell'atleta e del commerciante sono integrati tra di loro e con la contemplazione (propria dello spettatore) a cui pure, nello stile di vita filosofico, che è per pochi, sono da subordinare, qui sembrano proprio da escludere in favore della pura contemplazione; questa idea di anima puramente contemplativa è super egoica, ritiene di poter fare a meno del guadagno e della gloria, quindi non ha nulla a che fare con la vita, che di per sé non può prescindere dall'ambizione e dalla sopravvivenza, se pure in uno stato vitale ascetico o contemplativo le può temporaneamente superare.


Il concetto Socratico e maieutico di anima, quello che il Socrate platonico cerca con le sue continue interrogazioni e domande di suscitare negli ateniesi,è specificamente intermedio tra questa sovra e sotto coscienza, dell'amina soffio/larva da una parte, e dell'anima super coscienza puramente contemplativa e intersoggettiva dall'altra; coscienza non è soffio animante condiviso con gli animali e necessariamente mortale, ma non è nemmeno vita sempre e solo contemplativa, annullamento dell'io nell'oggettiva verità del cosmo: è opera della prima grande filosofia, e di uno dei primi grandi filosofi, se l'anima, la parola-anima, comincia per la prima volta nella storia ad avere qualcosa a che fare con la coscienza e con l'io; c'è qualcosa di terzo tra l'anima che muore nell'oblio e può essere resa immortale solo dalla poesia e l'anima come dispersione mistico/ascetica dell'individuo nella verità del cosmo, e questo qualcosa di terzo è l'anima nel senso occidentale moderno, l'immenso lavoro filosofico che è stato fatto su psiche perché significasse quello che oggi significa, e da questo tipo di anima nasce l'individuo critico che può mettere in discussione le tradizioni e le istituzioni, anche a costo della "ferita" necessitante la "cura", della perdita di un certo tipo di purezza.


Vengo ora alla parte finale della domanda, perché la filosofia, che ha origine come esercizio spirituale, come ricerca individuale e collettiva della felicità e dell'eccellenza, divenga ai nostri tempi qualcosa di freddamente accademico, qualcosa di commento agli scritti di altri filosofi, riservata a pochi esperti e professori di filosofia, qualcosa che pertiene all'analisi del linguaggio e al metodo di costruzione del sapere, piuttosto che al sapere stesso:


magari ci sarà chi ti dirà che la filosofia cercava di trarre i suoi insegnamenti sulla lege e sulla virtù dalla conoscenza della natura del mondo, a tale stato del mondo, doveva corrispondere tale comportamento per giungere alla vita felice , il famoso rapporto tra nomos, e fisis, legge e natura. Ora, magari si potrà argomentare, anche se io non sono d'accordo, la conoscenza della natura del mondo pertiene alla scienza, quindi la filosofia non ha più la base solida dei suoi insegnamenti, e si riduce a commento infinito degli altri filosofi, storia della filosofia e discorso sul metodo e sul linguaggio, gli unici "territori" da cui la scienza non l'ha ancora scalzata.


Il fatto è invece che nell'occidente decadente e decaduto non ci sono più dubbi su quale sia il metodo per la ricerca della felicità, tale metodo è la tecnica e di conseguenza la filosofia è diventata l'ancella della tecnica, l'indagine sulla natura non è stata delegata a qualcosa, a qualche altro "metodo", di a-filosofico, di non filosofico, per cui la filosofia svolge ormai un ruolo di nicchia in alcune parti non diversamente indagabili della natura umana, come la riflessione su se stessa, il discorso sul metodo, sulla logica e sul linguaggio, e da tutto il resto è "detronizzata"; il punto è invece, secondo me, che la scienza, con la tecnica come sua applicazione pratica e corollario infinito, è ideologica e filosofica, è un metodo che ha radici filosofiche, anche se è non propriamente e ed interamente filosofico, e, se secondo il "normale" operato della filosofia, si assume per buona una certa forma della fisis, a cui corrisponde un certo nomos, e si cessa di indagare, la filosofia in quanto tale ristagna, non sta succedendo niente di "anomalo" rispetto ai normali canoni della vita filosofica per come l'hanno concepita e indicata gli antichi, ci si è fermati a una certa analisi oggettiva del mondo e a una certa legiferazione umana conseguente prendendola per buona, le cose si muoveranno solo criticando e tentando di superare tale visione del mondo, insomma la tecnoscienza che oggi, nel nuovo millennio, sembra "escludere" la filosofia è, e "relegarla" a certi determinati ambiti, è essa stessa, una forma di filosofia, in gran parte criticabile e esaminabile con il metodo con cui si criticano ed esaminano tutte le forme di filosofia, spero di essere stato chiaro per grandi linee.


E' quello che è stato detto anche nel post recente sulle utopie, la scienza non si limita a descrivere il mondo/cosmo, descrive anche cosa dovremmo fare per la nostra felicità, è, e diviene, tecnologia, e la tecnologia è prerequisito al progredire della scienza, quindi la descrizione neutra del mondo a cui dovrebbe seguire il precorso umanamente migliore e prescelto per la felicità, sussume nascostamente anche il precorso per la felicità e il discorso sul percorso, l'indagine che la scienza dovrebbe fare sulla sola fisis, è su nomos e fisis insieme, e a queste condizioni non può esservi vera e innovante filosofia...