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Messaggi - niko

#2986
Io credo che la vita umana non possa essere assunta come assoluto, quantomeno perché la specie umana, se non si estingue prima evolverà fino a non corrispondere più a se stessa.


E anche perché proprio la coscienza introduce il dubbio "lacerante" di non sapere se la "comunità" come luogo regolato da un'etica si dia tra i conspecifici o tra le coscienze, pensiamo di essere l'unica specie che pensa e parla in modo complesso ma non possiamo esserne sicuri, in futuro alieni evoluti, macchine che che noi stessi potremmo aver costruito, altre specie che abbiano avuto il tempo per evolversi, potrebbero avere un livello di pensiero e di linguaggio pari al nostro, e quindi pretendere di far parte della nostra "comunità" in senso etico, ma soprattutto fin da sempre pensare e parlare vuol dire identificarsi con un pensiero e un linguaggio e non con una specie, l'identificazione del soggetto con la specie è già persa dal momento in cui la specie pensa e parla, e non si può determinare in assoluto il numero dei pensanti e dei parlanti, né sapere in assoluto se tutti i pensanti e i parlanti dell'insieme siano o no conspecifici.
I nostri antenati pensavano a certe condizioni di poter parlare con gli angeli o coi demoni, noi oggi parliamo con le radioline e i cellulari e gli chiediamo che musica vogliamo ascoltare o dove sta l'indirizzo a cui vogliamo andare, le scimmie più evolute a cui sia data in mano una tastiera che riproduca le parole "parlano", insomma è intrinseco nella parola che il parlante non sia necessariamente umano, che la comunità a cui si riferisce la parola sia una comunità ideale e non una comunità di sangue.
La parola fa le comunità numericamente inferiori all'umano (i greci e i romani consideravano "barbari" cioè balbettanti, coloro che non avevano il loro linguaggio, la storia della torre di Babele pure fa capire quanto l'uomo sia pronto a frammentarsi in sottogruppi inferiori alla numerosità del gruppo originale secondo la diversità di linguaggio e la comprensibilità), e la parola fa le comunità numericamente superiori all'umano, noi parliamo con i computer, sentiamo in noi la voce dei morti e dei distanti grazie alla scrittura -quindi non siamo limitati all'umano vicino o presente come destinatario di una comunicazione-, siamo stati per secoli convinti in buona fede che si potesse parlare con entità pensanti e parlanti ma non umane (angeli, demoni, dio stesso, profezie eccetera).


Quindi secondo me la vita umana ha una funzione sua propria (il pensiero/linguaggio) che rende intrinsecamente impossibile la vita umana come assoluto etico. Bisogna aprirsi alla comunità dei pensanti e dei parlanti in generale, che è aspecifica, già solo avere un nome ci disumanizza in senso biologico, non abbiamo niente di biologicamente diverso da quelli che hanno un nome diverso dal nostro, e niente di particolarmente simile a quelli che hanno il nostro stesso nome, noi in senso prosaico e banale siamo la parola che ci designa, quando proviamo, giustamente, ad elevarci e andare oltre questa designazione iniziale, non è detto che ci dobbiamo fermare al corpo o alla specie, come anche questa parola iniziale non si è fermata affatto al corpo e alla specie, infatti i Mario Rossi, per dire sono molto più di uno, ma non tanti quanti la specie umana, quindi ogni nome è più del corpo, e meno della specie, come classe di numerosità designata.



#2987
Tematiche Filosofiche / Re:Il nulla come concetto
23 Agosto 2020, 11:11:41 AM
Il nulla non è nulla, quindi non è nemmeno se stesso. Non è in modo completo un'identità, per esso non vale A=A, se non sei, non corrispondi al tuo non essere, infatti penso che l'essere sia un modo determinato di essere nulla, (e quindi non ne essere niente di niente, nemmeno se stesso), del nulla, infatti ci si può chiedere: "in che modo il nulla non è?" guardare empiricamente il mondo, questa stanza, le stelle il mare eccetera, e rispondersi:
"quantomeno in questo modo": qui c'è una stella, qui c'è un granello di sabbia, qui c'è un gatto eccetera, l'insieme dei "qui" forma una trama continua della realtà da cui il nulla non può emergere, quindi il nulla è nulla perché ci sono gli esseri e le cose, ogni cosa che posso osservare produce la nullità del nulla come effetto della sua concreta esistenza.
Il tauma, la meraviglia per l'esistenza da cui nasce la filosofia, dipende tanto dall'essere quanto dal nulla, il nulla non preferisce essere nulla piuttosto che essere l'effetto in particolare di una singola cosa che vedo come il tavolo o il gatto, ovvero ci saranno pure infiniti modi sconosciuti di essere nulla del nulla, ma almeno uno lo conosco ed è questo mondo che vedo, con tutte le sue parti costituenti.
Ma oltre ad essere effetto dell'essere, come altro farebbe il nulla a non essere se stesso, se non essendo l'essere? La dinamica essere/nulla sparisce infatti nella dinamica se/altro, l'essere è l'altro del nulla, e il nulla proprio per il suo dover essere altro, per il suo non corrispondere a se stesso (se corrispondesse a se stesso sarebbe qualcosa), per il suo essere A diverso da A, è essere. Proprio perché il nulla è nulla, esiste un "principio di conservazione", nulla può perdersi o scomparire realmente nel nulla, e, tolta la possibilità del non essere assoluto o del divenire-nulla assoluto come direzione possibile di una trasformazione, il modo residualmente possibile di non essere se stessa di una cosa è di essere altro, altroda se stessa, ovvero un'altra cosa o un'insieme di altre cose; il divenire non va verso il nulla, ma verso la trasformazione continua, il che è come dire che una volta che nego il nulla come contrario e dunque limite dell'essere, non emerge solo per effetto di questa mia negazione un essere incontrastato e illimitato, ma ogni cosa che compone l'essere trova limite e contrario in un'altra cosa e in questa danza di opposti non si accede più alla totalità se non come principio astratto.
Insomma posso negare il limite esterno dell'essere, solo mettendogliene uno interno, una rete che mi delimiti gli opposti; l'essere, solo se immagino che galleggi realmente nel nulla e anche il nulla sia qualcosa, posso pensarlo come unità: unità della dualità che costituisce col nulla, Viceversa se penso che l'essere è davvero in senso esaustivo il tutto e non galleggia, non ha limite esterno, in nulla di reale, questo tutto non ha nulla di unitario, nulla di consustanziale, se non forse il logos eracliteo, la legge del cambiamento, che mi rivela come una cosa diventi l'altra e come tutte le cose diventino tutte le cose, cioè in definitiva come il limite si sia spostato dall'esterno all'interno, di quello che doveva delimitare, e ora, tolto il nulla assoluto, ogni cosa ha il suo nulla relativo nell'altra.
#2988
Citazione di: bobmax il 15 Agosto 2020, 23:14:13 PM
L'Essere non coincide con l'esistere. Perché l'Essere è ciò che fa sì che l'esistenza sia.
Mentre l'esistenza rimanda inevitabilmente al proprio fondamento: L'Essere.

Perciò, l'Essere non è l'insieme di ciò che esiste. Ne è l'origine!

In quanto origine, in quanto fondamento dell'esistenza, l'Essere non può ridursi ad esistente.
L'Essere non esiste.

In quanto non esistente, per darne un'idea si può solo considerarlo Nulla. Non certo per definirlo! Ma per confermare l'impossibilità di una definizione.

Nulla significa non esistente.
Non significa nient'altro che questo.
Ipotizzare l'esistenza del Nulla è una contraddizione in termini.
Non può esservi "qualcosa" che sia nulla!

Affermare che Essere = Nulla vuol dire semplicemente constatare la non esistenza dell'Essere.

-------

La scienza si occupa di tutto quello che c'è.
Se intendiamo con "fisica" la scienza, oltre la fisica non c'è nulla.
E infatti l'unica autentica metafisica è metafisica del Nulla.
Ogni altra pretesa metafisica non può che essere una fantasia.

Ma la metafisica del Nulla non è vuota come potrebbe sembrare ad uno sguardo superficiale.
La metafisica del Nulla è un'apertura al mondo spirituale.




Penso che esista sia una tradizione filosofica secondo cui l'essere è la causa degli enti, che una altrettanto degna e importante secondo cui esso è l'insieme degli enti.


Se lo poni come causa, ovvero se poni l'essere come causa dell'ammasso di enti e non come ammasso di enti in sé,  fai bene a dire che non esiste, appunto perché la causa non è l'effetto, e la causa in generale di tutti gli esistenti, deve essere non-esistente (ovvero deve essere in linea generale diversa dal suo effetto), da cui tutte le identificazioni di Dio con il nulla o, l'assoluto, o con l'Essere con la E maiuscola nel senso che dici tu, contrapposto all'esistere, sono tutti modi per dire che la causa degli essenti non è essente, quindi al limite Dio è, ma non c'è, nel senso non c'è come ci sono tutte le altre cose.


Però se invece poniamo l'essere semplicemente come l'insieme degli enti, è corretto dire che il nulla non è (o i nulla non sono, ammesso che siano più d'uno) elemento di quell'insieme. Però se, esplorando le possibilità di quest'altro modo di porre le cose, per assurdo a un certo punto poniamo che il nulla, almeno a certe condizioni particolari, sia (ad esempio per giustificare il divenire), e però teniamo fermo quello che avevamo definito prima, che il nulla non è elemento dell'insieme essere, allora sono ipotizzabili insiemi più capienti dell'essere, appunto i tutti metafisici, simili al tao orientale per intenderci, di cui si parla nel topic.

A questo punto la mia riflessione è che secondo me è solo una smania nella ricerca delle cause che fa preferire la concezione di essere come causa dell'ente (e quindi la distinzione tra esistenza ed essenza, che è un platonismo che ha avuto molta fortuna in metafisica e in tutta la cultura occidentale, ma non è certo un dogma indiscutibile) a quella molto più realistica dell'essere come collezione/ammasso di enti; il problema è che siamo psicologicamente inquietati dal fatto che in questa seconda concezione l'ammasso è incausato, e quindi non ci soddisfa come quella in cui c'è un Dio o una causa suprema da cui deriva tutto. Secondo perché non si riflette abbastanza sul fatto che anche una concezione puramente effettuale degli enti è un abisso, se in quanto esistenti siamo effetto e fenomeno di quello che avviene nell'inesistente il mondo non ha potenza e non ha valore, è un sogno in cui tutto è già deciso da altri, o, che è lo stesso, da parti di noi che ci saranno "altre", cioè inaccessibili, per sempre, quindi comunque tutto deciso da altri... essere puramente nell'effetto vuol dire non essere nulla, non avere vero potere ne vera proprietà su nulla, e il nulla in cui risiedono le nostre "cause" è l'unica cosa/dimensione che ha valore, insomma il mondo alla rovescia della metafisica contro cui giustamente ribellarsi...

Perché ad assumerlo per vero e a prenderlo sul serio, il "mondo" della metafisica, né consegue che il nulla da cui derivano le cause dell'essere è l'essere (il vero essere), e noi, appunto perché siamo nell'essere nel senso comune del termine, cioè nell'effetto di queste cause misteriose e di fatto indimostrabili, siamo il nulla...
#2989
Io penso che se il nulla esistesse, l'essere non sarebbe l'insieme degli esistenti, infatti se il nulla esistesse, allora l'essere sarebbe non semplicemente l'insieme di tutti gli esistenti, ma l'insieme di tutti gli esistenti meno il nulla, e ci sarebbe un super-essere superiore all'essere stesso (un tutto metafisico di qualche tipo) che comprenderebbe l'essere come insieme degli esistenti, più il nulla.


Per quanto riguarda l'essere, l'essere della parte è prerequisito per essere parte dell'insieme che l'essere è, per il super-essere no, e il super-essere si compone indifferentemente di parti essenti, e di almeno una parte non essente.


Infatti la caratteristica principale del nulla è di non appartenere all'essere come sua parte, e quindi l'esistenza del nulla mette in crisi il pensiero dell'essere come pensiero dell'insieme totale di tutte le parti possibili e immaginabili di un qualcosa che a vario titolo "c'è"; se c'è il nulla ci sono parti non essenti del tutto, parti che a buon titolo si possono chiamare parti del tutto, ma non parti dell'essere, quindi se c'è il nulla, ne consegue che l'essere non si identifica col tutto, e che il tutto è superiore all'essere.


Io giocando con le categorie metafisiche per quanto me lo consente la mia intelligenza, penso che solo il tutto è uno, le parti del tutto sono di conseguenza il non-uno (per ogni ente estratto dal tutto e considerato separatamente, deve valere l'equivalenza
non-tutto=non-uno, questa cosa non è il tutto, quindi questa cosa non è una, non è unica).


Il tutto infinito che immagino io si compone però anche di parti anch'esse propriamente e singolarmente infinite, non contiene parti infinitesime ad esso non sovrapponibili e incommensurabili -micro parti che, se esistessero, prive di ogni altra funzione, dovrebbero esistere solo per diletto dell'uomo e a conferma del suo modo di vedere le cose-, quindi in definitiva anche qualsiasi numero non infinito con cui pensiamo di contare una qualsiasi cosa che riscontriamo esistente, compresa la nostra stessa vita, è un'illusione.
Nel tutto infinito continuo, che corrisponde all'universo, passano solo le serie infinite discrete che lo compongono, quindi (solo) il tutto è uno, nel senso di infinito continuo; la parte compositiva del tutto è non-una, nel senso di parte arbitrariamente estratta di una serie infinita discreta, che "sta attraversando" il tutto (e noi in un certo punto la cogliamo, e spesso pensiamo che esista "solo lì", in quanto l'abbiamo colta, solo lì) e la cui ripetizione è infinitamente possibile.
#2990
La tua domanda ha anche una risposta possibile prettamente filosofica, ovvero puramente semantica e logica: si auto risponde a seconda di ciò che intendi con Natura:


Nel senso comune si può intendere natura e l'aggettivo: "naturale" principalmente in due modi:


1: come selvaggio, animalesco, deterministico, spontaneo; contrapposto a: "umano", nel senso di cosciente, libero da determinazioni istintuali o automatiche.
In questa definizione, oltreché il contrasto tra automatismo bestiale o fisico-inerziale e libertà della coscienza, rientra l'indicazione di ulteriorità dell'essere della natura rispetto all'ambito di conoscenza ed esistenza propriamente -spazialmente e temporalmente- umana, quindi "naturale" in questo senso è dove l'uomo non arriva; ad esempio una jungla inesplorata, un pianeta lontano, un'era del tempo pre o post umana. Con umano qui si intende razionale, quindi degli alieni o delle macchine di intelligenza paragonabile a quella umana, diventerebbero "innaturali", se ne fosse accertata l'esistenza, secondo questa definizione.


2: come realtà fenomenica in generale, in cui agire intenzionale, caso e destino si uniscono insieme e formano un ordine superiore o quantomeno diverso da ognuna delle sue parti.
In questo senso si intende natura come tutto ciò che è ordinato, che sia ordinato dalla volontà o dall'istinto, nel caso della vita di uomini e animali, ma anche, nel caso degli oggetti inanimati e della componente oggettuale dei corpi viventi, tutto ciò che è "ordinato" dal caso e dalle leggi fisiche e meccaniche del divenire, leggi e tendenze che formano un archetipo di "volontà" paragonabile con quella dei viventi, perché qui con volontà si intende esperienza ripetuta dell'idoneità della causa a produrre l'effetto, e quindi aspettativa in un essere pensante dell'effetto stante la causa, a prescindere che tale esperienza si sia prodotto dentro o fuori di sé, dentro o fuori di un osservatore. [size=78%]Voglio dire che, anche se un creatore o un ordinatore del mondo non c'è, anche se il creatore è nullo, la volontà è il modo mentale ed esperienziale in cui noi viventi diveniamo coscienti del nesso-causa effetto, e quindi tendiamo ad attribuirla a un ipotetico creatore vista la potenza e la almeno parziale conoscibilità e ricorsività della natura, per una analogia che non ha nemmeno bisogno dell'effettiva esistenza del creatore per darsi e funzionare.[/size]
In questo senso non c'è uomo contro natura, un campo dell'artificiale contrapponibile a uno del naturale, ma c'è una natura umana, come ci può essere la natura del sasso, della foglia o del topo, una tendenza e un desiderio di comportamento che deriva da ciò che si è, piuttosto che da ciò che si progetta o si vuole, che qui, in questa definizione in cui prevale l'ordinamento composito e generale del tutto, è visto come mera conseguenza di ciò che si è, poiché ciò che ci precede, ci segue o ci forma non è un'altro ordine, ma un'altra parte dello stesso ordine, quindi siamo determinati dalle stesse leggi che determinano tutti gli esseri in generale.


Come ci si colloca tra queste due definizioni, determinerà la risposta che si potrà dare circa la "naturalità" della natura umana.





Se con natura intendi l'ordine cosmico in generale, (definizione 2) l'ordine cosmico in generale è intangibile per definizione:


L'uomo può illudersi di manipolare la natura, di avere potere e autodeterminazione superiore a quella degli altri animali, ma nello svolgimento della storia e del "destino" della natura è previsto e calcolato che l'uomo faccia esattamente tutto quello che effettivamente fa, a se stesso e al mondo circostante. Come ogni essere parte di un ordine cosmico, l'uomo non può realmente innovare l'ordine che lo contiene, ma solo svolgere le premesse destinali del suo divenire prescritte dalla sua stessa natura. La tecnologica non che una prosecuzione della natura con altri mezzi: la natura inventa un essere tecnologico che con la tecnologia altera la natura stessa, ma ben si comprende che tutta la vicenda è comunque una mediazione della natura che altera se stessa a partire da se stessa, una parte della natura che opera su un'altra, o meglio due parti della natura che operano l'una sull'altra, come in ogni rapporto tra specie e ambiente; ogni specie altera il contesto in cui vive, l'uomo con la tecnologia e la sua intelligenza lo fa solo in un modo particolare.


Se con natura intendi l'ordine cosmico in quanto inalterato dall'uomo (definizione1), insomma tutto l'essere del cosmo ad eccezione dell'uomo, anche qui la definizione contiene la risposta alla tua domanda, perché se con natura intendi ciò che è inalterato dall'uomo, uomo e natura si contrappongono per definizione, l'uomo non può lasciare completamente inalterato il mondo che lo circonda e sopravvivere, quantomeno deve trovare acqua, cibo eccetera, e la sue stessa esistenza è alterazione di uno stato inalterato precedente, che può intendersi come "natura", quindi come ciò che c'è stato, c'è e ci sarà anche senza l'uomo; e stante la soggettività umana che si compone di sé e non sé, volontario e involontario, percepiente e percepito, ci sarà sempre una componente che a lui risulta involontaria e destinale, e quindi naturale, nel suo vissuto e nel suo campo percettivo, da contrapporre ad una razionale e volontaristica. Ad esempio, vedo un grumo colorato di materia vivente con le piume e le ali, e so per la mia formazione umana e culturale che quello è un uccello, ma appunto l'intero "spirito" come decodificazione della percezione può essere inteso come contrapposto alla natura.
#2991

Dico la mia anche se sono ateo...

Si pone spesso il problema del male dal punto di vista della volontà, della provvidenza e del libero arbitrio, ma secondo me così facendo non si coglie il problema fondamentale, cioè che il mondo è una danza di opposti, e in questa danza il male connecessario al bene.


La definizione più ovvia di bene è: "ciò che è oggetto del desiderio", ma per avvertire l'oggetto del desiderio nella sua effettiva realtà di oggetto del desiderio, quindi il bene in quanto bene, è necessaria l'esperienza vissuta della mancanza di ciò che si desidera e del desiderio almeno temporaneamente frustrato, quindi il male.


Se vuoi il bene, quello che non vuoi, cioè il male, è condizione necessaria dell'esistenza di quello che vuoi, quindi non puoi essere coerente fino in fondo con te stesso nel non volerlo, e nel volere il bene. Il bene non può esistere senza il suo spazio, senza il suo negativo predeterminato, e questo negativo predeterminato è la persona sofferente stessa, che avverte la mancanza del bene.


Tutto è collegato, tutto è uno, quindi se vuoi qualcosa inconsapevolmente vuoi tutto, se vuoi tutto vuoi anche il contrario di quello che vuoi, quindi è logicamente necessario che la volontà si acquieti, che si comprenda che il bene non è un oggetto del desiderio qualsiasi ma l'oggetto del desiderio che comprende il desiderante nella sua realtà attuale, il desiderio stesso e tutto l'universo, ma questo non è altro che integrazione e accettazione del male.




Si è detto che Dio non fa cerchi quadrati, ma non fa neanche bastoncini con due estremità destre, e non fa neanche nell'ordine della creazione qualcosa di definibile come un bene esistente allo stato "puro", che possa esistere ed essere conoscibile senza un grado corrispettivo di male (ovvero di desiderabilità del bene creato, e quindi di sua, almeno potenziale, mancanza) che sarebbe un po' come un bastoncino con due estremità destre.


Lui semplicemente lo è, questo inconcepibile bene puro che può esistere allo stato libero senza la contaminazione intrinseca del male, e quindi, essendolo già, non lo può fare, nel senso di non lo può creare, crea sempre fuori di se, quindi in direzione dell'implicazione nella creazione di un grado minimo ineliminabile di male, quantomeno il male che serve alla creatura per conoscere, e quindi per sperimentare, e quindi desiderare, il bene creato. La perfezione unica per definizione, cioè Dio, promana necessariamente verso gradi minori di perfezione, non crea l'identico a sé, ne tanto meno il superiore a sé, sennò sarebbe perfezione (esisterebbe qualcosa di meglio), e non sarebbe unica (esisterebbe qualcosa di uguale).


Quindi a me quella che sembra una volontà divina "di primo livello" è che Dio decide di agire secondo logica e secondo non contraddizione, da questa volontà di primo livello deriva che Dio non può duplicarsi (l'uno è uno) e non può neanche creare niente al di sopra di sé (il bene è bene), quindi, stante anche che Dio è per definizione il già esistente (l'eterno è eterno), e che il già esistente non si può ri-creare, la creazione tende verso il non-Dio, verso l'altro e il diverso possibile da Dio, quindi, a dirla tutta, verso l'ombra e la possibilità del male, verso il grado minore di perfezione, verso la discendenza. Perché se ci si pensa bene, i gradi paritari e superiori di perfezione sono preclusi dal significato stesso di uno e di bene, quindi la "direzione" conflittuale e inquietante in cui si svilupperà la creazione è necessitata per esclusione.
#2992

Li avremo tutti :-)


Gesù ci spiegherà che l'eternità, o quantomeno il lasso di tempo che noi "abbiamo vissuto", quale frammento consustanziale dell'eternità, è un'infinità discreta innumerevole di attimi, a cui corrisponde un'infinità discreta innumerevole di corpi, e naturalmente se siamo esseri spirituali non siamo mai "stati", temporalmente, in uno solo di essi, ma sempre, atemporalmente, in tutti.


O almeno tutto questo (per quanto sia una pippa mentale) mi sembra molto più sensato di riprendersi un corpo singolo a casaccio, o un corpo spirituale di luce che non siamo mai stati.
#2993
Tematiche Filosofiche / Re:L'ira
19 Giugno 2020, 21:56:19 PM

Sì Viator, con prevenire intendevo anche creare deterrenti, però appunto ho usato prevenire, e ho parlato di evitare la ripetizione nel futuro di quello che ci fa orrore, perché non volevo limitarmi (come fai tu) al concetto che la giustizia si applica solo posteriormente ai fatti: per quanto da un punto di vista tecnico e giuridico sia così, si applica solo a posteriori, da un punto di vista pratico e intuitivo, è abbastanza chiaro che se uno ammazza o stupra una volta, o tanto più due, o più volte, ha una probabilità molto maggiore di rifarlo ancora di uno che non lo ha mai fatto, quindi mettendolo in prigione di fatto previeni che lo rifaccia, e la pena non ha solo una funzione di deterrenza, ma anche di impedire la reiterazione del reato, cioè se soggetti ritenuti pericolosi non sono più in giro, ma per esempio sono in carcere, si suppone che la società in generale sia più sicura e sia meno probabile incontrare tali soggetti per strada, e questo è vero a prescindere anche dalla deterrenza, cioè dall'idea che essere messi in carcere sia brutto, e comporti sofferenza, e quindi sia un impedimento al progetto di delinquere per chi non trova impedimento solo nella sua morale, e ha bisogno di una minaccia concreta per convincersi in un senso o nell'altro.


In realtà prevenzione vuol dire: "se delinqui ti metto in condizione di non nuocere perché non rifaccia il reato tu", deterrenza vuol dire: "faccio in modo che questa condizione in cui ti metto se delinqui sia anche scomoda e disagevole, perché non facciano il tuo stesso reato altri", ma appunto si rimane in un concetto moderno e umanamente accettabile di "pena" finché lo scopo è impedire i reati, da parte del reo e anche da parte di chiunque potrebbe essere tentato di imitarlo o emularlo.  Quando invece tutto ciò diventa "punizione", cioè si infierisce sul reo in quanto tale, si pretende di cercare espiazione per il presente cambiando il significato valoriale del passato invece di metterci una bella pietra sopra e limitarsi a creare un futuro migliore, si entra in un territorio di integralismo in cui si suppone che la morale esista oggettivamente, e lo stato abbia il diritto di "punire" chicchessia.


E invece non si può punire nessuno perché in una società aperta le morali sono plurali, (per rispondere a Giopap), quello che spara per strada avrà le sue ragioni e nella sua mente malata è "nel giusto", e i veri colpevoli magari sono i poveracci a cui ha sparato, quindi che vogliamo fare? La sua interiorità è intangibile, e nella sua interiorità lui ha ragione, e chi lo punisce ha torto, per questo dico che il passato è intangibile, è custodito nella memoria delle vittime e dei colpevoli, che non lo vedono allo stesso modo, che di fatto, finché non si riconciliano, non fanno parte della stessa "storia". Due torti non fanno una ragione, altroché malvagi predestinati ad essere puniti, e i "malvagi" finché non si pentono, dal loro punto di vista avranno sempre ragione, e si sentiranno perseguitati dai "buoni", esattamente e specularmente come a soggettività invertite si sentono perseguitati i "buoni" da loro.


La ragione è sempre quella del più forte, e se in passato hanno dominato i malvagi, sicuramente in quello stesso passato hanno dominato anche le ragioni, dei malvagi. Se la storia da un certo punto in poi cambierà, vorrà dire che a quello che è stato succederà altro, e si creerà una totalità composta da quello che è stato (in passato) + altro,  non che quello che è stato sarà annullato, sostituito o cambiato. Può sembrare una banalità, ma è questa semplice verità che dimenticano quelli che credono in una morale oggettiva, e che in nome di essa vogliono "punire".
#2994
Tematiche Filosofiche / Re:L'ira
19 Giugno 2020, 16:20:19 PM

Tre funzioni ha la giustizia: punire, rieducare, prevenire.


Personalmente non credo nel punire e nemmeno nel rieducare, l'aspetto che trovo più umano dell'assolutamente imperfetta giustizia umana è il prevenire.


Prevenire è reagire a un crimine guardando all'immensità e all'imprevedibilità del futuro, l'umano troppo umano: "che non si ripeta più!" davanti a quello che ci fa orrore. Probabilmente tutto si ripete, ma il vero coraggio per chi (nel presente) sente di aver subito un torto è provare a cambiare l'intangibile passato dal suo appiglio naturale nel "ciclo" del tempo, cioè appunto dal futuro. Spartirsi la totalità del tempo e il potere di determinarne la forma con il colpevole, il che prevede, se non il perdono, almeno l'accettazione.
Non si può cambiare il passato, il che vuol dire che anche chi ci ha fatto e ci fa del male, partecipa alla creazione del mondo tanto quanto noi. E' sul potere sul risultato finale, o meglio complessivo, che semmai si può lottare.


Punire nasconde la pretesa intrinsecamente folle di cambiare il senso e il valore del passato e poggia sulla fede nel libero arbitrio (il colpevole avrebbe potuto fare diversamente, sennò perché punirlo?).


Educare dipende come possibilità dall'incerta fede in un futuro anteriore, in un futuro che migliorerà solo dopo un certo determinato ed auspicato evento futuro, quello in cui il colpevole "diventa buono", "si converte", "riscopre la sua naturale bontà" eccetera; e poggia sull'intellettualismo etico socratico agitato come contrario esatto del libero arbitrio (il colpevole non avrebbe potuto fare diversamente, quindi povero deficiente rieduchiamolo), perché chi vuole rieducare pensa che il male sia nato da cattiva (falsa) conoscenza, e dunque il bene nascerà da conoscenza buona (vera). I rieducatori non capiscono che spesso c'è poco da rieducare, perché il colpevole sperimenta il male come accesso alla libertà, quindi dal suo punto di vista il male è bene.



Più in generale solo chi è in una condizione di superiorità può rieducare o punire (un inferiore); viceversa prevenire, stabilire delle norme anche formali e per la libertà indeterminata di tutti, anche in assenza della conoscenza o del perseguimento di un bene superiore determinato, o intrinsecamente diverso da quello che sceglierebbe ad arbitrio il singolo, è quello che si può fare anche tra pari.


Dunque se lo stato deriva dall'orda dei pari in lotta tra di loro, è ovvio che le funzioni punitive e rieducative dalla giustizia siano cronologicamente e logicamente subordinate a quelle preventive, perché, quantomeno se accettiamo il mito dello stato di natura e del contratto sociale, la prevenzione della violenza fonda lo stato, la punizione e la rieducazione del reo lo presuppongono (come esistente e già fondato). Meno lo stato è fisicamente ed ideologicamente tiranno, meno pretese avrà di rieducare e punire, ma non può recedere dalla sua funzione preventiva, di monopolio della forza, che è la più difficile da abbattere e superare, quella in cui si intravede un male più necessario, perché più strutturale.






#2995
Tematiche Filosofiche / Re:evoluzione o involuzione
17 Maggio 2020, 16:32:14 PM

I virus non hanno vita perché non hanno automovimento, metabolismo o nutrizione, semplicemente inducono le cellule infette a produrre degli altri virus, quindi copie di se stessi, in condizioni in cui normalmente esse, in assenza di infezione, produrrebbero proteine, in pratica inseriscono nuove istruzioni nel meccanismo normale con cui le cellule fabbricano proteine, e lo cambiano per far fabbricare alle cellule altri virus, cambiando in piccola parte l'istruzione fondamentale alla base del meccanismo, quindi il dna o l'rna della cellula infetta.


Un virus è anche l'unica forma di vita che ha nella sua struttura o solo rna o solo dna, mentre tutte le altre, tutti  non virus, le hanno entrambe. Quando sovrascrive quel singolo pezzetto di dna o di rna che ha lui, e che in effetti è lui, nella sequenza di un non virus ha svoltato, perché quel non virus diventa una fabbrica di virus, in pratica cambia un'istruzione che normalmente ci sarebbe in una cellula, del tipo "adesso servono proteine", con un'istruzione che in condizioni normali non ci sarebbe, del tipo "adesso servono virus". Dall'istruzione scritta una volta, quindi da un solo virus che riesca a infettare una cellula, derivano migliaia di virus, come normalmente deriverebbero migliaia di proteine da una sola singola istruzione iscritta nel normale e inalterato dna della cellula. I virus in più stanno per un po' nella cellula, essendo meno utili alla sua vita di quelle che sarebbero dovute essere le normali proteine derivanti da una sequenza non sovrascritta, quando non completamente inutili, e quando essa muore, naturalmente o perché indebolita dal virus, si diffondono nello spazio circostante, potenzialmente infettando altre cellule e il ciclo ricomincia. Il parassita definitivo, il virus, non ha altro modo di riprodursi che non questo, e non fa niente da solo, per fare qualsiasi cosa di biologico da solo, come muoversi, nutrirsi o riprodursi autonomamente, dovrebbe avere la doppia presenza di dna ed rna, che appunto non ha, avendo solo uno di essi, e quindi è al limite tra vivente e oggetto, un oggetto autoriproducentesi grazie alla flessibilità e all'indeterminatezza di fondo del meccanismo di autoriproduzione dei viventi, autoriproduzione che dipende da una sequenza, che non è fissa ma che può essere cambiata da certi particolari eventi, appunto infezioni da virus, ma anche dal caso o dalla tecnologia. Non si può escludere che l'oggetto autoriproducentesi primario, il vivente, produca, volontariamente o no, alcuni oggetti autoriproducentesi secondari, che dipendono originariamente dal vivente per la loro comparsa, ma che una volta comparsi si continuano nel tempo identicamente a come si continua nel tempo la vita del vivente originario che li ha fatti comparire, basti pensare non solo a un vivente che ospiti e riproduca involontariamente virus, ma anche a un vivente evoluto che costruisca robot e automi, nati come oggetti, ma divenuti indistinguibili dai viventi (e quindi volenti la loro vita) a un certo livello di complessità, sia pure originariamente indotta.



Per quanto riguarda il discorso su evoluzione e involuzione, io penso che un essere perfetto possa creare solo al di fuori di sé, sennò non sarebbe perfetto, ma ciò significa che a partire dal bene, l'unico oggetto possibile di creazione è il male: pensiamo all'istante zero del tempo, al momento in cui un ipotetico dio creerebbe il mondo: lo stato iniziale del mondo in cui "ci sono" solo il nulla e dio, lo stato in cui Dio galleggia senza tempo nel nulla, tolto il nulla che logicamente deve togliersi, è lo stato del mondo in cui c'è solo dio; ma se dio è il bene, lo stato del mondo in cui c'è solo dio, è lo stato del mondo in cui c'è solo il bene: quindi chi avrebbe il coraggio di sostenere logicamente che a partire da tale stato, la solitudine di Dio nel nulla, già di per sé perfetto, si possa creare altro bene? Si può creare solo quello che non c'è, quindi da uno stato in cui il bene c'è, il bene non si può creare, si può creare solo quello che non c'è superando i limiti e le condizioni date dello stato iniziale, quindi il male: da un istante iniziale perfetto, si può creare solo il male; è intrinseco che la perfezione sia unica, se cambia, come stato perfetto del mondo, decade, il creato per definizione non è necessario, se il creatore è perfetto e parte da uno stato iniziale in cui è lui, il creatore, l'unico ente esistente.
Lui è il bene e crea fuori di sé, crea, cioè trae dal nulla, effettivamente l'altro da se, però c'è la foglia di fico di non ammettere che con ciò, con questo atto, crei il male. Ma che cavolo di altro deve creare un essere perfetto che crea qualcosa, qualunque cosa, fuori di sé, dico io? Se Dio è il bene, non crea il mondo, riconosce il bene in sé e si astiene dal fare altro. Se tu sei il bene, e galleggi nel nulla, l'universo, che al momento contiene solo te e nessun altro, è in uno stato complessivo perfetto -letteralmente, di solo bene senza male- che tu, con la tua azione "creatrice", puoi solo peggiorare, e se sei onnisciente, dovresti anche saperlo. Un dio creatore non è un dio buono. La religione può escludere il panteismo dagli stati successivi ma non può escluderlo dall'istante zero, se a un certo punto, il punto iniziale in cui il mondo non è ancora creato, c'è solo Dio, in quel punto, a quell'istante, dio è l'unico contenuto del mondo, quindi c'è almeno uno stato in cui Dio si identifica col mondo, anche volendo escludere tutti gli altri, quelli in cui il mondo è creato, e dio si può logicamente disidentificare da esso. Ma il punto in cui dio si identifica col mondo è anche un mondo perfetto, un mondo che ha il bene come suo unico contenuto, che quindi esclude, eticamente e gnoseologicamente, la sua modifica in favore della creazione di altri mondi, necessariamente imperfetti, caratterizzati da contenuti ulteriori oltre al bene, quindi in certa misura malvagi. Se ogni cosa è contenuto mondano, il bene non può essere all'origine del mondo, perché un eventuale mondo iniziale contenente solo il bene, in quanto perfetto, sarebbe rimasto tale, e invece tutti facciamo l'esperienza del male. Se invece qualcosa non è contenuto mondano, non esiste, e non può giungere ad esistere, e non può esistere in un senso che mi possa filosoficamente  interessare. Bisogna negare che lo stato nullo iniziale sia di per sé un mondo, per rendere plausibile che un mondo creato sia buono. Cioè ammettere che Dio, o il bene, possano esistere senza mondo, che pur esistendo in qualche modo, non siano contenuti mondani. Ma ciò che non è contenuto mondano, non esiste per me. In ogni caso insomma, ho seri problemi con la creazione. Dal male invece, potrebbe nascere il bene, per il suo stesso desiderio, il desiderio del bene, che nel male, cioè nella sofferenza, si avverte. Il desiderio del bene, se intendiamo quel del come appartenente al bene, proprio del bene, è un ossimoro, perché il bene è la felicità, e la felicità non ha desideri. Il desiderio del bene come desiderio di dio è una stupidaggine, perché si suppone che dio, almeno lui, stia bene, sia felice, e quindi non abbia desideri. Non voglia niente da nessuno. Il desiderio del bene logicamente possibile, quello non ossimorico, è nell'altro senso del del: il desiderio del bene nel senso di desiderio rivolto al bene, quindi il desiderio di chi soffre, di chi concepisce il bene  ma non lo ha, non lo sperimenta.  Un essere malvagio, o quantomeno desiderante, sofferente, potrebbe creare secondo la sua volontà, cioè secondo la sua personale idea di bene. Ma allora Dio è l'uomo in grande, è solo una versione più potente, e più arrogante, dell'uomo. E' volontà arbitraria, volontà come un altra, con il vantaggio relativo della priorità nel tempo, quindi volontà che fa le regole, che detta legge, legge a cui le altre volontà, in quanto volontà secondarie, non prime nel tempo, volenti o nolenti si conformano. E in quanto uomini, siamo sempre creati dall'uomo come esseri sociali, civilizzati. Creati dalla parola, soprattutto, e da chi originariamente la insegna, da chi ne è custode. E' l'altro uomo, in tutti i sensi, che ci fa essere quello che siamo.
#2996
Attualità / Re:COVID19 - I "congiunti" "disgiunti"!
29 Aprile 2020, 21:22:39 PM

Vergogna, bastardi, la mascherina il nuovo burka di questo paese di merda, su questa cosa dei congiunti e dell'obbligo di mascherina per chi "è in visita" o "riceve visite" sono così arrabbiato che non riesco a esprimere un pensiero elaborato...


penso solo a quest'idea folle che i fidanzati non coabitanti che finalmente si incontrano dopo mesi, secondo il genio Conte devono restare a un metro e con la mascherina... e dopo cinque moduletti di autocertificazione l'unico modo legale di trombare in questo paese è, e resta, quello di non essere "in visita", cioè di avere lo stesso indirizzo anagrafico della persona con cui si tromba. Un modello familista da milleottocento che così si può sintetizzare: "caro cittadino suddito, arrivi a casa tua, se ne hai una, e ti togli il burka -mascherina-, e le mutande." Altro modo legale non c'è.


E si basano sul fatto che questa legge verrà percepita come un aumento di libertà, perché nessuno rispetterà il dettaglio che non si possono avere rapporti sessuali in visita, laddove uno dei due non è a casa propria: non ci si rende conto della gravità assoluta del precedente, di quanto sia discriminatorio, classista, familista, sessuofobico, ipocondriaco e da stato etico quello che hanno avuto il barbaro coraggio di scrivere (i rapporti stabili preferenziali per legge, ma preferenziali solo fino a un certo punto, perché solo quelli stabili e coabitanti, hanno la preferenzialità massima graziosamente accordata dallo zar di tutte le Russie, cioè possono trombare). Mi raccomando, continuiamo a farci governare per dpcm, che questa è l'era dei sacrifici e delle responsabilità.
#2997
Storia / Re:Le guerre civili romane e la resistenza
28 Aprile 2020, 13:40:11 PM
Citazione di: anthonyi il 28 Aprile 2020, 05:23:24 AM
Citazione di: Jacopus il 27 Aprile 2020, 22:40:27 PM
Ed è anche per questo che continua ad avere tanti oppositori, perché agisce ancor oggi su una ferita viva, sulla nostra incompleta opera di costruzione dell'Italia come società condivisa, come casa comune.

Questa storia della ferita viva però sarebbe da approfondire, è mai possibile che quando senti parlare un nostalgico lui tende a precisare che si, è fascista, ma del fascismo prima del 38, prima delle leggi razziali. Dopodiché parli del 25 aprile e lui si sente offeso per la festa della liberazione. Ma se disconosce il fascismo dopo il 38, non dovrebbe a maggior ragione disconoscere la RSI ?




Parliamo di fascisti, quindi di gente che, condizionata da un'ideologia quantomeno gregaria, e da uno stile di vita quantomeno gregario, ha un concetto di giusto e sbagliato basato quasi esclusivamente sul dominio e sulla forza: per la stragrande maggioranza, quando dicono "sbagliato" intendono molto semplicemente "perdente", o al massimo "disfunzionale". Quando dicono "giusto", intendono qualcosa del tipo vincente, risolutivo o funzionale.
Quindi nel loro cervello -bacato- la guerra mondiale è sbagliata perché l'hanno persa, perseguitare gli ebrei è sbagliato perché non sono riusciti a sterminali tutti e ora i sopravvissuti li accusano.
Poi, accanto a queste cose manifestamente sbagliate, cioè che hanno tentato e non hanno funzionato, ci sono tutta una serie di cose giuste, ovvero cose con cui sono stati al potere vent'anni anche se alla fine hanno dovuto schiodarsi, quindi in cui qualcosa di "giusto", per come intendono giusto loro, ci deve pur essere stato: il partito unico, la guerra d'Abissinia, i patti lateranensi, lo squadrismo, lo stato di polizia, il carcere e l'omicidio per uomini come Gramsci, Amendola, Matteotti, Gobbetti e tanti altri, figli e oro alla cara patria, libro e moschetto Balilla perfetto, chi è lo stato? la polizia! chi è il capo? Mussolini!, eccetera.
In questa ideologia efficientista basata sul primato (per non dire primate, nel senso di scimmione) nazionale e sul risultato, milioni di persone, tra cui loro e i loro familiari, non si possono sacrificare, in guerra persa o in un olocausto, ma alcuni sparuti rompicoglioni per il piacere di bonificare l'agro pontino e far arrivare i treni in orario, certo che sì. Quando accusano il fascismo, lo accusano da fascisti.


E quindi niente, se capite cosa intendono veramente con giusto e sbagliato i "nostalgici", smettete di trovarli incoerenti laddove non lo sono. Si offendono per il 25 aprile perché alla fine credono di aver detto, e fatto, delle cose giuste anche loro, e gli sembra ingiusto essere tagliati fuori dalla celebrazione di una patria che dicono di amare.



#2998
Storia / Re:Le guerre civili romane e la resistenza
26 Aprile 2020, 23:16:40 PM
Citazione di: Jacopus il 26 Aprile 2020, 21:43:34 PM
Citazionegià il pretendere di ricordarli "affettivamente" e soprattutto "collettivamente" quei morti guarda caso proprio in certe date è bieca manifestazione fascista, secondo me... se si ammette che il movimento storico del fascismo non ha nessuna dignità ne onorabilità, e al massimo sono onorabili le singole persone che ne hanno fatto parte, si traggano le giuste conseguenze e si ricordino le singole persone con commemorazioni singole, e non raduni fascisti e nostalgici di nessun tipo, che sono volti a onorare la collettività dei morti in quanto tale, in quanto collettività, e quindi a giustificarne l'ideologia, e la coesione sociale fondata sugli ideali sbagliati che essi ebbero in vita..


Per Niko. Io non la vedo esattamente così ma, perdonami, devo partire da lontano. Una interpretazione corrente dei discorsi della prima deca di Tito Livio, di Machiavelli, indica come Machiavelli abbia sottolineato come punto di forza della civiltà romana proprio il conflitto fra le sue parti sociali. Si tratta di un rovesciamento della visione più tradizionale, per cui il successo di una società deriva dalla sua omogeneità e dalla mancanza di conflitti, perchè si è tutti protesi verso obiettivi condivisi.
Machiavelli invece propende verso la seguente spiegazione: essendo impossibile che una società sia animata da un'unica volontà ma si sviluppa attraverso diverse forze spesso confliggenti, la forza di uno stato è rappresentata dalla possibilità che il conflitto sia continuamente mediato da istituzioni che regolino il conflitto e lo "simbolizzino" invece che farlo esplodere nella violenza pura.
L'intento di Machiavelli era ovviamente quello di paragonare la virtuosa Roma, alla società italiana del suo tempo, dove, invece la violenza pura esplodeva in tutte le salse.


Nel nostro piccolo, dovremmo cercare di adattare questo sistema "machiavellico" a questa situazione. Tenuto conto che i fascisti, i criptofascisti, i reazionari continueranno a vivere in questo paese anche nei prossimi secoli, occorrerebbe almeno intendersi su procedure di accettazione reciproca, per cercare di superare questi conflitti latenti, che covano sotto la cenere e che molti settori della società non hanno alcun interesse a spegnere.
Un metodo alquanto fantasioso (o delirante) potrebbe proprio essere quello di accettare anche un ricordo collettivo e pubblico (non solo privato) di quelle vittime, che scelsero di stare dalla parte sbagliata e, in cambio, che venga riconosciuto il carattere violento e delinquenziale del fascismo. Non dovrebbero ovviamente essere le singole persone a fare questa sorta di scambio, ma i partiti e le organizzazioni politiche, almeno quelle più rappresentative, perchè non credo che si riuscirà mai a mettere d'accordo i piccoli movimenti di estrema destra.





Il fascismo non è un'istanza conflittuale come un'altra, che in presenza di controparti tolleranti e che non cadono nelle provocazioni possa essere simbolizzata e riassorbita nel contesto civile e democratico, arricchendo la società: è già di per sé, intrinsecamente, un passaggio alla violenza, che appena può uccide le controparti tolleranti, le incarcera, le aspetta sotto casa eccetera.


Non cerca nessuna simbolizzazione, neanche se eventuali altri (ingenui) gliela permettono, è un'istanza brutale di pura reazione, che punta direttamente all'instaurazione di uno stato etico e totalitario, quindi violento, ma non violento nel senso in cui poteva intendere il termine "violento" Macchiavelli, violento nel senso pienamente moderno e liberale del termine, quindi non voglio dire necessariamente violento contro la nuda vita, la tradizione, la cultura, la sicurezza pubblica e altri criteri con cui gli antichi identificavano la violenza: concedo che possono ben esistere versioni "illuminate" del fascismo che rispettino queste cose, questi aspetti, diciamo così, statici ed eternizzanti del vivere umano; dico violento sempre, in ogni caso, contro la volontà dell'altro e il diritto dell'altro di scegliere e di non identificarsi necessariamente e totalmente, come stile di vita e di pensiero, con lo stato, per quanto potenzialmente etico e giusto lo stato sia o si dichiari: se vuoi instaurare uno stato etico e totalitario, al limite, se tu che lo vuoi instaurare sei intelligente e persuasivo nei metodi con cui lo instauri, puoi rispettare la vita di tutti intesa come sopravvivenza, la cultura, il diritto a un'esistenza dignitosa, ma non puoi mai rispettare il diritto di tutti di scegliere, e di autodeterminarsi, come individui e come gruppi differenziati dallo stato e non in esso riassorbibili, il diritto di tutti a non essere formiche e robot, cosa che proprio gli antichi, Macchiavelli compreso, non avrebbero mai messo a tema, inquadrato specificamente come problema, tantomeno nel tentare di dare una definizione di cosa intendevano per violenza.


Il fascismo non accetta le istanze della rivoluzione francese, ci riporta a prima dell'illuminismo, ha una visione finalista e tradizionalista del mondo, in cui stante la conoscibilità e l'oggettività del bene, il rispetto dell'altro non è dovuto, ma il bene si deve imporre anche con la violenza sui "malvagi", che non lo accettano.
Con fatica abbiamo conquistato un punto di vista più moderno e disincantato, in cui il bene non lo conosce nessuno, e proprio per questo violenza è non rispetto dell'autodeterminazione dell'altro, del diritto di ognuno a cercare il proprio bene finché non nuoce all'altro.
Che i fascisti ci riportino a un mondo violento proprio perché loro hanno una concezione arcaica della violenza e non si rendono conto di essere violenti agli occhi di tutti gli altri per come la violenza è definita in un contesto moderno e liberale, come esclusione dell'altro, proprio non possiamo accettarlo, e da uno scambio (!?) con costoro  non abbiamo niente da guadagnarci, quantomeno perché il fascismo è già, per fortuna definito criminale e delinquenziale dalla nostra Costituzione, insieme alla guerra che del fascismo è sia causa che conseguenza, quindi, non avendo loro niente di buono da "concederci", nello "scambio" che noialtri non "abbiamo già" in questo senso (insomma non devono farci il favore di ammettere di essere delinquenti, perché noialtri lo sappiamo che lo sono, grazie -cit. Se il fascismo è un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere, Mussolini sul delitto Matteotti-) se noialtri gli concedessimo qualcosa come onorare pubblicamente e collettivamente i loro morti, dovremmo concederglielo gratis, fuori da ogni reale scambio, e gratis a questa gente non si concede niente, non so se mi sono spiegato..
#2999
Storia / Re:Le guerre civili romane e la resistenza
26 Aprile 2020, 17:46:23 PM
Citazione di: Jacopus il 26 Aprile 2020, 16:54:43 PM

Per Niko. La pietà per i morti  nel senso non religioso che qui ci interessa, esiste non sui morti in quanto morti, ma sull'importanza affettiva che essi hanno per tanti viventi attuali. Solo riconoscendo questa importanza possiamo tentare di curare questa eterna contrapposizione. I fascisti vivi vanno combattuti, ma i fascisti morti hanno diritto a rispetto e alla memoria onorevole per chi li voglia ricordare. Questo proprio per distinguerci dai fascisti stessi.
Infatti, questo rispetto è proprio quello che i fascisti non hanno spesso avuto. Piazzale Loreto non fu scelto a caso. Un anno prima in quel piazzale furono fucilati dei partigiani che rimasero in quella piazza finché non iniziarono a decomporsi. Noi, liberali, comunisti, socialdemocratici, non possiamo mai abbassarci a questa barbarie.



Scusa ma la memoria dignitosa collegata all'importanza affettiva del defunto uno la può avere in privato per chi vuole, e i morti di cui parliamo sono morti da un sacco di tempo, e mi sorprende che ci sia (ancora oggi) tutta questa urgenza nel ricordarli "affettivamente" in un qualche tipo di spazio o di dibattito mediatico pubblico: per quanto uno possa essere attaccato a un parente della generazione dei nonni o dei bisnonni, quel lutto dovrebbe essere abbastanza remoto nel tempo, ormai..


quello che si deve evitare è comunque una commemorazione ideologica, appunto perché non ci fu niente di onorevole nel fascismo e nelle modalità con cui esso fu attuato, fin dall'inizio della sua storia, e anche a prescindere dagli eventi relativamente tardi ed estremi delle leggi razziali e della guerra...



già il pretendere di ricordarli "affettivamente" e soprattutto "collettivamente" quei morti guarda caso proprio in certe date è bieca manifestazione fascista, secondo me... se si ammette che il movimento storico del fascismo non ha nessuna dignità ne onorabilità, e al massimo sono onorabili le singole persone che ne hanno fatto parte, si traggano le giuste conseguenze e si ricordino le singole persone con commemorazioni singole, e non raduni fascisti e nostalgici di nessun tipo, che sono volti a onorare la collettività dei morti in quanto tale, in quanto collettività, e quindi a giustificarne l'ideologia, e la coesione sociale fondata sugli ideali sbagliati che essi ebbero in vita..


Per spiegarmi meglio, voglio dire, non siamo in una situazione simile alla guerra civile tra Cesare e Pompeo, e nella decisione di scegliere se commemorare o no la vittoria di uno sull'altro, quantomeno perché possiamo vedere le cose a mente fredda e immaginare che la storia romana nel suo complesso sarebbe andata in una maniera abbastanza simile a come è andata realmente se avesse vinto Pompeo, mentre se avessero vinto Mussolini e Hitler il mondo sarebbe, per quanto possa sembrare incredibile, peggio ancora di come è oggi...
#3000
Storia / Re:Le guerre civili romane e la resistenza
26 Aprile 2020, 11:49:48 AM
Citazione di: Jacopus il 26 Aprile 2020, 10:01:35 AM
CitazioneE' per questo che i morti partigiani e fascisti non sono uguali, non hanno fatto la stessa cosa davanti allo stesso comando e allo stesso problema


Ritengo invece che i morti siano tutti uguali e tutti meritano la stessa pietà. Furono i vivi a non essere tutti uguali e quindi serve distinguere fra chi fece una scelta di libertà e chi una scelta di oppressione. Ma il vincitore deve avere anche la mente aperta e domandarsi le mille ragioni che hanno spostato l'ago da una fazione all'altra. Non sempre è stato opportunismo. Le più disparate ragioni possono aver influito ed anche i fascisti sono esseri umani. Necessariamente dovevano essere uccisi, ma una volta morti, è altrettanto necessario ricordarci della loro natura umana, e dei mille accidenti che hanno condizionato la loro scelta.






Pietà può significare due cose:


1: Sentimento di dolorosa e premurosa partecipazione all'infelicità altrui.

2: più raro e letterario: rispetto per il sacro.

Ora, se intendiamo il significato uno, i morti, se si prescinde un attimo dalle religioni che credono all'inferno o a reincarnazioni negative, non soffrono, e quindi non meritano la nostra pietà. Da un punto di vista ateo, o agnostico, si può dire solo metaforicamente "ho pietà per il morto", nel senso di dire ho pietà per il vivo, che in vita si fa delle illusioni, delle speranze e invece davanti alla morte tutto finisce, e la stragrande maggioranza di quei sogni di gloria, non si avverano manco per niente.
Ma è così per tutti, non solo per i fascisti.
Il ricordo di uno, un combattente qualsiasi, di qualsiasi schieramento, che magari pensava, o almeno sperava, di sopravvivere alla guerra e morire tranquillo nel suo letto, è triste, è un ricordo triste, se si sa a posteriori che invece lo stesso che aveva questi pensieri e queste speranze è morto a venti anni con una pallottola in fronte.
Se pensiamo che magari davanti agli orrori e alla paura della guerra si consolava dicendo: "forse muoio, ma almeno se muoio sarò ricordato come un eroe", è triste il ricordo, se invece si sa a posteriori che costui era fascista e viene quindi, giustamente, ricordato come il contrario di un eroe.
Ma non cambio il mio ricordo e il mio giudizio per questo. Ancora di più, chi aveva questi sogni e queste consolazioni ha sprecato la sua vita, semmai è per quello che mi fa pietà. Ma è pietà per il vivo, e per il ricordo del vivo. Da morto tutto ciò non è più un suo problema, quindi se ricordo con più piacere dei morti che ci hanno insegnato più cose, e che ci hanno fatto progredire verso una vita migliore, come i morti partigiani, non vedo al morto fascista come ciò possa dispiacergli.

Se invece intendiamo il secondo significato del termine pietà, per cui i morti sono sacri, per me è l'ordine naturale che conta: i morti sono sacri perché fanno spazio ai vivi, la vita riesce a "volere", consciamente o no, la morte come mietitura e per questo la morte esiste, banale considerarla male necessario o incidente; ma questo ha senso solo se il raccolto è migliore della semina, ovvero, in altre parole, lo spazio "sacro" che ci lasciano (o meglio, che ci donano) i morti con la loro morte deve servire a migliorarci, e non a perpetuarci: mi interessa la morte solo in quanto permette la vita, in quanto permette la sopravvivenza, non penso di doverle alcun rispetto.
Il potere dei morti sui vivi è il mondo in quanto dato, in quanto seconda natura in cui siamo gettati; il potere dei vivi sui vivi è il mondo che costruiamo, che cambiamo: penso di avere il diritto di svalutare il primo per il secondo.