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Messaggi - Vittorio Sechi

#31
Scusa se mi permetto. Ho la sensazione che quanto da te descritto rappresenti un modo stereotipato tutto tuo di intendere la spiritualità e di concepire anche i presunti 'maestri'.

#32
Paul11: il male viene da sempre imputato dalla stessa umanità come implicita nella propria "doppiezza"

Nel mio discorso sul Male non si imputa Dio perché ne abbia fatto ampio utilizzo, bensì per la sola colpa di averlo creato. Diversamente l'attributo di creatore di tutte le cose 'visibili ed invisibili', rinvenibile nella copiosa letteratura veterotestamentaria e dottrinale, perderebbe di significato e presumibilmente staremmo a confrontarci intorno all'opera di due creatori contrapposti. Manicheismo, gnosticismo, zoroastrismo... Scegliete voi. Qui si parla dell'unico creatore di cui alla narrazione biblica.

Paul11: Non si può fondare nessuna etica e morale togliendo il "sacro", se finisce il sacro delle religioni, se finisce l afilosfia e teologia, rimane la scienza e l'uom rientra allora nel SOLO ordine naturale.

Questa perentoria affermazione è alquanto singolare. Il sacro non attiene all'etica, attiene alla percezione del terrifico, insito nella Natura, che sedimentasi in sentimento ha trovato uno sbocco narrativo nel mito, prima, nella religio, in seguito. Letture consigliate: Eliade Mircea, Girard, Galimberti, fra i tanti.

Paul11: Il padre che abbandona il Figlio sulla croce è una fesseria moderna.

Secondo la dottrina di Sancta Catholica Apostolica Romana Ecclesia
il Logos, fattosi carne, acquisisce la doppia natura divina ed umana. Su questo argomento si sono espressi alcuni Concili – Efeso, Calcedonia, Costantinopoli -, adversus haereses (Ireneo, santo e uno dei Padri della Chiesa) – docetismo, arianesimo, monofisismo etc... - decretando indiscutibilmente e dogmaticamente a favore della natura teandrica - due nature distinte in un'unica persona -. Il Simbolo niceo-costantinopolitano, recitato nel corso della messa ed accettato da gran parte delle confessioni cristiane, afferma: [...]Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di Lui tutte le cose sono state create (visibili ed invisibili)...

Pochi dubbi. Il cristianesimo, perlomeno le confessioni maggioritarie, crede indiscutibilmente alla natura teandrica di Gesù, pena l'anatema (sentenza che assume il valore di maledizione).
Non ve la prendete con me che sono ateo.

Paul11: la modernità imputa a dio come nuovo capro espiatorio, la propria doppiezza di creatore del male: questo è il delirio culturale del presente.

Il capro espiatorio ha molto a che vedere con il sacro e con la sacralizzazione o purificazione dei luoghi o delle comunità. È un meccanismo, ben noto agli antropologi, di trasduzione di una colpa insorta nei confronti della divinità (René Girard – il capo espiatorio). Nulla a che fare con il modernismo, a cui non frega una cippa lippa.

Myfriend: Questa è una interpretazione errata. Il fatto che esistesse "l'albero della conoscenza del bene e del male" non implica affatto che il male fosse già presente nella Realtà. Questa è una tua deduzione che non trova riscontro nel testo.

Rileggi attentamente, senza sofismi o partigianeria, il testo di Genesi, capitolo due, versetti 16-17. Te li trascrivo, temo che il tuo testo li abbia persi:
"(16)Il Signore diede questo comando all'uomo: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, (17) ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti".
Qualcuno piantò quell'albero nell'Eden, non certo io. Non prendetevela con me. Chi piantò quell'albero è anche colui che, stando al testo e, per i credenti, anche alla realtà che il simbolismo mitico traduce in grafia e dizione, creò il Male. Ribadisco quanto sopra. Dio non è imputato per il largo ed arbitrario utilizzo del Male (leggasi Giobbe, fra i tanti altri), bensì per averlo creato.

Myfriend: Non è che ci possiamo inventare la bibbia che ci piace eh.
La bibbia va letta per quella che è.

Appunto! Non farlo. Non c'è alcuna necessità di riscriverla. Va bene il testo già esistente. Questo stiamo provando a mettere in controluce per leggerlo in filigrana.

"Le radici del male"

L'intera fatica di Dio, resa concreta e manifesta da e nella Creazione, è contrappuntata dall'aggettivo <<buona>>. L'intero Creato è <<cosa buona>>. Solo in seguito, con la comparsa dell'uomo, appare l'espressione <<cosa molto buona>>. Tale differenza di linguaggio, rilevabile nel I Capitolo della Genesi, offre la misura dell'atto più eccelso dell'intera opera creatrice di Dio. Solo con la creazione dell'uomo si giunge al culmine della fatica divina. L'uomo rappresenta, infatti, il fastigio del processo creativo.
Solo in tale occasione il Libro della Genesi si esprime in termini di somiglianza ed immagine del Creatore. Somiglianza non uguaglianza, dunque. L'uomo è posto all'apice del creato, e ciò per espressa volontà di Dio, poiché fu Dio stesso che adunò tutte le creature viventi, le condusse al cospetto dell'uomo affinché questi imponesse loro un nome. Chiaro simbolo dell'estensione della signoria di quest'ultimo sull'intero creato – attribuire un nome a cose, persone o animali significava prenderne possesso -. I capitoli I e II del Libro Sacro narrano con sufficiente chiarezza questa determinazione originaria della volontà di Dio: un'opera definita <<buona>> sottoposta alla signoria di un'altra creatura considerata <<molto buona>>. In ciò è ravvisabile anche la scaturigine dell'ordinamento cosmologico che d'allora informa il creato.
In ogni caso, entrambe le definizioni - <<buona>> e <<molto buona>> - lasciano ben intendere che non si tratta di creature perfette – somiglianza, non uguaglianza -, mancando appunto dei crismi di questa suprema qualificazione
Somiglianza, per quanto o per quel che non è coincidenza o uguaglianza, significa eccedenza o assenza (in questo caso è evidente si tratti esclusivamente di "mancanza"). Somiglianza è dunque anche dissomiglianza.
Ritenere che nello slabbro prodotto dal "mancare" dell'una - creatura - rispetto all'altro - Creatore - s'insinuino l'angoscia, il conflitto, il male e il dolore, equivale a dire che Dio, essendo sempre uguale a se stesso, non possa essere anche Male. È, infatti, più corretto inferire che la dissomiglianza sia la scaturigine del trabocco del Male, e, quindi, ne rappresenti l'esperienza che la coscienza ne fa, circostanza che, appunto, nell'uomo si traduce in una perdita di senso e significato, entrambi – senso e significato – invece ben presenti a Dio.
<<La dissomiglianza invece secondo Pascal apre alla doppiezza metafisica della natura, che non conosce acquietamento possibile, ma, al contrario, comporta conflitto, disperazione, agonia fino alla fine del mondo. Doppia è la natura: originaria e corrotta, integra e decaduta. L'una e l'altra convivono nell'uomo; che perciò non è né angelo né bestia, ma non è neppure "mai se stesso, essendo piuttosto un impasto di entrambi – un centauro, un mostro, anzi «le plus prodigeux objet de la nature" (Givone – Storia del Nulla)

La Creazione è un atto imperfetto, che reca in sé i germi della corruzione. Se la creazione e la sua creatura più bella e fulgida fossero state perfette, la tentazione non avrebbe insidiato e, in una certa misura, plasmato l'intero cosmo. Il peccato e il Male, che già adombravano la Luce divina, sarebbero rimasti relegati nel cantuccio a loro destinato, avrebbero, cioè, riguardato solo gli angeli ribelli; l'uomo non avrebbe ceduto alla tentazione.


[il resto ad un altro momento]
#33
non ho dubbi che sia come dici... Però il testo in commento è definito Bibbia, non new age for all.
#34
Ho dato una veloce scorsa ai vari interventi. Mi riprometto di intervenire più nel dettaglio appena mi sarà possibile. Mi son chiesto: ma siamo certi che stiamo parlando del medesimo testo sacro?
Non per altro, ho letto interpretazioni assolutamente arbitrarie che non tengono nel minimo conto quanto si trova scritto su quel libro.
#35
È un po' lungo, me ne rendo conto.

Il Male, nell'ambito della fede cristiana ed ebraica, è percepito come parte essenziale del disegno divino. La 'crudeltà' della Natura è priva di colpa. La Natura e la Creazione sono innocenti. Il Male nel suo accadere assume le connotazioni negative che noi gli attribuiamo solo quando interseca la nostra esistenza, la nostra vita, ammorbandola e piegandola fra spasmi e gemiti. Il Male è dunque colpevole solo quando entra in relazione con l'uomo. La caduta di un fulmine in un territorio disabitato non è scaturigine di dolore, di sofferenza; diversamente se dovesse colpire e uccidere un bambino, noi ravviseremmo in questo accadere, in questa manifestazione della Natura, gli estremi per dolerci, per individuare una colpa, ancorché astratta. E se il Male è relatio, è anche corretto porsi il perché del suo manifestarsi in forme così crudeli e dolorose.

La concezione dell'esistenza che non si rivolge ad un Theos, quindi atea, imputerebbe questo accadere alla consequenzialità del verificarsi d'eventi casuali, senza rinvenire colpe da parte di alcuno. Viceversa, quando il Male si abbatte con forza e durezza con inondazioni, terremoti, fulmini, un credente, cioè una persona che poggi la propria fede sull'azione di un Dio Creatore, non può che rivolgere a Lui e solo a Lui le proprie domande e suppliche; può così piegarsi di fronte alla percezione di un ineffabile disegno superiore (Giobbe docet), oppure rifiutare di far parte di un disegno che prevede lo scatenarsi della furia di Dio a suo danno o a danno dell'umanità cui appartiene, e restituire al Creatore il biglietto d'ingresso, come racconta Dostoevskij. Io, per quel che mi riguarda, credo che non sia possibile accettare che il disegno di Dio, per quanto misterioso, possa implicare il patire e il dolore dell'innocente. Quando il Male si accanisce nei confronti dell'innocenza, assume le coloriture fosche di una forza inutile, gratuita, totalmente ed insensatamente crudele, che non è possibile accettare in forza di un misterioso progetto divino, che, pertanto, è da rifiutare.

Con il Male si rifiuta Dio stesso, si diventa atei.  

La sapienza dei Greci sapeva cogliere la tragicità della vita. Eraclito l'oscuro, qualche secolo prima di Cristo, scriveva (Frammento 8 nella versione di G. Colli):
«Dell'arco, invero, il nome è vita, ma l'opera è morte»

Assolutamente incomprensibile; eppure in esso v'è tanta saggezza e racconta con quale sagacia la sapienza antica intuisse e percepisse la crudeltà della vita. Arco e vita in greco antico avevano il medesimo suono, sono termini omofonici. L'arco è l'attributo principale del dio Apollo. Il frammento ci dice che la Vita è violenza, e il risultato di questa violenza è l'annientamento, il disfacimento, la Morte. Ci racconta anche che la violenza della vita scaturisce dall'azione di scoccare la freccia da parte del dio Apollo. La violenza della vita che genera la morte è dunque determinazione della divinità.

La vita e la morte sono consanguinee, collaterali, si compenetrano vicendevolmente. Per perpetuare se stessa, la vita ha necessità di generare la morte, la quale a sua volta è fattrice di vita. Il mezzo attraverso il quale entrambe si nutrono a vicenda è appunto la violenza, che è innocente fintanto che non interseca l'esistenza dell'uomo, fatalmente (da Fato) colpevole allorquando s'insinua nella vita degli uomini. Nell'Iliade, Agamennone per giustificare davanti ad Achille il sopruso perpetrato a suo danno d'avergli sottratto Briselide, l'amata preda di guerra, attribuisce la colpa alla divinità che gli ottuse la mente... l'uomo non ha colpa alcuna: Agamennone non fu cagione diretta dell'ira di Achille.

Eraclito, frammento [53 Diels-Kranz ]
«Pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.»

Polemos, è dunque Padre e re. Da questa percezione nasce la visione tragica della vita, la dialettica inesausta che si quieta nella morte.

La vita non è stasi, non è quiete, la Natura smentisce quest'insipida visione. Ove rilevi lo splendore della natura, puoi cogliere anche il germe della dissoluzione, è come se nel medesimo istante in cui percepisci la meraviglia della Creazione, la dissoluzione, il disfacimento, la putredine bussino alla porta della coscienza per irrompere e scompaginare il tenue acquerello che ti sei creato. Quando un occhio coglie la meraviglia e la bellezza della vita, l'altro indugia sull'orrore e lo sfacelo della morte incipiente. Anche un semplice fiore al culmine dell'infiorescenza suggerisce che in quella meraviglia è instillata la morte. La vita di ciascuno di noi dovrebbe avvertire in ordine all'incontestabile fatto che vivere è approssimarsi alla morte, tanto da far dire a qualcuno che vivere è rotolare fra le braccia della morte. Allora l'esistenza è disputa, dissidio, dia-logo, Polemos.

La morte non è più un accadere ineluttabile, ma è un'entità ontologica che s'intreccia alla vita, che con essa procede e da essa è evocata.

Perché la Bibbia? Perché in essa, più che in ogni altro libro, è reso manifesto questo conflitto. L'uomo, come Dio – in ciò è possibile recuperare il significato d'immagine e somiglianza, che si riflettono nell'uomo -, è dissidio interiore, lacerazione, frattura, scissione. È Polemos. Per averne conferma basta solo guardarsi intorno, guardarsi dentro, osservare e leggere la letteratura d'ogni tempo e d'ogni latitudine. Dukkha, la Trimurti induista, ove Shiva assume il ruolo del distruttore, Zoroastro, l'Islam, il giudaismo, la poesia maledetta, la letteratura dell'Ottocento, quella contemporanea, la stessa Gita è una lunga descrizione allegorica di un evento cruento...Polemos. Insomma è possibile svariare fra e su mille diverse coloriture. Di questo stato di cose, non v'è colpa d'attribuire all'uomo, né alla Creazione; perlomeno non v'è colpa tale da meritare una sofferenza che originariamente non pertiene loro, essendo voluta e pretesa dal Creatore (chiunque Egli sia), nella Creazione instillata e lasciata prosperare.

Perché la Bibbia? Dicevo poco sopra che la Bibbia è disseminata delle tracce della germinazione del Male, soprattutto se letta alla luce della passione di Cristo. Qui si tratta d'aver cognizione di racconti ritenuti storici, non di mitologia. Il Padre che sulla croce abbandona il Figlio, patendo di quest'abbandono e soffrendo in sé, nell'anima, le trafitture inflitte alla carne del Figlio, è lo stesso Padre che ad Auschwitz abbandona gli altri suoi figli, patendo e soffrendo di questo storico abbandono, intuendo (dall'etimo sentire o guardare dentro, nell'intimo, nel profondo) le trafitture che avviliscono carne ed anima degli innocenti – gli agnelli della storia –, epigoni dell'unigenito in croce, immolati ad onorare funestamente una Creazione monca, difettata, viziata dal Male originario che in Dio non può essere che costitutivo. Solo così si può spiegare lo scandalo del Dio in croce: sofferente, morente. Il Padre abbandona il Figlio sofferente sulla croce, ma ad essere abbandonato è il Padre stesso; il Figlio è abbandonato, al tempo stesso è colui che abbandona. Sulla croce si consuma la dilaniante tragedia di Dio, il Polemos divino: Egli vive nel presente storico della crocifissione il proprio eterno inferno a-temporale, sempre presente, sempre vivo; allo stesso modo, noi, nella nostra finitudine, nel corso della nostra limitata e finita esistenza, viviamo l'eco di quel dilaniante eterno inferno: viviamo il nostro limitato e finito inferno.
Dio entra nella storia dell'uomo.

La teologia della croce insegna che il Dio sofferente sulla croce è lo stesso che patisce il dolore dei tanti altri suoi figli abbandonati nei lager, nelle camere di tortura, per le strade di San Paolo, nelle più oscure pieghe di una Creazione che geme e soffre. Sulla croce si consuma il tragico paradosso dell'ateismo di Dio: Egli si allontana e separa da se stesso, abbracciando il male mondano.

Lo scandalo del Dio crocifisso è anche lo scandalo dell'aporia di un Dio ateo: quanto di più inconcepibile ed incomprensibile per il giudaismo e per l'islamismo, e quanto di più alieno dalla filosofia orientale del 'Tutto' che lambisce il panteismo. In questo scandalo, come giustamente lo definì Paolo di Tarso, espresso nel doloroso urlo di scoramento del Figlio, si raggruma il Male del mondo; il Male ontologico e metafisico di Dio si fa ontico, divenendo un tutt'uno con quello reale, concreto, visibile, palpabile, innegabile della creazione, della natura, del mondo, dell'uomo sofferenti. Il Dio crocifisso si contrappone all'atarassico Dio di Tommaso e Agostino. Egli soffrì e soffre sulla croce eretta quotidianamente dalla storia. Da qui il nascondimento, se non addirittura la "morte di Dio". Evento, quest'ultimo, resosi manifesto nel crogiuolo di urla, dolore e gemiti eruttati dall'Olocausto – la Shoah – che espone nuda e cruda la banalità del male nella sua essenzialità più diafana e pura: senza infingimenti, senza incrostazioni.

La morte di Dio non affaccia la Creazione sulle plaghe ove imperano la disperazione e il nichilismo più cupo... non necessariamente, ciò è solo una possibilità, ma non l'unica. S'apre e si offre ad una nuova e più responsabile modalità d'interrogare l'esistenza, il vivere, il quotidiano, il contingente. Dopo ed oltre la 'morte di Diò c'è il finito dell'umana dimensione. Una modalità inusitata per l'umanità, almeno nel suo rappresentarsi in una forma ancora tutta da esplorare e non ancora compiutamente immaginata: nuova nel suo proporsi, nuova nel suo imporsi. Siamo ormai orfani di certezze che la classicità greca voleva depositate fra le braccia del Superno Fato e da cui attingeva, nelle eccelse inviolate vette dell'Olimpo, nella bizzarria degli dei; orfani di certezze tributate e attinte dall'imperante monocorde revelatio ecclesiastica; orfani ed erranti nella storia; orfani di Dio incediamo, irrompiamo, siamo scaraventati entro un'area resa sgombra di false verità universali, noumeniche, immarcescibili, immutabili; in essa incediamo esitanti e perplessi, timorosi e incerti con passo ateo; area ove germogliano paradossalmente spiritualità e religiosità che non si sporgono a lambire o violare suadenti ipostasi collocate in un oltre escatologico, in un aldilà impregnato di speranza. Religiosità e spiritualità che interrogano non più oscure divinità, ma la finitudine e la limitatezza dell'uomo non più inscritte e de-finite in e da una deità distante, distratta e lontana dalla croce dell'uomo e dalla sua sofferenza, sebbene anch'essa sofferente.

Spirito, religiosità e trascendenza che interrogano la responsabilità dell'uomo, suscitandola, appellandola, pretendendola, coltivandola senza che vi siano più vane preghiere rivolte a colui che è morto suicida (<<Dio non è morto, si è suicidato>> E. Cioran).

Una responsabilità nuova che non svela il mistero del dolore e non lo dissipa, ma che almeno è libera di piegare le proprie ginocchia non per osannare i cieli in un'ipostasi d'illusione di certezza, di speranza e di redenzione, ma solo s'inchina sotto il peso dell'immane fatica di vivere. Un vivere impregnato di paure che affondano le loro radici nell'ombra oscura dell'ignoto da esplorare, e da qui emergendo per violare, per spostare un sospiro oltre quel tratto di matita che è limine e luogo privilegiato di reciproca osservazione e ammiccamento fra oscurità dell'ignoto e parvula luce del già svelato; limine che è anche varco d'ingresso di una fioca luce d'intuizione che rischiara quell'ulteriorità che sta' oltre la soglia: una trascendenza che sposta i suoi confini senza che la propria incommensurabile ampiezza patisca arretramenti, riduzioni o compressioni di sorta. Ci sarà sempre tanto, troppo da conoscere e mai potremo percorrere fino in fondo i cammini dell'anima, tanto è profondo il suo Logos; questo ci suggerisce l'antica sapienza dell'oscuro Eraclito... teniamolo sempre bene a mente.
#36
Tranquillo Paul, sapevano benissimo dove fosse l'Europa, se non altro perché ce l'avevano in casa in veste di colonizzatori armati. Avevano francesi, spagnoli, portoghesi, belgi, inglesi, tedeschi ed italiani. In pratica l'intera europa occidentale.


Non migravano per il semplice motivo che gli spostamenti transnazionali, o transcontinentali erano assai più difficili di quanto lo siano oggi. D'altra parte, anche i nostri padri quando andavano a seminare il mondo di propri figli lo facevano affrontando viaggi che duravano anche mesi e si sottoponevano a sacrifici non indifferenti, se confrontari ai livelli economici di allora. 

Nel mondo parrebbe che ci siano circa 60mln di emigrati italiani. Il 47% della popolazione argentina è di origine italiana, ed è noto che non abbiamo esportato solo cultura, laboriosità e tradizioni nostrane.
#37
Mi limito a riportare le parole scritte sul Libro. Il Male non è un qualcosa che fa la sua comparsa a seguito della caduta, bensì era presente nella creazione ben prima. Diversamente le parole che la tradizione attribuisce a Dio non avrebbero alcun significato, poiché Egli impartisce un ordine perentorio di divieto: "dei frutti dell'albero della conoscenza del bene e del MALE non devi mangiare". Mi sembra sensato dedurre che chi scrisse Genesi, varie tradizioni sovrapposte, immaginasse che il male non fosse opera dell'uomo.  
Fra le altre cose, anche la lettura del libro di Giobbe non fa che confermare questa impostazione.
#38
Decretare la morte di Dio significa semplicemente statuire che Dio non è mai esistito. Perlomeno il Dio descritto nei testi sacri al cristianesimo e all'ebraismo. Significa prendere coscienza della sua inesistenza ab aeterno, cioè da sempre. È, a parer mio, proprio il Male a determinare questa presa di coscienza. 
Evidente che non leggo il testo immaginando che descriva fatti ed eventi verificatisi in maniera fattuale. La Bibbia utilizza un registro narrativo mitologico ed un linguaggio simbolico. Le lezioni di Mircea e di Girard ci hanno istruito circa l'evidenza che un mito non è mai una narrazione fantastica, fine a se stessa, quindi del tutto aliena alla realtà e ai fatti che racconta. Il mito è la modalità – surreale, forse - attraverso cui l'uomo esprime attraverso un metalinguaggio la percezione del mondo circostante. Ovverosia è il sentimento che si trasduce in narrazione. Non rileva alcunché, ai fini della validità del contenuto delle narrazioni, che gli eventi narrati siano fattuali – quindi veri e reali – oppure percepiti come tali. Ciò che rileva è la traccia lasciata sull'anima dall'avvenuta percezione. Il linguaggio simbolico (da symballein – mettere insieme) è, in questi casi, lo strumento metalinguistico necessario per tenere coesi eventi percepiti, sedimentatisi in sentimento e collocatisi nel profondo dell'anima, e la necessità di descrizione degli stessi, di fornire loro un perché. Non immagino certo di vedere, o gli Elohim forgiare l'uomo dal fango, ma è altrettanto evidente che la creazione sia percepita come un atto voluto da un Creatore.
Per quanto riguarda l'esserci del Male, credo sia utile un'attenta analisi del primo libro della bibbia, il Genesi, quello che qualcuno mi suggerisce di leggere.
Cosa troviamo in esso?
 
il Libro della Genesi c'informa che Dio, rivolgendosi all'uomo, l'ammonì: «ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti». Egli impartì alla propria Creatura un ordine perentorio: "non devi mangiar(ne)", riferendosi all'albero della conoscenza del Bene e del Male, perché l'uomo, cibandosi dei suoi frutti, ne sarebbe morto. Il conoscere assume qui le fosche connotazioni di una forza disgregante, che separa. Il mondano attrae e separa dal divino. Dio in origine passeggiava nel giardino dell'Eden, il che lascia ben intuire la prossimità e l'intelligenza fra Creatura e Creatore. La famosa e fantastica età aurea di cui tante culture sono impregnate.
 
Ad ogni buon conto, non credo possa essere confutato il fatto che tanto l'esistenza del Bene, rilevabile nel precedente emistichio, quanto quella del Male permeassero la Creazione fin dalle origini. Cibarsi dei frutti attinti dall'albero della conoscenza significa elevare la creatura al livello di Dio, cioè sostituire le determinazioni umane all'unica vera fonte di Verità. La disobbedienza di Adamo ed Eva si traduce così in un atto che afferma l'autonomia morale dell'uomo – creatura – rispetto al Creatore, per cui è l'uomo e non più Dio a stabilire in base alle proprie determinazioni, volta per volta, ciò che è bene e ciò che è male. Da ciò deriva che non fosse più necessario soggiacere al 'consiglio divino'.
 
Il peccato di superbia narrato in Genesi è la cifra della lacerazione che è venuta a prodursi fra terra cielo e uomo. Genesi narra non solo il mito della Creazione, ma anche quello della profonda frattura che da allora impregna il creato. L'atto di superbia si concreta nella presunzione di poter fare a meno di Dio ogni qualvolta si pone il dilemma di scegliere, di decidere per un verso o per un altro. Accedere alla superiore conoscenza del Bene e del Male, determinando così autonomamente il grado gerarchico da attribuire a ciascun 'valore' morale, significa violare il sacro (separato) ed entrare in contatto con un qualcosa che già esisteva, che già impregnava ed intrideva la Creazione, seppur forse non ancora operante. Diversamente Dio avrebbe impartito un ordine assurdo. La Creazione è opera divina, è evidente che entrambe le forze che la impregnano siano anch'esse opera divina. La Creazione, evidentemente, era "cosa molto buona" ma non certamente "perfetta", trattenendo in sé anche "cose non buone" o "cose meno buone".
#39
La sofferenza, quella che non ha alcuna finalità, se non l'unica di essere cagione di patimento e pianto, e che si getta nelle acque morte del Nulla, inquisisce Dio, nella veste riconosciutagli dalla tradizione ebraica e cristiana di essere il Creatore del cielo e della terra e di tutte le cose visibili ed invisibili. Proprio per questa sua caratterizzazione di unico creatore di tutto ciò che c'è, Dio ha la precisa responsabilità di aver creato il Male, e di questa nefandezza deve farsi carico.
La morte di Dio non è altro che la presa di coscienza di questo dato di fatto, che non può essere scaricato sulle spalle della creazione.
 
Se il Male non recasse con sé il presentimento della morte; se quindi non annichilisse e privasse la vita di senso e significato; se non possedesse una forza d'intensità tale da intridere di sé, dei suoi mefitici miasmi di morte, l'intera esistenza dell'uomo; se non possedesse le caratteristiche e la capacità d'opacizzare l'orizzonte esistenziale disputando alla speranza il tempo futuro, ammorbando il presente e rendendo vacuo il passato e se di esso l'uomo potesse anche solo in minima parte comprenderne il fine, il significato e la sua ragione d'essere, forse non interrogherebbe le profondità dell'animo umano fino a insinuare il dubbio che sia un'entità ontologica e non solo morale. 
 
Il Male è un'esperienza di morte. Il suo essere nel mondo è una costante del pensiero e delle riflessioni dell'uomo, del suo pensare e riflettere, ciò fin dalla notte dei tempi ed indipendentemente dal credo religioso o dall'ateismo professato da ciascuno di noi.
 
Interroga l'uomo, soprattutto quando ne interseca l'esistenza; l'uomo, a sua volta, interroga se stesso, la natura, la Vita, il Creato ogni qualvolta avverte l'ansito doloroso del suo vigore che n'annuncia l'irrompere nella vita, delineandone i contorni su un orizzonte che s'adombra.
 
Per quanto ponga interrogativi, e per quanto sia a sua volta oggetto e scaturigine d'interrogazioni, è un mistero imperscrutabile, non offre un perché del suo apparire, non risponde agli accorati quesiti che l'uomo rivolge al proprio esistere, svuotato di senso e significato. 
 
La Vita stessa parla dell'innocenza esposta al male e resa sua vittima; così facendo, pone un quesito agghiacciante; perché suggerisce che il male non ha una sua intrinseca ragione sufficiente a fornirgli giustificazione e non sempre è espressione di una scelta umana. Quando aggredisce l'innocenza mordendone le carni attraverso la fame, le malattie, le carestie, le guerre e la potenza della natura pare voglia dirci che la sofferenza, il patimento, il pianto, il dolore impregnano la terra fin dalle origini. 
 
La memoria dell'uomo, la sua storia, ammonisce circa il fatto che si è sempre sofferto, patito, pianto, e non si rileva ragione alcuna che lasci presagire un'estinzione, o un'attenuazione della sua virulenza.
Credo che non vi sia un senso nel soffrire innocente, perlomeno un significato che l'uomo possa cogliere per giustificare il pianto di chi soffre. E se questo senso o significato dovesse riposare fra le braccia del Creatore, poco varrebbe intuirlo, non servirebbe a lenire il dolore che affligge e attanaglia il mondo. 'Il progetto di Diò – che guarda caso è anche il titolo di una profonda riflessione di Papa Giovanni Paolo II° - è un mistero. Questo mistero implica anche l'esistenza del male e del dolore. 
Sentire i morsi del serpente che insidia il calcagno dell'umanità rende la terra arida, desertificata, inospitale. Se il disegno superiore ha previsto il soffrire affinché attraverso il patire sia impartito alla creatura un insegnamento pedagogico finalizzato alla sua crescita, vedo nell'opera di Dio un'insanabile aberrazione. Il dolore non sempre è pedagogico, e quando lo è assolve il ruolo - mistificando e falsando il sentimento - di attenuare nel singolo, in colui che ne entra in contatto, quel senso di angoscia profonda che ci travolge ogni qualvolta si è investiti dal Male. 
Soprattutto la gratuità del dolore non è per niente pedagogica, ma, almeno in Giobbe, è un mistero cui piegarsi; nel Dostoevskij dei Karamazov, parte del disegno divino che, giacché prevede ed implica l'esistenza del male gratuito, è da rifiutare; nell'Idiota, invece, è beota rassegnazione; nella Grecia classica destino inalienabile cui si deve piegare anche la divinità. La visione tragica dell'esistenza, intesa come tensione esistenziale fra morte e vita, fra bene e male, ben presente nella Grecia classica, è istanza dell'esistenza stessa. Il Polemos greco non è il piegarsi all'invereconda protervia del male, ma presuppone una tensione costante, inestinguibile, irredimibile che neppure la croce ha potuto abolire dalla terra, rinviando la sua sconfitta ad un oltre escatologico, associando a questa promessa la speranza che 'così sia'; quanto, in definitiva, alimenta la fede dei cristiani. Resta solo da scegliere la via: credere o meno a questa promessa, nutrire una speranza ed una fede che <<è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono.>> (Paolo di Tarso, Epistola agli Ebrei 11-1... anche se la lettera parrebbe non sia proprio di Paolo, ma fa pur sempre parte dei suoi insegnamenti.)
 
Dio, se esiste, forse ha crocifisso l'unigenito solo per redimere se stesso dalla grave colpa di aver gettato la sua più bella creatura (per soddisfare la curiosità di qualcuno, si tratta di una definizione direttamente tratta dalla Bibbia) all'interno di un'arena ove non è gladiatore ma sempre e solamente vittima. Nella croce ha così inteso incidere i segni della sua 'defensa'. Ma è davvero troppo il Male da Lui generato perché l'umanità si lasci blandire da una promessa di riscatto di là da venire. L'uomo non crede più all'ultimo giorno. Vede il male e in esso reperisce solo il non senso e l'assurdo della vita, non i segni di una promessa, che si svuota di significato se posta a confronto dell'originaria volontà divina che ha generato ciò da cui pretende di salvarla. 
 
Non vi è redenzione in Cristo, non vi può essere assoluzione per Dio. Il dolore del figlio è solo dolore che si somma a quello dell'umanità, e la somma di più dolori non assolve Dio dalle sue colpe.
#40
Che quadretto accattivante, quasi bucolico. Aulico e rasserenante. Due colpi di pennello, tinte pastello, una spruzzata di rosa, molto azzurro su uno sfondo di bionde messi. Lo sguardo rivolto al passato, un'anima che si riempie di gioia e bellezza, che danza festosa fra festose graziosità. Chissà se quello sguardo ha colto anche il raccapriccio di due guerre mondiali, chissà se fra un rosa, un azzurro ed un biodo ha intravisto il colore del sangue. Non glielo chiedo.

Questa è la nostra Europa. Non è perfetta. A questo mondo non esiste nulla di perfetto, il che è un bene, perché ci costringe ad operare senza requie per il miglioramento. Le assenze, le mancanze sono lo sprone per trovare le giuste correzioni. Malgrado ciò niente sarà mai perfetto.

Questa Europa che abbiamo costruito, pur con tutti i suoi limiti, enormi, che per certi versi ci dannano, è ciò che ha permesso la pace fra nazioni per il più periodo lungo che la storia moderna e contemporanea ricordi. 

Questa flaccida Europa, ormai deprivata di nerboruti combattenti (beh, gli italiani non è che si siano mai distinti per virilità militare) che si fronteggino armati e dai volti sfigurati dall'odio e col ghigno di cani molossi, all'interno del perimetro che la recinge, non è teatro di guerra da ben 72 anni e Francia e Germania hanno smesso di seminare i rispettivi confini di carne umana e di irrorarla col sangue dei propri figli. 

Questa Europa, dileggiata e disprezzata, nell'ambito delle proprie frontiere, ha smesso di far sentire la voce dei propri cannoni. Le nostre città non sono inondate dal sinistro suono delle sirene che avvertono dell'approssimarsi di un bombardamento. 

Tutto ciò lo ritengo assai più bello di tutta la bellezza che puoi vedere tu nei capelli biondi, negli occhi azzurri e nelle gambe affusolate di sensuali ragazze parigine. 

Lo sguardo anacronistico che tanto avvince la tua anima dovrebbe per un solo attimo sostare sui campi di sterminio che i nazionalismi, quelli che tanto t'infoiano, hanno disseminato nel cuore di un'Europa che per fortuna oggi non c'è più e il cui ricordo pare ti ammali. Dovrebbe, il tuo trasognato sguardo vergineo, ricolmo di dolce innocenza, sorvolare gli Altipiani del Carso, le Prealpi, il Trentino, magari scorgerebbe, oggi, in epoca di disgelo, le gambe mozzate di qualche artigliere che nel primo conflitto mondiale immolò sogni, speranze, timori, amori in nome di un nazionalismo bieco e truffaldino.

Io, che rifiuto uno sguardo trasognato su epoche che forse ci furono ma che certo non torneranno più, preferisco tenere lo sguardo verso il domani. Ricorda, mia fiera ed invitta guerriera, che lo sguardo volto all'indietro non ti permette di guardare dove poggi i piedi, potresti incappare in qualche tombino aperto. Povera fanciulla, delusa dall'Europa che rinuncia al biondo, all'azzurro ed alla bellezza delle fanciulle in fiore, ancor più delusa da Paul (simpaticissimo il concorso a premi del forumista dell'anno😂😂😂), colui che fra vapori di sogno immagina di intravedere due rive che si avvicinano: ma dove, quando, quali?
La globalizzazione e la robotizzazione tecnologica dei sistemi di comunicazione, mi spiace deluderla, non hanno permesso alcun avvicinamento, semmai potremmo parlare di progressiva incentivazione alla diffidenza. Mai come in questo periodo di modernismo liquido le diverse aree del globo sono intimamente lontane l'una dall'altra, pur essendo più vicine e reciprocamente conoscibili. Non sono io ad affermarlo, sono i dati. Mai il pianeta è stato attraversato da crisi geo politiche in tale quantità.

Proprio vero, mia cara guerrigliera, amazzone del XXI secolo, le delusioni non vengono mai sole: sfumata l'Europa dei campi elisi, sfumato il sostegno del forumista dell'anno, non ti rimane che difendere la tua aiuola con unghie e artigli. Ami l'uniformità, il monocorde, la monocoltura, la monofonia, il monocromatico: tutto azzurro, oppure biondo o rosa, purché non vi siano screziature tendenti al bruno. Mi spiace per te, questo non è il tuo mondo, poiché anche la biologia afferma che la biodiversità è ricchezza. Afferma pure che un popolo è destinato a morire per fiacchezza quando non c'è più scambio genetico con altri popoli ed etnie. La bubbola della razza pura ed intonsa è proprio la solita corbelleria che i deboli di ragione e di cervice si sbevazzano come fresca acqua di fonte. L'antropologia conferma, inoltre, che il rimescolamento ha sempre prodotto più ricchezza culturale che impoverimento, da sempre. Fra l'altro, mi darai atto che insistere a confrontarsi e dibattere solo con chi la pensa in quell'unico modo, non può produrre arricchimento ma solo una gratificazione dell'ego ed una profondissima noia.

Mi spiace per il tuo incorrisposto innamoramento. Il passato è utile perché fornisce un giusto insegnamento da proiettare sul futuro. L'insegnamento che ci viene dalla storia del XX secolo è che il nazionalismo è stato il vulnus che ha riempito le terre d'Europa dei miasmi di morte. Il futuro non è certo roseo, ma la storia ha un verso, scorre dal passato al futuro, intersecando il presente. E ciò che un tempo non era ritenuto né utile, né necessario, oggi, per il mutare delle esigenze, diviene indispensabile. Si chiama divenire. Le comunità, se non sclerotizzate da un passato iridescente, sono anch'esse esposte al divenire e quindi anche al mutare delle esigenze.

Cosa è poi questo divenire che, cantato anche da Ovidio, è un continuo mutare di forme? Negli anni '50 e '60 non si avvertiva la necessità che il paese si dotasse di una legge sul divorzio. Quante lotte e quante resistenze, finché nel 1970 arrivò la legge Fortuna. Fu, in seguito, anche sottoposta a referendum abrogativo senza alcun esito. Evidente che il Paese avvertiva davvero la necessità di quella norma di civiltà. Oggi non è più messa in discussione. Insomma, il progresso e il nuovo livello di consapevolezza hanno, in un connubio inscindibile, inglobato anche quanto in quegli anni appariva come un obbrobrio sociale.

Con alterne vicende e con una storia ben più travagliata, lo stesso si è ripetuto per l'aborto, la legge Basaglia, lo Statuto dei Lavoratori. Oggi per la legge sulle unioni civili. Tutte amenità che hanno sempre urtato la sensibilità degli esteti incantati di fronte ai quadri di bei bimbi biondi con gli occhi azzurri, stampati su carta oramai ingiallita dal tempo. Insomma, le frange reazionarie minoritarie e populiste di destra che starnazzano per lo scandalo ci sono sempre state, ma non sono riuscite a bloccare il procedere della storia e il divenire. Domani la battaglia retrò sarà condotta contro lo ius soli, perché a qualcuno non piace il meticciato bruno, preferendo quello albino. Sarà condotta contro il bio-testamento e il fine vita, che ci si può fare? Lasciamo che starnazzino, si tratta di un rito, della celebrazione quotidiana del venerdì santo del pensiero
#41
Mi pare proprio che non ci siamo.

La sofferenza denuncia e rende manifesta all'uomo la morte di Dio poiché, per il solo fatto di esserci ed essere anche una gratuità inessenziale, rende Dio inessenziale. Se il dolore ha una sua funzione, che è quella di avvertire circa un disequilibrio fisico o morale, la sofferenza – nella fattispecie quella degli innocenti di Sabra, Chatila, Auschwitz, Vermicino e i mille altri obbrobri che hanno insanguinato la terra rendendola inospitale, perlomeno in relazione alle vittime sacrificali – non ha alcuna funzione, né fisiologica, né morale. Anche la Morte è funzionale alla Vita. La sofferenza si presenta, invece, in tutta la sua torbida inutilità. Non ha e non può avere una funzione pedagogica, men che meno è utile ai fini della preservazione della Vita.

Con la sofferenza è stato inoculato nella Creazione un baco putrescente che ne offusca la bellezza e intorbida l'atto stesso compiuto da Dio, collocandolo così in un ambito fosco ed ambiguo.

Il diritto alla maledizione nei confronti di chi perpetrò simile ingiuria non può che essere riconosciuto a tutte le vittime che hanno patito ed avvertito nella viva carne la beffa di essere venute al mondo con l'unica funzione di rappresentare il balocco di un Dio ozioso.

Solo la morte preserva Dio dal dover rispondere delle nefandezze perpetrate a danno della sua più bella creatura.
#42
Citazione di: Sariputra il 17 Giugno 2017, 09:50:12 AM
Se Dio è morto, ammazzato dall'uomo, non vedo alcuna ragione perché l'uomo non debba ammazzare anche se stesso, come sta facendo in effetti dall'inizio della sua avventura disgraziata su questo pianeta. Sarebbe curioso non avere alcun riguardo nell'accoppare Dio e poi farsi scrupoli nell'accoppare i propri simili, che sono concretamente molto più fastidiosi di un Dio silenzioso e nascosto.
Hai voglia il paragone tra un Dio pacifico e che si fa i fatti suoi e i tuoi simili che ti ronzano attorno, ti si attaccano come zecche, e ti costringono continuamente a trovar compromessi esilaranti per poter  sopravvivere. Almeno, seppur immaginario, l'amore di un Dio è per sempre; ma c'è o c'é stato qualche poveraccio, su questa Terra, a cui l'amore sia durato più del tempo di una breve stagione?
Insomma , aver ammazzato Dio non sembra aver cambiato nulla dell'attitudine umana a crear rogne, semmai ha confuso ancor di più le carte, visto che adesso ogni cristo rivendica come vera e sacrosanta la propria personale e pruriginosa piccola rogna. Forse..."furono le mosche a farcelo capire"...che ormai era tempo di usare il DDT?

Guarda che è la sofferenza gratuita a decretare la morte di Dio, non certo la volontà dell'uomo. Dopo gli obbrobri di Auschwitz l'intera teologia, cattolica e riformata, si è posta di fronte a questo dilemma. Non mi pare che l'Olocausto possa essere definito 'pruriginosa piccola rogna', ma se per te è così, transeat.
Nel fronte cristiano ci si chiese come la bontà divina poté aver permesso tale scempio senza intervenire. Come poté il Padre provvidente abbandonare la sua più bella creatura nelle fornaci dell'inferno. Evidente che qualcosa nella concezione cristiana del Dio infinitamente buono ha preso a scricchiolare.

La sofferenza dell'innocente è una gratuità obbrobriosa della creazione. Non è possibile eludere la domanda del suo perché.
#43
Citazione di: Fharenight il 17 Giugno 2017, 00:08:46 AM
Signor Sechi, la sua, a mio modesto avviso, è semplicemente una mania, nient'altro. Se lei fosse ispirato sul serio da un autentico sentimento di carità e umanità non si sarebbe di certo dimenticato di una grande ed importate categoria di persone che avrebbe maggior diritto ad essere accolta in Europa tutta, non solo in Italia. Allora, avrebbero più diritto (e quindi precedenza) ad ottenere lo status di rifugiato i cristiani che in Siria, Egitto, Afganistan, Iraq ed altri paesi islamici sono costantemente vittime di discriminazione religiosa e di persecuzione da parte dei musulmani; altro che la donna musulmana che si rifugia in Europa per fuggire dagli islamici suoi correligionari!  Mentre, al contrario, se fossimo ancora una nazioni col senso di reatà e di dignità integri, non accetteremmo più islamici, non per discriminazione religiosa, bensì per opportunità politico-ideologica derivante dall'incostituzionalità dell'islam.
Signor Sechi, la sua è una mania. E' una mania il desiderio di voler accogliere tutta l'Africa e il resto del mondo in Italia (tra l'altro a spese degli italiani), e non le fa certo onore, tutt'altro. La sua è una mania o un quasi delirio di onnipotenza come quello di Adolf Hitler, solo che la sua mania è rivolta al contrario, è l'esatto opposto di quella di Hitler, ma sempre di mania si tratta.
Per quanto riguarda l'obbligo di salvataggio in mare, risalgono ad antiche norme di consuetudine, oggi ci troviamo di fronte ad un fenomeno allucinante e del  tutto nuovo, qui si sta speculando sulla pelle dei migranti e sulla nostra di noi cittadini autoctoni, in mezzo c'è tutta una serie di sporchi speculatori. A maggior ragione si dovrebbe essere molto più severi e punire i trafficanti di esseri umani spezzando la catena. Manca la volontà di farlo.
Cioè,secondo il suo buon cuore, io mi imbarco su una carretta del mare in maniera clandestina, pagando profumatamente fior di criminali, so a cosa vado incontro e nel momento in cui mi trovo in alto mare devo pretendere che l'Italia mi salvi, mi soccorra, non do i mie dati o li do falsi, tuttavia pretendo di essere ospitato, vestito, coccolato a tempo indeterminato e tutto gratuitamente? Questa non è nemmeno giustizia, figuriamoci se possa rientrare nella carità; se ne rende conto?
Inoltre un conto è l'obbligo di dover soccorrere le persone in mare, ma nessuna norma obbliga a sbarcarli tutti in Italia. Una parte dei soldi che ci passa la Ue per i migranti sono soldi nostri, non sono un regalo, lo sa?
Il punto fondamentale dove non riuscite a comprendere voi abbagliati da questo malinteso senso di umanità o di carità,  è che non è possibile sbarcare tutta l'Africa ed il resto del mondo in Italia o in Europa, nemmeno il più folle dei conquistatori avrebbe mai pensato una assurdità del genere. Neppure ad Hitler credo sarebbe mai venuto in mente un progetto così folle.  Lei può inveire e insultare quanto le pare e piace, ma non cambierà di certo la situazione di gravissima crisi in cui l'Italia è stata gettata e

Ma no, fraintendi, come tuo solito. Non ho capito se si tratti di un limite congenito oppure di un VANO tentativo di buttarla in caciara. Con me non funziona. Te l'ho già scritto.

Quando si discute intorno alla necessità di assicurare un'assistenza, prima, e una protezione umanitaria, in seguito, non può farsi valere il discrimine dell'appartenenza: ad un orientamento politico, culturale, etnico, ambientale o religioso. Per cui, cara mia, non è ammesso il previo accertamento della religiosità di ciascun individuo che necessita di aiuto umanitario. I profughi e le persone in pericolo di vita sono tutte uguali.

Fra l'altro, fraintendi doppiamente. Prima di tutto non si tratta di 'consuetudine', bensì di un quadro normativo cogente, per chi dovesse aderirvi, ovvio. In secondo luogo, è vero che le norme di comportamento dettate dalla Convenzione di Ginevra (1951), cui ha aderito l'Italia, sono vetuste ed obsolete e non più rispondenti alle reali mutate esigenze. Ma nel senso opposto che intendi tu. Sono antiquate perché non tengono conto di una situazione che nel corso del tempo ha mutato pelle e sostanza, e si è via via sempre più aggravata. La pressione che si sta esercitando sulla comunità internazionale va in direzione opposta ad una loro restrizione.

Diversamente da quel che fingi di credere tu, esiste una precisa prescrizione che vieta i respingimenti dei profughi in zone di guerra – non li puoi sbarcare in Libia, per intenderci -, anche se provenienti proprio da lì. Ciò per evidenti ragioni. Non te le spiego, immagino sia in condiziine di supporle. Impone, altresì, lo sbarco sul territorio più prossimo al luogo in cui è stato effettuato il salvataggio. Malta, per esempio, non rispetta quest'obbligo e il suo comportamento è stato più volte censurato. A te farà piacere e sarebbe, presumo, un esempio da seguire. Per quel che mi riguarda, invece, è un atteggiamento meschino, come meschino è Salvini. Punti di vista diversi.

Per quanto riguarda le coccole che il nostro Paese riserverebbe a questi poveri cristi, mi limito ad invitarti a fare visita in un campo di accoglienza frontaliero.

Non mi son mai sognato di pretendere che l'Italia o l'Europa diventino ostello dell'intera popolazione dell'Africa o dell'Asia. Ribadisco che per me il meglio sarebbe che ciascuno potesse vivere serenamente nel luogo di nascita. Sono anche convinto che questo sia il desiderio di tutti i migranti che nel corso degli anni sono approdati in questa parte del Mediterraneo.  È però indispensabile che si creino le condizioni ambientali, politiche e culturali perché ciò si renda possibile. Sono convinto che far finta di nulla e sollevare barricate non impedirà a chiunque sia in una condizione di estrema precarietà di cercare altrove quel che nel proprio luogo natio è al momento precluso. Così è stato per gli italiani. È la storia dell'umanità che ci fornisce questo insegnamento. Vorrei che il Mediterraneo non diventasse la più grande tomba a cielo aperto di esseri umani. Ci basta Birkenau. Perciò applaudo quando la nostra Marina Militare usa le sue navi per salvaguardare la sopravvivenza di queste persone, e non per cagionare la morte. Finalmente un uso sensato dell'esercito. Ovvio ed evidente che, se nel salvataggio in mare l'Italia ha dimostrato di essere ai massimi livelli di efficacia, purtroppo è deficitaria per quanto riguarda l'ospitalità. Un po' a causa dei berci sguaiati di qualche insensato politico, un po' perché lasciata sola a gestire una crisi di enormi proporzioni e molto per il solito vezzo tutto italiano di saper affrontare l'acme delle emergenze e rinunciare ad organizzarne la gestione.

Temo che non si abbia ben chiara la portata del problema. Con l'acuirsi della problematica ambientale (un osanna a Trump... Vedi che poi le responsabilità non è così difficile individuarle), un domani non troppo remoto è previsto un accentuarsi della spinta di popolazioni provenienti da luoghi di crisi verso le frontiere del mondo occidentale. Inizia pure ad armarti, dovrai combattere, mia guerrigliera.

Non scambiare per insulti gli sfottò.
Bye
#44
Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l'odore. Grosse come mosconi, all'inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all'altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare. Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano... Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c'è vita anche nella morte... Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano... L'odore traumatizzante della morte era dappertutto (cit. dal Web)

L'uomo folle, in un rigurgito di vita, piombò in mezzo alla piazza gremita e, piangente, urlò: "Dio è morto!".

In un sol corpo, dal freddo pungente della disperazione, Birkenau, Auschwitz e Dachau s'ersero e gli fecero eco: "Dio è morto!".

La notizia si propagò in un baleno e, percuotendo la terra, ridestò Sabra e Chatila dalla turpe visione del proprio obbrobrio. Anch'esse si unirono alla lugubre sinfonia: "Dio è morto!".

Come ubbidendo ad un ordine, il grumo di Vermicino si sciolse e il sangue non più rappreso, tornò a fluire per nutrire l'assetata terra: "Dio è morto!".

L'uomo folle, restato solo al centro dell'immensa piazza, cantò il suo destino: "non più un dio a cui affidare il nostro domani. L'uomo è solo e si carica sulle spalle la responsabilità di essere libero per costruire se stesso".
#45
Per risponderti mi avvalgo di un breve stralcio di un mio recente intervento in risposta ad un giurista che stravolgeva in maniera evidente la realtà.

"L'intervento che segue sarà lungo, risulterà pedante (la pedanteria dei numeri), poco incline al facile applauso, doverosamente sincero e caustico.
Prima di tutto facciamo chiarezza sulla terminologia.
Rifugiato
Il rifugiato è una precisa categoria giuridica, e si riferisce a una persona a cui è stato riconosciuto, appunto, lo status di rifugiato. Si è cioè accertato, tramite un'apposita procedura, che la persona è stata costretta a lasciare il proprio paese a causa di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, e che per questo non può tornare nel proprio paese. Questa definizione deriva dall'articolo 1 della Convenzione di Ginevra del 1951, a cui fanno riferimento le diverse disposizioni nazionali che hanno riconosciuto la convenzione.

Richiedente asilo
Il richiedente asilo è colui che ha presentato domanda per ottenere l'asilo politico, e dunque lo status di rifugiato, in un paese estero. Si tratta, anche qui, di una categoria definita giuridicamente e temporalmente. Infatti il richiedente asilo diventa altro (rifugiato, o migrante economico, o migrante irregolare) nel momento in cui ottiene una risposta definitiva alla sua domanda di asilo.

Profugo
Si tratta di un termine generico che indica chi lascia il proprio paese a causa di guerre, persecuzioni, o catastrofi naturali. È dunque la parola più adatta per definire esodi di massa come quello siriano, anche se implica una condizione di passività che spesso non coglie la dimensione attiva e strategica che molte persone che migrano mettono in realtà in campo.
(Le definizioni dal web à http://www.lenius.it/parole-migrazioni/ un sito fra i tanti)

La corretta definizione dei diversi status giuridico, sociale e di fatto è utile per capire quanto propostoci dal pur apprezzabile xxxxx  sia parziale e, per certi versi, fuorviante.
Perché, per esempio, un giurista circoscrive lo status di 'rifugiato' a quello politico (testualmente 'rifugiato politico')? Quasi si volesse limitare il riconoscimento dello status di rifugiato ai soli perseguitati per ragioni politiche, e, conseguentemente, così anche gli obblighi di assistenza della comunità internazionale. Quando, invece, la Convenzione di Ginevra del 1951 estende il concetto anche ad altre più ampie condizioni di persecuzione, riferendosi, infatti, il testo, ai 'rifugiati' tout court, senza alcuna aggettivazione ulteriore. Quindi perseguitati "per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, e che per questo non può tornare nel proprio paese.". Gli apolidi, che fine hanno fatto nel suo ragionamento?
Necessità di sintesi? Senza dubbio! Ma così si crea solo tanta confusione.
Perché, mi domando ancora una volta, aver voluto enucleare solo due tipologie di cause di migrazione, contrapponendole per giunta? Testualmente: 'rifugiato politico' e 'migrante economico' (aggettivo terribile). Quando, invece il diritto internazionale e la prassi umanitaria individuano ed ammettono ben altre ragioni ed urgenze che spingono un essere umano ad abbandonare il proprio Paese.
Anche in questo caso è sempre la sintesi l'ispiratrice della sua narrazione? Forse, invece, il perché potrebbe essere spiegato e meglio compreso con la volontà di condurre il discorso lungo percorsi preordinati e preconcetti. Può essere. Non so. Faccio salva la buona fede.
Perché eludere l'evidente condizione di ogni rifugiato, che prima di essere riconosciuto tale, è anch'esso un migrante? Chi sbarca sulle nostre coste tale è... Sempre! Gli vien riconosciuto lo status di 'rifugiato' solo in seguito, dopo non sempre agevoli accertamenti che richiedono tempo ed impegno.
Lo status di 'rifugiato' è l'unico giuridicamente riconosciuto da una vetusta ed ormai obsoleta legislazione internazionale del 1951 (quando le problematiche erano diverse e non così soverchianti e diversificate). Impone precisi obblighi a carico dei paesi ospitanti (innocenza dei rifugiati che s'introducono illegalmente; garantisce il diritto di non respingimento... Con buona pace di Salvini e di Grillo). Ma per essere riconosciuto tale è indispensabile ottenere questo particolare status.
Quindi non sono, per esempio, possibili i respingimenti in mare, poiché non è dato sapere in quella fase chi ha diritto e chi no.
Perché un giurista omette di rendere edotti i suoi lettori di questa particolarità? Sintesi?
Le motivazioni che possono spingere un individuo ad abbandonare il proprio paese d'origine riconosciute oggi dalla comunità internazionale sono ben più delle due evidenziate da xxxxxx.
Poco rileva che la norma che le tutela e regolamenta sia più o meno cogente. Quel che è rilevante è che si tratta in tutti casi di situazioni di urgente necessità, che pongono a rischio la sopravvivenza dell'individuo e che richiedono uno sforzo umanitario.
Perché non si parla dei 'profughi', cioè di coloro che abbandonano il proprio paese d'origine a causa di guerre, persecuzioni, o catastrofi naturali? Qui non entra in gioco la condizione di persecuzione individuale, bensì una condizione oggettivabile e collettiva, ben desumibile accertando il luogo di provenienza. Così si scopre, per esempio, che un nigeriano, pur non essendo individualmente perseguitato, fugge da un teatro di guerra. Oppure un eritreo, un siriano, un iracheno, un afgano, un palestinese (no, questi ultimi no, son reietti).
Il profugo non avrebbe da accampare diritti giuridicamente statuiti dalla comunità internazionale, essendo l'unico status giuridico riconosciuto quello di rifugiato. Eppure, di fronte ad un profugo di guerra o per carestie naturali (spesso indotte da sfruttamento selvaggio), non credo che la nostra coscienza possa ritenersi monda da ogni peccato attingendo esclusivamente alla norma giuridica, avendo soprattutto previa consapevolezza che il teatro di guerra è in larga misura responsabilità delle bombe occidentali, magari proprio quelle di 'sa domo nostra'.
Esistono anche i 'beneficiari di protezione umanitaria'. Ovverosia individui che, pur non essendo riconosciuti 'rifugiati', perché non sono vittime di persecuzione individuale nel loro Paese, hanno comunque bisogno di protezione o assistenza: si tratta di persone che se fossero rimpatriate potrebbero subire violenza o persecuzioni. Ma di chi si tratta? Pensate agli omosessuali, od anche semplicemente alle donne di certa parte di arabia... Per citare due esempi possibili.
La legislazione, come accennavo sopra, è antiquata, non più adatta ad affrontare in scienza e coscienza il gravoso problema. Per questa ragione l'attribuzione dello status di 'rifugiato' rappresenta uno 'zerovirgola' del totale, come giustamente fa notare l'autorevole xxxxxx. Peccato che abbia voluto guardare solo un ridotto spicchio dell'intero.
La legislazione necessita di urgenti aggiornamenti. È anacronistica e non riflette più la realtà del problema. Compito improbo. Gli Usa non hanno mai sottoscritto l'accordo di Ginevra, evitando così di farsi carico dei correlati obblighi. Si sono limitati a sottoscrivere i soli Protocolli del 1962 (o 1967), non vincolanti"


Questo è la situazione data che rassegna il quadro giuridico-normativo entro il quale ci si deve e ci si può muovere. L'insieme delle norme giuridiche, nazionali, comunitarie ed internazionali compongono un complesso mosaico che impone un canone di comportamento. Uno Stato, per ottenere il rispetto da prte dei cittadini, non può prescindere dal'essere rispettoso a sua volta dei vincoli internazionali, pena il discredito. Il diritto imprime una relazione quantomeno bidirezionale, che implica l'osservanza dei vincoli a tutti i livelli.

P.s. Mi pare di non aver mai utilizzato i termini xenofobo o razzista nei confronti di nessuno. Non sono necessari