Vale la pena riflettere sull'argomentazione presente in tanta teologia cristiana (e presente in questo topic) secondo cui tutti hanno una fede, quindi non ci si deve fermare all'apparente contrapposizione tra chi ne ha una, di fede, e chi no.
L'argomentazione in realtà include implicitamente due temi diversi:
1) si tratta innanzitutto per il cristiano di convincersi che la propria fede non è poi così assurda, dal momento che tutti credono in qualcosa; e se poi rivolgiamo la nostra attenzione al fine di essa anziché sul contenuto, che per il cristiano è l'edificazione del Regno già ora su questa terra, non si può che concludere sull'opportunità (per gli effetti concreti di un armonioso intreccio di finito e infinito nelle realizzazioni della comunità), addirittura sulla ragionevolezza, di un abbandono in essa;
2) il secondo tema è invece la lotta all'idolatria: se smetto di credere nel Dio invisibile finisco per sviluppare devozione in un idolo terreno (ricchezza, sesso, etc.), con conseguenti e inevitabili effetti distruttivi su di me (che ricerco me stesso nell'idolo, che vedo nell'idolo la mia verità), e sulla comunità.
L'alienazione che dipendeva dalla lontananza infinita del Dio invisibile, e che l'idolo invece con la sua vicinanza apparentemente cancella, viene sostituita ora da una forma di degradazione simile all'ottundimento del tossicodipendente. Appunta la dipendenza assoluta, come se fosse una questione di vita o di morte, della presenza o del godimento dell'idolo.
Tuttavia, già il punto 1) non regge. Non è vero che tutti hanno una fede in qualcosa. Le persone credono essenzialmente in ciò che il proprio ambiente passa come reale, concreto. Ciò che ha valore, in modo evidente. Il senso comune.
Ecco perché ci deve essere una conversione (religiosa o filosofica): un'inversione rispetto a tutto ciò che veniva sentito come vero prima, e che evidentemente, a un certo punto, deve apparire dolorosamente insufficiente.
Non si può propriamente dire che ad una fede ingenua e inconsapevole se ne sostituisce una più complessa e profonda. Semplicemente si inizia a pensare, a riflettere. Si abbandona l'apparente ovvietà del senso comune.
Quindi, concludendo, direi che la tendenza a smussare l'assurdità (rispetto alle certezze del senso comune) del proprio itinerario è una debolezza, è segno del fatto che, al di là della retorica interna alla comunità religiosa che prova a rassicurare se stessa, in verità la lacerazione tra Regno e mondo comune è sempre bruciante, è sempre problematica e irrisolvibile.
			L'argomentazione in realtà include implicitamente due temi diversi:
1) si tratta innanzitutto per il cristiano di convincersi che la propria fede non è poi così assurda, dal momento che tutti credono in qualcosa; e se poi rivolgiamo la nostra attenzione al fine di essa anziché sul contenuto, che per il cristiano è l'edificazione del Regno già ora su questa terra, non si può che concludere sull'opportunità (per gli effetti concreti di un armonioso intreccio di finito e infinito nelle realizzazioni della comunità), addirittura sulla ragionevolezza, di un abbandono in essa;
2) il secondo tema è invece la lotta all'idolatria: se smetto di credere nel Dio invisibile finisco per sviluppare devozione in un idolo terreno (ricchezza, sesso, etc.), con conseguenti e inevitabili effetti distruttivi su di me (che ricerco me stesso nell'idolo, che vedo nell'idolo la mia verità), e sulla comunità.
L'alienazione che dipendeva dalla lontananza infinita del Dio invisibile, e che l'idolo invece con la sua vicinanza apparentemente cancella, viene sostituita ora da una forma di degradazione simile all'ottundimento del tossicodipendente. Appunta la dipendenza assoluta, come se fosse una questione di vita o di morte, della presenza o del godimento dell'idolo.
Tuttavia, già il punto 1) non regge. Non è vero che tutti hanno una fede in qualcosa. Le persone credono essenzialmente in ciò che il proprio ambiente passa come reale, concreto. Ciò che ha valore, in modo evidente. Il senso comune.
Ecco perché ci deve essere una conversione (religiosa o filosofica): un'inversione rispetto a tutto ciò che veniva sentito come vero prima, e che evidentemente, a un certo punto, deve apparire dolorosamente insufficiente.
Non si può propriamente dire che ad una fede ingenua e inconsapevole se ne sostituisce una più complessa e profonda. Semplicemente si inizia a pensare, a riflettere. Si abbandona l'apparente ovvietà del senso comune.
Quindi, concludendo, direi che la tendenza a smussare l'assurdità (rispetto alle certezze del senso comune) del proprio itinerario è una debolezza, è segno del fatto che, al di là della retorica interna alla comunità religiosa che prova a rassicurare se stessa, in verità la lacerazione tra Regno e mondo comune è sempre bruciante, è sempre problematica e irrisolvibile.
