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Messaggi - donquixote

#31
Tematiche Filosofiche / Re:L'ira
07 Giugno 2020, 20:11:33 PM
Citazione di: cvc il 06 Giugno 2020, 08:15:45 AM
Da persona che apprezza le scuole filosofiche ellenistiche, ho ammirato le loro battaglie contro le passioni. Naturalmente va premesso che il concetto odierno di passione non rende l'idea di ciò cui gli antichi si riferivano. Per noi può essere una passione fare jogging, in cui non vi è assolutamente niente di male. Per loro il termine passione era riferito in generale ai sentimenti malvagi dell'essere umano. Fra queste, una delle passioni capitali era considerata appunto l'ira. Seneca, in particolare, ha dedicato un libro all'ira che "ripugna il genere umano". Obiettava, in esso ad Aristotele, il fatto che l'ira potesse essere in qualche occasione utile. Aristotele sosteneva, ad esempio, che in alcuni casi, come in guerra, l'ira potesse essere uno sprone al coraggio. Per Seneca, da stoico, il coraggio è il discernere tra ciò che è da temere e ciò che non è da temere. Mentre l'ira, essendo una passione, una volta messa in moto è incontrollabile e ci porta alla deriva. Quindi va evitata sempre.
Il filosofo Remo Bodei, nel saggio "Ira. La passione furente", stimola alcune riflessioni interessanti. Ad esempio nel concetto di giustizia è implicita la punizione dell'empio. E la punizione che altro è se non l'ira del giusto nei confronti del reo? Certo, qualche ortodosso di una qualche religione o dottrina filosofica potrebbe sostenere che si possa punire senza essere adirati. Ad esempio, se giudico che qualcuno sta andando contro Dio, lo punisco non per la mia rabbia ma per la giustizia divina. In altri termini l'ira divina è giusta, l'ira dell'uomo è malvagia.
Ma può esserci giustizia senza ira? Può esserci un'ira giusta?

Diceva San Tommaso che le passioni sono un difetto dell'animo e le paragonava alla miopia: questa, in quanto difetto fisico, impedisce di vedere chiaramente, mentre le passioni impediscono un giudizio misurato e corretto dei fenomeni del mondo. Ogni uomo è preda di passioni, ma la ragione dovrebbe essere il mezzo per riconoscere quando queste stanno prendendo il sopravvento e tenerle sotto controllo per mezzo della volontà in modo che non facciano danni a noi o ad altri. In definitiva le passioni, in quanto costitutive dell'animo umano e a volte utili come ulteriore spinta per perseguire un obiettivo, non sono negative in sé ma lo diventano quando si è preda delle medesime e ci si lascia guidare prevalentemente da esse, perdendo con ciò di vista l'equilibrio complessivo e la capacità di giudizio.

Nello specifico l'ira non è una passione a sè, ma piuttosto un moto causato da passioni diverse, ha bisogno di altre passioni per esprimersi (solo un folle potrebbe essere preso dall'ira senza alcuna ragione sottostante). Non è bene o male, buona o cattiva, animata da amore od odio ma, come spiega sempre San Tommaso facendo l'esempio legato appunto alla giustizia punitiva, assume in sé entrambe le passioni dato che esprime amore di vendetta (che è giudicata bene per colui che la esercita) e nel contempo odio verso la persona (giudicata ovviamente male) oggetto della vendetta stessa.

Altra questione è però, a mio avviso il ruolo dell'ira nell'ambito della giustizia ampiamente intesa. Filosoficamente la giustizia non può essere assimilata a quella che nelle società moderne viene definita tale. Se si vuole ragionare in termini filosofici, ovvero (kantianamente) universali, non bisogna ridurre la definizione di giustizia a quella che con accezione più corretta bisognerebbe definire "legalità"; il diritto positivo laicamente parlando, o la legge morale considerando il punto di vista religioso, non possono essere criteri universali di giustizia, poiché ognuno sa che questi cambiano da luogo a luogo, da popolo a popolo e da periodo a periodo, e appare quantomai azzardato definire filosoficamente giustizia qualcosa che altrove o in altri tempi viene considerato come il suo opposto.

Partendo da una tradizione che si perde nella "notte dei tempi" ed è comune a tutte le culture Eneo Domizio Ulpiano definiva la Giustizia come "Honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere". Vivere onestamente, non nuocere ad altri ("Non fare ad altri quel che non vorresti fosse fatto a te") e dare a ciascuno il suo ("Date a Cesare quel che è di Cesare") è una forma essenziale e universalistica di giustizia che di per sé esclude l'intervento di qualsiasi passione ma richiede sapienza ed equilibrio (il famoso episodio di Re Salomone ne è un significativo esempio). Giustizia è dunque innanzitutto rispetto del diritto di ogni ente di poter essere ed esprimere quello che è senza la pretesa di qualcuno di giudicare se ciò sia giusto o meno. Rispetto non è sinonimo di giudizio, è anzi il suo opposto, dunque per quanto possa sembrare paradossale la giustizia non giudica ("non giudicate se non volete essere giudicati"; "Inventate, dunque, la giustizia che tutti assolve tranne coloro che giudicano"). Giustizia è innanzitutto un modo di vivere e di pensare, non certo un modo di "calcolare" algoritmicamente secondo categorie legali o morali assolutizzate che prescindono (e dunque in sostanza negano) dal concetto di "dare ad ognuno il suo", ed è pure insensato affermare, in tale contesto, che esiste una giustizia giusta o una sbagliata, perché semplicemente o è giustizia oppure non è.
L'ira, che come dicevo è essenzialmente un "amplificatore" di passioni che non possono che essere personali e individuali (sia pur a volte condivise collettivamente), è in quanto tale un impedimento alla giustizia, sia in senso "buono" (quando a prevalere è l'amore) sia in senso "cattivo" (quando a prevalere è l'odio), dato che entrambi i sentimenti sono di ostacolo al perseguimento della medesima poichè sempre autoreferenziali. 
#32
Tematiche Filosofiche / Re:Dei pregiudizi dei filosofi
25 Novembre 2019, 12:08:32 PM
Citazione di: Ipazia il 24 Novembre 2019, 11:09:09 AMI miei due cents di prima lettura. Il pre-giudizio, depurato di ogni connotazione moralistica, è l'orizzonte di verità da cui ogni pensiero e pansatore, grandi o piccoli che siano, parte per interpretare il mondo. La differenza tra piccoli e grandi è che questi ultimi allargano quell'orizzonte di verità, insieme al senso che l'accompagna. Il relativismo nicciano si è affinato nel corso della sua vita, da tagliente che era si è rivolto contro se stesso incarnandosi in ogni suo scritto posteriore fino all'Ecce Homo che fornisce una pesante autocritica costellata di maschere ed ombre, ormai lontane dalle stelle danzanti dell'euforia zaratustriana. Tutta la sua opera è testimonianza di verità, via via acquisita, discussa e superata. Dell'unica verità che ci è data, nel fluire dei suoi postulati che scienza e filosofia rimandano sempre al futuro, ma al tempo stesso agiscono nel presente. Dove anche la maschera diventa portatrice di verità e/o falsità in rapporto all'orizzonte di verità del suo tempo. Orizzonte che le verità di ordine superiore mantengono più a lungo nel tempo millenario della coscienza umana tramandata dalla memoria che chiamiamo cultura.

Come Nietzsche, ultimo metafisico (vero, non certo "à la Kant"), possa essere definito relativista non si comprende proprio, salvo distorcere il concetto di "relativo" e assimilarlo al relativismo; al contrario essendo un "cercatore di verità" non può non tendere a qualcosa di assoluto, incontrovertibile, indubitabile. La "verità" che fluisce non può mai essere verità in quanto questa è da sempre ricercata per poterla porre a fondamento di tutto il resto, e una "verità" in divenire non può essere definita tale nemmeno nell'attimo preciso in cui la si afferma. E anche assimilare la cultura alla mera memoria storica (come se la cultura occidentale potesse al contempo conciliare il pensiero di Platone con quello di Popper) è una mera degenerazione del concetto di cultura.
In ogni caso il pensiero filosofico andrebbe valutato sulla base di quanta "verità" questo sia stato in grado di esprimere, ma il solo fatto che esiste una "storia della filosofia" che è una disciplina nata dall'abolizione del concetto di verità (o dalla sua estrema falsificazione) mostra come lo stesso Nietzsche avesse ragione quando criticava i pregiudizi dei filosofi spesso banali ed evidentemente falsi, che a quanto pare ora vengono nobilitati e definiti "orizzonti di verità". Come molti scienziati e intellettuali moderni che si inventano una teoria e poi elaborano un sistema appositamente ideato per poterla dimostrare, e se si imbattono in qualcosa che lo scardinerebbe semplicemente lo tralasciano bollandolo come insensato o inconsistente.


Citazione di: Phil il 24 Novembre 2019, 15:46:31 PMMi permetto di ricordare che è possibile che sillogismi con premesse false abbiano come valida conseguenza una conclusione vera (quello che la logica non consente è che da premesse vere derivi, in un sillogismo valido, una conclusione falsa). Per quanto riguarda la verità extra-empirica in filosofia, quindi a prescindere dal suo essere compilativo valore di predicati logico-scientifici, credo sia un elemento adeguatamente riformulato, demistificato, immanentizzato dalla post-metafisica, sebbene per comprendere le filosofie del passato sia indubbiamente necessario contestualizzarne il senso in un orizzonte metafisico greco-giudaico. Mi pare che il filosofo odierno sia chiamato ad essere, ragionevolmente (non me ne voglia Severino), sempre più interprete della realtà e sempre meno cercatore di verità, ma questa mia prospettiva è viziata (come previsto dal circolo ermeneutico) dalla precomprensione che ho nella lettura della questione (in momentanea assenza di considerazioni ricalibranti, retroattive sul suddetto circolo).

Mi sfugge come l'aggettivo "valido" possa essere sinonimo di "vero", nè come l'inserimento di tale attributo (che mi figuro utilizzabile solo nella "prassi" scientifica) possa modificare il senso del sillogismo aristotelico (che è un mero calcolo matematico applicato al linguaggio).
Credo che non si possa essere "interpreti della realtà" senza assumere dei parametri attraverso i quali "leggerla", ma se si abolisce la verità come parametro e ognuno utilizza legittimamente dei parametri di interpretazione personali allora, come si dice, "tutto è permesso".


Citazione di: bobmax il 24 Novembre 2019, 18:09:30 PME ciò la dice lunga su di chi fosse davvero quel pensiero...

Lo afferma del resto sinceramente lui stesso in Ecce Homo nella descrizione dell'ispirazione che ho citato. Per quanto in questa era sia difficile rendersene conto, vi sono persone che non esprimono il proprio pensiero ma sono solo strumenti espressivi della verità, e se il Nietzsche delle altre opere era un mero intellettuale quello dello Zarathustra era, come appunto disse lui stesso, criptico megafono della divinità.
#33
Tematiche Filosofiche / Dei pregiudizi dei filosofi
24 Novembre 2019, 09:41:21 AM


Le critiche mosse da Nietzsche ai filosofi e ai metafisici nel primo saggio di "Al di là del bene e del male" intitolato appunto "Dei pregiudizi dei filosofi" sono quelle di coltivare il "pregiudizio" che esista la verità e che questa sia comprensibile dall'uomo. Questo è, del resto, il "pregiudizio" o meglio l'assunto di fede che consente ai filosofi di essere tali, ovvero di andare alla ricerca della verità, poiché se si parte dal presupposto contrario nessuna ricerca potrebbe esistere e non esisterebbe ad esempio nemmeno la scienza visto che nessuno vorrebbe andare alla ricerca della falsità poiché questa se la può inventare da solo. Tale assunto pare abbia retto almeno fino a quando lo stesso Nietzsche ha, come dicono i critici, distrutto ogni metafisica in occidente (anche se Heidegger smentisce questa visione definendolo "l'ultimo metafisico"), ma la negazione di tale "pregiudizio" è anche la negazione dell'uomo stesso, che per natura ha sempre inseguito il sapere, come diceva Aristotele. In ogni caso tale pregiudizio, ammesso (e non concesso) che lo sia veramente e non sia nei fatti solo un necessario strumento intellettuale, non potrà mai essere smentito poiché sarà impossibile mostrare a chiunque che la verità esiste ed è comprensibile come anche che non esiste, e la sua negazione sostituisce la nozione di verità con quella di "utilità" che è di fatto un pregiudizio di secondo livello, estremamente arbitrario (chi decide cosa è utile? Per chi? Se qualcosa è utile a qualcuno e dannoso per altri cosa prevale?) e ha fatto danni immensi negli ultimi secoli.

La critica di Nietzsche pare comunque rivolta in particolar modo a Kant (e poi anche a Spinoza) tanto che cita due o tre concetti chiaramente inventati da lui (ad es. i giudizi a priori, la cosa in sé, l'imperativo categorico) e in generale ai filosofi "sistematici" che andavano tanto di moda ai suoi tempi e che sicuramente erano ben dotati dei pregiudizi illuministi e scientisti che animavano quell'epoca. Ma questo non significa che "tutti" debbano avere dei pregiudizi, anche se tutti devono necessariamente partire, per poter ragionare, da premesse vere o almeno ritenute tali. Si tratta eventualmente di discutere la verità di tale premesse e confutarle, se si riesce e se si è animati da un serio desiderio di esprimere un pensiero di verità. Del resto in quelle poche pagine lo stesso Nietzsche fa proprio un pregiudizio tipico della sua epoca quando afferma: «La falsità di un giudizio non è ancora, per noi, un'obiezione contro di esso; è qui che il nostro linguaggio ha forse un suono quanto mai inusitato. La questione è fino a che punto questo giudizio promuova e conservi la vita, conservi la specie e forse addirittura concorra al suo sviluppo». Questo della lotta per la sopravvivenza (e addirittura dello sviluppo) della specie è un pregiudizio tipicamente darwiniano e malthusiano molto in voga nella seconda metà dell'ottocento, e Nietzsche pur consapevole della sua falsità  e conseguentemente all'assunzione del già citato concetto di utilità in luogo di quello di verità lo pone a paradigma per l'espressione dei giudizi, di cui non è dunque interessato alla veridicità ma solo alla loro funzionalità ad uno schema che abbia a fondamento tale paradigma.

Se quindi Nietzsche nega, inizialmente, che possa esistere una verità e qualunque giudizio è frutto di pregiudizio, poi però nel corso della sua evoluzione intellettuale si trova ad esprimere tali verità, addirittura in forma evangelica. Se dunque il "pregiudizio" che critica Nietzsche all'inizio è necessario per lo stesso darsi dell'esistenza di un pensiero  che abbia senso, ogni pensiero che voglia affermare una verità deve partire da premesse certe e vere (secondo il sillogismo aristotelico), e queste sono i veri "pregiudizi"; si tratta solo di riconoscere quelli falsi e distinguerli da quelli veri, e se è vero che la quasi totalità degli intellettuali (e lo vediamo molto bene oggi) tende a condividere le idee che vanno di moda nella propria epoca bisognerebbe anche, fra questi, fare la distinzione tra coloro che sono sinceramente convinti della veridicità di tali idee e coloro che le portano avanti solamente per poter essere accettati all'interno di un determinato gruppo che consenta loro di aumentare il proprio consenso, il proprio prestigio, i propri guadagni o la propria "onorabilità". Quelli che piegano le idee ai propri "interessi personali", qualsiasi essi siano e non è nemmeno il caso di individuarli esattamente, si distinguono da quegli altri perché semplicemente non sono in grado di sostenere tali idee e non fanno altro che rifiutare a priori ogni verità alternativa, spesso con argomenti risibili e inconsistenti, quando non addirittura insultanti.

Gli altri, ovvero quelli apparentemente dotati di onestà intellettuale e sinceramente convinti delle idee che professano,  sono solo una variabile dei primi e se pur sono in grado di ragionare correttamente e di giustificare logicamente le proprie asserzioni non riescono comunque ad andare oltre le basi, ovvero i pregiudizi, da cui sono partiti per costruire il ragionamento: in pratica utilizzano, più correttamente di altri, la logica aristotelica, ma questa afferma che se anche il procedimento è corretto quando le premesse sono errate anche la conclusione lo sarà (è il caso ad esempio di Kant). Questi pregiudizi (non sono i medesimi per tutti ovviamente, anche se la gran parte sono condivisi) non sono messi in discussione praticamente da nessuno, e Nietzsche li chiama "istinti" in quanto sono talmente radicati nella coscienza individuale da apparire quasi innati (ma anch'essi sono ultimamente giudizi falsi, solo più profondi ma ugualmente falsi, come quelli concernenti la morale; del resto per quanto profondamente radicata possa essere una falsità questa non perde di per sé la sua natura). Poi vi sono quelli, rarissimi a quanto pare, che sono in grado di effettuare un lavoro talmente profondo da riconoscere ogni loro pregiudizio (incluso ad esempio il significato delle parole che usano per esprimersi, poiché anch'esso è parte dei pregiudizi) e metterlo in discussione alla luce della verità, fino a giungere alla comprensione di qualcosa che si possa esprimere in giudizi incontrovertibili, incontestabili, assolutamente veri. Durante tale percorso intellettuale si fanno delle esperienze che alcuni definiscono ispirate, mistiche, intuitive, illuminanti, rivelative; esperienze intellettuali che cambiano totalmente il punto di vista e di conseguenza la prospettiva del giudizio sul mondo, che non viene più visto a partire dall'io personale e dai suoi istinti, dai suoi bisogni, dai suoi interessi, dai suoi tiramenti, dalla sua educazione e formazione, ma lo si vede per quello che è effettivamente, a prescindere da tutto quanto sopra, e si riesce quindi a verificare come spesso l'io si immagini, attraverso i propri pregiudizi, un mondo in contrasto e in conflitto con quello che effettivamente è. Se dunque è vero che nella quasi totalità dei casi gli intellettuali, e i filosofi in particolare in quanto teoricamente al livello più alto di tale categoria, sono animati da pregiudizi falsi e se ne innamorano talmente tanto da costruire intorno ad essi tutti i loro sistemi, è altrettanto vero che il "quasi" presuppone un numero, per quanto ridottissimo, di persone che non fanno parte di tale categoria, e anziché inventarsi delle tesi "originali" derivanti da banali suggestioni per alimentare il proprio ego e i propri pregiudizi trovando, come dice Nietzsche, degli argomenti a posteriori per giustificare un pensiero "personale" e individuale, proseguono la loro ricerca fino ad esprimere un pensiero universale, che prescinde da ogni pregiudizio ed è valido in tutti i luoghi e in tutti i tempi, al di là di ogni contingenza: un pensiero di verità.


In un punto del saggio Nietzsche scrive: «fanno tutti le viste d'aver scoperto e raggiunto le loro proprie opinioni attraverso l'autonomo sviluppo di una dialettica fredda, pura, divinamente imperturbabile (per differenziarsi dai mistici di ogni grado, che sono più onesti di loro e più babbei - giacchè parlano d' "ispirazione")» Poi però in "Ecce homo", a proposito di ciò che gli ha consentito di concepire  lo Zarathustra scrive: «...noi siamo soltanto incarnazione, soltanto strumento sonoro, soltanto medium di poteri che ci sovrastano. Il concetto di rivelazione, nel senso di qualcosa che, subitamente, con indicibile sicurezza e sottigliezza, si fa visibile, udibile, qualcosa che ci scuote e sconvolge nel più profondo, è la semplice espressione della verità. Si ode, non si cerca; si prende, non si domanda da chi ci sia dato; un pensiero brilla come un lampo, con necessità, senza esitazioni nella forma - io non ho mai avuto scelta. Un rapimento in cui la enorme tensione d'animo si risolve talvolta in un torrente di lacrime, in cui il passo involontariamente ora precipita, ora rallenta; un essere completamente fuor di sè stessi, con la percezione distinta d'una infinità di sottili brividi che ci scuotono fino alla punta dei piedi; una felicità profonda in cui il dolore e l'orrore non agiscono per ragione di contrasto ma sono parti integranti, indispensabili, sono come una nota di colore necessaria in quest'oceano di luce;  [...]Tutto avviene in modo involontario al massimo grado, ma come in un turbine di senso di libertà, di incondizionatezza, di potenza, di divinità. [...] Questa è la mia esperienza dell'ispirazione; non dubito che si debba tornare indietro di millenni per trovare qualcuno che possa dirmi "è anche la mia"». Da quanto scrive in "Al di là del bene e del male" sembra che l'onestà di coloro che definisce "mistici" stia nel confermare con il termine "ispirazione" quegli "istinti" di cui parlava prima che invece i "razionalisti" negano pretendendo l'oggettività, ma poi a quanto pare si mostra anche lui "onesto e babbeo", quindi a suo dire mistico, quando descrive come nasce l'opera sicuramente più importante che ha scritto, l'unica che abbia la dignità di poter essere tramandata, quella che egli stesso definisce "il regalo più grande che l'umanità abbia mai ricevuto". Gli psicologi e i pedagoghi (anche se lo possono notare i normali osservatori che non godono di tali qualifiche moderne) ci raccontano che l'uomo, normalmente, acquisisce il proprio carattere, la propria visione del mondo, la propria "moralità" e i propri schemi mentali a partire dalla più tenera età fino all'incirca alla maturità che coincide tecnicamente con il termine dell'adolescenza (18/20 anni) attraverso i meccanismi dell'identificazione, della ribellione, della proiezione eccetera, e poi li mantiene per il resto della vita servendosene per giudicare i fenomeni del mondo. Vi sono poi alcuni (gli "intellettuali", gli eruditi e i colti latu sensu) che di tali schemi mentali ne fanno un mestiere approfondendoli, utilizzandoli, analizzandoli e insegnandoli mentre altri, i pochissimi, li metteranno in discussione chiedendosi se tali schemi hanno una qualche connessione con la Verità che l'uomo ricerca da sempre: di questi ultimi faceva parte Nietzsche, che con il suo riflettere ha contribuito ad aprire la sua mente in modo da lasciare uno spazio in cui l'ispirazione (o intuizione, o illuminazione che dir si voglia) si è insinuata e gli ha dato modo di esprimere i discorsi dello Zarathustra.


Ogni "ispirazione" è diversa dalle altre, più o meno intensa, più o meno durevole, più o meno "ispirata"; può essere una luce che si accende per un certo periodo di tempo o una serie di lampi, di flash, che mostrano solo per un attimo, in momenti diversi, frammenti di verità. Questo secondo caso mi pare più  aderente a quella avuta da Nietzsche, che nello Zarathustra esprime verità taglienti e profondissime e poi le sviluppa a volte in maniera ingenua e a volte filtrandola attraverso pregiudizi falsi (tipo quello darwiniano) traendo deduzioni incomplete e superficiali con l'intento di dare sistematicità ad un pensiero che è evidentemente carente di un principio che unifichi tutte le sue intuizioni e le giustifichi in una visione complessiva (e a mio avviso questa è stata una delle ragioni alla base della sua pazzia).


Ogni pensiero è dunque frutto di un percorso, ogni pensatore ha una sua evoluzione che parte dall'educazione ricevuta e dalle suggestioni del mondo in cui vive e iniziando con la loro rielaborazione e il loro ripensamento giunge a compimento; dunque la critica ai filosofi, pur essendo in sé esatta nella quasi totalità dei casi, non è affatto applicabile a coloro che, anche se nell'accezione moderna possono essere comunque definiti tali, seguono un percorso intellettuale che da un certo punto in poi prende strade completamente diverse dagli altri, che portano fatalmente a destinazioni diverse: e per tutti costoro, il cui pensiero da orizzontale si eleva e si fa improvvisamente verticale, la destinazione è sempre la medesima perché coloro che hanno raggiunto la verità la riconoscono ovunque questa sia espressa: in ogni cultura, in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni pensiero, in ogni simbolo, e a loro volta si riconoscono tra loro, quando capita che si incontrano (non personalmente ma attraverso le opere e l'espressione del pensiero) anche se inevitabilmente la manifestazione di tale pensiero assumerà forme diverse a seconda del periodo, delle persone a cui è rivolto e alle caratteristiche di chi lo esprime. Ma la sostanza rimane la medesima. È molto più probabile che fornisca un'interpretazione corretta dello Zarathustra un induista o un buddhista  che non sa nulla di filosofia occidentale che non un occidentale che ha passato la vita a studiare Nietzsche; anzi un induista o un buddhista, o un saggio pellerossa (di quelli capaci, s'intende, non il primo che passa) sarebbero in grado di comprendere il pensiero di Nietzsche meglio di Nietzsche stesso e chiarirgli i punti oscuri e controversi, mentre la medesima cosa non potrebbe accadere con i famosi "filosofi" che Nietzsche critica nel suo saggio in quanto il loro pensiero possono comprenderlo soltanto loro e quelli che hanno preventivamente condiviso i medesimi pregiudizi e i medesimi schemi mentali da cui sono partiti per svilupparlo. Come accade ad esempio anche con la scienza, che non è nulla di "evidente" in sé e di cui si possono condividere le interpretazioni dei fenomeni e gli enunciati solo se si è scelto di condividere a priori i pregiudizi che la muovono e gli schemi di cui si serve.      


#34
Citazione di: InVerno il 15 Novembre 2019, 11:30:10 AMNon è il fossile che prova il "fatto" diluviano, ma prova che il libro della natura e il libro sacro combaciano ad un livello letterale, sostiene quindi la sacralità del libro e l'esistenza di autore\ispiratore divino. Non è certo con Lutero che la cosmologia e le scienze della terra dovessero collimare colle deduzioni bibliche, Galileo fu costretto all'abiura non dai protestanti, e prima e dopo di lui mille altri ancora, meno famosi. Non si erano accorti che eran tutte allegorie, bruciare eretici va contro un comandamento, la prendevano seriamente per essere "allegorie". E' vero, con il protestantesimo il letteralismo ha preso la meglio, ma tutta la cosmologia costruita prima di Lutero è presa paro paro dalla interpretazione letterale della Bibbia. Si può ritenere il livello letterale meno importante di quello allegorico, ma non invalido uno e vero l'altro. O meglio lo si può fare, aprendo perciò le porte al "libero esame". C'è un motivo per cui l'Islam si tiene ben stretta la validità assoluta del livello letterale, perchè quando la lettera non tiene più, comincia l'atomizzazione della teologia. I significati allegorici di un testo sono infiniti, se la lettera non fa da spartiacque tra l'assurdo e il verosimile (perlomeno) il caos è ciò che ti aspetta..un eventuale ispiratore divino sicuramente ne era ben conscio!

Le cose sono un poco più complesse. Se fosse sufficiente che un libro corrisponda letteralmente al libro della natura  per considerarlo divinamente ispirato allora il De Rerum Natura o i moderni testi di bioarcheologia dovrebbero sostituire gli antichi libri sacri, ma siccome non è così evidentemente le valutazioni sono differenti. La Bibbia è una raccolta di libri e testi (73 in totale) composti in periodi molto distanti fra loro che trattano argomenti molto diversi, ma per essere definiti "ispirati" e meritare la qualifica di "sacri" è necessario che tutti siano in grado di affermare la Verità (le "verità di ragione" indicate da Leibniz che le distingueva dalle "verità di fatto"), evocare Dio e condurre l'uomo alla sua diretta conoscenza, ognuno evidentemente in un modo diverso, e i "fatti" che in alcuni di essi sono narrati hanno (o dovrebbero avere) essenzialmente questo scopo. Siccome Dio è "puro spirito" e quindi non può essere "descritto" o "definito" bisogna partire da qualcosa che c'è, da un fenomeno, che serva da simbolo e spinta evocatrice per andare al di là del fenomeno stesso e quindi trascenderlo. Se il fenomeno è realmente accaduto e/o tramandato dalla tradizione si utilizza quello, se serve inventarsene uno per raggiungere il medesimo obiettivo lo si inventa, non certo per "truffare" qualcuno dato che il fenomeno è solo un mezzo e non certo un fine, è il dito e non la luna, mentre invece nella modernità si tende a guardare solo il dito e giudicare da quello.

Il Mahabharata, poema sacro dell'Induismo, è ambientato nel XXXII sec. a.C. ed è (quasi) completamente inventato, e la Baghavadgita al suo interno narra una guerra mai realmente combattuta. Ma la sua sacralità non dipende certo dalla realtà o meno dei fenomeni ivi descritti, ma dalla capacità che essi hanno di evocare correttamente le forze spirituali che sovrintendono il mondo e l'uomo, ovvero di affermare e descrivere la Verità.

Che poi Galileo sia stato costretto all'abiura è cosa ben diversa ed essenzialmente non attiene al testo sacro ma alle deduzioni (sbagliate) che ne sono state tratte: La Bibbia non afferma certo che la Terra è il centro dell'Universo, ma questa affermazione (che peraltro non era un dogma di fede) derivava da una interpretazione umana dunque fallibile.

La questione dell'Islam è ancora differente perchè innanzitutto il Corano e la Sunna sono libri scritti nel medesimo periodo e quindi anche più coerenti fra loro diversamente dalla Bibbia, poi hanno un contenuto più dottrinale, morale e giuridico e non certo cronachistico come molti libri biblici, e infine non possedendo l'Islam una istituzione ufficiale che determina la corretta interpretazione di tali testi si deve poggiare sulla loro interpretazione letterale appunto per evitare l'atomizzazione che si è verificata nell'occidente cristiano.
#35
Citazione di: InVerno il 15 Novembre 2019, 08:37:46 AM
Citazione di: donquixote il 14 Novembre 2019, 23:06:15 PMLo scienziato che sale sull'Olimpo per vedere se c'è Zeus è paragonabile ad un bambino che passa la notte del 24 Dicembre davanti al camino per vedere se arriva Babbo Natale. Ma se un bambino che crede a Babbo Natale che scende dal camino può essere giustificabile, uno "scienziato" adulto e si presume intelligente che crede a Zeus sull'Olimpo con Vulcano al fianco che gli fabbrica i fulmini e ritiene necessario "andare a vedere" è da TSO. Platone probabilmente "credeva" che Zeus e compagnia abitassero l'Olimpo, ma non si sarebbe mai sognato di andare a vedere perchè era una persona intelligente e sapeva bene cosa significavano quei racconti. E il medesimo ragionamento vale per le innumerevoli descrizioni di Dio che si sono succedute nel tempo e per i vari "luoghi" in cui si afferma abiti.
Non sono sicuro fosse sant'Agostino, mi pare di ricordare, ma vi fù un famoso padre della chiesa che proprio in cima ad un monte andò, e trovati dei fossili marini, concluse che quella doveva essere la prova definitiva che vi fosse stato il diluvio universale. Evidentemente non sono solo gli scienziati a salire in cima ai monti, ma anche i vecchi saggi padri della chiesa, che da un lato sposavano il significato allegorico delle scritture, ma se possibile facevano proprio anche il significato letterale. Oggi il cristiano avveduto dà degli stolti a chi volesse confutare il significato letterale, eppure la sua teologia è stata forgiata da chi credeva che i due libri combaciassero..letteralmente. Un TSO (allegorico) a sant'Agostino perciò.

Non direi che il tuo racconto abbia qualche minima attinenza con ciò che ho scritto io. Un conto è cercare Dio in un luogo particolare (sia esso l'Olimpo o lo spazio intorno alla terra) esattamente come aspettarsi di vedere Babbo Natale scendere dal camino, ben altro è verificare dei "fatti" raccontati nei testi sacri e da quelli eventualmente dedurre l'esistenza di Dio, che sarebbe come voler dedurre l'esistenza di Babbo Natale dal regalo trovato sotto il camino. Ognuno, di quei fatti, darà la spiegazione che riterrà più "vera" (e questo dimostra quantomeno che vi possono essere più spiegazioni diverse per il medesimo accadimento, come giustamente sottolineava Nietzsche) ma qualunque sia la spiegazione non potrà "dimostrare" nulla se non il mero fatto in sé. I "quattro livelli" di interpretazione delle Sacre Scritture, in uso da sempre e poi codificati ufficialmente, mostrano come già dall'inizio di queste discussioni si facevano le dovute distinzioni, e l'idea della interpretazione principalmente "letterale" come quella più valida è esplosa solo negli ultimi secoli prima con il "libero esame" di Lutero e poi con la nascita della scienza che ha piegato i testi al proprio metodo.

p.s. La storia del "diluvio universale" è presente in tutti i racconti antichi di ogni parte del mondo, e magari qualcosa di vero vi sarà pure, ma questo non dimostra affatto che questo sia stato causato in ultima istanza direttamente da Dio per le ragioni elencate nella Bibbia, e nemmeno ovviamente che "Dio esiste", come del resto una spiegazione diversa da quella non sarebbe necessariamente più "vera"  (tranne magari quella, tautologica, che afferma che "c'è stato il diluvio perchè è piovuto tanto").
#36
Citazione di: Ipazia il 14 Novembre 2019, 21:30:48 PM
Citazione di: donquixote il 14 Novembre 2019, 18:18:47 PMSe bastano semplicissime dimostrazioni empiriche come quelle che hai citato e banale buonsenso allora ognuno può empiricamente vedere da sé che il sole sorge e tramonta ogni giorno, quindi "si muove", mentre la terra è ferma. Appare quindi evidente il potere del principium auctoritatis della scienza che, traendoci evidentemente in inganno come faceva un tempo la Chiesa, ci ha insegnato a pensare l'opposto di ciò che anche un bambino può (senza strumenti o ragionamenti particolari) empiricamente verificare con semplicità.
Osservare il moto apparente del sole non è dimostrazione di nulla. Dimostrazione empirica è salire sull'Olimpo per vedere se dietro le nubi ci sono gli dei o no. Relativamente semplice mi pare. Anche se per l'epoca non doveva esserlo così tanto. Dove ci sia principium auctoritatis in questa verifica, e in tutte le verifiche sperimentali della scienza, questo sì è un pre-giudizio infondato.

Lo scienziato che sale sull'Olimpo per vedere se c'è Zeus è paragonabile ad un bambino che passa la notte del 24 Dicembre davanti al camino per vedere se arriva Babbo Natale. Ma se un bambino che crede a Babbo Natale che scende dal camino può essere giustificabile, uno "scienziato" adulto e si presume intelligente che crede a Zeus sull'Olimpo con Vulcano al fianco che gli fabbrica i fulmini e ritiene necessario "andare a vedere" è da TSO. Platone probabilmente "credeva" che Zeus e compagnia abitassero l'Olimpo, ma non si sarebbe mai sognato di andare a vedere perchè era una persona intelligente e sapeva bene cosa significavano quei racconti. E il medesimo ragionamento vale per le innumerevoli descrizioni di Dio che si sono succedute nel tempo e per i vari "luoghi" in cui si afferma abiti.

Citazione di: Ipazia il 14 Novembre 2019, 21:30:48 PM
Citazione di: Galileo Galilei - lettera a Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana - 1615Ma che quell'istesso Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto, abbia voluto, posponendo l'uso di questi, darci con altro mezo le notizie che per quelli possiamo conseguire, sì che anco in quelle conclusioni naturali, che o dalle sensate esperienze o dalle necessarie dimostrazioni ci vengono esposte innanzi a gli occhi e all'intelletto, doviamo negare il senso e la ragione, non credo che sia necessario il crederlo,...
Nello strumentario proposto da Galileo e da me evidenziato in corsivo non c'è alcun autoritarismo dogmatico, ma l'autorevolezza - con gli opportuni accorgimenti per superare un livello ingenuo di approccio al mondo - di quello che diventerà il metodo scientifico. Da chiunque falsificabile, antidogmatico par excellence.

Galileo aveva ragione, e con i medesimi strumenti si può conoscere qualunque cosa, Dio compreso, utilizzandoli appunto in modo sensato e facendo uso anche e soprattutto dell'intelletto (il nous platonico, che è cosa affatto diversa dalla dianoia -in latino ratio- moderna). Per quanto riguarda il "livello ingenuo di approccio al mondo" questo è appunto prerogativa della scienza, come l'esempio sopra (e indefiniti altri di tal genere) dimostra. Nella penisola indocinese vi sono diversi templi innalzati lungo le strade sulle quali si dice fosse passato il Buddha durante la sua predicazione; al centro di alcuni di questi vi sono calchi dell'impronta dei suoi piedi. Queste "impronte" sono mediamente lunghe oltre tre metri e molto stilizzate, come se fossero disegnate da un bambino di pochi anni. La gente "crede" che queste siano le impronte del Buddha e le venera, ma se arrivasse uno "scienziato" e volesse dimostrare che queste impronte sono "false" lo lincerebbero non per vilipendio alla religione, ma per l'inaccettabile offesa alla loro intelligenza, e lo riterrebbero giustamente un perfetto cretino (che è un altro modo per dire "ingenuo"). Come ben notava Tolstoj, quando l'indigeno scopre che il suo feticcio di legno non è Dio, non ha scoperto che Dio non esiste, come concluderebbe ingenuamente uno "scienziato", ha scoperto che Dio non è di legno.
#37
Citazione di: Ipazia il 14 Novembre 2019, 17:46:02 PMNessun principium auctoritatis ma semplicissime dimostrazioni empiriche. Un tempo si pensava che i fulmini fossero l'arma prediletta di Zeus e poiché il monte Olimpo era spesso coperto da una coltre di nubi tuonanti si pensava che Zeus abitasse lí. Bastó andare sul monte Olimpo, per scoprire che non c'era nessuno Zeus e bisognó trovare una diversa origine dei fulmini. Poi i teisti spostarono i numi in cielo, finché non arrivó Gagarin. Adesso li hanno posti in qualche dimensione matematica superiore alla quarta protetto da cabale matematiche cannibalizzando pure la fisica. Piú che questione di soldi mi pare una questione di buonsenso.

Se bastano semplicissime dimostrazioni empiriche come quelle che hai citato e banale buonsenso allora ognuno può empiricamente vedere da sé che il sole sorge e tramonta ogni giorno, quindi "si muove", mentre la terra è ferma. Appare quindi evidente il potere del principium auctoritatis della scienza che, traendoci evidentemente in inganno come faceva un tempo la Chiesa, ci ha insegnato a pensare l'opposto di ciò che anche un bambino può (senza strumenti o ragionamenti particolari) empiricamente verificare con semplicità.
#38
Citazione di: Ipazia il 14 Novembre 2019, 08:30:40 AMMa tutte queste alte riflessioni e metafore di uomini di scienza, perfino in odore di ateismo, non aggiungono uno iota alla verità ontologica di Dio. Il quale rimane ipotesi indimostrata.

Qualunque cosa rimarrà "ipotesi indimostrata" se l'interlocutore porrà da sé le condizioni per ritenere "dimostrata" qualunque ipotesi: ognuno potrà porre condizioni diverse (o meglio cristallizzare i propri diversi pregiudizi) e nulla sarà mai dimostrabile. Si diceva giustamente un tempo: per chi conosce Dio nessuna dimostrazione è necessaria, per chi non lo conosce nessuna dimostrazione è sufficiente.
Si rimane dunque al principium auctoritatis che un tempo era detenuto dall'autorità ecclesiastica e ora da quella scientifica, con la differenza che se un tempo le "dimostrazioni" proposte dalla Chiesa potevano essere contestate da chiunque avesse il talento intellettuale per farlo ora per contestare le "dimostrazioni" proposte dall'autorità scientifica sono necessari mezzi tecnologici che nessuno si può permettere dato che i costi sono proibitivi.
#39
Tematiche Filosofiche / Re:Transumanesimo e Sini
05 Novembre 2019, 21:28:47 PM
Citazione di: bobmax il 04 Novembre 2019, 23:41:04 PMNon vi è perciò alcuna differenza ontologica tra l'azione dell'uomo e quella dell'animale (d'altronde su cosa mai si fonderebbe questa differenza?)

La differenza si fonda sul cambio dei presupposti. In ogni animale (come nell'uomo antico) gli strumenti sono una estensione del proprio "saper fare", che non dipende dall'utilizzo di tali strumenti ma ne aumenta l'efficienza. Nell'era moderna invece è lo strumento che guida, e l'uomo diventa una sua estensione se non semplicemente una sua ancella, facendosi in qualche modo schiavo del medesimo. Facciamo il caso della filosofia e della scienza come strumenti umani per pervenire alla comprensione della verità (senza perdersi qui nella sua definizione): la filosofia è uno strumento che l'uomo può utilizzare per ripensare ex novo il mondo, mettendo in dubbio tutto ciò che si è pensato fino a quel momento (come facevano i filosofi antichi e come tentò di fare ad esempio Cartesio) e giungere ad un "risultato" che, soddisfacente o meno, ha una sua conclusione. La scienza invece non permette di essere pensata daccapo mettendo in dubbio tutto ciò che ha espresso nel corso del tempo per eventualmente rivederlo, ma è necessario che il suo "sapere" sia dato per scontato per poter "fare progressi" nella conoscenza. Se ogni filosofo potrà essere origine e conclusione di un pensiero che possa descrivere (più o meno bene) il mondo e se ogni uomo può, se ha il talento necessario, padroneggiare per intero lo strumento "filosofia",  lo scienziato sarà solo un ingranaggio dello strumento "scienza" molto più grande di lui che lo sovrasta e lo asservisce a sé, poichè non può esistere un uomo che sappia padroneggiare in toto lo strumento "scienza". Lo stesso ragionamento è valido, mutatis mutandis, per strumenti più limitati che non sono il mezzo per esprimere il sapere di un uomo ma il risultato di una "sapienza collettiva" di cui l'uomo è solo un frammento più o meno significativo ma in sè non certo decisivo. Il telefonino, per fare un esempio, è una evoluzione del telegrafo e poi di quello senza fili e poi della radio eccetera, e non potrebbe esistere se non fossero esistiti tutti gli altri "strumenti".
#40
Tematiche Filosofiche / Re:Transumanesimo e Sini
04 Novembre 2019, 18:27:49 PM
Citazione di: Eutidemo il 04 Novembre 2019, 13:30:41 PMCiao Ipazia :) L'uomo cominciò a diventare "tecnologico" da quando prese a scheggiare la prima selce; non c'è nessuna differenza rispetto a quando iniziò ad utilizzare la stessa selce per realizzare il primo microchip di computer. Si tratta solo di stadi successivi di maturazione tecnologica dell'"homo artifex"; niente di più e niente di meno.
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Non è così, altrimenti le scimmie che usano le pietre per rompere le noci di cocco o gli uccelli che adattano i rami secchi e li cementano con saliva e fango per costruire i nidi sarebbero assimilabili all'uomo, per non parlare dei castori che costruiscono dighe o delle termiti che innalzano grattacieli. Gli strumenti tecnologici dell'uomo assumono una valenza ontologicamente diversa da quando passano dall'essere estensioni del "fare" umano che ogni uomo è in grado di controllare e che dipende esclusivamente dalla sua volontà (come ogni castoro è in grado di costruire una diga, ogni ape una cella nel favo, ogni uccello un nido eccetera) a qualcosa di totalmente diverso che rende l'uomo dipendente e in qualche modo "estensione" dello strumento che solo pochissimi "specialisti" sono in grado di costruire, controllare e modificare (la lancia, la zappa, la carrucola o anche il mulino non sono minimamente assimilabili all'aeroplano, al computer o al telefonino).


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#41
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Civiltà occidentale
03 Novembre 2019, 19:41:46 PM
Citazione di: Ipazia il 03 Novembre 2019, 14:06:18 PM
Citazione di: Sariputra il 03 Novembre 2019, 12:00:06 PMOra però mi chiedo... perché la velocità si rapporta a modernità ?
Esistenzialmente, perché la vita passa in fretta e la velocità riduce i tempi morti. Il tempo morto si prende la rivincita nell'ingorgo e nella burocrazia, ma i "signori" ne sono solitamente esentati. Edonisticamente, perché la velocità produce adrenalina, finché non incontra la calma stanzialità di un albero che pone fine alla corsa. Talvolta basta una sciarpa al vento, come quella che costò la vita ad Isadora Duncan. Economicamente, perché il modello economico dominante della modernità ha tra i suoi must inderogabili la produttività, ovvero il prodotto nell'unità di tempo (Chaplin: "Tempi moderni")



Filosoficamente il concetto di accelerazione, altro feticcio moderno fra i tanti, venne introdotto nella cultura occidentale con la diffusione delle ideologie materialiste, razionaliste e illuministe, ed è espresso paradigmaticamente dalla famosa frase di Voltaire «Riguadagniamo il tempo perduto», che proferì dopo un viaggio in Inghilterra durante il quale rimase affascinato dalle ricerche di Newton e pensò di applicare tale concetto anche al movimento della storia, per uscire il più in fretta possibile dagli ultimi retaggi dei "secoli bui".  Agli illuministi la lentezza del movimento del mondo, in contrasto con la velocità del pensiero e della ragione e la brevità della vita umana, appariva insopportabile, e pensarono quindi di applicare il moto della ragione al mondo introducendo cambiamenti che avrebbero potuto, in un lasso di tempo prevedibile, far evolvere le cose verso il meglio liberandosi quanto prima dalle zavorre del passato. Successivamente divennero di uso comune  metafore come "il treno della storia", che indicavano una possibile accelerazione del progresso umano verso l'utopia da sempre anelata, e non pochi affermavano che l'abbagliante luce del mondo perfetto si incominciava ad intravvedere in fondo al buio tunnel del medioevo.
Ma questa visione, che collocava il raggiungimento del "paradiso" non solo nel corso della vita terrena ma addirittura in un tempo sempre più prossimo, ha ottenuto l'unico tangibile risultato di aumentare l'infelicità umana alimentando false speranze e vane illusioni, rendendo gli uomini simili a moderni Tantalo che vedono tanto più allontanarsi il mondo migliore quanto più pare loro di averlo a portata di mano, come l'orizzonte si allontana dal viandante che cammina verso di esso tentando di raggiungerlo, e non sa che più velocemente egli camminerà tanto più rapidamente l'orizzonte si allontanerà da lui, causando nel suo animo un progressivo senso di frustrazione.

Il pericolo di questa esaltazione della velocità non è sfuggito a spiriti avveduti, e non a caso G. E. Lessing, in un frammento della sua versione del Faust, richiamò l'attenzione sul fatto che proprio gli spiriti infernali, caotici,  sono i maestri della velocità, e in questo senso anche Goethe parlò, con efficace crasi, di forze velociferine, sintesi diabolica di velocità e Lucifero.

Metafisicamente la velocità è conseguenza dell'accelerazione impressa all'uomo dalla metaforica caduta "dal cielo alla terra", ovvero dal passaggio dall'uomo spirituale antico a quello materiale attuale, all'uomo-macchina, che più si avvicina al punto d'impatto e più la velocità aumenta.

Pragmaticamente la velocità è ciò che consente all'uomo d'oggi di fuggire dalla vita, di "pensare ad altro" per non accorgersi che sta vivendo.
L'uomo d'oggi infatti, anziché vivere, continua a prepararsi a vivere ammucchiando ininterrottamente gli strumenti che dovrebbero consentirgli di farlo, salvo poi rendersi tragicamente conto, sul letto di morte, che l'unico strumento che veramente serve per vivere, il tempo, è andato esaurito.

p.s. Indicativo e rilevante il fatto che qualcuno possa pensare che durante la vita vi siano "tempi morti". Che la vita sia solo ed esclusivamente un ininterrotto "fare" qualcosa, qualsiasi cosa, che abbia o meno senso o che sia giusta oppure sbagliata non importa, seguendo il keynesiano "scava la buca, riempi la buca" per raggiungere la "piena occupazione" è un'altra idea del tutto moderna, e mostra come sia difficile rendersi conto che il mondo attuale è ormai un immenso manicomio in cui i "sani" sono proprio quelli che verranno rinchiusi o come minimo emarginati. Qualche anno fa una università americana riunì un certo numero di persone, le mise in stanze vuote e insonorizzate e propose loro di trascorrere 15 (dicesi quindici) minuti in silenzio a riflettere. In alternativa avrebbero potuto infliggersi piccole e fastidiose scosse elettriche con un aggeggio messo a loro disposizione; il 70% preferì sopportare un fastidioso dolore, pur di "fare" qualcosa.
#42
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Civiltà occidentale
01 Novembre 2019, 21:09:34 PM
Noto che si fa molta fatica a mantenere il discorso in termini concettuali di definizione e caratteristiche della civiltà occidentale e si scivola sempre in esempi contrapposti che non portano da nessuna parte, anche perché non si tiene mai conto del fatto che se noi siamo abituati a vivere in questo mondo e possiamo fare un confronto, sia pur approssimativo, con il modo di vivere del passato coloro che vivevano allora non potevano certo confrontare il loro modo di vivere con quello del futuro, oltre a non considerare che i popoli tendono ad adattarsi al modo di vivere che a loro sembra, in quel momento, il migliore possibile. Non è affatto difficile immaginare che se potessimo trasportare un europeo di media cultura di 5 o 6 secoli fa al giorno d'oggi rimarrebbe agghiacciato e probabilmente penserebbe di essere stato portato direttamente all'inferno, come un europeo medio di oggi immagina che allora la gente vivesse in un inferno.

Se dunque è insensato fare paragoni senza considerare il tipo di mentalità e di adattamento che sono profondamente cambiati l'unico modo per dare sostanza a questa discussione (come del resto ad altre che coinvolgano questioni ampie di spazio e tempo) è quello di fare riferimento a principi che possano essere validi al di là delle contingenze, e quello suggerito da Ipazia a cui mi ero agganciato (dato che altri più elevati sono evidentemente tabù) di una serie di valori mutuata dall'osservazione della natura mi sembrava un corretto punto di partenza. Se la natura, dicevo, è il punto di riferimento e se, come "insegna" Darwin, in natura le specie tendono ad adattarsi ai cambiamenti dell'ambiente, allora anche l'uomo, che è una specie animale come tante, dovrebbe fare lo stesso: Si può notare invece che l'uomo si comporta esattamente all'opposto, e adotta nei confronti dell'ambiente un atteggiamento aggressivo, che è il contrario di un atteggiamento adattativo. Si dirà che tutti gli uomini in ogni tempo l'hanno fatto, ed è quasi vero, ma prima di tutto da quando l'uomo è apparso sulla terra fino alla cosiddetta "rivoluzione neolitica"  non abbiamo praticamente notizie di cosa facessero gli uomini, ed è ragionevole pensare che se non le abbiamo è perchè non hanno lasciato segni visibili nell'ambiente, dunque vivevano più in simbiosi con esso come del resto fanno le ultime sparute comunità che stanno per essere definitivamente distrutte dal "benessere" della civilizzazione, e poi le culture arcaiche (o anche solo gli antichi greci della cui cultura ci consideriamo "eredi") avevano elaborato una serie indefinita di dispositivi culturali per insegnare agli uomini a stare al proprio posto.

Solo nell'era moderna si è cominciato a considerare la natura come "matrigna" (enciclopedisti come D'Holbach e liberali come Stuart Mill erano fra i più feroci critici della natura, anche Leopardi ne scrive cose terrificanti, e attualmente un ex presidente di Legambiente ha scritto un libro intitolato "Contro la natura", sottotitolo: perchè la natura non è buona, né giusta né bella) dunque a ritenere "buono e giusto" combatterla in ogni modo possibile o comunque porla sotto il controllo umano con l'aiuto della "scienza": se non è un atteggiamento aggressivo (e oltremodo presuntuoso) questo... Il cambio di paradigma delle società moderne, ormai tutte o quasi completamente occidentalizzate, si può sintetizzare in pochi punti, elencati in ordine sparso, tutti decisivi per marcare una essenziale differenza dalle culture che hanno animato la storia umana fino a qualche secolo fa:

1. Il materialismo di fatto, diffuso in ogni aspetto culturale e sociale, per cui si considera la materia unica sostanza esistente e conseguentemente la quantità misurabile (dei beni come dei diritti, delle "culture", dei modi di vita, delle idee eccetera) come sinonimo di "ricchezza", non essendo più questo mondo in grado di compiere distinzioni qualitative, derubricate a questione di "gusti personali".

2. come conseguenza del precedente, l'abolizione del concetto di "verità" o, da un altro punto di vista, il suo appalto in esclusiva alla "scienza" che conformemente ai suoi metodi di indagine ribalta il sillogismo aristotelico ritenendo più "vero" il metodo induttivo fondato empiricamente sui "fatti" che non quello deduttivo fondato sulla ragione, e l'applicazione del medesimo ai più vari aspetti culturali e sociali con l'utilizzo delle statistiche (basate esclusivamente sulla quantità e prive di ogni qualificazione) per descrivere e orientare le società moderne.

3. La riscoperta dell'umanismo greco e rinascimentale e la sua estremizzazione per cui le esigenze umane devono essere ritenute prevalenti rispetto ad ogni altra considerazione, e tutto ciò che ci sta intorno ha senso solo se può essere in qualche modo utilizzato per soddisfarle, da cui le produzioni della tecnica e della tecnologia finalizzate a tale scopo.

4. L'invenzione degli stati moderni con la forzata unione delle comunità e la loro omologazione in società basate su di un contratto sociale (vd. Tonnies per la distinzione) e il conseguente progressivo e inevitabile individualismo che porta con sé oltre ad un inaudito concetto di libertà (vd. Constant) il mito del successo, dell'american dream, dell'uscita dall'anonimato sociale il cui motore è lo spirito competitivo di tutti contro tutti che esalta l'hobbesiano "homo homini lupus".

5. Abolita la verità si perde di conseguenza anche il concetto di giustizia, sostituito da quello di interesse e da quello di legalità, che non trova limite alcuno se non dalle leggi che peraltro potranno  essere cambiate a piacimento dai "gruppi d'interesse" che conquisteranno il potere di farlo.

6. La morale, o l'etica, diventano deontologia (neologismo non a caso inventato dall'utilitarista Bentham), e il "dovere morale" si riduce ad una serie di regole finalizzate al migliore e più efficiente  perseguimento del proprio interesse o dell'interesse del gruppo a cui si appartiene.

7. L'identificazione della "felicità" o del "benessere" con il possesso di beni materiali (una persona sarà tanto più felice quanti più beni materiali possiederà o potrà permettersi di acquistare), ma siccome i beni materiali sono limitati e non possono essere posseduti in massima misura da chiunque, se qualcuno vorrà accaparrarsene di ulteriori dovrà di necessità toglierli a qualcun altro. La "felicità" di qualcuno sarà quindi bilanciata dalla infelicità di qualcun altro.

8. L'abolizione del senso del limite, presente in tutte le altre culture, e anzi l'esaltazione del suo continuo superamento con il mito della sfida continua, del progresso indefinito, dello sviluppo illimitato.

9. La protezione della vita "biologica" a dispetto di quella umana per cui si ritiene più giusto, per fare un esempio, investire cifre spropositate di denari dei cittadini per garantire ad alcuni per anni costosissime cure finalizzate alla mera sopravvivenza fisica anzichè investire sui talenti di coloro che potrebbero elevare la cultura, l'onore e il prestigio sociali.

10. Corollario di quanto sopra e in ossequio ad un malinteso principio di uguaglianza la mortificazione della forza, dell'energia, della potenza e del vigore in nome della protezione e della esaltazione dei deboli che "non devono rimanere indietro"; ma per fare in modo che costoro non rimangano indietro non si può fare altro che fermare tutti quelli che deboli non sono.

Sintetizzando, la moderna cultura occidentale è fondata sulla prevalenza della materia rispetto allo spirito, sulla prevalenza dell'azione rispetto al pensiero, sulla prevalenza della quantità rispetto alla qualità, sulla prevalenza dell'uomo rispetto all'ambiente, sulla prevalenza dell'utilità rispetto alla verità, sulla prevalenza dell'interesse rispetto alla giustizia, sulla prevalenza della competizione rispetto alla collaborazione, sulla prevalenza dell'individuo rispetto alla comunità, sulla prevalenza dell'uguaglianza rispetto alla gerarchia.


In ogni comunità umana di ogni luogo e tempo si trovano persone che ritengono l'uomo prevalente rispetto all'ambiente, o il proprio interesse più importante rispetto a quello di chiunque altro, o la ricchezza materiale più sensata rispetto a quella culturale o spirituale, ma se in tali comunità costoro erano deplorevoli e condannate eccezioni nella società occidentale moderna sono la glorificata e invidiata regola.
Con questi presupposti quali possono essere le basi condivise su cui edificare una comunità coesa in cui i propri appartenenti si ri-conoscono come elementi di un progetto comune? Come si può chiamare "cultura" o "civiltà" (intesi in senso antropologico) una collettività in cui l'unico principio condiviso è la divisione? In cui rimane valido il motto "tutti per uno" ma viene abolito il corrispondente "uno per tutti"? In cui si accampano sempre più diritti ma si cerca in ogni modo di evitare i doveri? In cui chi rispetta la legge non lo fa perché la ritiene l'espressione della giustizia ma solo per paura dei controllori?

Vista da una sufficiente distanza intellettuale questa "civiltà" appare come una confusione inestricabile di atomi impazziti che cozzano costantemente uno contro l'altro, un caos meramente distruttivo animato dal logos nichilista, che può essere prodromico ad una fragorosa esplosione oppure ad una estinzione per esaurimento dell'energia che la trasformerà in un silenziosa e desolata landa dell'entropia. Parafrasando Tacito, desertum fecerunt, Occidentem appellaverunt.
#43
Citazione di: InVerno il 31 Ottobre 2019, 11:34:21 AMNon era una risposta unicamente al tuo post, anche se ho preso gli elementi del tuo post per fare una risposta. Ad esempio era l'ultimo messaggio di Don a parlare di "valori secondo natura" e vi ho risposto indirettamente usando il tuo caso dell'acqua. Generalmente (per evitare ulteriori fraintendimenti futuri) quando rispondo direttamente ad un altro, metto almeno una riga di citazione del suo post, se scrivo senza citazioni vuol dire che non è un messaggio direttamente indirizzato a qualcuno, ma una riflessione a se stante. Tutto li, se il post è risultato aggressivo-rancorso è anche dovuto alla situazione personale a cui mi ha fatto pensare, non tanto ad aggressività verso i miei interlocutori. Saluti! :)

Solo a mo' di precisazione, vorrei sottolineare che non ha alcun senso un esempio come quello dell'acqua, perchè chiunque dovrebbe sapere che in tempi passati il sistema immunitario era molto più sviluppato di ora e certi batteri che ora sono pericolosissimi allora magari non lo erano affatto o tutt'al più avrebbero causato la diarrea. Più batteri si eliminano artificialmente dalle nostre vite quotidiane e più il sistema immunitario si disabitua a combatterli e si indebolisce, e poi basta un batterio di cui un tempo nessuno si sarebbe accorto per causare gravi problemi. Fino a qualche decina di anni fa i bambini qui da noi sguazzavano nel fango e mangiavano ogni cosa trovassero in giro, eppure sopravvivevano più sani di quelli di ora. Prova adesso a vedere cosa accadrebbe se facessero la stessa cosa.
#44
Citazione di: Jacopus il 30 Ottobre 2019, 21:26:34 PM
CitazioneSe i valori si fondano sulla conoscenza della natura, inclusa quella umana, allora una cultura che "conosce" la natura al solo scopo di distruggerla piegandola ai più assurdi e insensati desideri e "bisogni" umani
Caro Don. Non bisogna, come al solito, vedere le cose umane in una prospettiva manichea. Più vado avanti negli anni e più mi rendo conto che si tratta di una semplificazione mentale tanto arcaica quanto difficile da debellare e che si ritrova a destra, a siniistra, fra i ricchi, i poveri, gli atei e i religiosi, gli occidentali e gli orientali. La scienza moderna ha molte responsabilità, ma ciò che c'era prima ti assicuro che era molto peggio, almeno alle nostre latitudini. Non era molto piacevole avere un bussolotto al collo ed aspettare gli esattori venire a prelevare i soldi dal bussolotto, e se soldi non c'erano, c'erano frustate. Oppure le stesse frustate che venivano comminate a chi si rifiutava di andare in chiesa alla domenica. Al giorno d'oggi, fruste e frustini sarebbero un bene di consumo paragonabile ai telefonini, per vendite e diffusione. La scienza ha permesso di liberarci da insensate ideologie, che ancora ammorbano alcune popolazioni e che reprimono la libertà. La scienza, essendo un metodo e non un contenuto, permette di confrontare i contenuti secondo modalità convenzionali che, spesso, con i suoi pro e contro, sono trasmigrate fra le scienze umane. In realtà la tua visione richiama una contrapposizione archetipica. O siamo Ulisse e allora ci apriamo alle innovazioni e ci consideriamo degli esploratori, fallibili ma in cerca di miglioramenti e ci interroghiamo su noi stessi, oppure siamo Adamo, macchiati inesorabilmente dal peccato, buttati in un mondo inferiore, in cui la natura dell'uomo non è modificabile, e dove le ineguaglianze e le ingiustizie sono la dovuta mercede ad un futuro regno dei cieli.

Mi sembra insensato ragionare sulla base di esempi sul come si stava "prima" o su come si sta "oggi", perchè di esempi se ne potrebbero fare a milioni in un senso o nell'altro senza arrivare ad alcuna conclusione, senza contare le diversissime contingenze, e poi sarebbe solo una questione di "gusti". Ha senso invece, a mio avviso, ragionare cercando di cogliere delle essenze, dei fondamenti sui quali poi si basano le teorie sociali e la conseguente prassi.
Così se io affermo che non è la natura a dipendere dall'uomo ma è l'uomo che per la sua mera sopravvivenza dipende dalla natura non mi sembra di poter essere smentito in alcun modo. Dunque secondo giustizia è la natura a dover essere considerata prevalente rispetto all'uomo poichè se si ragiona al contrario (come in effetti si fa adesso) e l'uomo si pone come il "dominus" della natura e la piega alle sue esigenze esclusive considerandola come mero terreno di sfruttamento mi sembra evidente che le conseguenze non potranno che essere funeste.
La cultura occidentale moderna, ponendo l'uomo al centro dell'universo e considerando tutto il resto come terra di conquista da sottomettere o distruggere, fa esattamente questo.
E sulla medesima falsariga affida lo "studio" di queste questioni ad una scienza che non è in grado di prevedere esattamente che tempo farà fra tre giorni, a cui si chiede di comprendere le dinamiche e gli equilibri naturali per permettere all'uomo di intervenire in un senso o nell'altro; è una cosa semplicemente folle. Tutte le previsioni della scienza nell'ambito delle dinamiche naturali che hanno un termine di qualche decina di anni (non secoli o millenni) si rivelano regolarmente sbagliate, tutte.
Ulisse non mi sembra l'esempio più corretto per l'uomo d'oggi, perchè Ulisse vagava per il mare con pieno rispetto di ciò che gli stava intorno, mentre come esempio ritengo più corretto Prometeo, che per il solo fatto di poter controllare il fuoco ritiene di essere diventato esso stesso un dio e si comporta come tale. Ma non si accorge che più che un dio è un tiranno poichè un dio ha anche il potere di generare la vita, mentre il tiranno ha solo il potere di toglierla.


Citazione di: Jacopus il 30 Ottobre 2019, 21:26:34 PM
Citazionetanto da affermare che "tutti gli uomini sono uguali"
effettivamente si. E' proprio così. Tra l'altro proclamato anche da molti testi sacri. Potenzialmente siamo uguali, nella realtà storica non lo siamo. Anche perchè se fossimo tutti uguali andrebbe a farsi benedire la teoria evoluzionista. Ma il fatto che alcuni siano "più adatti", li rende solo più responsabili nei confronti dei "meno adatti". E' vero che la "struggle for life leone-gazzella" è un tratto distintivo di una certa modernità ma non ritengo colpevole di questo assetto la scienza, o almeno lo è tanto quanto certe interpretazioni possibili delle Sacre Scritture. E' vero. In Ancien regime, i nobili avevano il dovere di difendere i propri servi. Vi era una relazione padrone-servo che potremmo chiamare "armonica". Ma qual'era il prezzo da pagare? Salatissimo. Il figlio di un contadino avrebbe fatto il contadino e il figlio del becchino, il becchino. Per non parlare dell'amministrazione della giustizia, un potere che si guardava bene di punire chi era nobile, che poteva tranquillamente spadroneggiare, non per qualità di adattamento darwiniano (il che avrebbe avuto anche senso) ma semplicemente per trasmissione generazionale.

I testi sacri affermano che "tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio" e non che tutti gli uomini sono uguali fra di loro. La differenza è essenziale. La "morte di Dio" lascia in vita solo il secondo concetto di uguaglianza, creando miliardi di disadattati e infelici perchè pur sentendosi "uguali" agli altri non potranno vivere la vita che in quanto "uguali" ritengono di meritare.

p.s. Giotto era figlio di contadini, eppure è diventato Giotto; il padre di Dante faceva il cambiavalute;  Leonardo era figlio di un notaio ma non fece il notaio; Michelangelo era figlio di patrizi decaduti e poverissimi che non avevano mai tenuto in mano una matita; Stradivari era il figlio di un signor nessuno... In ogni tempo se avevi talento questo ti veniva riconosciuto; certo che in generale il figlio di contadini faceva il contadino, perchè viveva già da piccolo in quell'ambiente e imparava da subito la sapienza contadina. Poi se era un genio in qualcos'altro emergeva, ma se era un genio, non se era uno con il talento del contadino che si metteva in testa di fare l'avvocato solo perchè si faceva meno fatica, si guadagnava di più e si acquisiva più prestigio, come accade oggi.

Citazione di: Jacopus il 30 Ottobre 2019, 21:26:34 PM
Citazionebasata sul principio di sopravvivenza di chiunque a tutti i costi è decisamente la cultura più ignorante mai apparsa all'onor del mondo.
Evitiamo la polemica sulle decisioni sul fine-vita, che contraddicono esattamente questa affermazione, visto che sono i tradizionalisti a volere, in questo caso, la sopravvivenza di chiunque a tutti i costi, anche se ci si ritrova ad essere delle mummie prive di coscienza. Ma il principio di sopravvivenza di chiunque a tutti i costi è esattamente uno dei punti salienti della modernità, e credo che dovrebbe essere ampliata non solo al genere umano ma anche alle specie animali, alla flora e al regno minerale. Solo rispettando l'intero cosmo, possiamo pensare di evolverci (e vi prego non obiettate in modo banale a queste considerazioni, grazie). Il fatto che da una posizione tradizionalista si dica una cosa del genere, mi fa credere o che vi sia confusione o che non si sia compreso come la scienza è un formidabile metodo inventato dall'uomo e che l'uomo deve però imparare a padroneggiare meglio, tenendo sotto controllo la propria hybris. Ma non possiamo tornare indietro solo perchè ci consideriamo dei bambini incapaci, poichè il padr(on)e non sarà paterno con noi ma userà la più terribile violenza, come possiamo già osservare negli stati islamici che rifiutano il progresso e la modernità. Quindi parlare della cultura della modernità come di cultura ignorante è dal mio punto di vista, inconcepibile e solo frutto di una ideologia distorta, tale da farmi davvero rabbrividire. E' come se dicessi che la Bibbia è un libro per ignoranti, da bruciare o che tutti i pensatori di destra e conservatori siano dei cretini (fra gli altri Evola, Jung, Junger, Schmitt, Gentile e il caro Nietzsche fino ad Heidegger). La verità è una via accidentata, sempre.

Non volevo fare alcun riferimento al fine-vita, ma solo evidenziare che l'unico valore imprescindibile è ormai la sopravvivenza biologica, tanto che si premiano con medaglie e onorificenze gli ultracentenari, e non si comprende davvero quale sia il merito. 
Non so cosa intendi con "considerazioni banali" circa il rispetto del cosmo, ma a me pare che "rispettare il cosmo" come del resto rispettare qualunque altra cosa al suo interno, voglia dire semplicemente permettere a quella cosa di poter liberamente essere quello che è, ma la scienza moderna è, al contrario di quello che pensi e di ogni "rispetto", proprio il metodo che l'uomo ha inventato per poter meglio esprimere la propria hybris. La scienza antica raccontava ai bambini che i folletti vivevano sotto i funghi e quindi quando si andava per i boschi bisognava rispettare le case dei folletti e non distruggerle, mentre la scienza moderna racconta che quei funghi sono velenosi e che quindi vanno distrutti, poichè l'unico punto di vista utile e sensato è quello umano. La scienza antica era una conoscenza giustificativa, ti spiegava il perchè esistevano le cose e perchè le cose dovevano rimanere com'erano, anche talvolta con racconti di fantasia, quella moderna è una conoscenza funzionale che ti spiega come puoi sfruttare qualunque cosa al fine di esaudire qualche desiderio o qualche esigenza umana: qual è quella più "rispettosa" (e a questo punto anche più rispettabile)?

La cultura moderna è ignorante semplicemente perchè, attraverso appunto la scienza che è l'unica istituzione culturale unanimemente riconosciuta, considera esistente solo ciò di cui si può occupare, ovvero la materia, e di conseguenza gli sfugge tutto l'essenziale che è ciò che permette ad ogni cosa di essere quello che è, oltre a disumanizzare l'uomo che riduce a puro essere biologico dipendente da esigenze meramente materiali (la "società del welfare", appunto).
#45
Citazione di: Ipazia il 30 Ottobre 2019, 17:50:06 PMChe poi si chiami nichilista la società del welfare e non nichilista quella delle crociate e jihad rasenta l'assurdità totale. I valori non si trovano nei Libri Unici e neppure nel magistero dei guru. Si fondano sulla conoscenza della natura, inclusa quella umana. Che è individuale e sociale. Unico terreno solido ed edificabile. Solo così ci si salva dal nichilismo, che è fondazione di valori su deliri fantasmatici.


Se i valori si fondano sulla conoscenza della natura, inclusa quella umana, allora una cultura che "conosce" la natura al solo scopo di distruggerla piegandola ai più assurdi e insensati desideri e "bisogni" umani e che "conosce" la natura umana tanto da affermare che "tutti gli uomini sono uguali" e inventarsi di conseguenza la società del welfare esclusivamente basata sul principio di sopravvivenza di chiunque a tutti i costi è decisamente la cultura più ignorante mai apparsa all'onor del mondo.