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Messaggi - davintro

#31
Spero che questo non appaia un post troppo polemico e personale. Se la discussione deve, come mi pare stia accadendo nelle ultime pagine, penetrare così tanto nel merito il tema del covid e dei vaccini, non vedo più che attinenza possa avere con una sezione dedicata alla filosofia. Un conto è discutere del complottismo su di un piano generale, limitandosi ad analizzarne i presupposti ideologici, argomentativi, culturali, e in questo caso si resta in pieno nell'alveo del dibattito filosofico (epistemologia, gnoseologia, che sono rami della filosofia), ma si deve entrare nel merito e nel dettaglio delle posizioni pro-vax o no-vax, allora penso che la cosa più sensata sia trasferirla in uno spazio più specificatamente dedicato a questioni del genere (mi pare che nel forum esista la sezione "scienza e tecnologia", poi ovviamente non ho per fortuna ruoli di moderatore e non intendo togliere il mestiere a chi lo sa fare molto meglio di me, esprimo solo un'opinione personale che non conta niente), anziché continuare a confondere argomentazioni non filosofiche per filosofiche in uno spazio dedicato specificatamente alla filosofia.

Una (non l'unica) delle ragioni che mi aveva spinto per diverso tempo a non frequentare più il forum era stata anche il notare un certo andazzo di stampo materialistico e scientistico che non mi convinceva affatto, la tendenza, in troppi utenti, di cui pure ho stima, a utilizzare continuativamente argomenti presi dalle scienze naturali per discutere di temi filosofici, andando così a squalificare quel livello di autonomia, contenutistico e argomentativo, della filosofia rispetto alle altre scienze, senza il quale la filosofia come disciplina non ha alcun senso. Se anche i temi classici della filosofia, l'Essere, Dio, l'anima, il trascendentale ecc. di cui qua si dovrebbe discutere possono essere discussi e magari anche risolti tramite le categorie della scienza, allora il presupposto sarà, basta la scienza a spiegare tutti i piani del reale, senza che la filosofia possa aggiungere nulla di proprio, non avendo un proprio specifico spazio di manovra. Poi ovviamente, cadere in questa epistemologia positivistica della scienza che sostituisce la filosofia rendendola obsoleta e insignificante è un'operazione legittima, al netto che la si condivida o meno, ma poi è chiaro che chi come ha una formazione culturale prettamente umanistica e delle preferenze filosofiche nettamente orientate alla riproposizione, certo in chiave critica, non per un gusto tradizionalistico autoreferenziale, delle posizioni della metafisica tradizionale, in particolare del filone platonico-agostiniano dell'interiorità, poi in un contesto del genere non possa dare nulla, e la sua partecipazione finirà col rivelarsi piuttosto sterile.
#32
Certamente la mente umana è strutturata come filtro entro cui le informazioni provenienti dall'esterno non vengono mai recepite totalmente in modo "puro", ma interpretate ed elaborate per prendere dai dati ciò che più risponde a degli interessi personali e che può essere inserito all'interno di una cornice teorica predefinita (il che non vuol dire che sia impossibile che una persona cambi idea sulla base delle nuove informazioni, ma che c'è sempre in qualche modo una "resistenza" da superare perché ciò che le nuove informazioni dovrebbero suggerire possano imprimere una modifica nella prospettiva della persone che recepisce quelle informazioni). Occhio però a non cadere in delle esasperazioni di stampo relativistico e solipsistico che dall'assunto, corretto, della mente umana come filtro, arrivino a a concepire le visioni del mondo individuali come sistemi del tutto chiusi e impermeabili allo scambio reciproco, rendendo insignificante ogni possibilità di dialogo e comunicazione. Si tratterebbe di posizioni teoreticamente auto-contraddittorie (come ogni forma di relativismo), in quanto la pretesa stessa di verità della tesi "ogni mente recepisce i dati sulla base della propria impronta mentale e non dell'altra", presuppone essa stessa la possibilità di trascendere la propria impronta mentale per affermare cose inerenti la mente delle altre persone, nonché un'idea generale di come sia strutturata la mente umana, finendo col contraddire lo stesso assunto per cui ogni mente ragionerebbe solo relativamente ai propri stessi pregiudizi senza poter dir nulla sul modo d'essere delle altre. Qualunque affermazione, anche in chiave relativista, su come la mente umana è strutturata in senso generale, può essere supportata nella misura in cui si infrange il principio relativistico e si riconosce la possibilità di un livello di comprensione reciproca dell'uomo in senso universale, al di là del "filtro" o "impronta mentale" soggettiva.
#33
Citazione di: Claudia K il 23 Marzo 2023, 10:38:34 AM...Alla pari con l'allucinazione psicotica...
Eppure...il fact-checking ha il suo bel ruolo anche in queste diatribe.
Probabilmente non lo si avverte fino a quando si assiste alle diatribe da spettatori più che altro divertiti, anche perchè dall'osservatore di discreta cultura è sempre dato per implicito che qualunque ricerca che pretenda di essere scientifica debba necessariamente seguire il metodo scientifico.
Ma quando (per disavvenura o fessaggine, come accaduto a me in altri luoghi del web) scivoli nel vivo di uno di questi "confronti"...davvero tocchi con mano almeno due fattori che incarnano le  basi più granitiche della  "anti-scientificità"...pur nella pretesa di voler disquisire di scienza e di dettarvi anche legge!
Il primo fattore, rilevabile in breve volgere di tempo anche dallo spettatore divertito, è che le tesi avversate dal complottista non sono mai esaminate, bensì bollate e rifiutate a prescindere come "effetto di lobotomizzazione di chi le sostiene" (e se nella comunità scientifica avesse mai avuto spazio un simile atteggiamento...saremmo ancora a cercare di curarci con i decotti di malva...).
Il secondo, che si può apprezzare soltanto se si presta attenzione ai dati, è un crash logico da far tremare i polsi, e che ha la sua "logica" proprio nel fatto che il complottismo persegua il <no a prescindere> ideologizzato in funzione "anti-sistema" e non affatto l'ottimizzazione del percorso scientifico. E proprio in materia scientifica il crash esplode en plein air, soprattutto quando il tema è, come per il covid, di interesse planetario e i "dati" - vuoi sanitari e vuoi statistici - non possono essere raccolti in autonomia dal proprio studiolo e pc.  E pertanto era REGOLARE, in queste diatribe, dover constatare come i dati ufficiali e disponibili al mondo...dai complottisti venissero seviziati e stuprati in interpolazioni cervellotiche che non di rado superavano la vis e inventiva di un bravo comico del non sense. E sempre con l'arroganza complottista dello "i dati tuoi manco li guardo, perchè sei lobotomizzato dal sistema"...
Evidente che nessuna delle parti potesse cambiare idea ascoltando le motivazioni dell'altra : il complottista neanche ascolta e per non distrarsi dalla mission "anti-sistema" va solo di <no a prescidere> e tentativo di imporre le fantasiose interpolazioni di chi lo imbocca; e chi, invece, abbia interesse al dibattito scientifico non può certamente trovarne traccia nella postura complottista.


Mi pare che più o meno stiamo dicendo cose simili, cioè l'accusa di essere lobotomizzati, cioè vittime della propaganda, imbevuti da un sistema informativo inquinato è ciò che porta il complottismo a essere impermeabile a ogni tentativo di smentita empirica. Da ciò non consegue, rispondendo anche a Phil, il fatto che si debba abbandonare l'utilizzo importantissimo del "fact-checking (semmai trovare un corrispettivo in lingua italiana, trovo l'abuso degli anglicismi anche in casi in cui si può tranquillamente utilizzare un corrispettivo italiano, insopportabile, ma è solo un mio gusto), ma solo essere consapevole dei suoi limiti, nei confronti di un lavoro diverso, di messa in discussione delle fondamenta ideologiche, soggettive a partire dalle quali i dati vengono interpretati, selezionati, deformati in funzione di conferma delle proprie tesi predefinite. E questo lavoro non lo fa il fact-checking, ma la filosofia. I presupposti culturali, sentimentali da cui muove il complottista consistono a mio avviso in una rivendicazione di una concezione dell'uomo e del mondo di tipo olistico e spirituale, molto condizionata però da letture di sapore new age (mutuata da una certa parodizzazione delle culture orientali), che lo porta ad assumere una certa forma mentis. Una forma mentis in cui si esaspera il primato della sintesi e dell'unità degli aspetti a scapito dell'analisi e delle distinzioni, e che non tiene conto della distinzione ontologica, e conseguentemente epistemologica tra il piano del sovrasensibile, dei princìpi primi, di cui si occupa la metafisica, e quello sensibile appannaggio del sapere scientifico. La rivendicazione (a parole) dei valori umanistici e spirituali che è tipico degli ambienti culturali da cui le teorie complottiste prendono linfa viene posta in contrapposizione col metodo scientifico, accusato di "scientismo", materialismo nel rigettare la concezione olistica. A me, da sempre convintamente anti-materialista e sostenitore di una visione della filosofia di tipo metafisico e spirituale, piange il cuore a vedere concetti a me cari come "spiritualità", "trascendentale", "interiorità" decontestualizzati e strumentalizzati in funzione del sostenere visioni che vanno a confliggere col metodo scientifico, finendo solo col propagandare l'idea di un falso conflitto tra scienza e spiritualità, e a spingere per reazione i sostenitori della scienza verso posizioni sempre riduzioniste e antispirituali, portati a confondere la spiritualità autentica con quella deformata da chi non tiene conto della distinzione dei piani d'indagine. Ecco che fioriscono teorie come il tumore conseguenza dei sensi di colpa repressi interiormente o l'empatia e la meditazione come cura del cancro (ora sto un pò caricaturizzando per rendere bene l'idea). Alla base di tutto c'è la negazione del confine che separa intelligibile e sensibile, metafisica e fisica, con le categorie della prima applicate a un campo che non le appartiene, stesso errore epistemico dei teologi anticopernicani che usavano i testi sacri letteralmente interpretati per studiare l'universo fino a che il cattolicissimo Galilei non distinse il libro della natura da quello della salvezza, facendo un grande favore non solo alla scienza, ma alla religione stessa, spiritualizzandola, portandola a rivolgere il suo focus dall'esteriorità naturale e cosmologica all'interiorità dell'uomo, errore speculare a quello dello scientismo che ritiene di poter applicare le categorie naturalistiche al campo filosofico, fuoriuscendo dai limiti epistemici della scienza stessa, impossibilitata a indagare il mondo sovrasensibile. Di fronte a tutto questo il lavoro culturale, enorme e a lungo termine, è quello di ricordare come non ci sia alcuna contrapposizione tra scienza e spiritualità una volta distinti i campi ontologici di riferimento (che beninteso non vuol dire separarli completamente a livello sostanzialistico, alla stregua del dualismo res extensa, res cogitans), da cui discende anche la motivazione a tematizzarli in degli approcci teoretici distinti, dato che da oggetti di studio di diversa natura anche i metodi di ricerca dovranno essere diversi, pena l'inadeguatezza del metodo alla realtà oggettiva da conoscere (verità è adeguazione dell'intelletto alla cosa in sé). Una volta riconosciuto come piano spirituale e materiale richiedano approcci epistemologici diversi di studio cadrà la falsa tesi secondo cui dall'essere convinti dell'esistenza di Dio o dell'immortalità dell'anima sul piano metafisico dovrebbe necessariamente discendere il mancato rispetto del metodo  scientifico per ciò che riguarda il nostro corpo, e doversi affidare allo sciamano anziché al medico.

Sarebbe interessante aprire pure una breve parentesi (che però richiederebbe una discussione a parte) sulle responsabilità, riguardo il proliferare in Occidente di questa mentalità New age, di un Cristianesimo, che a livello di rappresentanti ufficiali sembra negli ultimi anni sempre più ripiegato sull'attenzione alle tematiche etico-sociali (che lo faccia "da destra" alla Ruini sulle crociate sui "valori non negoziabili" o "da sinistra" alla Bergoglio con la metafora della Chiesa ospedale da campo o con i temi della povertà o dell'ambiente messi in primo piano rispetto a quelli teologici), lasciando vuoti culturali enormi dal punto di vista delle persone più interessate alla dimensione teoretica e contemplativa della spiritualità che, vedendo il cristianesimo trascurare l'eredità filosofica della classicità greca che aveva assorbito, sembra sempre più proiettato sui temi sociali, delegano altrove, in forme di spiritualità più ingenue, meno razionalmente strutturate come la New Age, il compito di guida esistenziale: "alle magie di moda delle religioni orientali che da noi nascondono soltanto vuoti di pensiero" cantava Guccini in una delle sue più belle canzoni.
#34
Il complottismo ha la peculiarità di avere il proprio punto di forza che coincide con il suo punto debole a livello teoretico: l'infalsificabilità. Una tesi che consiste nell'idea che più o meno ogni fenomeno sociale vada ricondotto a un complotto organizzato da un sistema di potere ben definito e strutturato ha già in se stessa l'antidoto a ogni possibilità di smentita. Chiunque avesse interesse a portare dati a smentita di una certa tesi complottista è destinato a trovarsi sempre pronta una reazione del tutto lineare e consequenziale con la tesi complottista stessa: le fonti da cui i dati che smentiscono la tesi sono tratti sono inquinate e controllate dai poteri forti. L'ipotesi di una struttura di potere che controlla qualunque cosa, compresi i mass media, avrà sempre in se stessa un argomento a supporto della tesi stessa, cioè ogni dato che contrasta l'ipotesi proviene dalla stessa struttura di potere di cui si afferma l'esistenza. Punto di forza nel senso che ciò preserva il complottismo da ogni smentita, punto di debolezza perché proprio ciò lo squalifica dal punto di vista della pretesa di scientificità e razionalità. Popper insegna, una tesi è scientifica proprio nella misura in cui è potenzialmente falsificabile e attualmente, al momento, ancora non lo è. Un'ipotesi il cui contenuto contiene già l'antidoto contro ogni possibilità di smentita resta un'opinione arbitraria senza alcuna possibilità di validazione scientifica. 

Oggi va molto di moda il "fact-checking", strumento importante e utilissimo ma eccessivamente celebrato in certi ambienti, specie nei social. Proprio questo discorso sul complottismo mostra i limiti evidenti di questo strumento. Ogni tanto mi "diverto" a leggere/assistere a dibattiti accaniti, sui forum, in tv, sul web, tra posizioni contrapposte su argomenti di attualità come possono essere il conflitto Russia/Ucraina o il Covid. Di fact/checking ce ne è a iosa, le parti in conflitto non fanno altro che citare fonti e dati per controbattere le tesi avversarie, e non mi è mai capitato di trovare una persona che abbia anche leggermente cambiato idea sulla base di dati riportati dalla parte avversa: basta etichettare come "propaganda" le fonti da cui provengono i dati che vanno contro le posizioni di partenza per sentirsi in pieno diritto di mantenere il punto. E qua resta aperto il margine di legittimità della discussione filosofica, che non va a citare i fatti grezzi, ma che va a indagare e a criticare proprio i presupposti ideologici a partire da cui le persone tendono a interpretare e selezionare i fatti per farli rientrare all'interno della loro soggettiva visione teorica. Spesso e volentieri il complottismo assume delle posizioni caricaturali e parodistiche, oltre, come detto, a scontare, il vizio dell'infalsificabilità, ma la risposta non è, come molti ritengono, cadere in un positivismo ingenuo che idolatra il "fact-checking", che crede basti informare di più, dare più dati e fatti alle persone per renderle più illuminate e razionali, trattando la mente umana come un vaso vuoto da riempire e non come sistema composto da filtri entro cui i dati sono sempre valutati mai in forma pura, ma sempre in relazione con aspettative e pregiudizi di partenza, aspettative e pregiudizi che sono invece il focus verso cui la filosofia è orientata a discutere e che le consente di avere più spazio di manovra nello spingere le persone all'autocritica, proprio perché a differenza di ogni "fact-checking", va alla radice dei conflitti ideologici, i princìpi del pensiero.
#35
Presentazione nuovi iscritti / Re: Saluto
19 Marzo 2022, 22:18:07 PM
Citazione di: Jacopus il 18 Marzo 2022, 15:13:51 PMBuongiorno a te Davintro. Sarebbe un piacere ricondividere con te pensieri e riflessioni.
grazie mille
#36
Presentazione nuovi iscritti / Saluto
18 Marzo 2022, 15:02:28 PM
Buongiorno a tutti

Avevo piacere dopo diverso tempo di assenza dalle discussioni dal forum di ripassare a fare un saluto ai partecipanti del forum, compagni per diversi anni di piacevoli e interessanti conversazioni. Non so se in futuro torneranno il tempo e gli stimoli giusti per tornare a partecipare in modo più attivo, ma per il momento mi era sembrata una bella cosa salutare e ringraziare i membri questa comunità virtuale dove ho passato bei momenti di ricezione di energie per la mente e lo spirito, e nel caso fossi riuscito con la mia partecipazione a offrire un contributo, seppur minimale e con tutti i miei limiti, alla crescita del forum come luogo di confronto intellettuale, lo reputerei un onore.

A Presto, speriamo!
#37
Phil scrive:

"Non mi sembra ci sia una esperienza o un oggetto reale conforme alle rispettive idee delle proprietà qualificanti positive, né confome a Dio. Quali sarebbero tali "esperienze"? Per le idee delle presunte proprietà di Dio, esse (mi) risultano tramandate ed insegnate di generazione in generazione, senza nessuna apprensione o esperienza oggettuale diretta (né sono innate, altrimenti non sarebbe necessario insegnarle, spiegarle e giustificarle); idee generabili anche tramite semplice negazione concettuale o estremizzazione di proprietà concrete: il finito negato diventa l'infinito, il mortale negato diventa l'immortale, la conoscenza estremizzata diventa l'onniscenza, la potenza parziale estremizzata diventa l'onnipotenza, etc. Siamo sempre nel mondo dei concetti e delle idee, nulla di saldamente gnoseologico. Il principio di corrispondenza fra idea e corrispettivo oggetto è un medium gnoseologicamente ed ontologicamente inattendibile poiché viene smentito fattualmente da tutte quelle idee che non hanno un referente oggettivo constatabile: non solo l'idea di Dio (inteso dalle religioni o come vaga entità indeterminata), ma anche quelle più banali e già citate di «fantasma», di «sorella dispersa», e alte possibili."


Le idee non si insegnano, si insegna un linguaggio atto ad esprimerle, funzionale poi ad offrire un supporto fisico al pensiero, necessario per rendere quelle idee oggetto di attenzione e riflessione per una coscienza, il cui legame col corpo la vincola a connettere i propri contenuti con dei segni fisici. La generazione da cui dovremmo aver appreso tramite insegnamento le idee dove le avrebbe apprese a loro volta? Occorrerebbe risalire alla generazione ancora precedente e via di seguito, in un regresso all'infinito che inficia la possibilità di giungere a  una risposta definitiva al quesito. Il punto è che l'insegnamento non è mai produttivo dei contenuti che si insegnano, ma solo veicolante questi. Ciò in quanto recepire l'insegnamento non è mai da parte del discente un passivo riempirsi di contenuti appresi totalmente dal nulla, ma qualcosa che presuppone la comprensione, cioè il dare un significato ai segni linguistici appresi dall'esterno sulla base di strutture interne preesistenti. La parola "eternità" ascoltata da un insegnante resterebbe puro flatus voci per l'allievo, se dal suo punto di vista la parola non fosse già nella sua mente associata all'idea corrispondente, che era già insita nella profondità della sua coscienza, e che aspettava di essere associata a un supporto grafico per risalire allo strato riflesso e superficiale della mente. Allora, potrebbe ribattere l'anti-innatista, come spiegare che nessun bambino prima di andare a scuola si senta parlare di anima, Dio, eternità o trascendentale? Quello che penso è che occorra distinguere all'interno della psiche strati di diversa superficialità e profondità riguardo l'intensità della consapevolezza dei suoi contenuti. Ci sono strati superficiali in cui l'Io orienta la sua attenzione consueta, nella quale le idee sono associate a delle parole, e strati profondi in cui l'intuizione di idee non ancora verbalizzate, pur sempre presente, non emerge all'attenzione riflessa, perché coperta dal rumore di fondo degli strati superficiali. Se non si sente mai un bambino parlare di certe idee, non è perché le idee non siano già presenti nel fondo della sua psiche (o anima che dir si voglia), ma semplicemente perché, essendo tutte le sue esigenze localizzate nel mondo esterno, (mamma, cibo, bisognini ecc.), orienterà la sua attenzione solo su quelle idee a cui sono associate parole che consentono una comunicazione efficace al soddisfacimento di quelle esigenze. Cioè la mente non è sufficientemente motivata/allenata a focalizzare l'attenzione su delle idee irrilevanti per i bisogni tipici dell'età, e a cui non è associato alcun segno fisico che consenta la riflessione sull'idea in linea con il costante rapporto con l'esteriorità, per cui l'attenzione verso un contenuto mentale presuppone un riscontro fisico tramite cui simbolizzare, materializzare il contenuto. Il vincolo dell'esteriorità, espressione della finitezza ontologica, per cui l'uomo è sempre in relazione con ciò che sta al di fuori della sua soggettività, determina la necessità che la percezione fisica non si sovrapponga, ottundendola, alla sfera delle idee, perché queste ultime siano tematizzate, ma che le riecheggi, sulla base di segni fisici rimandanti ad esse simbolicamente. Quando si va a scuola, finalmente "eternità", "infinito" ecc. sono associati a segni fisici, e queste idee possono uscire dalla latenza profonda, essendo ora associabili a questi segni fisici che ne consentono la pensabilità, essendo in qualche modo ora stimolanti anche nel rapporto col mondo esterno. Ma non è il linguaggio appreso a infondere le idee, le "risveglia" soltanto, consentendo loro una strada d'accesso verso una loro utilizzabilità nell'ambiente, dalla cui relazione l'uomo non sfugge mai. Prima erano già presenti, ma di fatto "inutilizzabili". Tutto ciò presuppone la convenzionalità del linguaggio, cioè la possibilità di utilizzare termini diversi per esprimere lo stesso significato, e il riconoscere tale convenzionalità (che è il presupposto per apprendere una lingua straniera: apprendo che la stessa idea può essere espressa in un termine diverso da quello della mia lingua madre), vuol dire anche distinguere l'origine delle idee da quello delle parole: le prime sono colte per intuizione di oggetti corrispondenti, le idee il cui significato inerisce a oggetti fisici (l'idea di albero, pietra ecc.) apprese tramite i campi percettivi corporei, le idee aventi un significato intelligibile apprese tramite un'intuizione interiore di contenuti preesistente all'esperienza del mondo esterno (lo stesso Kant, la cui gnoseologia non è certo platonica, ammette accanto l'intuizione sensibile, un'intuizione intellettuale, per quanto poi cada nell'errore di precludere a quest'ultimo genere di intuizione l'apprensione di un contenuto conoscibile razionalmente, precludendosi la fondabilità scientifica delle proprie tesi riguardanti il contenuto di questa modalità di apprensione, come le categorie a priori dell'intelletto e della sensibilità). Essendo il linguaggio composto di segni fisici, può essere appreso dall'esterno sulla base della corporeità, mentre le idee "astratte" corrispondenti sono sin da sempre intuiti dalla mente, anche precedentemente al loro essere oggetto di riflessione e attenzione, reso possibile alla coscienza dalla loro comunicabilità linguistica e alla conseguente utilizzabilità pratica. L'errore di fondo della posizione "empirista" è quello di confondere il complesso dei pensieri tout court con quelli che in un certo momento sono tematizzati nell'attenzione e nella riflessione. Scegliere di orientare l'attenzione su un pensiero anziché su un altro è un atto libero dell'Io sulla base di esigenze legate a interessi nel rapporto col mondo esterno e presupponenti la comunicabilità linguistica, ma se è possibile considerare l'importanza di un'idea tale da attenzionarla, è perché già prima della tematizzazione, si ha già una latente o inconscia intuizione del significato di quell'idea, per quanto non ancora verbalizzata.


Per quanto riguarda l'idea che il principio di corrispondenza semantica tra idea e reale oggetto di esperienza sia smentibile sulla base della non constatabilità di idee come quella di Dio, mi pare che sconti un pregiudizio gnoseologico materialista che limita la constatabilità a ciò che può essere fisicamente esperito. Ma questa limitazione è esattamente la tesi sostenuta dall'ateismo e dall'agnosticismo, che in questo modo, loro sì, cadrebbero nel circolo vizioso di presuppore la loro particolare gnoseologia nella premessa stessa dell'argomento.
#38
Per Phil



Nella premessa della mia argomentazione, Dio non è presentato come causa della presenza dei suoi attributi, e nemmeno definito come tale, condizioni che renderebbero l'argomentazione fallace in quanto circolo vizioso, ma solo come entità provvisoriamente posta come concettuale, non ancora reale, definita sulla base di determinati attributi. Il passaggio da una certa definizione di Dio, posta necessariamente in premessa, alla dimostrazione dell'esistenza si realizza tramite un medium gnoseologico non contenuto nella premessa, il principio, che, posso sbagliare ma mi sembra evidente nella sua validità, della necessità di una conformità, di una corrispondenza tra le proprietà qualificanti una certa idea e la natura dell'oggetto reale dalla cui esperienza ricavare l'idea. A meno di voler ignorare la finitezza del pensiero umano, incapace di produrre ex nihilo delle idee in assenza di un oggetto preesistente alla sua attività pensante, conforme
all'idea, l'origine delle idee può consistere in una diretta apprensione dell'oggetto corrispondente al suo significato, nel caso di significati a cui attribuire esistenze effettive, oppure assemblaggi fantastici di parti apprese nel mondo reale, nel caso delle idee fittizie. Non essendo le idee di eternità, onniscienza, onnipotenza assemblaggi di parti (in quanto il significato esprime qualcosa di immateriale, cioè non esteso nello spazio e non suddividibile in parti), allora occorre ammettere la realtà di Dio come entità dotata di quegli attributi contenuto delle idee in questione come oggetto di esperienza da cui ricavare la presenza delle idee a partire da cui lo definiamo. L'affermazione dell'esistenza di Dio come causa della presenza nella nostra mente degli attributi di una sua possibile definizione è la risultante della premessa in cui lo si definisce con quegli attributi, unita alla premessa del principio di corrispondenza semantica tra idea e oggetto di esperienza da cui l'idea è ricavata.  In nessuna delle due premesse, prese isolatamente, è presente l'affermazione dell'esistenza di Dio: la prima è una mera convenzione linguistica accettabile teoricamente anche per chi contesterebbe l'attribuzione di esistenza sulla base di quella definizione, con la seconda premessa si passa dal piano dal piano formalistico logico della definizione a quello gnoseologico e ontologico della richiesta di una causa nel mondo reale per rendere ragione dell'idea, che però, in assenza di una pregressa definizione di Dio come onnisciente, eterno ecc. (che invece offre la prima premessa), non potrebbe attribuire a Dio il ruolo di oggetto reale causa della presenza delle idee di quegli attributi nella mente umana. Quindi, nè considerando l'una e l'altra premessa troviamo implicita la conclusione del ragionamento: nessuna petitio principii. Chi volesse contestare l'argomento (che ovviamente non è una mia invenzione originale, ma ricalca la via cartesiana e anche rosminiana, quest'ultima riconducente il complesso degli attributi divini alla presenza dell'idea dell'Essere, oggetto necessario di ogni atto di pensiero, di volontà e sentimento nell'uomo) dovrebbe, non concentrarsi sulla ricerca nelle premesse della tesi finale, cioè sulla ricerca della fallacia logica, ma sul piano gnoseologico del principio di conformità idea/oggetto reale (materiale o immateriale) che sia che lo produce (che sarebbe una discussione interessante, ma leggermente fuori tema rispetto a quello della prova ontologica, che di questo punto fa a meno, e qua, a mio avviso, è il suo limite). Tu stesso, come mi è sembrato di intendere, a un certo punto concedi che, una volta che nella definizione di partenza non è implicita l'attribuzione a Dio di esistenza come causa della presenza dell'idea dei suoi attributi nella mente, cioè quando scrivi, cito,

"Se non lo presupponessi già come esistente, la sua idea sarebbe l'unica prova logica della sua esistenza e dunque potrei dire di Dio solo che è colui che rende possibile averne idea, senza potervi aggiungere altre proprietà, demiurgiche o morali che siano, non potendo provarle logicamente."

quantomeno l'esistenza di Dio come ciò che rende possibile l'idea sarebbe accertata. Per l'appunto, anch'io mi fermo a questo punto. Le ripercussioni morali, accanto a quelle inerenti la presunta rivelazione storica, oggetto della fede e non di dimostrazioni morali, non le considero, in quanto riconosco che la "mia" argomentazione si limiterebbe ad accertare una concezione di Dio a cui si fermerebbe un deista e non un credente di una fede rivelata nel complesso dei tanti vari aspetti.


Per quanto riguarda i discorsi apofatici, il "qualcosa" che all'interno di una stanza distinguo dalle sedie e dai tavoli non è mai puro "nulla". Perché riconosca questo "qualcosa" come non identificabile con sedie e con tavoli, devo necessariamente riempirlo di un certo livello minimo di attributi positivi, altrimenti, come potrei sapere che non si sta parlando di sedie o di tavoli ma di altra cosa? Ciò, in quanto negazione ed affermazione si distinguono su di un piano puramente formale, mentre dal punto di vista concreto e contenutistico, quello entro cui queste formule son riferite alla realtà ontologica, si richiamano dialetticamente e reciprocamente, se omnis determinatio est negatio, vale anche l'opposto, omnis negatio est determinatio, ogni negazione di un certo contenuto determinato implica l'affermazione del suo contrario, che però ricade sempre nel piano dell'Essere e non del Nulla, in quanto il suo contrario che viene negato non è l'Essere nella sua universalità, ma una particolare determinazione (appunto, la sedia, il tavolo ecc.), perché ci si riferisca davvero al Nulla, occorrerebbe che ciò a cui ci si riferisce escluda, non solo il tavolo o la sedia, ma l'Essere nella sua generalità, dato che il Nulla è il contrario dell'Essere. Ma pensare fuori dall'Essere sarebbe pensare Nulla, cioè non pensare, il pensiero, ricorda il principio di intenzionalità, è sempre pensiero di "qualcosa", ma il "qualcosa" è solo un termine meno tecnico per intendere l' "ente", ciò, che pur nella sua estrema vaghezza, riconosciamo sempre come presenza positiva (non positiva nel senso di giudizio morale, beninteso, ma nel senso di non-negativa, oggetto di cui sia possibile predicare in modo affermativo delle proprietà) del pensiero, qualcosa che è altro dal Nulla, cioè rientrante nell'Essere.


Non ho mai detto che l'ateo o l'agnostico nel dare una definizione di Dio cadano in contraddizione perché la loro definizione implicherebbe l'esistenza non solo concettuale-astratta ma anche concreta-ontologica. Al contrario, proprio perché una semplice definizione di Dio non ne implica l'esistenza, allora nel definirlo in quanto tale ancora non si sta affermando l'esistenza. Dunque la definizione di Dio utilizzata dal non credente non porta quest'ultimo a contraddirsi, certamente, ma allora la stessa cosa dovrebbe valere per i fautori della prova ontologica, che fintanto che si limitano a proporre una certa definizione di Dio, non ne stanno suggerendo in questa premessa l'esistenza cadendo nel circolo vizioso. Se invece si ritiene (ma io non lo ritengo!) che da una certa definizione di Dio se ne implicasse IMMEDIATAMENTE l'esistenza, allora anche il non credente, che come Anselmo o Godel, necessita di avere una definizione formale-concettuale di Dio, dovrebbe ammettere di premetterne pure l'esistenza concreta: insomma se la prova ontologica è una petitio principii, allora l'ateismo e l'agnosticismo, sulla base dello stesso riscontro della fallacia, andrebbero incontro a un destino peggiore, quello dell'autocontraddizione. Per questo parlavo di "boomerang". Personalmente non penso che la prova sia una petitio principii e proprio per questo nemmeno penso che il non credente si contraddica per il solo fatto di definire il Dio a cui non attribuiscono esistenza reale in qualche modo, il che non mi impedisce di trovare la prova discutibile e difettosa per diversa motivazione, cioè l'ambiguità delle formule in cui, come già detto, assunti arbitrari morali (l'esistenza come requisito della grandezza o della "positività") si sovrappongono a categorie teoretiche, finendo col relativizzare e soggettivizzare la validità dell'argomento, togliendogli un fondamento di validità oggettiva. Spero di essermi meglio chiarito.
#39
Citazione di: Eutidemo il 10 Febbraio 2021, 07:08:37 AM
Ciao Davintro.
:)
Tecnicamente hai perfettamente ragione; ed infatti, "bada bene", io ho scritto che, sia la dimostrazione di Sant'Anselmo sia quella di Goedel, secondo, me si risolvono entrambe  <<in una sorta>> di "petizione di principio" (cioè non in una "petizione di principio" in senso stretto).
Ho scritto così, in quanto, effettivamente, la premessa, sia nella versione anselmiana che in quella goedeliana, non poggia su un GIUDIZIO esplicitato come tale, bensì su una DEFINIZIONE; la quale, tecnicamente, non costituisce un "giudizio formulato in modo espresso".
Tuttavia, nel caso di specie (come spesso accade anche con altre teorie), la  "definizione" dei due pensatori, implica aprioristicamente un "giudizio" circa quella che, secondo loro, deve ritenersi essere la "vera" la natura di Dio, e, cioè, che Esso, secondo loro:
- non è un "totem" o un "vitello d'oro";
- non è un "essere antropomorfo", immortale e superpotente, che vive nell'Olimpo;
- non è un principio duale (Bene/Male)
- non è un Essere indeterminato, avvolto da una "nube di non conoscenza", a cui si può accedere solo per negazione.
Secondo la "definizione" dei due pensatori,  invece, (almeno per come è stata scritta), Dio, più o meno, "... è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, ovvero l'entità che possiede tutte le proprietà positive"; ma questo è un "demostrandum", e non un "demonstratum", nè, tantomeno, un "assioma" universalmente riconosciuto, come quello per i quale "i corpi sono estesi" (nessuna religione, per quanto bizarra, lo nega).
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E' invece vero che, almeno in Goedel, "supponendo di voler definire Dio in quel determinato modo, e valutando quali implicazioni ricavarne tramite l'analisi dei termini utilizzati", ne deriverebbe effettivamente l'esistenza logico-formale di "quel tipo di Dio" che è stato dato per scontato come presupposto del ragionamento; ma, secondo me, il suo ragionamento, per quanto molto elaborato, si riduce ad una sorta di complicata "tautologia", perchè le sue conclusioni erano logicamente implicite nella premessa definitoria (critiche al ragionamento a parte, sulle quali sorvolo).
Ad esempio, se io fondo una nuova religione, sostenendo che Dio è "il numero che risulta dalla somma di 2356 + 8521",  non è che poi io abbia fatto una grande scoperta se, grazie al ragionamento matematico definito "addizione", dimostro che, effettivamente, esiste il numero 10.877; cioè, appunto, il Dio della mia definizione!
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A parte questo, non è vero che "qualunque critico della prova ontologica non può esimersi dal definire Dio in un certo modo"; ed infatti, chi ha un approccio di tipo "apofatico", parte proprio dal presupposto che Dio non possa essere definito in alcun modo.
A meno che non si voglia sofisticamente eccepire che anche dire che "Dio è indefinibile", costituisce comunque una "definizione" di Dio; il che, secondo me sarebbe un po' troppo anche per Gorgia da Leontini.
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Tuttavia, concordo con te che "il linguaggio non è un fatto reale ma una convenzione"; mentre, almeno per determinate concezioni della divinità, "DIO" è sopratutto un fatto "esperenziale" individuale.
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Un saluto! :)

Ciao Eutidemo
Se si concorda sulla convenzionalità del linguaggio, allora si dovrebbe convenire  anche sul fatto che, proponendo una certa definizione di Dio, in alcun modo Anselmo o Godel intendono contestare la legittimità logica di definizioni alternative (tra cui quelle citate), ma solo che dalla definizione data da loro sarebbe deducibile l'esistenza, dalle altre no (cosa su cui, ripeto, non concordo, ma per una motivazione diversa da quella degli altri partecipanti alla discussione). Dovendo vincolare la definibilità di un ente al giudizio di esistenza, non si spiegherebbe la possibilità di avere definizioni di entità immaginarie come unicorni e draghi, quando in realtà le loro definizioni son presenti in dizionari ed enciclopedie, senza che per questo nessuno le ritenga reali: ci si limita a individuare delle proprietà che li distinguerebbero qualora fossero reali, anche se poi restano delle proprietà che li caratterizzano solo come immagini mentali. La definizione indica l'essenza, la traduce in segni grafici, fisici (il che non vuol dire che la convenzionalità delle definizioni si allarghi all'intuizione dell'essenza degli oggetti, errori del nominalismo radicale e dell'empirismo, ma non divaghiamo...), non indica l'esistenza. Pensare che indichi l'esistenza dovrebbe, come scritto prima, condurre anche l'ateo e l'agnostico, che necessitano di una qualunque definizione di Dio, per giudicarne l'inesistenza o l'indimostrabilità, a dover dedurre dalla loro personale definizione anche il giudizio di esistenza, cadendo in contraddizione con le loro tesi. E se una posizione contraddittoria è sempre falsa, e la tesi contraria a una falsa è sempre vera (terzo escluso), allora il tentativo di sconfessare la validità della prova ontologica come petitio principii da parte dell'ateo gli si ritorcerebbe contro come un boomerang, mentre il credente troverebbe in questo modo convalidata razionalmente la sua credenza senza passare direttamente per la prova stessa, bensì nell'autocontraddizione in cui cade la posizione di chi cerca di confutarla. Gli approcci apofatici, tra cui possono comprendersi i diversi orientamenti riconducibili all'ambito della teologia negativa, per i quali Dio sarebbe inconoscibile e indimostrabile per la ragione umana, non possono in realtà esimersi dal definire Dio in qualche modo. La coscienza del limite implica una quantomeno vaga visione di ciò che vi è oltre il limite, l'apprensione del significato di questo "oltre", la sua definibilità. Il limite è la linea di confine tra due dimensioni, riconoscerlo presuppone una minima comprensione di entrambe le dimensioni, riconosco il mio limite in quanto avverto l'esistenza di qualcosa che va oltre. Dunque, chi, in nome dell'infinita distanza ontologica che separa Dio dall'uomo, e da cui ricava, erroneamente, la tesi di una completa inconoscibilità di Dio, può riconoscere questa infinita distanza, lo fa sempre a partire da una certa definizione di Dio, è sulla base di un certo nucleo semantico che ricavo l'idea dell'irriducibile trascendenza, un complesso di attributi come "onniscienza", "onnipotenza" in relazione a cui raffrontare i limiti della mia potenza e del mio sapere. Ecco perché, per non cadere nella contraddizione di giudicare Dio del tutto inconoscibile e al contempo presumerne di avere una conoscenza tale da darne un determinato giudizio (errore in cui cade tutta la gnoseologia kantiana), ogni teologia negativa, anche la più radicalmente nichilista, necessita di poggiare su di una base minima di teologia positiva.



Anche, ammesso e non concesso, che la prova ontologica si riduca di fatto a una tautologia, ciò non sarebbe altro che una conferma della sua validità apodittica: le tautologie son sempre vere. Verità banali, se si vuole, ma pazienza... la banalità è un problema dell'estetica, non della teoretica, si può criticare una poesia, un romanzo come "banali", non un'inferenza logico-deduttiva, la logica non deve preoccuparsi di risultare banale, ma solo di risultare fallace, se non lo è va benissimo così. In realtà dubito si possa parlare nel nostro caso in senso stretto di "tautologia". La tautologia è un giudizio in cui un predicato si ripete identico ad un attributo posto esplicitamente nella definizione del soggetto, mentre nel caso della prova il predicato dell'esistenza ha un significato concettualmente distinto da quello di "grandezza" o "positività" godeliana. Dal punto di vista di chi ha elaborato la prova, l'esistenza è comunque inerente alla grandezza o alla positività, ma in modo implicito, necessitante di essere esplicitato tramite la mediazione logica. Come scritto precedentemente, trovo l'assunzione di questa inerenza gratuita, un assunto più morale che teoretico, in quanto, che l'esistenza debba essere fattore di grandezza o positività è un giudizio morale legittimo ma arbitrario, non un'oggettiva necessità teoretica. Ma, al di là di questo, la necessità di una mediazione logica per esplicitare un predicato posto implicitamente nella definizione di un soggetto, è una necessità fondata sulla base della finitezza del pensiero umano, impossibilitato a cogliere istantaneamente l'inerenza di tutti le implicazioni logiche a partire dai predicati di una definizione, coglimento che deve perciò essere ricavato mediatamente, per analisi, scomposizione dei significati interni alla definizione. La coerenza logica interna ai giudizi sulle proprietà già implicite in una definizione, ricorda, in ciò giustamente, Kant, è sempre un procedimento analitico. Questa finitezza è ciò che rende necessaria la mediazione logica, e qui forse e penso di rispondere anche a Inverno, chiama in causa un elemento immanente alla mente umana come punto di collegamento tra quest'ultima e Dio, punto di collegamento assente nella formulazione anselmiana, che parte direttamente da una definizione di Dio. Il punto di collegamento consiste nel complesso di idee che l'uomo attribuisce nell'accezione teista a Dio, onnipotenza, onniscienza, eternità, idee che, avendo un significato intelligibile, non potrebbero essere ricavate dall'esperienza di oggetti fisici, né sono riconducibili allo stesso processo di formazione delle idee di entità immaginarie, che hanno sempre un significato materiale, di corpi estesi spazialmente, e la cui pensabilità può essere ricondotta a un gioco di fantasia in cui la mente riassembla diverse immagini tratte da realtà esistenti per unificarle in una sintesi fittizia (es. l'unicorno è la sintesi del cavallo e del corno, idee che, singolarmente considerate, si ricavano dalla reale esperienza di oggetti esistenti ad esse corrispondenti), in quanto, il loro significato intelligibile, inesteso, non può essere il prodotto di un'unione di parti spaziali. Dunque l'origine della presenza di queste idee non può essere l'esperienza esterna sensibile. Anche l'ipotesi che esse siano strutture la cui origine sarebbe immanente al pensiero umano non tiene conto che la finitezza, la limitatezza della mente umana fa sì che non sarebbe possibile per quest'ultima ricavare da se stessa, dalla propria autocoscienza, l'esperienza di queste idee, il cui significato esprime proprio l'opposto dei caratteri citati. Dunque, occorre che la presenza nel pensiero umano di queste categorie sia resa possibile da un ricezione da parte del pensiero umano dei contenuti provenienti dall'unica realtà possibile soggetto di questi attributi, sulla base della  definizione (definizione, non giudizio, nessun circolo vizioso argomentativo) di partenza, cioè Dio. In questo modo si accoglie dalla prova ontologica la necessità di premettere una certa definizione di Dio (in quanto qualunque riflessione, anche tesa a non argomentarne l'esistenza ne implica l'utilizzo preliminare) tenendo conto però che, onde evitare che l'implicazione dell'esistenza dalla definizione non sia un arbitrario assunto morale, occorre che le proprietà della definizione di Dio siano riconoscibili in una nozione la cui presenza nella mente sia indiscutibile, cioè le idee di eternità, onnipotenza, ammettendo così un elemento a posteriori, tratto dall'esperienza umana dei contenuti della propria mente, la cui origine della loro presenza nel pensiero rimandi a Dio come unica realtà conformata ai caratteri che questi contenuti contraddistinguono. Unione di tomismo (partire dalla contingenza per risalire causalisticamente alla trascendenza) e agostinismo (questa contingenza non è il mondo fisico, ma il pensiero umano nell'interiorità dei contenuti con cui pensa Dio) a cui certamente lo spirito della prova ontologica è maggiormente riconducibile.
#40
Citazione di: Jacopus il 09 Febbraio 2021, 18:37:35 PM
Per Davintro. La ricerca di una definizione il più intelligente possibile su Dio è connessa inevitabilmente con la dimostrazione della sua esistenza, ovviamente in via logico-deduttiva. Ma la ridondanza semantica di Dio, a sua volta, implica, una volta dimostrata la sua esistenza, anche l'accettazione di tutti i giudizi e le tradizioni a lui ascrivibili. La Teologia non è un settore della scienza dove è possibile, anzi doveroso, separare definizioni e giudizi.
Se ad esempio dicessi che il Comunismo è uno specifico sistema politico, questa definizione sarebbe comunque neutra.
In ogni caso ritengo la religione un principio di fede. Volerla "razionalizzare" la espone ad un pensiero, quello laico-scientifico, rispetto al quale non ha più sufficienti strumenti controargomentativi.


Non concordo su diversi punti. A parte, come detto, definizioni apertamente autocontradditorie, certamente "meno intelligenti" di quelle non contraddittorie, non esistono definizioni più intelligenti di altre. Pensarlo presupporrebbe l'adesione a fantasiose teorie sul "linguaggio naturale", l'idea di una presunta corrispondenza tra cosa e parola, per cui una certa parola sarebbe, non convenzionalmente, ma oggettivamente e naturalmente, più adeguata delle altre a esprimere una certa cosa (cosa che può aver senso in parte solo per il linguaggio onomatopeico). La costante mutevolezza storica delle lingue falsifica queste tesi, mostrando come sia possibile mutare il lessico dei dizionari senza che la struttura oggettiva del reale (e dunque il valore di verità dei giudizi, che consiste nella corrispondenza dei giudizi con le cose in sè) muti. Se un giorno decidessi di chiamare l'albero "pinco pallino", in nulla muterebbe il complesso delle verità oggettive che riflettono la natura dell'albero come realtà in sé. Dunque definire non è giudicare, indipendentemente dal campo di indagine, compresa la teologia.


Non vedo perché la distinzione tra definizione e giudizio presupponga la fondatezza razionale del giudizio in questione. Che una certa tesi sia ricavata dalla ragione o da un puro sentimento, in ogni caso il momento dell'assunzione della definizione, che esprime il senso dell'idea in questione, è altro da quello in cui a tale significato, di per sé ideale, viene associato a una realtà oggettivamente esistente. Nulla impedisce (di fatto, che poi anche di principio ciò sia teoreticamente valido è un altro discorso) a un ateo di accettare la stessa definizione di Dio che ne da un credente, senza per questo condividerne il giudizio di esistenza. Così anche in teologia la distinzione tra i due momenti, definizione, significato ideale di un ente e giudizio, attribuzione e negazione di esistenza oggettiva, resta in piedi.


Non è vero che dalla dimostrazione dell'esistenza di Dio derivi l'accettazione di, cito, "tutti i giudizi e le tradizioni a lui ascrivibili". Le tradizioni religiose riflettono le differenze culturali dei diversi popoli, mentre Dio nell'accezione filosofica può essere definito sulla base di concetti a cui poter attribuire significati che restano identici, al di là delle culture. Il Dio che Anselmo o Godel cercano di dimostrare nella sua esistenza, è lo stesso che anche un islamico o un ebreo potrebbero accettare, indipendentemente dal fatto che questi, fatto salvo questo nucleo concettuale condiviso, non riconoscono questo Dio come sostanzialmente incarnato, morto e resuscitato nella figura del Cristo. Senza questa distinzione non si spiegherebbe il sorgere storico del Deismo, il tentativo di affermare l'esistenza di Dio in termini puramente razionali, mettendo da parte gli aspetti fideistici inerenti presunte rivelazioni storiche, dovremmo assurdamente pensare che tutti i cattolici progressisti che hanno disobbedito all'insegnamento morale della Chiesa votando a favore della legge sul divorzio siano per questi diventati tutti atei o agnostici, mentre in realtà hanno probabilmente  solo cercato di propugnare una visione di Dio e della fede alternativa a quelle di una certa tradizione dottrinale. E non sarebbe possibile che anch'io, per quel nulla che vale il mio caso, sia convinto dell'esistenza di Dio sulla base di categorie interne anche a una tradizione metafisica cristiana, che però non seguo in toto, mantenendo il mio dissenso su punti legati all'insegnamento morale e fideistico.


La religione intesa come puro sentimento e intuizione di un Ente superiore all'uomo è certamente principio di fede, ben diverso il discorso nel momento in cui si passa da una fase immediata e "ingenua" in cui si accetta l'idea di Dio nell'immediatezza del vissuto psicologico della fede a una in cui si cerca di argomentarne le questioni in modo razionale. La metafisica si rivolge all'oggetto di fede della religione, ma non sulla base della forma mentis religiosa, fideista ma razionale. Metafisica e religione condividono l'oggetto di riferimento, non la forma dell'atteggiamento con cui l'oggetto è considerato. Pensare che la metafisica sia fede vuol dire confondere forma e contenuto, e allora, si potrebbe dire, con la stessa premessa, anche l'ateismo dovrebbe essere visto come fede, dato anche l'ateo argomenta la sua tesi riferendosi allo stesso contenuto della religione. La razionalità metafisica non entra in alcun conflitto con quella "laico-scientifica", che si esprime nel metodo galileiano e che vale per lo studio della natura fisica, non di quella spirituale. La distinzione dei due piani, naturalistico e spirituale, evita la contrapposizione delle due razionalità, ed anche la necessità di "strumenti controargomentativi". Pensare a una contrapposizione, una sovrapposizione dei due piani, implica l'assolutizzazione della dimensione fisica, assunta come unica realtà possibile, tesi impossibile da verificare con la stessa fonte di esperienza delle scienze naturali, cioè l'osservazione sensibile, implica cioè, in contraddizione con le sue premesse, un'assolutizzazione metafisica. Ecco perché, giustamente, continuiamo a studiare il positivismo nei manuali di filosofia, anziché di fisica, chimica o biologia... Le ragioni del positivismo, il superamento della religione e della metafisica come fasi provvisorie dell'entrata dell'umanità della Scienza, implicherebbe la considerazione del positivismo come "scienza" e non come "filosofia", cosa che non è. Nessuno scienziato (naturalista) serio si sognerebbe di inserire il materialismo e l'ateismo come contenuti delle loro discipline. E immaginare questa situazione come provvisoria, di contro a un lontano futuro in cui questa scientificizzazione dell'ateismo avverrà non rende i vari Feuerbach, Comte tanto diversi da delle figure profetiche con tutto il carico di fideismo che accompagna ogni escatologia.
#41
Un circolo vizioso si dà nel momento in cui la tesi che si vuol dimostrare è già implicita nelle premesse dell'argomentazione, e ciò renderebbe fallace quest'ultima, che assumerebbe la sua pretesa di verità come presupposto dogmatico del suo procedere. Non è però il caso della prova ontologica, in quanto la premessa, sia nella versione anselmiana che godeliana, non poggia su un GIUDIZIO, una tesi che pretenderebbe di esser data per scontata pre-argomentativamente, ma su delle DEFINIZIONI. Le definizioni non sono giudizi, non presentano presunzioni di verità, dunque non esistono definizioni vere e definizioni false. La definizione, tranne nei casi in cui si formulassero in modo autocontraddittorio (del tipo, il rosso è un colore non-colore), e non è questo il caso delle definizioni che la prova ontologica pone nelle sue premesse, indica una certa possibilità logica, un possibile determinazione della realtà, di per sé, ancora non esprimente alcuna pretesa di verità, ma che, analizzandone il contenuto, può esplicitarsi come richiedente necessariamente l'esistenza di ciò che si definisce. Riformulare le definizioni proposte in giudizi "Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore/Diò è l'entità che possiede tutte le proprietà positive", è logicamente scorretto, in quanto quello che nelle loro premesse Anselmo e Godel stanno proponendo non è un giudizio, ma una possibile definizione di Dio che non è detto debba essere l'unica possibile (dato che il linguaggio e le definizioni sono convenzioni), cioè le loro premesse in realtà sono solo proposte linguistiche ("supponiamo di voler definire Dio in un determinato modo, e valutiamo quali implicazioni ricavarne tramite l'analisi dei termini utilizzati"), e dato che il linguaggio non è un fatto reale ma una convenzione, in questa proposta linguistica non è implicato alcun giudizio sulla realtà oggettiva, dunque nessuna tesi dogmaticamente premessa in una petitio principii. Se un animista volesse rigettare la proposta linguistica di Anselmo o Godel, e continuare a definire "Dio" l'albero o il vento, resterebbe, anche dal punto di vista di entrambi, perfettamente libero, a condizione però di riconoscere razionalmente che dalla sua definizione di Dio, non ne discenderebbe l'esistenza, mentre dalla loro sì. Questo perché, fintanto che si ci limita a dare una certa definizione di Dio, non si sta IMMEDIATAMENTE affermandone l'esistenza in un giudizio subdolamente posto come premessa dell'argomentazione. Difatti, anche qualunque critico della prova ontologica non può esimersi dal definire Dio in un certo modo. Non può esimersi Tommaso d'Aquino, che, opponendo ad Anselmo le prove a posteriori, deve comunque assumere la definizione di Dio come "Causa prima" o "Fine ultimo", come concetti la cui esistenza dovrebbe esser richiesta a render ragione della realtà del mondo dell'esperienza, e nemmeno l'ateo o l'agnostico, che per considerare Dio non esistente o l'impossibilità di dimostrarne l'esistenza, devono comunque partire da una certa idea di Dio, e dunque da una definizione, altrimenti la loro riflessione sarebbe del tutto insensata, mancando l'apprensione del significato di ciò di cui cercherebbero di contestare l'esistenza o la stessa possibilità di poter dimostrare l'esistenza. Come faccio a negare l'esistenza di qualcosa o la possibilità di dimostrazione dell'esistenza se non ho la minima idea di cosa sto sottoponendo ad analisi? Dunque, pensare che la semplice proposta di definizione consista in un giudizio già posto in premessa, dunque squalificante la validità logica dell'argomentazione, è una critica che può essere rigirata in direzione di qualunque tesi opposta o alternativa all'argomentazione stessa, e ciò dimostra la non sensatezza della critica, in quanto una critica che finisce col distruggere tutte le possibili soluzioni riguardo una questione è una critica assurda (che la soluzione a un quesito consista nel fatto che non c'è soluzione è un'assurda autocontraddizione).


Questo è il punto di forza della prova ontologica, accetta di muovere dalle stesse premesse di un ateo o di un agnostico, cioè sul piano di una possibile definizione di Dio, piano che lo stesso ateo e agnostico, devono accettare, dato che, come detto, anche loro necessitano di una definizione per le loro tesi, per mostrare che proprio da delle premesse, potenzialmente accettabili anche da loro (linguaggio come convenzione e non come realtà), si possa argomentare mostrando la contraddizione dell'ateismo e dell'agnosticismo. E in questo senso la prova ricorda che qualunque argomentazione dell'esistenza di Dio debba partire da un piano comune a qualunque ipotetico oppositore, cioè l'idea di Dio, dunque indica nell'interiorità e nella coscienza le dimensioni da considerare nella ricerca. La prova ontologica si inserisce nella linea platonica-agostiniana-cartesiana-rosminiana del pensiero cristiano, alternativo a quello più legato al tomismo, che invece elegge il mondo naturale, esterno, come punto di partenza del riconoscimento dell'esistenza di Dio. Qui sta, secondo me, il suo contributo, storico e teoretico, positivo.


Il punto debole della prova, invece, trovo sia, l'utilizzo di categorie etiche, "maggiore" in Anselmo, "positive" in Godel, (per quanto riguarda Godel sto valutando a partire dalla formula citata da Eutidemo, non avendo letto direttamente il matematico in questione), all'interno di un discorso che dovrebbe porsi in un'ottica unicamente e rigorosamente teoretica. L'idea che l'esistenza di un ente sia implicata nella sua "grandezza" o "positività", è giudizio morale, cioè ponibile in modo soggettivo e arbitrario, ma non ha un fondamento oggettivo che ne garantisca la razionalità. Ciò sulla base della non deducibilità dei giudizi di valore, soggettivi, da quelli di fatto, oggettivi. Tuttavia penso che questo sia un limite superabile riformulando la terminologia in modo più teoretico e moralmente neutro, senza gettar via il bambino con l'acqua sporca, senza eliminare il punto corretto di dover sempre assumere un dato coscienziale, non immediatamente posto come fatto oggettivo, l'idea di Dio come punto di partenza per ogni tentativo di argomentare sulla questione dell'esistenza.
#42
Tematiche Filosofiche / Sulla comunità
07 Febbraio 2021, 16:08:01 PM
Penso che ogni tentativo di stabilire dei limiti quantitativi oltre i quali la comunità incorrerebbe nel rischio di disgregarsi abbia un senso a condizione di intendere il concetto di "comunità" in un'accezione empirista, cioè come concetto che si realizza pienamente, al massimo delle proprietà che la definiscono come tale, nella storia. Ciò implicherebbe un confine netto a separare i membri interni a una certa comunità e gli individui del tutto esterni, e dunque anche la possibilità di quantificare il numero dei membri. In un'ottica invece, "trascendentale", in cui per comunità si intenda non qualcosa realizzatasi in tutto e per tutto come tale, ma come vissuto coscienziale per cui diverse persone (magari anche lontane fra loro nello spazio e nel tempo), avvertono nel loro intimo il richiamo a dei valori comuni, allora bisognerebbe concludere che la comunità ha un significato non come "fatto, ma, "solo", come ideale regolativo, tendenza all'unità che però nel complesso concreto e storico delle relazioni umane convive con tendenze in senso egoistico e dispersivo. Se la comunità non si realizza mai pienamente in una storica associazione umana, ma è solo un elemento mescolato ad altri che orientano gli eventi in direzioni opposte, allora nessuna distruzioni di queste storiche associazioni umane comporterebbero una distruzione della comunità, che continuerebbe a esistere come spinta in interiore homine insufficiente a realizzare aggregazioni sociali esterne. Essendo le soggettività individuali la sua fonte, solo un mutamento interiore potrebbe estirpare lo spirito comunitario delle persone, non un accadimento fattuale. Questo punto rende ragione della differenza comunità-società nelle modalità poste da Tonnies e, in chiave fenomenologica, quindi proprio rifancendosi alla dimensione psicologica/spirituale degli individui, da Edith Stein. Proprio nel non realizzarsi mai pienamente come gruppo di persone nella storia, la comunità si differenzia dalla società: mentre la comunità, come sentimento di condivisione valoriale, è qualcosa sempre presente "più o meno" all'interno delle relazioni, dato che un sentimento è sempre più o meno intenso, la società, che necessita di una struttura organizzativa funzionale a realizzare dei precisi obiettivi, è frutto di un formale atto fondativo, un accordo, che si realizza puntualmente in un preciso istante e luogo, a partire da cui poter distinguere nettamente i membri da i non membri. Cioè, mentre la comunità è qualcosa entro cui si partecipa "più o meno" e dunque non si realizza mai compiutamente nella storia, la società è delimitata da un confine oggettivamente riconoscibile e dunque può identificarsi in pieno con una certa aggregazione storica (es. gli stati). Quindi, mentre una comunità non può mai essere in senso rigoroso distrutta, non essendo propriamente una realtà fattuale, può esserlo la società. 


Questa distinzione comunità-società intesa così dovrebbe anche condurre alla conclusione che il complotto sia prevalentemente una forma di relazione sociale, in quanto implica un accordo tra individui che si realizza in un determinato tempo e luogo, all'interno di un confine netto al di fuori del quale nessuno deve essere informato di tale accordo, necessitante di una certa attribuzione di ruoli diversi e costruito sulla base di un obiettivo comune, l'eliminazione della vittima designata, obiettivo non necessariamente motivato da comuni ideali, identità, visioni del mondo (motivi costitutivi della comunità): tutte prerogative attinenti la definizione di "società". Per quanto, si potrebbe aggiungere che anche in questo caso un certo substrato comunitario deve essere necessariamente presente: l'organizzazione di una congiura necessita di un atto di fiducia reciproco tra gli individui che ne fanno parte, accanto alla capacità di coinvolgere i propri complici facendo leva sulle loro motivazioni, dunque in certo senso anche alla loro sensibilità valoriale, tutti attributi della vita comunitaria. Pur mancando, quantomeno non essendo necessariamente richiesto, un comune sentire etico, il complotto presuppone un certo orientamento fra gli individui coinvolti verso la loro soggettività, per cui, in assenza di un livello minimo di conoscenza reciproca delle personalità individuali, l'intesa non potrebbe svilupparsi. Questa è la componente comunitaria presente all'interno di questo particolare sistema di relazioni, comunque prevalentemente identificabile come "società"
#43
Tematiche Filosofiche / Nulla e qualcosa.
01 Febbraio 2021, 17:50:00 PM
Il Nulla non può essere oggetto originario di un pensiero da cui poter derivare secondariamente l'Essere, in quanto, se da un punto di vista semantico-concettuale Essere e Nulla sono idee reciprocamente implicabili nel loro significato (il pensiero di uno implica l'altro e viceversa), dal punto di vista fenomenologico-intuitivo, cioè il punto di vista che considera il pensiero nella sua attività concreta e dinamica di apprensione della realtà, ogni atto di pensiero richiede sempre il pensare "qualcosa", cioè il pensare che ciò che sto pensando è qualcosa di altro dal Nulla, cioè il pensare l'Essere, cosicché l'idea dell'Essere è presenza necessaria e universale di ogni possibile pensiero. In un certo senso lo è anche il Nulla, in quanto il pensiero di un'idea implica anche la comprensione del significato dell'idea opposta, per avere il pensiero dell'Essere devo avere anche il pensiero del Nulla, ma, come detto, questa reciprocità vale dal punto di vista statico "formale" delle relazioni fra concetti, non da quello dinamico e psicologico degli atti di pensiero: l'Essere è una nozione costantemente oggetto di un atto, di un'intuizione della mente: quando penso a un albero, a una pietra, a una persona, penso anche che questi enti sono "qualcosa", oggetti in qualche modo determinabili con delle proprietà da attribuire nei giudizi, qualcosa di diverso dal Nulla, cioè il pensiero di questi enti è sempre fondato e accompagnato dal pensiero dell'Essere come categoria onnicomprensiva. Da questo punto di vista, mentre il pensiero del Nulla, pur implicato in quello dell'Essere, può essere visto come frutto di un'astrazione derivata, per cui penso l'Essere, e poi, per negazione, penso anche il suo opposto, il pensiero dell'Essere è un pensiero diretto, in quanto l'Essere è proprietà  che cogliamo come costantemente presente nelle cose che sono oggetti concreti degli atti di pensiero nella nostra esperienza storica: in sintesi, si può dire che mentre il pensiero del Nulla è una deduzione che esplicita un concetto implicito nell'Essere, un suo corollario, per quanto in rapporto di opposizione, l'Essere è oggetto di un'intuizione diretta, in quanto presente in ogni oggetto che il pensiero concretamente apprende. L'Essere è contenuto dell'intelletto, intuitivo e immediato, il Nulla è contenuto della ragione mediatrice.


Il vuoto di cui parla la fisica, mi pare possa essere inteso in due modi, o come un'approssimazione per indicare uno spazio di cui non si riesce provvisoriamente a indagarne i contenuti, oppure nello stesso senso in cui si intende filosoficamente il Nulla. Nel primo caso non si può parlare di coincidenza tra vuoto e Nulla, dato che il "vuoto" indicherebbe un'assenza che non è reale, ma solo espressione di un provvisorio limite del nostro sapere sulla realtà, (esattamente come il "caso"...), mentre il Nulla dovrebbe essere opposizione reale ed assoluta all'Essere, non un Essere non ancora riconosciuto come tale. Se si invece si vuole far coincidere pienamente i due concetti allora, mi pare, va da sè, che anche il vuoto della fisica risponda alle stesse caratteristiche che in sede filosofica sono attribuibile al Nulla, nei modi in cui ho provato a parlarne prima. In quanto determinazione del pensiero umano, la fisica come ogni altra scienza segue i princìpi necessari del pensiero, individuabili filosoficamente, compresa per l'appunto l'universalità della presenza dell'idea dell'Essere come fondatrice di ogni altro pensiero e di ogni concettualizzazione, e nessuna scoperta fisica può detronizzare questi princìpi senza che la stessa razionalità soggetto della scoperta finisca con l'invalidarsi.




#44
Sempre più comune è la moda, soprattutto mediatica, di utilizzare una terminologia bellica nei discorsi che si riferiscono alle gravi malattie nelle quali le persone incappano. Il malato è presentato come "guerriero" che deve "combattere" la sua "battaglia" contro la malattia. In questo sempre più frequente atteggiamento linguistico si nascondono alcuni aspetti di una mentalità che meriterebbe quantomeno di essere oggetto di una sana critica. Il punto focale di questa mentalità, il più evidente, è una certa sovrastima della rilevanza della forza di volontà, della volontà di vivere, come fattore determinante il raggiungimento o meno della guarigione: definendo il malato come "guerriero",  si vuole lasciare intendere che, quanto più la "volontà di vivere" del paziente sia forte, tanto più aumenta la possibilità di "vincere la battaglia", di guarire. Conseguenza di ciò, chi muore, è perché "non ce la fatta", ha "perso la battaglia", perché magari, tutto sommato, non aveva abbastanza forza e voglia di vivere. Oltre a essere un concetto irrispettoso e offensivo per i morti, è evidente che, al di là della retorica volta all'incoraggiamento, funzionale per molti malati a non lasciarsi oltremisura abbattere e demotivare nelle loro attività quotidiane, ad essi si tende ad inculcare, tramite condizionamento linguistico, un eccessivo peso e senso di responsabilità, attribuendo alla loro volontà un esito della malattia nei cui confronti, realisticamente, hanno un peso ben maggiore il destino, l'entità della malattia, la qualità delle cure mediche. E mi pare evidente come tutto questo addossare la responsabilità del loro stato di salute a pazienti, rischi di produrre uno stress dovuto all'assumere se stessi come protagonisti del loro destino, che in persone che vivono situazioni così estreme può rivelarsi psicologicamente controproducente. Connesso a tutto ciò, c'è la proposizione in chiave moralista di un certo modello antropologico, da parte di chi tende a usare questo linguaggio militaresco, che si vuole subdolamente imporre, caratterizzato da  forza, coraggio, estroversione, le prerogative del "guerriero", posto come unico modello da seguire, a scapito della sensibilità, della ricettività, della timidezza, dello spirito contemplativo, che caratterizzano altri modelli di personalità, che in questo modo finiscono con l'essere quasi colpevolizzati, tacciati di arrendevolezza, come fosse colpa di chi in questi modelli caratteriali si riconosce, "la sconfitta", la morte. Più in generale si propone un'antropologia nella quale sembra venir meno la componente, fondamentale, della finitezza ontologica, il malato-guerriero incarna una concezione dell'essere umano che sembra potenzialmente invincibile, i cui momenti di debolezza e di sofferenza, anziché riconosciuti come dimensioni interne e connaturate, sono espressioni accidentali della malattia, un nemico esterno da combattere, l'esercito nemico che, per l'appunto, accidentalmente si è insediato nella cittadella del corpo, ed ora occorre raccogliere tutte le nostre forze per ricacciarlo (antesignana di questo approccio mentale/linguistico può esser considerata Oriana Fallaci, che definiva il suo tumore "l'alieno"). La fragilità, invece di essere riconosciuta come dimensione costitutiva dell'umano, diventa una colpa da condannare in nome del modello del guerriero che per vincere non può permettersi debolezze. Se per un aspetto questa retorica ha quantomeno il merito di recuperare un margine di autonomia dello psichico e dello spirituale all'interno dell'antropologia, per cui il malato cessa di vedersi come "ridotto" alla sua malattia, cioè ha la possibilità di essere, seppur secondariamente rispetto al lavoro dei medici, poter contribuire psichicamente al suo percorso di guarigione, dall'altro questo  ruolo dello psichico e dello spirituale, della volontà, viene per un verso come sopravvalutato ed esasperato, conducendo la persona a individuare un modello di personalità irrealistico, che per ottenere la guarigione "basta volerlo veramente", nei cui confronti svalutare l'effettiva realtà imperfetta della sua vita, sempre in buona parte in balia di fattori non dipendenti dalla sua forza di volontà, dall'altro viene moralisticamente identificato come qualcosa da orientare verso un certo tipo di approccio alla malattia posto come l'unico "corretto possibile" sulla base di un aderire a una tipologia caratteriale che non può e non deve essere la stessa per tutti.
#45
Tematiche Spirituali / E' una questione di percezione.
05 Gennaio 2021, 22:54:10 PM
La domanda che si pone Freedom all'apertura della discussione pone la stessa questione che mette in dubbio la validità della pretesa del materialismo di legittimare la propria visione del mondo, per cui l'esistenza nel suo complesso coincide con tutto ciò di cui si può avere una percezione sensibile, in quanto qualunque discorso circa l'esistenza nel suo complesso non può mai fondarsi sull'esperienza sensibile, che è sempre esperienza di singoli oggetti che entrano a contatto con i campi percettivi corporei, e non della realtà nel suo complesso, comprendente anche oggetti non attualmente esperiti fisicamente. La tesi di questo tipo di materialismo è impossibile da fondare a partire da ciò che, sempre secondo esso, è l'unico possibile canale di accesso all'esperienza della realtà, l'esperienza sensibile. Di qui la contraddittorietà di rigettare la validità della conoscenza metafisica e al contempo di formulare una tesi che presume di giudicare la realtà nella sua totalità, ricadendo in un'approccio metafisico, in quanto riferito all'idea, intelligibile e non sensibile, di "totalità".