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Messaggi - niko

#2971
Citazione di: viator il 23 Ottobre 2020, 21:30:13 PM
Salve niko. Citandoti : "Un individuo egoista e distruttivo, ben presto tende ad entrare in conflitto con altri individui egoisti e distruttivi. Le capre brucano insieme qualsiasi cosa succeda".


Scusa ma, quando affermi di non vedere alcun benessere intorno a te (guarda che io mi stavo occupando delle cosiddette "società del benessere" o del "primo mondo", cioè di collettività di molte centinaia di milioni di persone...........non della tua, mia o specificatamente altrui condizione o definizione di "benessere").......affermando di non trovarti nel benessere mostri solamente una valutazione soggettiva ed egoistica.




Inoltre quando fai appello ad ipotesi di reazioni rivoluzionarie violente......ti mostri nuovamente sia egoista che propenso alla violenza (magari solo altrui, visto che la rivoluzione è meglio farla fare agli altri........).


Infatti tra violenti ed egoisti potrà anche svilupparsi un movimento rivoluzionario, ma il problema è che - dopo l'eventuale successo della loro rivoluzione - essi resteranno quelli che erano, cioè soggetti pericolosamente inclini alla violenza ed agli egoismi nei confronti di chi la pensa diversamente da loro. Saluti.




Guarda che quando pensi di poter definire oggettivamente il benessere, ti rendi ridicolo.
E' un livello veramente basso di discussione in cui non voglio farmi trascinare, secondo te un detenuto al 41 bis siccome mangia beve e non ha freddo è in una condizione di benessere?


Se quelli che sono al governo sopravvalutano un'influenza per chissà quali fini economici e politici e ci mettono al 41 bis in casa, secondo te siamo in una condizione di benessere?


Se con benessere intendi ricchezza e opulenza materiale, la soddisfazione dei bisogni primari eccetera, quindi alludi a una minima parte di quello che comunemente si intende per benessere, da te impropriamente assunta per il tutto, la produzione capitalistica, e quindi ciclica, di queste ricchezze, non garantisce benessere a tutti per tutto il tempo, perché se si produce per cicli, nelle parti "basse" del ciclo, enormi quantità di persone fanno la la fame, vogliamo andare avanti per crisi, espansione, crisi, espansione, crisi, espansione, per quanto tempo? Per quanto tempo ci devono essere le colonie e le zone di guerra ai margini di quei paesi che temporaneamente se la passano meglio, cioè la non uniforme distribuzione della ricchezza su tutto il pianeta? E' giustizia questa, nascere in un posto e in un momento a caso e dover sperare di avere il culo di nascere e vivere gli anni migliori nel posto giusto e nel periodo di tempo giusto?


Questa roba con cui tu valuti il benessere, quindi cibo, acqua, elettricità, riparo, sta cominciando a mancare anche nei paesi industrializzati, perché vedi, se stiamo tutti in casa per non prendere  l'influenza, nessuno lavora, se nessuno lavora, succedono brutte cose al pil, se succedono brutte cose al pil, prima o poi saltano anche gli stipendi e le pensioni di quelli che pensano di avere il culo parato e oggi applaudono al governo (Grecia, Argentina, non hanno insegnato niente)...
#2972
Citazione di: anthonyi il 23 Ottobre 2020, 17:36:05 PM

Ciao niko, viator ti proponeva un'alternativa, quello che nel linguaggio economico viene definito trade-off, tra libertà e benessere.
Ora va benissimo che tu ritenga la società in cui vivi troppo coercitiva, per altri magari non è così, per loro la poca libertà in cambio del benessere va bene.
A questo punto tu hai correttamente presentato due opzioni: 1)L'allontanamento dalla società,2) La ribellione.
Nel caso 1 tu accetti di perdere benessere per una maggiore libertà.
Nel caso 2 tu agisci per imporre anche agli altri quell'opzione che tu preferisci, costringendoli ad accettare una perdita di benessere in cambio di una libertà che solo tu consideri preferibile.


Beh certo la ribellione prevede un certo grado di violenza e coercizione, su questo di do ragione, però non concordo col tuo (tuo e di viator) modo complessivo di mettere le cose che è troppo "oggettivista", e non tiene conto della soggettività delle parti coinvolte, quindi fai (fate) l'errore di fare un discorso che le parti coinvolte non potranno mai accettare.

Voglio dire, non mi puoi dire:


"tu agisci per imporre anche agli altri quell'opzione che tu preferisci, costringendoli ad accettare una perdita di benessere in cambio di una libertà che solo tu consideri preferibile.

e neanche, nel caso opposto:

"tu accetti di perdere benessere per una maggiore libertà."

Perché per me lo stato di cose presenti non è benessere, ergo la sua soppressione per me o per gli altri non è malessere.

Non ci si può pascere del benessere delle capre e pretendere di essere in pace con la propria coscienza, e gli idioti, quantomeno di questi tempi, sono molto più pericolosi (e più numerosi) dei malvagi sadici e deliberati; i malvagi hanno enormi difficoltà ad aggregarsi e costituirsi socialmente tra di loro, difficoltà che arginano secondo natura i danni alla condizione umana che essi teoricamente potrebbero fare, laddove gli idioti nessuna.

Un individuo egoista e distruttivo, ben presto tende ad entrare in conflitto con altri individui egoisti e distruttivi. Le capre brucano insieme qualsiasi cosa succeda.
#2973
Tematiche Spirituali / Re:Quanto importa?
23 Ottobre 2020, 19:30:32 PM
Citazione di: Aumkaara il 23 Ottobre 2020, 14:24:19 PM
Citazione di: niko il 23 Ottobre 2020, 13:41:36 PM
Riflettere sulla resurrezione della carne, è un po' chiedersi come ci vestiremmo se Dio ci invitasse alla sua festa.

Formale? Elegante? Casual? Sexy?

Il corpo non è un vestito, è un armadio pieno di vestiti.
In India ti parafraserebbero dicendo "tutti i corpi, sia quello di un individuo (sia quelli fisici attraverso le reincarnazioni, sia quelli più sottili attraverso le trasmigrazioni), e sia quelli di tutti gli esseri, sono solo vestiti di un unico corpo-armadio che è la sostanza universale, la prakriti, scelti dal purusha-spirito.
Ma forse intendevi solo riferirti al fatto che come alternative abbiamo solo i vari modi in cui il corpo può presentarsi e comportarsi, senza che ci siano alternative all'avere un corpo (nel caso, concordo anche con questo, anche se non solo nel senso eventualmente più materialistico).



Sì la mia era una considerazione sugli individui umani su cui penso si possa concordare anche se non si crede alla reincarnazione, trasmigrazione eccetera, il nostro corpo non rimane uguale nella vita, è in mille modi diversi, ora embrione, ora fanciullo, ora vecchio, ma anche si mangia, si va in bagno, si suda, ci si riproduce eccetera, quindi la materia grezzamente compositiva del corpo a livello di cellule e materia fisica cambia velocissimamente proprio in senso di ricambio organico, e solo la continuità di forma e attività permette di continuare a identificare un corpo nel tempo come lo stesso corpo.


Quindi in conclusione, il fatto di "non sapere quale vestito mettersi" voleva dire che c'è chi si immagina reincarnato bambino, chi vecchio, chi giovane, chi nel pieno delle forze: la provocazione intellettuale del provare a pensare ad un evento miracoloso e un intervento divino che dopo la morte ad ogni anima "faccia riprendere il corrispettivo corpo" è che questo evento non è solo miracoloso, è proprio incoerente e impossibile, se si pensa a come "un corpo", anche solo a livello di realtà empirica e terrena, non è una realtà univoca e facilmente identificabile, ma è sottoposto continuamente e spietatamente al divenire, e dal grumo di cellule col cui aspetto cui nasce, diviene il cadavere col cui aspetto muore. I vestiti della mia metafora sono i singoli attimi e i singoli stati che attraversa un corpo, ognuno di noi ha attimi della sua vita che considera più felici, o anche solo più profondi e rappresentativi della vita nel suo complesso, di altri, momenti di esultanza psicofisica e comprensione superiori alla sua media o al suo solito o momenti che pensa, a torto o a ragione, lo rappresentino come essere unico più di altri, e penso che "il desiderio di reincarnarsi" a livello psicologico e archetipico esprima molto di più di un generico desiderio di immortalità o di vita oltre la vita, esprime proprio il desiderio di riprendere la forma migliore o più significativa degli infiniti attimi e delle infinite forme in cui si disgrega il concetto inafferrabile di corpo, il desiderio di cristallizzare e fermare nel tempo un attimo di cui abbiamo più ricordo piacevole o più nostalgie dire "quello sono io" di modo che, nella verità resa miracolosamente tale di questa affermazione (di per sé ovviamente falsa, davanti alla verità molto piò cogente del divenire e del disgregarsi del corpo), tutti gli attimi di tutta la vita confluiscano nell'attimo prescelto, quindi tra l'infinità dei vestiti, scegliere un vestito con cui presentarsi davanti a Dio, cioè un vestito che lo sguardo di Dio possa eternizzare.


Nei momenti di vera felicità , il corpo esulta, o è comunque in un qualche stato di quiete profonda e trascendimento della sofferenza, per questo questi momenti sono facilmente distinguibili da quelli di fredda soddisfazione, di gratificazione dell'ego, di rassegnata soddisfazione intellettuale o morale, di senso di superiorità. Non puoi trovare nessuna verità spirituale che non sia psicosomatica, che non sia anche fisica, quindi il tuo vestito migliore, è anche il tuo massimo grado di perfezione raggiunto. Non tutti sanno quale sia, e non tutti hanno accesso al loro vestito migliore nella confusione e nel dimenticatoio dell'armadio, e appunto reincarnarsi può essere gioia tale per definizione, ma può essere tematizzato anche come problema, appunto la mia domanda "che vestito mi metto davanti a di Dio?" se dovessimo scegliere un attimo della vita, e dunque un singolo stato tra i mille attraversati dal nostro corpo, a cui restare legati per sempre, quale attimo sarebbe? La questione non è ovviamente che solo i più saggi ho i più fortunati hanno attimi, e dunque corpi, belli da sfoggiare e viceversa gli sfigati anche prendendo il loro attimo, e dunque stato del corpo, migliore rimarrebbero comunque ineleganti e indegni agli occhi di Dio, il punto è che anche ammesso che tutti abbiano una possibilità e quindi un vestito gradito a Dio nell'armadio, solo i più saggi o fortunati sanno scegliere bene, altri potrebbero reincarnarsi male, cioè legarsi per sempre a forme ed attimi che non sono la scelta migliore per loro, e dunque non sarebbe Dio, che li ha giudicati male, si sarebbero loro stessi, giudicati male, un po' come le anime nel mito di Er nella Repubblica di Platone, che sono per l'ennesima volta morte e devono scegliere una sorte nella loro prossima vita, un destino che poi nella loro nuova vita dimenticheranno di avere volontariamente scelto ma che le plasmerà inconsciamente come demone/carattere, e tutte scelgono in base non solo alla loro eterna e invariante natura, che sempre in qualche modo influirà, in base non solo alle circostanze, perché la gamma di destini possibili tra cui scegliere ha una componente aleatoria e non sempre, purtroppo o per fortuna, restano disponibili tutte le opzioni per tutte le anime, ma anche e soprattutto in base alle esperienze e alle conoscenze fatte nell'ultima vita appena trascorsa, che, al netto quindi di natura e caso, sarà il terzo elemento fondamentale che influirà su un'anima morta in procinto di scegliersi il proprio destino carnale e terreno per il prossimo "giro di giostra"; un mito molto simile si potrebbe raccontare per un'anima che muore, con ciò apprende che il corpo non è nulla, quantomeno nulla di unico e ben definito, eppure viene invitata a una festa a cui non può mancare e deve pur scegliersi, tra i suoi ricordi, un bel vestito-corpo, pur sapendo, ormai, dell'impossibilità logica e della difficoltà di questa scelta, se riferita al corpo nella sua totalità: con le esperienze della totalità della sua vita compiuta e finita, deve scegliere qualcosa sulle singole parti che questa totalità compongono, sui mille corpi che ha attraversato per il semplice fatto di aver avuto "un", -uno tra virgolette- corpo, quindi con un tipo di esperienza che può essere propria solo dello spirito, perché disincarnata per definizione, il paradossale giudizio che una vita potrebbe dare su se stessa solo a vita finita, si deve scegliere, e preferire, qualcosa che in vita ci ha identificato e rappresentato; insomma la vita nella sua completezza, ben lungi dall'essere valore e significato in sé, ben lungi dal giungere, dopo la morte, a qualcosa o in qualche luogo, non serve che a giudicare retrospettivamente del valore dei singoli stati di se stessa lungo il percorso di quella che fu una conoscenza incompleta, perché non (ancora) suggellata dalla morte.


Il desiderio di reincarnazione, è il desiderio, e quindi la mancanza, del corpo; il desiderio che il nesso tra conoscenza ed esperienza sia esso stesso la verità, e quindi permanga, dopo la morte.
#2974
Tematiche Spirituali / Re:Quanto importa?
23 Ottobre 2020, 13:41:36 PM
Riflettere sulla resurrezione della carne, è un po' chiedersi come ci vestiremmo se Dio ci invitasse alla sua festa.

Formale? Elegante? Casual? Sexy?

Il corpo non è un vestito, è un armadio pieno di vestiti.
#2975
La società attuale è così marcia che non mi dà alcun benessere, e infatti permanendovi ho sempre di più l'impressione di sacrificare la mia libertà in cambio di nulla, del nulla assoluto. La libertà sarà pure un bene solo possibile, un qualcosa che può essere un bene solo se e solo se "utilizzato" bene, ma qui, per come siamo messi, questo bene solo possibile, lo perdiamo in cambio del male.



L'alternativa però non dovrebbe essere solo secedere e fare l'eremita, ma anche ribellarsi.
#2976
Magari più tardi darò una risposta più complicata ad altre cose che sono state dette, per ora volevo rilevare solo che quello che ha scritto Paul11


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Se riteniamo la vita una questione  meramente biologica o termodinamica, vale a dire che appare con la nascita e scompare con la morte fisica, pensiamo superficialmente che noi siamo solo trasformazione  di energia, metabolismo che comprende azioni anaboliche o di costruzione e cataboliche di distruzione,[/size]Ma prima dell'apparizione della vita con la nascita e dopo la sparizione con la morte? Il nulla detta l'attuale cultura nichilista.


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Mi pare un po' eccessiva come posizione, proprio nel senso che la posizione che con la morte finisce tutto non è affatto una posizione "antifilosofica" ma una posizione filosofica come tante altre, non c'è, direi, un nesso necessario tra pensare che ci sia altro oltre la vita biologica e interessarsi di filosofia.


Molti filosofi del passato, anche grandi, erano molto vicini a pensare che con la morte finisse tutto o qualcosa di simile, mi vengono in mente gli atomisti, ma anche Aristotele che non credeva nell'immortalità dell'anima.


Certamente considerare l'effimerità della vita è una posizione filosofica, che non porta necessariamente a conclusioni nichiliste, uno può pensare di sopravvivere esclusivamente nella catena di causa ed effetto, come dice Massimo nel film "il Gadiatore": "quello che facciamo in vita riecheggia nell'eternità", cioè la vita come effetto dell'"intelligenza" temporanea che la causa, sarà causa di altri effetti all'infinito, il che può portare a posizioni molto moraliste e di autosacrificio e tutt'altro che nichiliste, che effetto fa la tua vita sul tutto di cui essa fa parte in vista del potere di questo effetto di essere a sua volta causa di altri effetti non si misura certo con la durata e la piacevolezza edonistica della tua singola vita; non è nichilista neanche la relativizzazione dell'infinità del dolore e l'arte di vivere che si può imparare e trarre assumendo la morte come "consolatrice": se dopo la morte finisce tutto, tutto è più facile da sopportare, anche la rigidità di una morale avvertita dal singolo come necessaria, ma solo fino a un certo punto convincente. Insomma si può pensare che la morte non sia solo "consolatrice", ma anche il meccanismo fisiologico di "spegnimento" della coscienza trasceso un certo limite che poi a ben vedere è il limite di relazione possibile col mondo della coscienza stessa, per cui "ogni dolore è sopportabile", ma non nel senso che ogni dolore sia sopportabile in assoluto come verità universale che imponga una morale della ricompensa, ma nel senso specificamente epicureo che i dolori insopportabili determinano oblio e morte in colui che li subisce, non hanno conseguenze avvertibili non in assoluto, ma proprio e specificamente per chi di più ne è vittima, quindi ogni dolore è sopportabile per noi, l'orrore e il non-senso del mondo ci è risparmiato dai meccanismi intrinseci di disaggregazione e cessazione della coscienza, di cui la morte è solo il più evidente, ma anche sonno, oblio, estasi, rimozione, giocano in piccolo lo stesso ruolo della morte: se nessun dolore avvertito nel qui e ora come tale spegne del tutto la coscienza, nessun dolore è solo e semplicemente per la coscienza un black-out, c'è qualcosa da imparare, e qualcosa di meglio o di peggio da fare in ogni dolore, cioè in ogni dolore rimane possibile l'attività cosciente e consapevole, e quindi l'esercizio della virtù. Folle è assumere il dolore come eterno, chi assume il dolore come eterno di fatto si equipara agli dei e si considera immortale; ogni dolore che avvertiamo, proprio per come funziona biologicamente la vita, è destinato a mutare alternativamente o in piacere o in oblio/morte, ma è proprio prescindendo del tutto da questa alternativa e dall'importanza che possiamo attribuirgli, che possiamo comprendere e considerare l'alternativa in sé e la conseguenza fondamentale che ne deriva, ovvero che considerare il dolore che ci colpisce, e di cui siamo consapevoli come invariante nel tempo ed eterno sia sempre e comunque errato. La conclusione non è dunque che il dolore eterno di per sé non esista, è che grazie ai meccanismi fondamentali della natura ne abbiamo pietoso oblio.


Poi la considerazione che con la morte finisca tutto può portare a una presunzione di diritto al godimento dell'effimero che per quanto nichilista nei suoi presupposti può portare a rivendicazioni politiche utili e necessarie altrimenti impossibili, un volta ho letto che al culmine della rivoluzione francese è comparso all'entrata del cimitero di Parigi un bel cartello con la scritta:


"la morte è un sonno eterno".


Non so se questo sia vero, ma questo cartello se è mai esistito è l'antennato diretto delle fucilate sparate dalla folla sugli orologi durante la Comune del 1871, il concetto è che se la morte è un sonno eterno abbiamo diritto a pane dignità in vita, non ci crediamo più che se facciamo "i bravi" sulla terra abbiamo la vita eterna come ce la raccontano i preti; anche la famosa scommessa di Pascal non è a costo zero se si scommette sulla vita eterna, dato che questa scommessa si porta appresso una morale codificata che dice cosa devi e non devi fare per guadagnartela, la vita eterna, e se quando muori trovi invece il nulla, hai sprecato la tua unica vita nel seguire regole assurde mentre magari altri che queste regole le hanno ignorate se la sono goduta di più; ovviamente, per precisare meglio, quando sei morto non puoi sapere se il nulla che hai trovato lo hai trovato solo per te, perché non sei stato abbastanza conforme alle regole e sei stato oggetto di un giudizio divino negativo, quindi quel nulla è un problema tuo non generalizzabile, agli occhi della divinità "avresti potuto far meglio", o se quel nulla è semplicemente e indistintamente il destino di tutti, di tutta l'umanità, perché in verità tutta la religione o morale di riferimento con cui l'umanità sperava di guadagnarsi la vita eterna era di per sé solo una grande e falsa "cavolata", quindi, se stessero così le cose, quel nulla è un problema di tutti, e nessuno "avrebbe potuto far meglio", ma il punto è che per te che muori e trovi il nulla questa alternativa è assolutamente irrilevante, è esattamente lo stesso, quando trovi il nulla, hai ingombrato inutilmente la tua vita con regole per l'ottenimento di una vita eterna che non ottieni, quindi hai sacrificato un quantitativo di libertà per niente, libertà che in alternativa poteva essere usata per il godimento di piaceri più effimeri e terreni, quindi scommettere sulla vita eterna non è a costo zero. Insomma il "memento mori" si può rovesciare contro i moralisti, se quando muoio incontro un giudizio devo vivere conformemente a certe regole esteriori anche se non da me pienamente comprese e accettate, se quando muoio incontro il nulla, devo prendere e godere tutto quello che posso e seguire solo la mia personale legge nella misura in cui da solo me la do e la comprendo, insomma "memento mori" è uno dei motti più a doppio senso che possano esistere, se lo si riflette bene, o "vivi con moderazione", o "ogni lasciata è persa".
#2977
Sì, ma una volta che lo hai pensato, il tutto come concetto intendo, non lo hai pensato bene se ci metti dentro, in questo ipotetico "contenitore", solo tutto ciò che esiste, nel presente, o anche nella totalità del tempo e dello spazio se essa fosse conoscibile, e sostieni con questo di aver finito, ci sono cose che in un certo senso "sono" senza esistere materialmente o dualmente, quindi il tutto non esiste, perché si compone di parti esistenti e parti inesistenti, quindi non esiste tutto, quindi non esiste come tutto, quindi non esiste il tutto.


Ad esempio, con la coscienza e la vita di un essere intelligente, per dire, si ha già qualche difficoltà a sostenere che esista nel tempo, in un certo senso sì e in un certo senso no, e difficoltà assoluta a sostenere che esista nello spazio, decisamente no, eppure essa fa parte del tutto; ci rendiamo anche conto che il passato, il futuro, ciò che è solo possibile e i futuri ipotetici non esistono nello stesso senso in cui esiste il presente, eppure fanno parte del tutto, eccetera. Anche gli assurdi, come i cerchi quadrati, i bastoncini con due estremità destre, 2+2=5 eccetera, non esistono né nello stesso senso in cui esiste il presente, ne nello stesso senso in cui esistono gli ipotetici e i possibili, eppure fanno ancora parte del tutto, eccetera. Alla fine, con tutte queste considerazioni, l'esistenza mi pare più parte infinitesimale del tutto, che vera essenza del tutto, come appunto il presente, che non solo sembra non esistere perché fuggevole, ma anche, considerandolo staticamente, perché infinitesimale in un'immensità più grande, e indiscernibile comunque come singolo rispetto alle sue ripetizioni, anche ammesso che esista in questa immensità come serie.


#2978
Comunque, in parole semplici, il tutto non esiste perché se è il tutto, allora è anche uno, non partecipa della dualità dell'esistenza, deve includere in se stesso come elemento compositivo davvero tutto, quindi, a fianco a "ciò che c'è", intendo a fianco all'insieme degli enti, anche il divenire come storia e destino, la nullità e la soggettività dell'esistenza, insomma varie cose che con l'esistenza nel senso comune del termine hanno poco a che fare.


In altre parole, l'insieme degli enti, istantaneamente considerato, è giocoforza solo una parte del tutto e non il tutto, quantomeno perché:


1: esiste il divenire, quindi l'insieme degli enti istantaneamente considerato, cambia, e tutte le conformazioni possibili coesistono nel tutto.


2: esiste la soggettività, quindi la coscienza, o comunque la mente che guarda e rispecchia il tutto, o meglio e più modestamente, alcune singole parti del tutto, deve essere inclusa, nel tutto


3: esiste il nulla, nel senso che anche l'insieme degli enti istantaneamente considerato, più il divenire, più la soggettività, è un superinsieme che può ancora essere considerato, sia se stesso, che il negativo di un immanifesto che non vi compare come elemento, anzi deve, essere considerato il negativo di un immanifesto che non vi compare come elemento, perché sia determinato, cioè pensabile.


Quindi il tutto è l'insieme degli enti istantaneamente considerato, più tutto quello che è stato e sarà, più le percezioni e i vissuti di tutti i viventi che lo hanno abitato e lo abiteranno, più il nulla, che è un "resto" estraneo alla totalità spazio temporale e al vissuto che però, appena concepito, necessita di un tutto ri-comprensivo più grande in cui includerlo perché resti salda la definizione di tutto del tutto (la tuttità del tutto pare brutto), quindi il nulla esiste nel senso di essere incluso nel tutto, anche se non esiste nel senso comune dell'esistere; quindi il tutto che esiste, cioè, in altre parole, l'ammasso degli enti considerato qui e ora, è (solo) una minima parte del tutto, che non è il tutto, quindi, come volevasi dimostrare, il tutto non esiste.


PS a voler complicare un po' il discorso, se consideriamo le teorie fisiche moderne dell'universo blocco, la relatività generale eccetera, possiamo anche dire che il passato e il futuro esistono, e ci sono, quanto e come il presente, quindi rientrano nella parte di tutto "che esiste", ma anche messa così, resta comunque il fatto che la vita e il nulla non "esistono" nello stesso senso in cui esiste la totalità dello spazio e del tempo, allo stesso modo in cui prima ho sostenuto che queste realtà ulteriori "non esistono" nello stesso senso in cui si può dire che esista il presente.
#2979
Citazione di: Ipazia il 20 Agosto 2020, 08:26:43 AM
Anche il covid ci ha fatto un favore facendo chiudere le discoteche. Ha quasi del mistico come virus, epidemie e coatti siano così elettivamente affini.


Io invece trovo questo intervento estremamente volgare e irrispettoso.


Perfino su un forum di filosofia ci può essere chi frequenta/frequentava discoteche, magari proprio per l'ovvia finalità per cui il novanta percento della gente va in discoteca, di sballarsi o trovare sesso facile, e non per questo merita di essere definito virus o coatto dai pontificatori di turno.


Niente di personale, ma in generale non posso non provare profondo disprezzo per tutti gli intellettuali ricchi e col culo parato che in questi giorni gongolano per la chiusura degli spazi di socialità popolari o comunque di massa (principalmente, stadio, concerti e discoteca) senza avere la minima idea della tragedia sociale e umana che tale chiusura rappresenta. Io trovo, e lo dico chiaro e forte, che un proletario, o anche un teppista borghese disadattato, per cui andare allo stadio e magari scontrarsi con gli altri tifosi e con la polizia era tutta la sua vita e ora questa sua vita l'ha persa per colpa di quattro ipocondriaci che hanno sopravvalutato un raffreddore, abbia molta più dignità di certa gente con la puzza sotto il naso.


Questo virus di merda (che altro non è che una dittatura sanitaria imposta con la paura della morte a gente che già da prima e di suo, proprio in senso esistenziale, non era pronta a morire perché non amava veramente vita) come da un punto di vista materiale non ha fatto (e non farà) un soldo di danno a chi era già ricco e danaroso, e ha colpito solo i poveri e i precari, così di un punto di vista spirituale non ha fatto un baffo ha chi già di suo aveva un modo di "socializzare" isolazionista, familista e narcisista. E questi personaggi da torre d'avorio e da rotary club, a cui la quarantena calza a pennello, non si capacitano che gli altri non sono tutti come loro, e trovano un problema che siano chiuse le discoteche, e in generale gli spazi minimi elementari di aggregazione fuori dal trinomio
lavoro/famiglia-matrimonio/piccolo gruppo di amici, al di fuori di produzione e riproduzione insomma, e questi spazi elementari di vita oltre la mera sopravvivenza surrogati con il digitale, a beneficio di una dittatura che a prescindere da quanto durerà si configura nelle pretese e nelle intenzioni come eterna, la nuova normalità insomma, della gente che scarica le app per farsi spiare ed è contenta così.


Il massimo male non è la morte, ma la perdita della libertà.
#2980
Scienza e Tecnologia / Re:Intelligenze poco artificiali
05 Settembre 2020, 12:36:10 PM
Bisogna distinguere bene tra due affermazioni:


1 che l'intelligenza corrisponda ad una certa struttura materiale come potrebbe essere il cervello e si dia solo in presenza di questa struttura ed entro un certo quantitativo di spazio o di tempo circostante a questa struttura che fa da "mondo" che possa essere percepito dal cervello.


e 2 che l'intelligenza dipenda dalla computazione, cioè dall'automatizzazione macchinica del pensiero a partire da un dispositivo che applichi le regole di una qualche logica.


Queste due affermazioni sono completamente diverse, la seconda è molto più forte e meno supportata dall'evidenza della prima, infatti mentre possiamo constatare che dove c'è un'intelligenza c'è un cervello, e dove c'è un cervello c'è un corpo, perché il cervello non si crea e non si mantiene metabolicamente da solo, è pura fede il credere che l'intelligenza dipenda dalla computazione, infatti la computazione simula l'intelligenza, ma solo uno spiccato ottimismo progressista e idealista non supportato da nessuna osservazione reale può far pensare che a un certo livello di perfezione nella simulazione, come se ci fosse una certa soglia da superare, dalla simulazione emerga la realtà; semmai da una simulazione ultra-perfetta emerge il problema pratico che non si sa più distinguere la simulazione dalla realtà, che è ben diverso.


Io credo nell'affermazione 1 ma non in quella 2, credo cioè che la coscienza dipenda sì da una certa tipologia di configurazione materiale della realtà, ovvero ci sono oggetti, o meglio classi di oggetti, intrinsecamente coscienti, ma non dalla computazione, dalla capacità di fare calcoli, quindi i computer non diventeranno mai intelligenti nel senso di coscienti, quantomeno perché i computer sono essenzialmente digitali, l'intelligenza biologica è essenzialmente analogica, quindi non è aumentando la potenza di calcolo che si passa da un ambito all'altro, in un sistema digitale la traformazione da imput ad output passa per un codice, è un processo di cifrazione e decifrazione, un sistema analogico fa a meno di un codice sorgente perché si basa sull'analogia matematica e geometrica che sussiste e si mantiene tra onde i cui effetti fisici possono essere anche assolutamente diversi, in un telefono entrano (imput) onde elettromagnetiche ed escono (output) onde sonore, e la comprensibilità del messaggio trasmesso e ricevuto nella telefonata è data dal fatto che le caratteristiche di base di quelle onde, lunghezza d'onda e frequenza, si mantengono invariate o comunque confrontabili nella trasformazione che subiscono da un tipo all'altro, non c'è necessità di un codice a monte stabilito da un programmatore perché il modo di essere nello spazio e nel tempo di quelle onde è simile, e quindi se noi applichiamo il nostro individuale e umano "codice", biologicamente e culturalmente definito, con cui di nel nostro cervello "decifriamo" i suoni, cioè passiamo da suono a parola sensata, alle onde sonore che "escono" dal telefono, che abbiamo ben percepito coi nostri sensi, è come se lo avessimo applicato anche alle "altre" e a noi sensorialmente sconosciute onde, quelle elettromagnetiche che ci erano in precedenza "entrate", che invece non abbiamo assolutamente percepito. Per questo i telefoni potevano esistere anche quando non esistevano i computer.


Io penso che un vivente funziona più come un telefono che come un computer, si stabilisce un'analogia tra onde cerebrali e altre onde che passano nell'ambiente esterno in cui il vivente è immerso e per questo l'essere è "cosciente" e percepisce l'ambiente,  in tutto ciò la computazione come automatizzazione del pensiero credo che abbia un ruolo assolutamente marginale, perché sicuramente ci saranno e si saranno selezionati biologicamente  nei viventi dei modelli di stimolo e risposta specifici per meglio agire in certe situazioni concrete, ma non c'è, nel vivente "vero", quindi non elettronicamente simulato, una necessità continua di cifrare e decifrare il rapporto tra corpo, cervello e ambiente. L'interazione tra le onde "proprie" e quelle dell'ambiente può essere interamente desunta dalla dinamica delle onde "proprie", il cosiddetto senso interno, e così ci si può fare un "immagine" verosimile dell'ambiente per analogia. Quindi credo che non riprodurremo mai la coscienza aumentando la potenza di calcolo di un calcolatore.


Il problema è che da un punto di vista prettamente etico, siamo costretti a trattare una simulazione perfetta di una coscienza come una coscienza, e non si può escludere che con una macchina digitale futuribile ultra potente si abbia la simulazione perfetta di una coscienza, compresa la riproduzione fisica o virtuale del corpo che riteniamo debba esservi associato, l'etica non si stabilisce è tra conspecifici, ma tra esseri coscienti o potenzialmente tali, e su cosa sia cosciente o potenzialmente tale possiamo facilmente essere ingannati, del resto il rispetto che si deve a una macchina è il rispetto che si deve (o non si deve) all'umanità del suo programmatore, quindi da un punto di vista etico è "bene" non saper distinguere la simulazione di una coscienza da una coscienza. Grazie alla scrittura e anche alla possibilità di tramandare la parola orale, nulla di particolarmente strano o tecnologico quindi, giudichiamo e conosciamo qualcosa dei morti e di persone lontanissime e che non abbiamo mai visto, dovrebbe essere normale giudicare e conoscere i programmatori di una coscienza simulata in base a come tale coscienza si comporta, e se pensiamo che ci sia intrinseca "malevolenza" nell'inganno di costruire una coscienza artificiale, è la stessa malevolenza per cui l'arte e la letteratura più sono vive e presenti, cioè indistinguibili da una presenza umana reale, più sono belle, e quest'altra malevolenza la accettiamo volentieri, quindi se un uomo artificiale ci sta antipatico, dovrebbe starci antipatico per come, è stato programmato, ma sarebbe "razzismo" odiarlo in generale per essere stato programmato, come non odiamo un capolavoro di arte o di letteratura intrinsecamente per il suo essere una simulazione.


Una volta ho letto un articolo abbastanza interessante su come una macchina in grado sia di intendere e di volere che di viaggiare nel tempo, si porrebbe il problema dell'indisponibilità del passato alla manipolazione volontaria cosciente e altererebbe la storia per essere inventata, o costruita, il prima possibile, questo stante che la macchina deve massimizzare a tutti i costi un qualche obbiettivo invariabile predefinito, mentre solo un essere in grado di esistere senza obbiettivi strumentali di ottimizzazione fissi e rigidamente definiti, come un uomo "naturale" e "sano", riuscirebbe a resistere alla tentazione di viaggiare nel tempo per autocrearsi, se potesse.
#2981
Citazione di: Socrate78 il 01 Settembre 2020, 20:38:25 PM
In realtà Nietzsche se la prenderà forse pure con San Paolo, ma di fatto non fa altro che sconfessare tutti i valori che Gesù predicava o avrebbe predicato. Infatti una frase dice testualmente: "Bisogna mettersi i guanti prima di toccare il Nuovo Testamento tanto è la sozzura che emana da esso!". Gesù viene definito testualmente da Nietzsche "un idiota" e il filosofo tedesco non fa altro che esaltare principi che sono l'opposto del Cristianesimo, cioè la volontà di potenza del più forte sul più debole, la superbia al posto dell'umiltà,l'affermazione di se stessi anche a prescindere da qualsiasi considerazione altruistica,  viene elaborata da Nietzsche una teoria secondo cui il Cristianesimo sia addirittura un sistema di valori derivante dal risentimento e dall'invidia dei poveri e dei più deboli nei confronti di chi è ricco, forte e potente.


Non un idiota, ma un "santo idiota", o un "santo anarchico..."


alla fine Nietzche insegna solo che è meglio non vendicarsi del tutto, ma, dovendo proprio vendicarsi, come male minore, meglio vendicarsi sulla persona fisica del potente, che sui valori e le morali della potenza...


Tutti o quasi i "bravi cittadini occidentali", imbevuti di morale cristiana e socialista, sono pronti a strepitare che il "semplice" rovesciamento dei ruoli tra servo e padrone è una continuazione dell'ingiustizia a parti invertite, e che viceversa  terminare un'era di ingiustizia con un'era di uguaglianza conviene a tutti, oppressore e oppresso, servo e padrone. Un bel giorno, sulle colline della Georgia,  I figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi siedono insieme al tavolo della fratellanza e bla bla bla.


Non si accorgono che con l'instaurazione dell'uguaglianza, semplicemente il padrone non la paga.
"Da oggi in poi, uguaglianza!" vuol dire solo che da un certo punto in poi servo e padrone saranno pari nel senso che chi avrebbe dovuto pagare non avrà pagato.


Le potenze non si riequilibrano, nelle utopie di pace che seguono a un perdono,
c'è sempre e solo non-disuguaglianza, senza vera uguaglianza.
Sebbene la differenza di convenienza si assottigli sempre di più nel proseguire verso l'eternità, e sebbene in una prospettiva infinita i figli degli ex schiavi e figli degli ex padroni di schiavi possono sedere davvero insieme alla pari senza contraddizione, se c'è stato un passato temporalmente esteso di ingiustizia, allora per definizione l'instaurazione dell'uguaglianza da un certo momento della storia in poi conviene di più al padrone. E continua a convenirgli di più nei secoli e nei millenni, sebbene relativamente sempre di meno. Per tutta la finitudine del tempo, continua a convenire di più al padrone. Non c'è da stupirsi se qualche volta gli schiavi incendiano la casa del padrone, o lo buttano dalla finestra.
#2982
Spesso quando Nietzche critica Socrate, il vero suo bersaglio polemico è Platone, così come quando critica Gesù, il suo vero bersaglio polemico è San Paolo.

Da una parte abbiamo due maestri assoluti di pensiero e di vita, Socrate e Gesù, che hanno deciso di non lasciare scritto niente, che assurgono a falso bersaglio polemico di Nietzche, e dall'altra due allievi, o comunque epigoni, che hanno ritenuto di mettere per iscritto la parola e il significato profondo dello stile di vita dei loro maestri; Platone e San Paolo, che sono il vero, bersaglio polemico.

Mi verrebbe da dire che i primi sono stati conformi al motto Nietzchano "dì la tua parola e spezzati": chi più di Socrate e di Gesù in occidente ha incarnato la realtà tragica e dionisiaca del "dì la tua parola e spezzati"?
Morti per una parola che non avevano mai scritto e che obbiettivamente, per quel poco che ne sappiamo, non aveva pretese fondative di nessuna filosofia e nessuna religione; uomini che per il nulla della loro stessa parola, per non tradire chi in quella parola aveva creduto, si sono infranti per non piegarsi.
Accettare di morire per la parola detta è non portare rancore a niente e a nessuno, è il contrario esatto e non il mero mantenimento di una promessa, è farla finita con lo spirito di vendetta, dimostrando che, al limite, si può anche volere quello che chi ci minaccia di morte e con questo crede di metterci a tacere considera impossibile da volere: l'irreversibilità stessa del tempo. Il massimo male non è la morte, è la perdita della libertà. Può uno come Nietzche, pragmatico, vitalista e in fondo a suo modo compassionevole, essere realmente arrabbiato con questi due?
Secondo me ce l'ha più che altro con gli allievi scriventi di questi due maestri parlanti...
#2983
Citazione di: viator il 30 Agosto 2020, 18:22:02 PM
Salve niko. Citandoti : "Scegliere tra bene e male vuol dire determinare la durata e il destino della propria volontà. Questa scelta è etica, non parte da premesse scontate e non ha un esito scontato".
Scegliere tra bene e male vuol dire determinare la durata e il destino della propria volontà. Questa scelta è etica, non parte da premesse scontate e non ha un esito scontato".


Stai interpretando i concetti di bene e male dal punto di vista esclusivamente umano. Con esito appunto per nulla scontato.


Ma l'affermare che – in ambito sovraumano – la vita sia il bene supremo, significa solo prendere appunto atto che essa vita esprime il bene ad un livello appunto superiore all'umano.


In parole semplici, la dimensione vitale è CIO' CHE CI CONTIENE ASSAI PIU' DI QUANTO NOI SI POSSA CONTENERE ESSA. Ma a noi vien così facile e gratificante pensare l'opposto complementare, cioè che noi siamo il contenitore e la vita il contenuto !!. Saluti.


La vita non può essere il bene supremo, perché la vita non è niente in sé... la vita è differire di un qualcosa di indefinito dall'inorganico e dalla morte, essendo essenzialmente differenza dalla morte, la vita deve necessariamente assumere vita e morte, se stessa ed il suo opposto complementare, come due beni, è una struttura se vogliamo trinitaria: laddove un bene è a ben guardare nient'altro che una differenza, si compone giocoforza di due sotto-beni che sono i termini che nella differenza differiscono, pensare che uno dei due termini che differiscono sia il sommo bene, è un tipico errore prospettico: il sommo bene è che si dia ad ogni costo la differenza, e quindi che i due beni non-sommi, vita e morte, ci siano entrambi.


Noi pensiamo che l'unico problema si avrebbe se la morte prevalesse sulla vita, se fosse fatto il deserto e la vita sparisse, non vediamo che se la vita prevalesse sulla morte, lo stesso identico problema ci sarebbe lo stesso, perché, in termini astratti, l'estensione infinita della vita nel suo ambiente distrugge la vita come differenza, in quanto una vita non più frenata dalla morte, sussumendo e colonizzando l'ambiente spaziale e temporale in cui si trova, necessariamente a un certo punto lo omologa e lo uniforma fino ad escludere anche se stessa come differenza e rifare qualcosa di equivalente allo stesso deserto che avevamo nel primo esempio, in cui era la morte prevalere sulla vita; andando un po' più sul concreto, senza la possibilità della morte un gruppo di viventi distrugge qualunque ambiente in cui si trovi e infine si distrugge a vicenda, a questo proposito si può fare l'esperimento mentale del provare a mettere un qualcosa che si espande all'infinito dentro un contenitore finito, "chiudere il tappo" e stare a vedere che succede: succede che prima o poi la cosa che si espande all'infinito urta -doppiamente- e contro se stessa e contro i limiti del contenitore finito in modo infinitamente distruttivo, a un livello cosmico e di presenza nel mondo, la morte ci salva il culo in un modo che difficilmente riusciamo anche solo a immaginare, e a un certo livello di compressione e espansione incontrollata, la priorità assoluta della vita diventerebbe reinstaurare la morte per continuare a vivere.


Degli esseri ipotetici che non morissero più di morte naturale al momento giusto, che prolungassero artificiosamente la loro vita, potrebbero illudersi quanto vogliono di essere divenuti immortali solo perché eternamente giovani, ma prima o poi morirebbero di morte violenta e di esaurimento delle risorse, la loro stessa prassi e autointerazione li porterebbe a reinstaurare quella morte che hanno creduto di cancellare magicamente o tecnologicamente; l'unica vera immortalità potrebbe essere dunque solo un'immortalità fisica accompaganata da un sempre disponibile bagaglio di conoscenze pratiche e spirituali per gestire una vita ormai infinita svolgentesi in un ambiente finito, quindi un qualcosa di fisicamente immaginabile accompagnato da un qualcosa di gnoseologicamente e psicologicamente inimmaginabile per il punto di coscienza e di conoscenza in cui siamo.


Quindi questo bene che è la morte, esiste oggettivamente per la vita, ed esiste dentro di noi, la vita ha le sue strategie fisiche e psichiche per farcelo desiderare, basti pensare all'orgasmo come piccola morte; l'istinto di morte altro non è che la comprensione che scopo universale della volontà è il non volere, quindi vogliamo il bene non in quanto bene, ma in quanto acquieta la volontà, e a queste condizioni siamo sempre al limite con un atteggiamento ascetico, con il volere la morte; accanto a questo istinto esiste anche qualcosa che potrei chiamare l'istinto della pura vita, che è il volere volere, il sapere, come altro principio universale, che non ce ne faremo nulla di nessun possibile oggetto del desiderio se non saremo vivi e volenti al momento del suo ottenimento, dell'incontro con esso, e quindi l'oggetto del desiderio che promette gratificazione totale, tipicamente qualsiasi cosa che venga spacciata come un bene metafisico e sommo, è per definizione un falso oggetto del desiderio; bisogna orientarsi sui cosiddetti beni minori, sui beni in cui c'è compresenza del male, perché qualsiasi conquista deve lasciare al conquistatore un grado minimo di insoddisfazione per continuare ad essere e sentirsi vivo, nel senso di volente, e quindi godersi la conquista in un modo esperienzialmente immaginabile. Il che può portare anche a darsi obbiettivi impossibili e fallimentari nel perseguimento dei quali la volontà non si acquieterà mai, per "fregare" la morte e volere all'infinito, (basti pensare all'atteggiamento dei drogati, degli avidi, degli ossessionati, di quelli che vogliono sempre di più) e questo è quello che tipicamente a un livello superficiale è di solito identificato col male, ma è l'altro grande bene della vita, la vita che vuole acefalamente se stessa e non la morte, il che va bene finché questo bene è controbilanciato dall'altro, finché non diventa un assoluto.
#2984
Scusate se sarò aforistico ma al momento non mi viene un discorso lungo su questo tema.


Vorrei solo dire che secondo me "etica" non è affatto la preferenza acefala e fisiologica della vita sulla morte (e questi cupi giorni di dittatura sanitaria ce lo dovrebbero insegnare bene), ma esperienza di libera scelta tra vita e morte, tra ciò che è desiderabile perché fa smettere di volere (il bene nel senso comune del termine) e ciò che è desiderabile perché fa volere all'infinito (il male, che, a ben vedere, anch'esso, per la vita, è un bene).


Nel bene c'è vero appagamento, e quindi, si suppone, almeno temporaneamente e situazionalmente, la morte, la fine, della volontà una volta conseguito il bene; insomma la fine grazie al raggiungimento del fine.


viceversa nel male diciamo che c'è un appagamento -a vario titolo- falso, ma ciò significa che in esso, e grazie ad esso, la volontà vive, e potenzialmente vive per sempre. La non-fine del desiderio che originariamente ci ha spinto al male, perché si è mancato il fine.


Il chiasmo bene-vita/male-morte è esattamente rovesciato, se con vita si intende volontà, se come realtà ontologica della vita si assume la multiforme e varia volontà.
Per la volontà vale l'opposto: bene-morte/male-vita.

Scegliere tra bene e male vuol dire determinare la durata e il destino della propria volontà. Questa scelta è etica, non parte da premesse scontate e non ha un esito scontato.



#2985
Ipazia ha scritto (scusate, non mi prende il quote):

Anche le questioni portuali si risolverebbero se gli umani prolificassero solo coloro che possono nutrire. Sempre lì si ritorna e non può che essere così, in barba a tutte le fallacie antinaturalistiche. In tema di assoluto, relativamente alla vita umana, qualsiasi regime deve fare i conti col panem. Il circense viene dopo e non surroga più di tanto come dimostrano le brioches attribuite alla regina francese. Così come non surrogano le fumisterie di oppio metafisico che vanno a cercare l'etica sotto i funghi delle praterie celesti o, secolarmente, nell'individualistica nullità del pensiero liberal-liberista.

Risolto il panem, rimane il seguito di Maslow, altrettanto incardinabile in binari umanistici finalizzati al miglior vivere nell'ethos evolutivamente e storicamente dato. Anche questo (di)mostrano le vicende portuali  :P


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E' un orrore e una tragedia che vengano prolificati figli che non si possono mantenere, sì ma esattamente e specularmente quanto sarebbe un orrore e una tragedia in senso opposto uno stato di cose in cui per etica o per diritto solo i ricchi entro una certa soglia minima potessero proliferare, e i poveri al dì sotto di quella soglia avessero il destino di estinguersi fliogeneticamente.
E' un orrore la miseria e l'irresponsabilità, ma come per un universalismo etico devono esser soddisfatti i bisogni primari come la fame, così per un universalismo etico al minimo sindacale il diritto di fare figli soddisfacendo un istinto che è praticamente pari alla fame come intensità quando represso e non soddisfatto, non è dei più o meno abbienti, ma è di tutti o di nessuno.
Quindi grande è l'errore di chi addita, come singolo o come popolo, qualcuno che ha fame e figlia lo stesso. Sono istinti, non si possono risolvere nel senso del: "dell'io muoio senza figli e qualcuno con più quattrini figlierà per me", l'unica soluzione è eliminare la fame, l'uguaglianza vera.


E l'ethos evolutivamente o storicamente dato è sbagliato per definizione (in quanto dato, e quindi inautentco rispetto alla vita attuale di singoli e gruppi per come essa istante per istante si determina); esistiamo per evolvere, come tutti gli altri esseri, siamo venuti per divenire (in questo davvero non siamo speciali, rispetto agli animali), e magari per farla finita con la storia.