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Messaggi - Koba

#301
Tematiche Spirituali / Re: La morte del corpo fisico
28 Aprile 2024, 10:32:14 AM
Vale la pena riflettere sull'argomentazione presente in tanta teologia cristiana (e presente in questo topic) secondo cui tutti hanno una fede, quindi non ci si deve fermare all'apparente contrapposizione tra chi ne ha una, di fede, e chi no.
L'argomentazione in realtà include implicitamente due temi diversi:
1) si tratta innanzitutto per il cristiano di convincersi che la propria fede non è poi così assurda, dal momento che tutti credono in qualcosa; e se poi rivolgiamo la nostra attenzione al fine di essa anziché sul contenuto, che per il cristiano è l'edificazione del Regno già ora su questa terra, non si può che concludere sull'opportunità (per gli effetti concreti di un armonioso intreccio di finito e infinito nelle realizzazioni della comunità), addirittura sulla ragionevolezza, di un abbandono in essa;
2) il secondo tema è invece la lotta all'idolatria: se smetto di credere nel Dio invisibile finisco per sviluppare devozione in un idolo terreno (ricchezza, sesso, etc.), con conseguenti e inevitabili effetti distruttivi su di me (che ricerco me stesso nell'idolo, che vedo nell'idolo la mia verità), e sulla comunità.
L'alienazione che dipendeva dalla lontananza infinita del Dio invisibile, e che l'idolo invece con la sua vicinanza apparentemente cancella, viene sostituita ora da una forma di degradazione simile all'ottundimento del tossicodipendente. Appunta la dipendenza assoluta, come se fosse una questione di vita o di morte, della presenza o del godimento dell'idolo.

Tuttavia, già il punto 1) non regge. Non è vero che tutti hanno una fede in qualcosa. Le persone credono essenzialmente in ciò che il proprio ambiente passa come reale, concreto. Ciò che ha valore, in modo evidente. Il senso comune.
Ecco perché ci deve essere una conversione (religiosa o filosofica): un'inversione rispetto a tutto ciò che veniva sentito come vero prima, e che evidentemente, a un certo punto, deve apparire dolorosamente insufficiente.
Non si può propriamente dire che ad una fede ingenua e inconsapevole se ne sostituisce una più complessa e profonda. Semplicemente si inizia a pensare, a riflettere. Si abbandona l'apparente ovvietà del senso comune.
Quindi, concludendo, direi che la tendenza a smussare l'assurdità (rispetto alle certezze del senso comune) del proprio itinerario è una debolezza, è segno del fatto che, al di là della retorica interna alla comunità religiosa che prova a rassicurare se stessa, in verità la lacerazione tra Regno e mondo comune è sempre bruciante, è sempre problematica e irrisolvibile.
#302
Citazione di: green demetr il 23 Aprile 2024, 08:39:58 AMSulla coscienza infelice: sono d'accordo è proprio questo il punto che immaginavo Hegel trattasse. Che come il soggetto non può mai riconoscersi come tale, per cui è costretto a pensarsi parte dello spirito.
Così speravo che intendesse dire che non si riconosce nemmeno in Dio.
Per cui si può riconoscere come pura anima, puro desiderio.
Puro desiderio erotico, puro desiderio trascendente.


Potremmo dire che l'oscillazione è tra la coscienza della propria finitezza e la tenace e istintiva aspirazione all'infinito, nel senso di aspirazione ad un pieno appagamento, al vero bene, mai raggiunto.
Il destino, dice Hegel nei suoi scritti precedenti la Fenomenologia, è la consapevolezza che questo contrasto alberga nel fondo della propria interiorità, la consapevolezza che questo contrasto è quasi l'essenza del proprio Sé, percepito però come nemico.
"Il destino è la coscienza di se stesso, ma come d'un nemico": le sue parole esatte.
Nel tentativo di sciogliere questo conflitto si passa all'azione, diciamo così, producendo la storia. E nell'azione l'Altro, che inizialmente era percepito come puro ostacolo, come la realtà che fa da barriera, viene riconosciuto come costituito di una sostanza comune al Sé.
L'inizio della riconciliazione tra singolare e universale: tema che nella Fenomenologia viene continuamente ripreso su vari livelli, dal piano gnoseologico a quello, successivo, dell'etica.
Da qui per esempio le analisi sulla Città antica, in cui il singolo è già fin dall'inizio tutt'uno con lo spirito del suo popolo, anche se in modo inconsapevole. Sulla tragedia antica, sul passaggio drammatico tra legge divina e legge umana (Antigone), etc. Come un lungo processo di comprensione di se stessi. Appunto, autocomprensione dello spirito.

Tu dici: riaccendere il desiderio! Sicuramente, ma il desiderio, che si tratti di un eros carnale o di un desiderio per la trascendenza (per Platone si tratta solo di gradazioni diverse di purezza dello stesso eros), il fine non è forse sempre quello della totalità, dell'unità? (altra idea di Platone...). Del superamento dell'accidentalità del singolo, della sua finitezza, della sua alienazione, con l'approdo nella certezza di una verità superiore, che sia sostanza, materia comune, del Noi, e non solo verità frammentaria dell'Io?

Per quanto mi riguarda non provo alcun entusiasmo per il Noi...
Ma l'interesse per Hegel, dal mio punto di vista, non sta nelle sue soluzioni, quanto nelle questioni poste, nella ricchezza dei temi affrontati. Basta confrontare la sua Fenomenologia allo stile laconico del Tractatus di Wittgenstein, il quale essendo un testo di riferimento della filosofia contemporanea ci dice quanto il nostro tempo abbia perso in coraggio e, diciamo pure, in sfrontatezza nel pensare.
#303
Estratti di Poesie d'Autore / Re: Ubriacatevi
19 Aprile 2024, 18:05:39 PM
"che farei senza questo mondo senza faccia né domande
dove essere non dura che un attimo dove ogni istante
si versa nel vuoto nell'oblio di essere stato
senza quest'onda dove alla fine
il corpo e l'ombra sprofondano insieme
che farei senza questo silenzio fossa dei bisbigli
ansimante furioso verso il soccorso verso l'amore
senza questo cielo che si alza
sulla polvere delle sue zavorre

che farei farei come ieri come oggi
guardando dal mio oblò se non sono solo
a errare e girare lontano di ogni vita
in uno spazio burattino
senza voce tra le voci
chiuse con me"

[Samuel Beckett, "Poesie", Einaudi 1980]
#304
Citazione di: green demetr il 17 Aprile 2024, 21:51:20 PM[...] E però se il buon Hegel nel primo capitolo era stato niente di meno che geniale che immettere una domanda fondamentale per questa ricerca fondamentale: ossia come l'autocoscienza si "giustifica", [...] come l'io inteso come anima, si possa riconoscere come tale.


Sì, la domanda implicita che determina tutto l'itinerario della coscienza è: come fa la coscienza a conoscersi come spirito (tu dici anima, Hegel dice spirito). La fenomenologia è la descrizione di questo itinerario del soggetto verso la sua verità, che è appunto riconoscersi come spirito assoluto, spirito oggettivo, nell'ambito di una concezione filosofica idealista in cui pensiero ed essere sono lo stesso.
Prendiamo per esempio la prima parte della sezione Ragione. Hegel, nella sezione precedente ha mostrato i limiti dell'autocoscienza, con le famose figure della dialettica servo-signore e della coscienza infelice.
In questa prima parte la riflessione del soggetto, dopo le esperienze di separazione, di lontananza dall'Essere, da un Dio pensato come il tutto di fronte al sentimento di nullità di se stessi, capisce finalmente che nell'osservazione del mondo non fa che ritrovare se stesso. E in effetti studiare la natura significa ritrovare un logos, un'evoluzione organica: "cose", in fondo, umane, cose attinenti la razionalità umana.
Tuttavia la ragione che osserva e studia la natura è come se si dimenticasse nell'oggetto osservato fino al paradosso di convincersi di avere ritrovato l'essenza dell'uomo in un osso (la conclusione comica della frenologia: "lo spirito è un osso"; ma ai nostri tempi si potrebbe dire qualcosa di analogo con le neuroscienze...).
Da questa delusione, dalla consapevolezza che lo studio scientifico non potrà mai dirci chi siamo, si passa all'azione. Faust che nauseato dalla sua scienza decide di agire nel mondo sociale. Per godere, amare, etc.
L'individualismo moderno e i suoi limiti.
Poi altre tappe, probabilmente per noi irricevibili: l'etica della propria comunità, del proprio popolo, la religione etc.

Considerazione da sviluppare: la figura della coscienza infelice è posta a metà del cammino: che sia invece per noi il centro? Il tema più intimo? Dove scovare realmente la verità del nostro spirito?

Oltre a Hyppolite c'è un altro autore che promette una lettura comprensibile del testo di Hegel, non una sua libera interpretazione, ma, almeno nelle intenzioni, una "traduzione" da un Hegel criptico ad un Hegel comprensibile, ed è Terry Pinkard ("La Fenomenologia di Hegel. La socialità della ragione", Mimesis).
Ma devo ancora leggerlo. Il lavoro, questa assurda calamità, si prende quasi tutto, mi rimane veramente poco tempo e pochissima energia... già questo, tornando a Hegel, è una confutazione della sua dialettica servo-signore: con il servizio, con la dedizione del lavoro non ottieni alcuna libertà, solo un riconoscimento provvisorio, che ogni giorno può essere ritrattato, perché il lavoratore, essendo pensato come una macchina da chi controlla e gestisce i processi, non ha mai una storia individuale, le macchine non hanno una storia, così un calo di performance è un'anomalia che va giustificata, anche se preceduta da dieci anni di ottime performance...
Ma alla fine ho il denaro per fare vacanze che non voglio fare, o per acquistare oggetti che non mi servono...
Un mondo di individui infelici, i più fortunati con una vita privata che dà conforto, ma che non basta. Tutto un sistema costruito per la ricchezza assurda e insensata di una minoranza. Il concetto di aristocrazia non morirà mai...
#305
Citazione di: Duc in altum! il 08 Aprile 2024, 15:21:52 PM[...] il perdono come unità nelle diversità
Espressione sintomatica: in altre parole la diversità è qualcosa che deve essere perdonato, in modo che i portatori di tale diversità si possano sentire un po' più accettati, e i normali invece si possano sentire generosi e buoni.
#306
Citazione di: green demetr il 31 Marzo 2024, 23:32:19 PMHo iniziato purtroppo la seconda parte della fenomenologia: si parla di forza.
Ma la forza di cui parla, sottrazione all'universale, al tutto, in favore del singolo, è semplicemente sbagliata.
Infatti si riferisce ad un idea meccanicista del mondo, dove l'universo è chiuso.
Ma l'universo è aperto, e non esiste una forza generale, la gravità nel mondo piccolo non esiste. Esistono altre forze.
A ogni grado entropico agiscono forze differenti.

Hai frainteso. Nel capitolo dedicato all'intelletto e alla forza Hegel analizza e critica l'approccio scientifico, proprio quella visione meccanicistica della natura che tu gli imputi.
L'andamento della fenomenologia è sempre lo stesso: si procede di gradino in gradino, e in ogni "stazione" si prende consapevolezza dei limiti della conoscenza che inizialmente sembrava appagante.
Per esempio nel primo capitolo sulla Certezza sensibile se all'inizio il soggetto pensa di avere la verità della cosa che gli sta di fronte in modo immediato, poi prende consapevolezza del fatto che questa verità si dilegua in un continuo mutamento (quando il soggetto si gira, o quando passa del tempo), e ciò che gli rimane è l'universale vuoto del qui e dell'ora.
Da lì si va poi al capitolo della Percezione tenendo inizialmente ferma la convinzione che la conoscenza sia basata sugli universali, per poi prendere atto dei limiti di questa posizione.
E via dicendo.
In particolare alla fine del capitolo della percezione l'aporia era come tenere insieme l'oggetto quando esso ci appare come una serie di determinazioni diverse quali (facendo l'esempio del sale utilizzato da Hegel stesso): "bianco" ma anche "sapido" ma anche "a grani" etc. Determinazioni tenute insieme da quell'anche.
Così nel capitolo dell'intelletto con l'approccio scientifico, con le leggi di natura, il soggetto si affanna a cercare di risolvere tali aporie con l'unità formale della legge.
Ma, ad essere sinceri, le argomentazioni del capitolo sono più criptiche del solito...
Comunque sul senso complessivo di questo capito scrive Jean Hyppolite: "Hegel rimprovera dunque il formalismo dell'intelletto di negare la differenza qualitativa in un'astratta formula di conservazione. In particolare si può sottolineare che egli non crede alla fecondità delle equazioni matematiche. [...] Un linguaggio formale incapace di trattenere nella rete delle sue equazioni la differenza qualitativa." (Genesi e struttura della Fenomenologia dello Spirito, p. 201).

E bisogna ricordare che qui, nel capitolo dell'intelletto, siamo solo alla terza parte della Coscienza. Poi ci saranno le tre parti dell'Autocoscienza, a cui seguiranno le tre parti della Ragione, dove si conclude questo itinerario di iniziazione alla filosofia, dal senso comune a quella che per Hegel è la verità assoluta.

Devo dire che in generale rimango sempre un po' perplesso dalla tendenza, presente in quasi tutti i filosofi, di confondere la legittima convinzione di una certa posizione con la sua necessità.
C'è qualcosa che non torna a livello di sincerità con se stessi.
#307
Il perdono era importante quando ancora esisteva la comunità. Per la pace della comunità.
Da qualche secolo è un tema secondario.
In fondo se io faccio del male a una persona, che questa mi perdoni o no, non cambia nulla rispetto al cammino di espiazione che mi attende.
Che avvenga tale cammino, e che in questo cammino il mondo che credevo vero si ribalti in quello apparente, e quello apparente in quello vero, come nel Vangelo e come in ogni filosofia non schiacciata sulla legittimazione del presente, è questo ciò che conta.
#308
Citazione di: Ipazia il 31 Marzo 2024, 10:23:20 AMMettendo i fattori nell'ordine corretto: l'omologazione e l'adattamento sono l'instrumentum regni per (far) fare cose ignobili conservando la pace interiore.
A tal proposito sempre utile richiamare quanto detto da Steven Weinberg:
"La religione rappresenta un insulto alla dignità umana. Con o senza di essa, ci sarebbero sempre buoni che farebbero il bene e cattivi che farebbero il male. Ma perché i buoni facciano del male, occorre la religione."
La religione, ovvero la forma più antica di omologazione. Ma vale anche per le ideologie non religiose, quando acquistano consistenza politica omologante.
L'arcivescovo Arnaud Amaury era sicuramente in pace con se stesso quando decretò il massacro di tutti gli abitanti di Bèziers, col sublime e corretto argomento teologico che tanto Dio sapeva quali erano i suoi e quali, gli eretici, di Satana:
" Cedite eos. Novit enim Deus qui ejus sunt".
Anche Adolf Eichmann era in pace con se stesso quando faceva viaggiare in orario i treni verso Auschwitz. E rimase tale fino alla fine, reclamando la sua innocenza. Si sarebbe sentito meno in pace con se stesso se i treni non arrivavano in orario.
La fallacia della tesi risulta pure dal fatto di essere stata rilevata da due partecipanti al forum che sulla visione del mondo e dell'oltremondo hanno opinioni opposte.

"Ideologia è essenzialmente un falso rapporto con la verità, cioè con la ricerca di verità" (Roberta De Monticelli).
Certamente la religione può essere ideologia, così come può esserlo l'ateismo.
Aderire ad un'ideologia da pace perché ci si sente nel giusto.
Ma la Arendt in "La banalità del male" voleva indagare qualcos'altro, non il male commesso dall'accecamento ideologico, ma quello perpetuato da coloro, non necessariamente entusiasti sostenitori di Hitler, che si limitavano a fare bene il proprio lavoro, per quanto il proprio lavoro fosse per esempio occuparsi dell'approvvigionamento delle sostanze chimiche per le camere a gas dei campi di concentramento.
È questo fatto, l'adesione alla propria funzione all'interno di un sistema amministrativo e produttivo, senza che nello stesso tempo si abbiano perplessità sul fine di tale sistema, sul senso complessivo del sistema, è questo fatto, dicevo, a destare stupore.
Un'omologazione alla propria funzione, al compito assegnato, con la sola preoccupazione che tale compito venga portato a termine nel migliore dei modi. Questo è il mistero dell'uomo senza immaginazione, che legge Goethe e ascolta Mozart, che disdegna la violenza delle SS, e che ha la coscienza a posto perché ha lavorato bene, anche se il suo lavoro consiste nel far funzionare a pieno regime Auschwitz.
#309
Citazione di: Alberto Knox il 30 Marzo 2024, 20:43:30 PMl'idea di giustizia e l'idea di Bene nella concezione di Platone sono inseparabili poiché la giustizia è il configurarsi delle cose in un ordine globale e strutturale tale da rispecchiare il Bene.

E poi c'è l'esperienza del valore, cosa significa fare esperienza del valore? significa sentire (e non capire) che tu sei importante ma c'è qualcosa di più importante di te. La natura è più importante di te,  il bene comune è più importante di te, la famiglia,il contesto sociale. C'è qualcosa di più importante del tuo essere particolare, del tuo singolo torna conto, del tuo interesse. Se non si ha questa esperienza e si pensa di essere se stessi la cosa più importante che c'è non si hanno le condizioni per il nascere dell etica. Si avrà la condizione per il nascere del diritto, ma non dell etica.
E poi l'esperienza della libertà che significa che tu questo sentimento del valore lo puoi seguire oppure no, non c'è imposizione, c è libertà.  SE la tua libertà si determina a favore del valore, allora hai che un pilastro si lega all altro ed ecco l'arco  dell etica. Questo è per me il fondamento del darsi dell etica.
 

Dai per scontato, senza argomentare, che in ogni valore morale sia implicita la priorità del plurale sul singolare, del comune sul privato.
Su che cosa si baserebbe tale priorità?
Non si tratta di una priorità ontologica dell'universale sull'individuale, perché qui abbiamo in realtà pluralità contro singolarità.
Più la pluralità è ampia e maggiore è la sua importanza?
Allora aveva torto Antigone a pretendere la sepoltura del fratello, perché la famiglia, seguendo questo ragionamento, pur contando più del singolo membro, conta meno della città, essendo meno "comune"?
E perché il bene del singolo dovrebbe essere solo tornaconto, interesse meschino. Il mio bene è pieno sviluppo del mio essere, delle mie facoltà. Non vedo perché dovrei sacrificare tutto questo per la prosperità della società in cui vivo.
La stessa cosa avrebbero potuto rispondere gli schiavi che producevano i beni per il mantenimento della polis greca: che ce ne facciamo dell'armonia della polis se noi intanto siamo condannati ad un lavoro che ci abbrutisce?

Anche ripensando al suggerimento di Phil di intendere la relazione e non l'"ente uomo" come l'oggetto dell'etica, mi sembra che comunque sia inevitabile esprimersi sulla natura umana, quindi nell'ambito di un punto di vista filosofico complessivo.
A meno di volersi accontentare di fare una semplice descrizione di come si comportano le persone.
O come fa Ipazia attaccandosi ad un fantomatico rigore scientifico dell'antropologia...
[L'antropologia nel suo procedere non ha nulla di scientificamente rigoroso, per la semplice ragione che ogni approccio antropologico presuppone una specifica concezione della natura umana e una specifica soluzione del problema dell'osservazione e dell'interpretazione del suo oggetto (l'antropologo che osserva, documenta e interpreta i costumi di una determinata popolazione, partendo dalla sua identità, dalla sua cultura, ottenendo così una rappresentazione non si sa quanto distorta da ciò che l'antropologo appunto si porta dietro)].
#310
Il punto è che ormai non c'è modo di influenzare le politiche degli stati, nemmeno nelle nostre democrazie occidentali. Le quali si differenziano dagli stati non democratici essenzialmente per il mantenimento dei diritti civili, non per l'efficacia della delega del potere dal cittadino al suo rappresentante politico.
Per cui anche se i cittadini europei continuano fortunatamente a godere di ampie libertà, non sono più nelle condizioni di contare qualcosa nel governo delle comunità.
Se il meccanismo delle elezioni venisse abolito e instaurato al suo posto un'alternanza automatica ogni cinque anni di due schieramenti politici composti da partiti come quelli esistenti, lasciando la scelta dei deputati alle segreterie, e quella dei segretari agli iscritti dei singoli partiti, ebbene, non cambierebbe nulla. Non ce ne accorgeremmo neanche...

Per questo motivo la tendenza più naturale è quella proposta da AspiranteFilosofo, quella di un'introiezione, esattamente come nell'antichità con l'emergere dei grandi imperi e la fine della polis. La riflessione si fa spirituale, la vita interiore e i suoi labirinti sostituiscono le preoccupazioni sulle forme di governo e sulle guerre.
Con il pericolo però che questa pace interiore nasconda semplice egoismo o pigrizia.
Questo è il dubbio che deve essere sciolto. Come? Forse una risposta potrebbe venire dall'analisi degli effetti. Se la mia pace interiore non produce alcun effetto, alcun cambiamento nelle relazioni (mie e di quelli che mi stanno attorno), se tutta la differenza sta in una certa serenità interiore mentre il mondo esterno continua a sembrarmi l'inferno da cui proteggermi, allora forse si tratta di semplice chiusura egoistica, di meschinità.

"In quella notte di luce cominciò il terzo periodo della mia vita, il più bello di tutti, il più ricolmo di grazie celesti... Sentii, in una parola, la carità entrarmi in cuore, il bisogno di dimenticarmi per fare del bene, e da allora fui felice!". [Teresa di Lisieux, "Storia di un'anima"]
#311
Citazione di: Ipazia il 27 Marzo 2024, 13:20:27 PMNon mi sono espressa compiutamente, evidentemente: per "realismo" moderno intendo una visione post-rem, quindi il contrario del realismo scolastico, platonismo e "essenze eterne", ma solo una convenzionale categorizzazione della realtà. Basata su caratteristiche oggettive, quali il dna, organico-inorganico, struttura chimica della materia, ma pur sempre ordinate convenzionalmente in strutture linguistiche post-rem.
Il realismo in filosofia ha un significato specifico e assai diverso da quello che ha nel senso comune.
Il realismo ritiene di poter esprimere la struttura oggettiva della realtà; quindi il suo operare non può essere descritto come "convenzionale categorizzazione".
Naturalmente i concetti che decide di usare per descrivere le forme oggettive della realtà sono evidentemente segni linguistici convenzionali, ma questi segni rimandano a forme oggettive, e tali forme si trovano sia nella realtà che nella testa del ricercatore, diciamo così.
Convenzionali sono le parole "dna" o i segni della formula chimica di esso e via dicendo. Ma l'idea di dna, della sua struttura generale, no.
Per questo motivo il realismo moderno è affine a quello medievale, ed entrambi sono affini al platonismo. Perché rimandano a forme originarie, a essenze vere della realtà.
Mentre l'anti-realismo, che a sua volta rimanda al nominalismo, esprime una convenzionalità forte nel senso che al di là dell'ovvia arbitrarietà dei segni linguistici utilizzati, i suoi contenuti sono modelli esplicativi che hanno solo la pretesa di essere strumenti utili alle previsioni e alle manipolazioni, non certo la capacità di rimandare alle forme autentiche della realtà.
#312
Citazione di: Ipazia il 27 Marzo 2024, 10:36:42 AMLa confusione diventa inestricabile quando si coinvolge l'etica in una diatriba che dovrebbe essere essenzialmente epistemologica e non a caso la confusione ontologica è maggiormente presente nella visione neo-platonica ante-rem. Un buon motivo per essere nominalisti in senso scolastico e realisti in senso moderno. Come Guglielmo di Baskerville:


Invece il realismo contemporaneo è perfettamente in linea con quello medievale e quindi con il platonismo. Infatti mettendo da parte la questione dell'esistenza iperuranica delle idee, la questione metafisica essenziale espressa dal platonismo è l'esistenza di una rete di universali che hanno priorità ontologica nei confronti delle cose. In questa prospettiva, nell'ascesa al sapere, il soggetto non arriva alla verità tramite generalizzazione dell'esperienza, ma scoprendo nelle cose reali il loro approssimarsi imperfetto alle essenze eterne.
Il realista ingenuo dei nostri giorni non capisce che se la verità della cosa, essendo espressa da un concetto universale, non viene formata dal soggetto (come in Kant dalle forme a priori, o come nel relativismo dallo sviluppo della cultura), deve essere costituita da qualcosa di essenziale che c'è già da sempre nella cosa.
Il nominalismo medievale è invece in linea con posizioni epistemologiche alla Feyerabend, per intenderci.

Questa non è una disputa solo epistemologica. Riguarda l'essenza della realtà, quindi anche l'essenza della realtà umana, quindi, necessariamente l'etica.
Infatti alla domanda "cos'è la giustizia?" le risposte si differenziano innanzitutto a partire da come si intende tale concetto: qualcosa che ha un fondamento eterno, indipendente dalla storia, attinente l'essenza dell'umanità, o al contrario nozione da costruire in uno sforzo necessariamente influenzato dal proprio tempo e dalla propria civiltà.

Citazione di: Ipazia il 27 Marzo 2024, 10:36:42 AMSecondo me il nodo da sciogliere sta nel dualismo tra universo naturale e antropologico, formato intorno allo strumento tecnico del linguaggio.

Spiega meglio, per favore.
#313
A proposito di universali.

La questione di che cosa sia l'universale, se essenza eterna realmente esistente o semplice segno senza vera sostanza (se non quella di essere parola nel linguaggio e immagine mentale nell'attività del pensiero), è stata ampiamente trattata nel medioevo.

Si distinguono tre posizione: quella realista, quella nominalista e quella che si può definire realismo moderato.

La posizione realista (platonica) sostiene l'effettiva realtà degli universali.
Quella nominalista (Roscellino di Compiègne) sostiene che a esistere nella realtà siano solo le cose singole, particolari, e che gli universali siano ingiustificate semplificazioni della realtà concreta. Quindi la conoscenza, che per sua natura è attinente ai caratteri generali delle cose, è arbitraria, impossibilitata nel dare una rappresentazione della realtà.
Infine la posizione del realismo moderato (Abelardo): a esistere è solo l'individuo, ma la razionalità umano è in grado di analizzare (le diverse caratteristiche della cosa singola) e raggruppare (diverse cose singole sotto la stessa specie). Su questa operazione di raggruppamento hanno origine gli universali. Ne consegue che la conoscenza generica restituisce qualcosa di effettivamente reale, inerente le cose singole.

Una versione contemporanea di questa disputa la si può vedere in epistemologia: realismo contro antirealismo.
Infatti il realismo attuale in ambito scientifico sostiene che la rappresentazione che il ricercatore si fa di un fenomeno corrisponde a qualcosa di reale: la legge scientifica riporta tramite segni linguistici la vera struttura della realtà, che quindi va scoperta, non ricreata in modo seppur arbitrario comunque funzionale alle manipolazioni tecniche successive.
#314
Citazione di: green demetr il 23 Marzo 2024, 16:54:26 PMCome fattomi notare recentemente dal mio maestro, Aristotele è nemico di Platone.
E' evidente fin dall'inizio laddove Platone parla di morale, laddove quello di enti e sostrati.

Ora non so se Hegel sia l'ennesimo allievo di Aristotele.
Nè cosa intenda per idea Platone.
L'unica cosa che so è che non è quello che dice Aristotele e dunque dell'intera industria culturale.
Platone è il nemico invincibile dell'oggi.
[...]
Platone non ha alcuna esigenza che non sia morale.

Non è vero. Platone si occupa di tutti i problemi della filosofia (teoria della conoscenza, natura del sapere, vera struttura della realtà, interpretazione del linguaggio, politica e morale).
Basterebbe dare un'occhiata ai grandi dialoghi dialettici della maturità (Sofista, Parmenide, Politico).
Al limite si potrebbe dire, semplificando, che la motivazione profonda che ha condotto la costruzione di tutta la sua filosofia sia derivata dallo shock per la condanna a morte di Socrate. Quindi una riflessione sulla giustizia che ha alimentato il suo primo slancio filosofico.

Aristotele, come tutti i filosofi, è partito dal suo maestro per poi "superarlo" (almeno nelle sue intenzioni). Quindi la sua riflessione non può che essere impregnata di platonismo.
Così come quella di Fichte parte da Kant, e quella di Hegel da Kant, Fichte e Schelling, e quella di Marx da Hegel.
Che poi ciascuno presenti la propria soluzione come naturale, esprimendo al contempo imbarazzo per l'ingenuità delle idee del proprio maestro, non è di per se' significativo, è solo gioco polemico, cattiva educazione.

Citazione di: green demetr il 23 Marzo 2024, 16:54:26 PMPer quanto riguarda Feurbach, non conosce la sua critica, se è quella che ci hai detto, ossia che Hegel fraintende l'esperienza singola con quella universale, potremmo ragionarci sopra.
[...]
Ma l'inizio della filosofia non ha nulla a che fare con queste cose appunto.
Direi che invece il Platone aristotelico è già la fine della filosofia.


Il punto è che la Fenomenologia dello Spirito presenta l'itinerario della coscienza dell'uomo della strada dalle (apparenti) certezze del senso comune fino al sapere assoluto, all'episteme.
Hegel non fa come Cartesio che nel discorso del metodo fa iniziare il percorso del sapere da una decisione "teoretica": stanchi di vivere nell'incertezza si inizia a fare filosofia. Alla base c'è una decisione che il soggetto decide di prendere, consapevolmente.
Hegel vuole invece descrivere come la coscienza, senza essersi inizialmente posta alcun obiettivo, nella propria vita normale finisce necessariamente per percorrere tutto il cammino fino del sapere assoluto.
E il motore di questo inesorabile itinerario è la negazione, cioè la distruzione della certezza di ciascuno degli stati in cui inizialmente il soggetto pensava di avere trovato la sua verità.
Tuttavia, al di là dell'angoscia e dell'inquietudine per il fatto di continuare a morire a se stessi, la negazione di un errore (ciascuna di queste singole posizioni esistenziali, filosofiche) è pur sempre una verità, cioè apre a qualcosa di positivo.
Per questo si può dire che la verità per Hegel è processo, sviluppo, totalità, e non singola posizione, espressa da una singola proposizione.
#315
La "Fenomenologia dello Spirito" era stata pensata come un'introduzione alla filosofia (!), nel senso dell'itinerario della coscienza dal senso comune al sapere assoluto. La "Scienza della logica" descrive invece il sistema nella sua compiutezza. In un certo senso si può pensare che la verità filosofica contenuta nella Logica sia basata sulle dimostrazioni della Fenomenologia. Cioè la Fenomenologia dimostra i presupposti su cui poi si baserà la Logica.

Ora, proprio questo è il problema. Feuerbach contesterà il primo gradino della Fenomenologia, quindi l'infondatezza di tutto il sistema hegeliano.
Il primo gradino è la coscienza sensibile. Il suo oggetto è ciò che appare nell'immediatezza. Ciò che si manifesta qui e ora. La singolarità di ciò che appare.
Hegel vorrebbe dimostrare che già fin da subito ciò di cui la coscienza fa esperienza non è la singolarità ma l'universale.
Qui davanti a me vedo un albero. Mi volto e ciò che mi appare è una casa. E via dicendo. Tutto ciò che mi appare davanti è transitorio. Ciò che rimane è invece proprio la nozione del "qui", un "qui" generico che poi, via via, si riempie di singolarità impermanenti, ciascuna delle quali si identifica dalla negazione delle altre.

In altre parole, noi ci ritroviamo fin da subito con l'universale. Il linguaggio (uno degli argomenti presentati da Hegel) ci inchioda all'essenza generale, al concetto astratto. Sembrerebbe impossibile uscirne.
Ma ciò che si può contestare a Hegel non è la sensatezza di questo ragionamento, della sua posizione, ma la pretesa che tale itinerario sia necessario.
Infatti c'è necessità di questo passaggio solo in riferimento all'intenzione di costruire un sapere permanente. Nella sensibilità facciamo esperienza di cose singole, anche se poi esse svaniscono velocemente. Che poi per comunicarle dobbiamo necessariamente usare il linguaggio e quindi concetti astratti non significa che in tale immediata esperienza la singolarità che ci aspettavamo di incontrare si sciolga e svanisca necessariamente nell'universale.

Mi sto sbagliando?