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Messaggi - davintro

#301
ho sempre avuto il forte sospetto che l'idea per cui intelligenza e felicità siano tra loro in antitesi sia una sorta di autoconsolazione per le persone, che siccome conducono una vita dove nel complesso la sofferenza e la negatività prevalgono sulle soddisfazioni (preferisco non parlare di "infelicità" dato che considero la felicità una condizione mondanamente irraggiungibile, a cui al massimo possiamo avvicinarci ma mai realizzarla compiutamente, quindi in-felici, chi più, chi meno lo siamo tutti), cercano motivo di conforto nell'orgoglio di sentirsi più intelligenti, o più in generale "migliori" rispetto agli altri, il cui benessere viene svalutato in quanto frutto di immaturità, non davvero meritato. Insomma, un po' come la favola in cui la volpe si autoconvince di schifare l'uva solo perché non riesce a prenderla. Questo è un atteggiamento che non mi sento di demonizzare, se riesce davvero a consolare persone (senza arrivare a portarle a rancore distruttivo verso gli "stupidi felici"...)che ne sentono il bisogno ben venga, però è chiaramente una falsificazione, un autoinganno. Al contrario, penso che l'intelligenza sia proprio ciò che occorre potenziare al massimo per avvicinarsi il più possibile alla felicità, intendendo l'intelligenza come la capacità, nei suoi diversi campi di applicazione, (ci comprendo anche l'intelligenza emotiva a cui va fatta riferire l'empatia, che sarebbe da intendersi come coglimento teoretico dei vissuti degli alter ego, e non come un sentimento morale o di affetto, e dunque ho trovato del tutto opportuna e condivisibile la precisazione in merito di Jacopus, il sadico che gode della sofferenza delle sue vittime è necessariamente un empatico) di risolvere problemi ed eliminare gli ostacoli che ci separano dal raggiungere i nostri obiettivi esistenziali, cioè ciò da cui facciamo dipendere il nostro benessere. All'idea che l'intelligenza possa essere foriera di frustrazione perché ci porta alla consapevolezza dei difetti dell'umanità, come l'ipocrisia o il conformismo, si può opporre l'idea che essa porti anche alla consapevolezza dei pregi, al riconoscimento dei talenti e delle qualità positive delle persone spesso nascosti, che magari restando in un'ottica superficiale non potrebbero emergere. Tutto dipende dalla componente di ottimismo/pessimismo presente nelle nostre visioni personali del mondo. Quindi mi pare che la questione in questo senso debba spostarsi dal rapporto intelligenza-felicità a quello ottimismo vs pessimismo, se sia più ragionevole l'una o l'altra impostazione, questione che mi pare molto problematica nel tematizzarsi in modo razionale, considerando il peso dei condizionamenti delle nostre esperienze vissute e dei nostri stati d'animo contingenti che finiscono con l'essere inevitabilmente chiamati in causa
#302
Varie / Re:Pranzo di Natale
23 Dicembre 2018, 16:54:50 PM
da marchigiano che passa molta parte del suo tempo in Umbria, noto una certa vicinanza geografica con molti utenti, ne approfitterei per un saluto, e ... chissà magari potrebbe persino esserci capitato di incontrarci in giro senza saperlo... sarebbe buffo!
#303
Varie / Re:Pranzo di Natale
22 Dicembre 2018, 14:43:56 PM
complimenti a Sariputra per questo piacevolissimo topic, e ringrazio Sgiombo per l'invito!

Non farei liste, perché 4 in questo caso sarebbe davvero un numero troppo ridotto, e dovrei escludere tantissimi utenti che stimo molto, mi limiterei a fare una menzione speciale per un utente che mi pare ancora non sia stato citato, Green Demetr, che al di là di momenti in cui a volte mi risulta un po' oscuro (ma sicuramente è un problema dei miei limiti). ha uno stile di scrittura che trovo particolarmente intrigante, grande cultura, è un modo di porsi provocatorio, che consente di mettere a fuoco tante idee, che trattate in modo più neutro e ordinario, forse avrebbero più difficoltà a colpire l'emotività di chi legge, e quindi a farsi notare e a stimolare un dibattito

Per quanto riguarda l'ospite speciale, mi verrebbero in mente varie opzioni... strategicamente parlando troverei ottima la candidatura di Aristippo di Cirene, con la sua etica edonista, per il quale il godimento dei piaceri non va mai condannato fintanto che non arrivano a incatenare la libertà stessa dell'uomo, sarebbe tra i filosofi forse tra i più tolleranti nell'evitare di guardarmi male a causa della mia golosità nel godere delle vivande e dei dolci. Poi la citazione di Carlo Pierini mi ha fatto ricordare l'opzione Jung, della cui presenza potrei approfittare per parlarci delle 8 funzioni cognitive che tratta in "Tipi psicologici", magari cercando suggerimenti per capire quale potrebbe essere la mia funzione dominante, dato che sono un po' di anni che mi scervello nel trovarla...
#304
Tematiche Filosofiche / Re:L'altruismo
20 Dicembre 2018, 23:57:18 PM
in realtà penso che un'azione proprio in quanto autenticamente altruista, debba sempre necessariamente accompagnata da un piacere, che forse alcuni considererebbero "egoistico", vale a dire quello derivante dall'orgoglio della coerenza con i propri valori altruisticamente orientati. In assenza di tale piacere si dovrebbe ammettere che quell'azione, seppur di fatto, benefica per gli altri, non sarebbe davvero espressione di una spontanea coscienza morale altruista, bensì un'azione svolta controvoglia, imposta da qualcuno o dalle circostanze. Quindi l'amare se stessi, lungi dall'essere valore antitetico all'altruismo, potrebbe esserne il risvolto... basta solo intendersi su cosa intendersi con "se stessi". L'orgoglio della coerenza con degli ideali altruistici è una forma dell'amore verso se stessi, se vogliamo "egoismo", solo senza accezione negativa, in quanto tali ideali sarebbero a tutti gli effetti parte di noi, della nostra identità, e vivendo in armonia con se stessi mostriamo di amare noi stessi, e contemporaneamente agire positivamente verso gli altri. Il conflitto può nascere solo nel momento il cui il piacere personale viene materialisticamente schiacciato nell'intenderlo solo come possesso dei beni materiali, confondendo edonismo e materialismo. Infatti la ricerca del possesso dei beni materiali, pur non volendola affatto demonizzare, è di per sé divisiva: nel mirare all'acquisizione dei beni materiali si mira ad ottenere qualcosa che necessariamente verrà sottratta ad altri. In questo senso il conflitto egoismo-altruismo diventa possibile (anche se non necessario). Ma il piacere lo si può intendere non solo come godimento dei beni materiali, ma anche di quelli immateriali, e in questo caso, dato che lo spirito, a differenza della materia, non è qualcosa di divisibile, qualcosa che quanto più ne possiedi tanto più ne precludi il possesso ad altri, il  conflitto non c'è, in quanto il piacere nell'adempiere a un ideale etico consistente nel contribuire, ciascuno a modo suo, al bene della comunità, è a tutti gli effetti un piacere sì individuale ma spirituale, in quanto consistente nell'adempimento di un'ideale, che può tranquillamente essere di tipo altruistico
#305
La mente umana non può fare a meno di ricercare un senso proprio in virtù della sua essenza, ciò che la definisce in quanto tale. Tramite l'intelletto l'uomo astrae dal flusso di dati sensibili, individuando leggi, concetti che lo regolano, posti come universali e validi al di là delle circostanze contingenti in cui abbiamo esperienza di tale flusso. Questo nucleo di schemi tramite cui ordiniamo i dati e gli stimoli che riceviamo sono funzionali sia a perseguire una conoscenza razionale e più o meno sistematica del mondo( (la scienza), sia a orientare il proprio agire esistenziale sulla base di una certa, personale, gerarchia di valori, necessaria a compiere le scelte (etica). Se l'uomo smettesse di ricercare il senso, semplicemente cesserebbe di essere un uomo, deporrebbe la sua proprietà essenziale, la razionalità, per regredire al livello della vita meramente animale, sensitiva, dove ci si limita in modo irriflesso ad aderire agli istinti connaturati alla specie, o a condizionamenti estrinseci, come il cane che meccanicamente viene addestrato dall'uomo a obbedire a suoi comandi, senza una reale rielaborazione soggettiva atta a interpretare i propri istinti sulla base dell'aderenza a criteri di giudizi e modelli posti come universali riferimenti. Immagino che ad alcune persone quest'idea di vita possa essere vista con una certa simpatia, in qualche modo come "liberatoria": meno preoccupazioni, meno necessità di riflettere e valutare quanto la nostra vita sia adeguata a un'ideale di regolativo di senso, ed eventualmente ammettere con sconforto quando tale adeguatezza non c'è, mentre se i nostri bisogni coincidessero pienamente con gli istinti che effettivamente determinano le nostre azioni, allora sarebbe impossibile sentirsi insoddisfatti. In realtà pensare questa concezione vitalista e irrazionalista dell'esistenza, nel quale ci si sbarazzerebbe della ricerca del "senso", come "liberatoria", è solo un'illusione: gli istinti di fronte a cui non avremmo nulla per opporci, che non possiamo che seguire irriflessivamente, non esprimono in modo autentico la libertà, perché non davvero proveniente da un nucleo intimo dell'individualità, ma da fattori più esterni, come la specie di appartenenza, o l'ambiente circostante, mentre un'autentica libertà implica la capacità della mente di oggettivare i contenuti della propria esperienza, valutandoli in base a criteri di valore. Nel momento in cui riflettiamo sugli istinti e le tendenze che ci spingono a fare qualcosa poniamo dei criteri regolativi ad essi superiori, in base a cui siamo liberi di metterli in discussione, questi criteri regolativi sono appunto il "senso", che rappresenta la nostra individualità. Questo mettere in discussione testimonia un certo margine di autonomia dell'individuo nei confronti degli oggetti della sua riflessione critica, un margine di trascendenza del soggetto riflettente rispetto agli oggetti dell'attività riflettente. Ecco perché il "senso", lungi dall'essere una gabbia che imprigiona la spontaneità della vita, ne rappresenta invece la più importante condizione di libertà
#306
Attualità / sul diritto d'autore
10 Dicembre 2018, 15:57:28 PM

Il dibattito sulla recente votazione della riforma del Copyright al parlamento europeo, ha accesso i riflettori su un tema che, anche sulla base di quello che vorrebbe essere il mio percorso di vita, trovo estremamente interessante: quello del diritto d'autore, della sua tutela, dei suoi fondamenti teorici-ideologici, sulla necessità di una sua conciliazione con l'esigenza di una massima diffusione possibile della cultura, dell'informazione, dell'arte, utilizzando nuovi strumenti mediatici come internet. Le voci critiche che si sono levate contro la riforma si sono caratterizzate per la rivendicazione, a volte, per mia personale impressione, da toni eccessivamente allarmistici, di uno spazio di condivisione totalmente libero, con regolamentazioni blande, se non inesistenti, tutta finalizzata a rappresentare gli interessi dei fruitori di oggetti culturali, senza necessariamente porsi il problema di una tutela sia sul piano economico che morale degli autori di tali oggetti. Il mantra ideologico è "la cultura è un bene pubblico, appartiene a tutti, deve essere condiviso senza alcun limiti", alcuni arrivano addirittura ad auspicare, in nome di questo collettivismo estremo ideologico, una futura eliminazione del diritto d'autore in nome del totale accesso libero alla conoscenza che Internet offre. Sembra quasi che i due valori fondamentaliin campo in tale tema: creatività e condivisione rischino di entrare in conflitto reciproco: certamente un autore, nel momento in cui sceglie di pubblicare un suo lavoro, mostra in tutta evidenza di aver piacere che le sue produzioni siano diffuse, godute da più persone possibile, ma, al di là delle ovvie e sacrosante esigenze di remunerazione economiche, c'è sempre anche una condizione inerente un bisogno più profondo, che l'opera rispecchi la sua interiorità, le sue intenzioni, idee, sentimenti, cioè la sua personalità, e il diritto d'autore è chiamato a tutelare questa esigenza specificandosi anche come diritto morale all'integrità dell'opera, come diritto a impedire modifiche che snaturino il senso fondamentale del suo lavoro, trasformandolo in qualcosa di radicalmente diverso da quelle che erano le intenzioni originarie del suo autore. Questo limite alla libertà di condivisione è un fondamentale incentivo alla creatività: non sarebbe estremamente demotivante per un autore pubblicare qualcosa, sapendo che poi il frutto del suo lavoro può essere alterato e successivamente diffuso in forme radicalmente diverse se non opposte all'idea originaria con cui il lavoro era stato progettato, in modo che l'opera non sia più qualcosa di realmente esprimente la sua soggettività, senza alcun efficace strumento legale per opporsi a ciò? Riflettendo sulla possibilità di limiti alla condivisione di link sulle piattaforme online come Google o Facebook, paventato nella riforma discussa a Strasburgo, mi è venuto da pensare... siamo sicuri che eventuali limitazioni in merito abbiano solo effetti negativi in relazione alla creatività culturale e allo scambio di idee? E se proprio limiti alla condivisione finiscano per stimolare più persone a tradurre il loro bisogno di espressione, anziché in semplici e meccaniche condivisioni di link altrui, cercando un loro personale linguaggio per comunicare le proprie idee su determinati argomenti? Questa sarebbe certamente un risvolto positivo: invece che lasciar parlare qualcun altro in nostra vece, ci responsabilizziamo a esprimerci direttamente e in prima persona, con i nostri ragionamenti, le nostre parole, anziché rifugiarci nel citazionismo, nel copia-incolla delegando ad altri il compito di manifestare le nostre idee... Questo è solo un esempio, un altro lo si potrebbe trovare nella musica: ho sempre avuto l'impressione che l'abuso di cover, rivisitazioni di canzoni del passato, testimoni sempre una certa povertà creativa: anziché sperimentare ex novo, nuove forme artistiche davvero originali, si preferisce veicolare il proprio estro in rielaborazioni di cose del passato, con effetti spesso considerabili come stravolgimenti del senso presente nelle intenzioni dell'autore originario. Ecco anche qui come certi limiti alla fruizione dell'opera possano determinare un duplice effetto positivo: da un lato si difende il diritto dell'autore originaria a ritrovare la sua soggettività nell'opera prodotta, dall'altro si stimola lo spirito creativo a manifestarsi in opere davvero originali, e proprio lo stimolo all'originalità arricchisce la varietà del panorama artistico di una comunità, differenziandone il più possibile le forme espressive.

Insomma, nella dialettica tra "creatività" e "condivisione" trovo che il primato debba andare alla prima, anzi, come ho provato a dimostrare, proprio alcuni limiti alla condivisione, possono incentivare la creatività, portandola a esprimersi in forme il più possibili personali e originali, piuttosto che a impantanarla nella modifica di qualcosa di già dato. D'altra parte mi rendo conto che interpretazioni eccessivamente repressive del diritto d'autore, che ostacolano oltre ragionevoli limiti la diffusione della cultura, finiscano con l'essere contropruducenti per la motivazione degli autori di pubblicare i loro lavori con la speranza siano il più possibili conosciuti e apprezzati. Allora la domanda che proverei a porre, anche in questa discussione oltre a me stesso sarebbe: esisterebbero dei margini di azione, a livello politico, nei quali entrambi i valori, diritto dei creativi, e diritto dei fruitori, creatività e condivisione, possano essere armonizzati?
#307
direi che la "libertà da" può essere vista come insufficiente al darsi della "libertà di" solo nel momento in cui si ipotizza la concreta possibilità di una condizione di pura stasi dell'attività vitale: se tale possibilità fosse reale, allora anche l'eliminazione di ogni ostacolo esteriore (la "libertà da") non basterebbe a determinare la "libertà di", perché anche nell'assenza di impedimenti esterni il soggetto non esprimerebbe la propria identità interiore, perché scarica di energie creative atte a porre la sua libertà come qualcosa di costruttivo. Il punto è che tale condizione di stasi è un controsenso fintanto che si parla di esseri viventi: la vita è per definizione energia, attività, è attività movente da un principio interno, una spinta dinamica costante che quanto meno è deviata e ostacolato da fattori estrinseci, tanto più riesce ad assecondare l'inclinazione interiore del soggetto a realizzare se stesso, ad esprimere negli oggetti che produce la sua autonomia, cioè si fa soggetto "libero di", che esprime positivamente la libertà negli effetti delle sue azioni. A livello logico-concettuale è certamente corretto distinguere le due accezioni di libertà, ma nel momento esistenziale concreto mi pare che si implichino tra loro reciprocamente, in modo proporzionale e necessario
#308
Per Sgiombo

Se per convalidare l'idea dell'universalità degli imperativi etici si ammette che anche i criminali che agiscono in contraddizione con essi in realtà, in qualche profondo recesso del loro animo, sono consapevoli dell'immoralità delle loro azioni, allora troverei ciò, non solo qualcosa su cui essere pienamente d'accordo, ma un ottimo argomento in favore dell'idea di non far coincidere la pena con la punizione vendicativa. Infatti se si ammette che anche il criminale mantiene pur sempre, seppur a livello latente un certo grado di moralità, allora occorre ammettere uno scarto tra il giudizio sulle azioni esteriori, cioè sui reati, da condannare e quello  sulla complessità interiore della persona, che mantiene un valore positivo dovuto alla preservazione di un senso di moralità, che nel momento in cui si commette il reato viene sovrastato da tendenze contrastanti, ma che in un futuro potrebbe tornare ad essere dominante all'interno del suo sistema di valori. Proprio questa possibilità legittima la rieducazione come fine primario della pena, nonché l'avversione verso trattamenti disumani, che vanno al di là di strategie utili al reinserimento sociale e al pentimento, in quanto rappresenterebbe una violenza gratuita contro un individuo, che al di là delle azioni commesse da condannare, mantiene comunque un valore etico positivo, in nome del, seppur provvisoriamente latente, senso morale insito in lui.


Per Ipazia

leggendo le argomentazioni riguardo l'oggettività della fonte da cui proviene il senso morale degli individui, devo dire che ho provato un certo senso di disagio, dovuto al fatto che per me  valori come "individualità" e "spiritualità" non solo concetti interni a una visione teorica, ma anche dei valori correlati a certi sentimenti tramite cui ne riconosco un'importanza per la mia vita, e che ho trovato in qualche modo squalificati in un'ottica nella quale "società" e "materiale" appaiono come fondamenti prioritari della realtà delle cose, relegando il resto a conseguenze secondarie, prive di una reale automonia. Questo disagio non è univocamente determinato dal dissenso teorico: di fronte a una tesi, ad esempio riguardo un argomento di pura logica, dove il mio dissenso sia anche più forte rispetto a quello riguardo ciò di cui qua si parla, non proverei lo stesso senso di disagio, se però fossero in misura minore tirati in ballo dei principi importanti a livello di sentimenti personali. Se il sentimento morale  fosse determinato dalla conoscenza di oggettivi stati di cose dovrebbe sussistere una proporzionalità tra l'intensità tramite cui sentiamo la certezza di un assunto teoretico oggettivo e l'intensità del sentimento di piacere o dispiacere riguardo il modo in cui un determinato ideale appare effettivamente realizzato nello stato di cose oggettivo. Così non è evidentemente: la sensibilità rispetto i valori non coincide con il percepire tali valori come rispecchiati nella realtà così come è, e per questo la sensibilità etica ispira la prassi, la prassi è necessaria sulla base della scarto tra conoscenza della realtà così come è  modello ideale di realtà in base a cui cerchiamo nella prassi di far adeguare la realtà fattuale. Se la corrispondenza tra il sentimento di approvazione o riprovazione etica e il senso di certezza meramente teoretica riguardo una verità oggettiva non si realizza in modo direttamente proporzionale, allora ciò prova l'autonomia del primo rispetto al secondo. La valutazione assiologica è un salto di qualità rispetto alla pura constatazione fattuale all'interno del complesso dei modi con cui ci relazioniamo con il mondo. Ciò non vuol dire pensare ad una totale arbitrarietà della prima, nel senso in cui un'ottica indeterminista intenderebbe l'arbitrarietà del libero arbitrio. Rilevare una contraddizione fra la negazione del libero arbitrio e l'arbitrarietà della morale avrebbe senso solo intendendo il libero arbitrio come inteso nell'accezione incompatibilista: libero arbitrio come totale assenza di causalità determinante lo scegliere in un modo anziché in un altro. Una volta inteso l'arbitrarietà come totale assenza di causalità, allora la negazione del libero arbitrio dovrebbe trascinare con sé anche l'arbitrarietà di ogni cosa, compresa l'etica. Ma se invece lo si intende in un'accezione compatibilista, cioè libero arbitrio come condizione in cui la causa determinante è interiore al soggetto agente, allora la contraddizione cade: il determinismo non sarebbe assenta, c'è, ma agirebbe a livello interiore, nelle tendenze delle persone a seguire un'inclinazione naturale ed originaria, quindi sviluppo di un autonomo e soggettivo sistema di valori, non campato per aria o nascente sotto un cavolo, ma espressione coerente dell'individualità personale, allo stesso modo di come l' "essere quercia" della quercia non è frutto del caso, ma coerente risultato dell'inclinazione già presente come nucleo originario dello sviluppo già insito nel seme
#309
Citazione di: sgiombo il 04 Dicembre 2018, 20:01:54 PM
Citazione di: davintro il 04 Dicembre 2018, 15:43:30 PMNon sono d'accordo invece nel considerare come mero "politically correct", qualcosa di ipocrita e buonista, l'idea che il fine delle pene debba limitarsi alla rieducazione del criminale e alla prevenzione di nuovi reati.
CitazioneA me pare sia una posizione "politicamente corretta" de facto (il che non é l' aspetto importante della questione, ovviamente: non é un argomento per provare l' infondatezza o la falsità delle tue convinzioni; però un po' narcisisticamente ci tengo a sottolineare la mia scorrettezza politica in ogni occasione che mi capita di dimostrarla).
A mio avviso invece questa impostazione è coerente con la natura autentica dello stato: lo stato non è una realtà originaria, naturale, ma artificiale, prodotto della volontà associativa di singoli individui, che considerano la limitazione della libertà a causa delle leggi statali un male minore rispetto al male che subirebbero in una società del tutto caotica, dove vige solo la legge del più forte. Stando così le cose, lo stato non può essere considerato un fine, un valore etico a se stante, ma solo un mezzo, uno strumento pratico necessario a tutelare delle esigenze, queste sì etiche, perché avvertite, dal concreto vissuto dei singoli individui in carne e ossa, il cui insieme forma la comunità di popolo fondatrice dello stato, ragion d'essere di quest'ultimo. Ora, sanzionare con una pena un individuo sulla base di un giudizio morale di colpa, implica che il soggetto che stabilisce la sanzione si ponga come un'autorità morale superiore rispetto all'individuo oggetto del suo giudizio, ma se lo stato è un mezzo, e non fine in sé, mezzo al servizio di valori superiori come il benessere degli individui che legittimano la sua autorità, allora appare chiaro che tale porsi come autorità morale giudicante è a tutti gli effetti un abuso di poteri da parte dello stato, un contravvenire ai limiti del ruolo per il quale lo stato esiste.
Citazione Se, come me (contro nichilismo e relativismo) si ritiene che esistono imperativi etici di fatto universali (fatto ben spiegabile dalla teoria scientifica dell' evoluzione biologica) anche se non tali "di diritto", non dimostrabili logicamente ma semplicemente constatabili, allora i cittadini hanno il diritto che lo stato tuteli e imponga a tutti il rispetto di tali imperativi etici di fatto, compresa l' esigenza di punire adeguatamente chi li viola come finalità in sé e non solo come mezzo per il buon vivere sociale.
Se il mezzo è sempre moralmente inferiore rispetto al fine verso cui è ordinato, l'idea di uno stato, il mezzo, che presume di giudicare moralmente degli individui, il fine, pretendendo di avere un valore superiore ad essi, è del tutto assurda, una contraddizione, un'inversione logica.Se lo stato intende restare coerente col fine per cui è sorto, cioè il benessere complessivo della comunità di popolo che lo ha fondato, allora l'attribuzione della pena non può essere attuata in nome di una, inesistente, autorità morale con cui porsi al di sopra di essa, ma solo sulla base di un calcolo pratico di costi/benefici: danneggiare un individuo, togliendoli la libertà, se e solo se risulta strettamente necessario a tutelare un bene maggiore, la tutela di tanti altri individui, i cui diritti sarebbero messi in pericolo dal lasciare a piede libero il criminale. Un giudizio morale di colpa può essere formulato solo da un singolo individuo, unico reale depositario di un sentimento valoriale.
CitazioneFra i fini dello stato può benissimo (anzi, secondo me deve) esserci la comminazione delle giuste punizioni ai colpevoli (anche come fine a se stesso, oltre che per prevenire ulteriori crimini). Ribadisco che credo contro il relativismo morale che esistano valori etici di fatto universali anche se non perché dimostrabili logicamente ma solo perché constatabili empiricamente (e molto bene spiegabili dalla scienza biologica).


Come andrebbe intesa l'universalità degli imperativi etici? Se la si intende come unanimità nel consenso intersoggettivo, allora direi che semplicemente l'esistenza di criminali che violano tali imperativi basterebbe a smentirla, dato che se la violano è perché evidentemente non li condividono. Se invece la si intende non come proprietà dei contenuti morali, ma solo dell'atteggiamento formale con cui un singolo, soggettivamente però, li pone, cioè universalità come considerare determinati valori morali (indipendentemente dal loro quid, dalla loro specificità contenutistica) come riferimenti dell'azione in ogni contesto spazio temporale in cui siamo, allora sono d'accordo in quest'accezione: quanto più un'imperativo è importante per me tanto più assumerà per me una valenza universale, cioè tanto più diverrà un imperativo da seguire con la massima coerenza, indipendentemente dalle circostanze particolari. Ed in questo senso si può far rientrare il corretto rapporto tra stato ed etica, cioè lo stato da un lato non è del tutto indifferente all'etica, ma esiste come strumento coerente di applicazione di un sentire morale, ma dall'altro non può pretendere di imporre "in quanto stato" tale ethos, ma deve limitarsi a fornire le condizioni materiali perché questo possa realizzarsi. Questo perché i valori morali sono sempre posti da un sentimento, che nasce sempre dalla coscienza individuale, mentre lo stato non essendo una realtà personale dotato di sentimento non ha alcuna possibilità di porsi come soggetto autonomo di un'etica, ma solo come suo strumento di realizzazione. E che i valori morali siano correlati a sentimenti soggettivi e non fatti oggettivi è un punto contro cui nulla possono valere le constatazioni di alcuna scienza, compresa la biologia. La scienza può constatare come fatto oggettivo che la specie umana è caratterizzata da certe tendenze etiche, ma in ogni caso restano constatazioni moralmente neutre, che non escludono che la volontà possa giudicare soggettivamente come positivo o negativo il fatto che la specie umana sia fatta in questo modo anziché in un altro. Ogni scienza non può che limitarsi a mirare a una conoscenza dei fatti "così come sono", mettendo tra parentesi ogni soggettivo giudizio di valore, di "giusto", "sbagliato" giudizi che utilizzano la categoria del "dover essere" che proprio in quanto ispira la volontà di agire, non può essere un fatto, altrimenti la volontà di agire sarebbe insensata, essendo il suo fine già reale. In contrasto con un certo intellettualismo socratico, non esiste alcun passaggio logico necessario tra la conoscenza oggettiva dei fatti e l'assunzione di un'ideale di "realtà come vorremmo che fosse", persone di diverso orientamento etico possono condividere lo stesso livello conoscenza delle cose, e ricavarne un giudizio morale, in quanto ciò che fa la differenza non sono i fatti, ma la diversa sensibilità soggettiva che guida la volontà
#310
Sgiombo scrive:

"Ma secondo me é proprio il determinismo a rendere sensata qualsiasi valutazione etica (e anche qualsiasi condanna panale o encomio o premio al buon comportamento a qualsiasi titolo).

Secondo me si fa una gran confusione fra lo scegliere liberamente da costrizioni estrinseche (dato che sicuramente chi é costretto a fare qualcosa contro la sua propria volontà non può ovviamente esserne ritenuto responsabile: se mi minacciano di morte con un mitra spianato se non compio un furto, il ladro non sono certo io, ma invece chi mi ci costringe con le forza delle armi), e il libero arbitrio inteso come indeterminismo, ovvero assenza di determinazioni intrinseche nelle scelte).
E' proprio il determinismo intrinseco delle scelte (se c' é; essendo indimostrabile che esista quanto che non esista) a far sì che chi sceglie bene é eticamente buono e chi seceglie male é eticamente malvagio.
Infatti é la sua bontà a determinare intrinsecamente -e non per coercizione subita da altri- le sue scelte buone o la sua malvagità a determinare le sua scelte cattive. Che se invece non fosse il suo modo di essere (più o meno buono o malvagio) a determinarle, allora (inevitabilmente vorrebbe dire che) le scelte di ciascuno avverrebbero a casaccio, come se nella propria mente avvenisse il lancio di una moneta: nel caso uscisse "testa" si agirebbe bene, nel caso uscisse croce" male: e allora nessuno in nessun senso potrebbe essere considerato buono o malvagio, ma casomai fortunato o sfortunato."





Sono molto d'accordo su questo punto; la responsabilità delle scelte  ha senso non in un'ottica indeterminista, ma in una condizione dove il principio determinante è intrinseco al soggetto che le compie, in assenza di questa condizione, ciò che determina dovrebbe essere esterno al soggetto, cioè qualcosa verso cui rimpallare la responsabilità e quindi rinunciare a riconoscere le proprie azioni come davvero rappresentative della propria coscienza morale, dato che il principio da cui sorgono non sarebbe innestato all'interno della propria identità personale.


Non sono d'accordo invece nel considerare come mero "politically correct", qualcosa di ipocrita e buonista, l'idea che il fine delle pene debba limitarsi alla rieducazione del criminale e alla prevenzione di nuovi reati. A mio avviso invece questa impostazione è coerente con la natura autentica dello stato: lo stato non è una realtà originaria, naturale, ma artificiale, prodotto della volontà associativa di singoli individui, che considerano la limitazione della libertà a causa delle leggi statali un male minore rispetto al male che subirebbero in una società del tutto caotica, dove vige solo la legge del più forte. Stando così le cose, lo stato non può essere considerato un fine, un valore etico a se stante, ma solo un mezzo, uno strumento pratico necessario a tutelare delle esigenze, queste sì etiche, perché avvertite, dal concreto vissuto dei singoli individui in carne e ossa, il cui insieme forma la comunità di popolo fondatrice dello stato, ragion d'essere di quest'ultimo. Ora, sanzionare con una pena un individuo sulla base di un giudizio morale di colpa, implica che il soggetto che stabilisce la sanzione si ponga come un'autorità morale superiore rispetto all'individuo oggetto del suo giudizio, ma se lo stato è un mezzo, e non fine in sé, mezzo al servizio di valori superiori come il benessere degli individui che legittimano la sua autorità, allora appare chiaro che tale porsi come autorità morale giudicante è a tutti gli effetti un abuso di poteri da parte dello stato, un contravvenire ai limiti del ruolo per il quale lo stato esiste. Se il mezzo è sempre moralmente inferiore rispetto al fine verso cui è ordinato, l'idea di uno stato, il mezzo, che presume di giudicare moralmente degli individui, il fine, pretendendo di avere un valore superiore ad essi, è del tutto assurda, una contraddizione, un'inversione logica.Se lo stato intende restare coerente col fine per cui è sorto, cioè il benessere complessivo della comunità di popolo che lo ha fondato, allora l'attribuzione della pena non può essere attuata in nome di una, inesistente, autorità morale con cui porsi al di sopra di essa, ma solo sulla base di un calcolo pratico di costi/benefici: danneggiare un individuo, togliendoli la libertà, se e solo se risulta strettamente necessario a tutelare un bene maggiore, la tutela di tanti altri individui, i cui diritti sarebbero messi in pericolo dal lasciare a piede libero il criminale. Un giudizio morale di colpa può essere formulato solo da un singolo individuo, unico reale depositario di un sentimento valoriale.


Per Ipazia

La distinzione tra diritto ed etica, almeno per come volevo intenderla io, non riguardava il piano genetico-causale della formazione del diritto, non voleva dire che il diritto sorge indipendentemente da una visione etica prevalente nella cultura della comunità di popolo che istituisce lo stato, indipendenza che sarei d'accordo nel negare, voleva dire che il diritto, una volta istituito, non è necessariamente un'autorità etica, un valore a se stante, quindi legittimato ad imporre una propria morale (che sarebbe solo quella personale dei governanti) a prescindere dalla pluralità di punti di vista interna alla comunità. Cioè, un conto è ammettere che lo stato sia chiamato a esaudire delle istanze che potremmo definire "etiche", cioè un'idea di giustizia, consistente nei fini in base ai quali le persone hanno sentito la necessità di dotarsi di leggi, un altro pensare che lo stato sia legittimato a istituire una propria peculiare idea di giustizia, anche se in contrasto con i convincimenti etici di molti cittadini. Nel primo caso l'azione statale resterebbe nell'alveo della sua condizione di "strumento" al servizio della comunità, il diritto al servizio dell'etica (anche se derivato da questa) nel secondo lo stato pretende di assurgere a una propria autonoma e autoreferenziale dignità etica, e il diritto non si limita più a derivare dall'etica, ma finisce col coincidere ontologicamente con essa. Il primo caso resta accettabile all'interno di una certa visione liberale, il secondo si pone in deciso contrasto con questa. Poi contestare la visione liberale è legittimo (anche se non condivisibile), se si ammette che la mia idea di distinguere in questo modo etica e diritto rientra nelle premesse di tale visione, allora non vedo dove il mio discorso sia incoerente (internamente, si intende)
#311
Citazione di: Sariputra il 03 Dicembre 2018, 15:31:59 PMMah!...Secondo me la fate troppo complessa. :) Ritorno al mio concetto già espresso: di determinate ci sono le carte, il gioco è nostro. Esempio banale: Un nato cieco non potrà scegliere tra il diventare pilota o pittore, ma sicuramente potrà scegliere tra essere musicista o filosofo. L'arbitrio infatti (definizione da vocabolario) è la "facoltà di valutare e operare secondo la propria volontà".L'arbitrio è quindi la facoltà di scegliere in base a determinate carte in tuo possesso e secondo la tua volontà e non significa affatto libertà da ogni condizione. Una condizione base infatti è proprio il poter disporre di una volontà... Il mio libero arbitrio mi ha fatto scrivere questo breve post. Avrei potuto non scriverlo? Certamente...la domanda interessante è piuttosto questa: perchè l'ho scritto?... :(

Il punto è stabilire se dobbiamo intendere come "libero arbitrio" solo una condizione di assenza di cause determinanti che spingono all'essere filosofo o musicista, una condizione nella quale la scelta effettivamente attuata avrebbe potuto essere diversa, al punto che ci è assolutamente impossibile rintracciarne i motivi che ci hanno fatto propendere per un strada anziché un'altra (ma l'ignoranza riguardo la risposta ad una certa questione non può mai essere la soluzione alla questione stessa, ma solo l'ammissione dei limiti della nostra conoscenza rispetto alla realtà, che però, in quanto "realtà" è  tale indipendentemente dal sapere soggettivo che abbiamo su di essa), oppure, in linea col modello compatibilista, possiamo intendere il libero arbitrio anche nel caso che il principio determinante della scelta sia la nostra identità, il nucleo interiore e innato della nostra personalità, e non un fattore esterno e ambientale. In quest'ultimo il libero arbitrio esisterebbe, in quanto non implicherebbe l'assenza in assoluto di causalità, ma farebbe coincidere quest'ultima con noi stessi, che saremmo dunque responsabili a tutti gli effetti delle nostre scelte, cioè libero arbitrio non come assurda indeterminazione, ma come autonomia. Poi, essendo sulla base della nostra finitezza, mai completamente autonomi, ma sempre individui in relazione con un'alterità, il libero arbitrio non sarebbe mai elemento esaustivo nella spiegazione del nostro agire, ma componente parziale: non siamo mai del tutto liberi, ma lo siamo sempre "più o meno", nella misura in cui la scelta esprime davvero la nostra personalità originaria. Un libero arbitrio, se si vuole, relativo, parziale, ma comunque a suo modo esistente e riconoscibile sulla base di un determinato parametro
#312
Citazione di: Ipazia il 03 Dicembre 2018, 14:32:33 PM
Citazione di: davintro il 02 Dicembre 2018, 23:34:32 PMIl punto è che nel nostro stato di diritto, e giustamente aggiungerei, le pene non dovrebbero infliggersi sulla base del riconoscimento di una "colpa", che la pena dovrebbe pareggiare in nome del principio vendicativo dell' "occhio per occhio, dente per dente". L'obiettivo della giustizia dovrebbe essere quello di garantire nel modo più efficace possibile la preservazione della sicurezza dei cittadini, evitando però inutili violenze quando queste non sono strettamente necessarie al fine della tutela di tale sicurezza. Quindi per lo stato di diritto non ha alcun senso porsi il problema se la causa che ha spinto un assassino a compiere i suoi crimini riguardi o meno il suo libero arbitrio. Ormai il danno è fatto, l'unica cosa che si può fare è cercare di evitare nuovi crimini valutando la sua pericolosità sociale, quindi valutare se la causa che lo ha spinto avrebbe o no ancora la forza per spingerlo a commetterli di nuovo. In questo senso il tema giudiziario è slegato dalla riflessione sul libero arbitrio. Poi ovviamente se ci si allontana dal modello dello stato di diritto liberale e garantista e ci si vuole porre nel contesto dello "stato etico" dove la morale viene confusa con la legge, allora la pena non potrà più limitarsi a un effetto preventivo/pratico, ma dovrà sanzionare moralmente il reo, finendo con l'identificare la giustizia con la vendetta, e sarà allora necessario valutare l'effettivo spessore morale del condannato, la sua responsabilità, e quanto il suo libero arbitrio è stato davvero determinante per il compimento dei suoi reati, ma, ripeto, questo è tutt' altro contesto
Tutto questo discorso ha un'impostazione ideologica fondata sulla bufala liberale/liberista dello stato etico contrapposto allo stato di diritto. Bufala in quanto il diritto è solo il catechismo di un'etica consolidata e dominante. Il catechismo greco non prevedeva l'uguaglianza, neppure formale, degli uomini, era pedofilo, sessista e si fondava sulla sacralità della polis, dallo stesso Socrate accettata e rilanciata quando beve la cicuta. Il catechismo liberale prevede la sacralità della proprietà privata, l'uguaglianza (formale) degli uomini, e solo da poco tempo ha espunto sessismo e pedofilia dai comportamenti leciti etici ovvero giuridici. Questo separare etica da diritto è l'artificio liberale che libera la tecnica "neutrale" dai suoi fondamenti etici, così come in economia separa il "diritto economico" ovvero il capitale dal suo fondamento etico ed etologico: il lavoro.

uscendo per un attimo dal tema della discussione (ma spero ci si potrà tornare a breve, magari in topic maggiormente "ad hoc"), direi che la distinzione tra etica e diritto può basarsi su un assunto che io trovo logico, cioè i valori etici non sono "fatti", realtà oggettivamente esistenti in natura, ma ideali indicanti un "dover essere", criteri di giudizi non descrittivi, ma prescrittivi. in quanto fondativi delle azioni (se così non fosse, se i valori etici fossero fatti oggettivi, che bisogno ci sarebbe di agire per realizzarli, dato che già sarebbero realizzati? Se il "dover essere" coincidesse con l' "essere" allora la realtà così come è dovrebbe appagare moralmente chiunque, mentre l'insoddisfazione tra la realtà così come è e la realtà come vorremmo che fosse testimonia lo scarto tra l'oggettività della prima, e la soggettività ideale della seconda). E se il compito della politica è quello di garantire un massimo livello di benessere per il massimo numero di cittadini possibile, e il benessere coincide con una vita condotta con i propri valori personali e soggettivi, allora la conseguenza che trovo più logica è quella di non far coincidere il diritto, che deve ispirare delle leggi che riguardano la vita di tutti, con un sentimento etico soggettivo, che, se coincidesse con il diritto, dovrebbe per forza coincidere con il sentimento etico soggettivo dei governanti, o più in generale della classe politica che fa le leggi, che imporrebbero i LORO personali valori etici, le LORO condizioni esistenziali di benessere, al resto della popolazione, composta, almeno potenzialmente, di individui che perseguono diversi valori, e diversi modelli di realizzazioni della personalità, cioè di benessere (come nel caso delle teocrazie, che sono modelli di stato etico, né più né meno dei totalitarismi laici"). Ecco che la distinzione etica/diritto diventa la strategia più efficiente perché più persone possibili possano accedere a un livello di benessere, seguendo i loro valori personali, senza essere ostacolati da interventi esterni ispirati a valori diversi da loro e contrapposti. La neutralità assoluta dello stato può considerarsi come un'astrazione impossibile da seguire in forma pura, ma almeno si potrebbe mantenerlo come ideale regolativo, a cui cercare di ispirarsi nel modo più coerente possibile, entro i limiti dell'imperfezione umana e delle contingenze storiche empiriche entro le quali cerchiamo di applicare gli assunti teorici
#313
Citazione di: everlost il 02 Dicembre 2018, 23:01:22 PMNon avrei voluto intervenire, questa discussione ha preso una piega leggermente fastidiosa, oltre al fatto che nei vostri dibattiti filosofici c'entro con difficoltà e in punta di piedi. Però, anche se in ritardo, qualcosa a Samuel Silver mi sento di dirla perché il termine 'disonesto' mi fa sempre vedere rosso. Chiedo perdono se non riesco a tacere. Pensando:
Citazione"non vedo come il fatto giuridico debba entrare nel discorso del libero arbitrio: dire che senza il libero arbitrio un sacco di crimini sarebbero autorizzati e quindi che il l.a. non esiste, è come dire "se le cose stessero così, il mondo diventerebbe un pessimo posto in cui vivere, quindi le cose necessariamente non stanno così". Questo argomento si basa sul fatto che se una cosa fosse vera la società diventerebbe invivibile, quindi quella cosa non può assolutamente essere vera, a dispetto di qualsiasi argomentazione logica del contrario. Per questo non terrei affatto in considerazione l'aspetto giudiziario in questo dibattito, in quanto intellettualmente poco onesto. "
avresti le tue buone ragioni se qualcuno avesse cercato una dimostrazione filosofica dell'esistenza del l.a. usando un simile sillogismo farlocco. Ma il punto è che nessuno l'ha fatto! Ci si è limitati a indicare un problema di ordine etico prima che giudiziario, derivante (secondo alcuni di noi) dalla mancanza di fede nel libero arbitrio. Ed è proprio questione di fede o non fede, a mio avviso, dato che nessuno finora è riuscito a dimostrare se esista o no; o per meglio dire, se abbia un senso o meno crederci e discuterne. Per Sgiombo non so, non l'ho ancora capito. :-[ Per la gente comune come me, non credere più nel l.a. significa, in parole povere, non ritenere più che gli individui facciano il male o il bene per scelta, ma che vi siano sempre o il più delle volte costretti da cause più forti della loro volontà ( ad esempio il brutale caso, o forse il caos, il destino, la Peppa Tencia, la peperonata della suocera, la pasticca, oppure una divinità, un demone, un angelo, secondo le proprie opinioni e abitudini). Alla fine, dopo il carosello interpretativo cosa resta? Che intanto il diritto - civile e penale - dovrebbe essere completamente riformato perché non avrebbe senso punire con l'ergastolo un omicida costretto da cause endogene ed esogene. Ma poi non si potrebbe nemmeno dare premi e lodi ai benefattori, e qui dovrebbe cambiare un'altra bella fetta della società attuale e perfino le religioni più seguite in occidente. Questo caro Sgiombo mi è chiarissimo. :) Non che mi dispiaccia, dopotutto...ma ritengo che sarebbe una rivoluzione tremenda se la maggior parte delle persone ragionasse così. Il mondo, il quale se ne infischia delle teorie e dei sillogismi filosofici, continuerà ad essere quello che è : un pessimo posto in cui vivere, con o senza libero arbitrio. Con una piccola differenza, però: se delinquere per la maggioranza che legifera non sarà più una colpa imputabile ai singoli, andrà al manicomio criminale o al carcere speciale solo chi è molto pericoloso mentre gli altri rei se la caveranno con poco, magari con gli arresti domiciliari o con un percorso riabilitativo in qualche ospizio per anziani. Sta già succedendo ad alcuni più uguali degli altri. Qualcuno ancora borbotta, qualcuno strilla, oggi: domani non si sa. Il mondo diventerà peggiore? Forse no. Ma mi ribolle il sangue se penso che un barbaro assassino dopo pochi anni potrà camminare fra la gente a testa alta, autorizzato a giustificarsi con la scusa che se ha fatto a pezzi una ragazzina, è successo per via del testosterone, dell'onore maschile offeso, del diavolo tentatore. Adamo del resto insegna: è stata Eva, lei gli ha detto di mangiare la mela. Ed Eva incolpa il subdolo serpente. Caino, poi...va be'. Sarò retrograda, eppure sono affezionata al buon vecchio senso di colpa, al biasimo sociale ed anche alle vecchie penitenze, purché proporzionate e decisamente non come quelle bibliche che solo un'immensa fede in Dio può rendere accettabili. E mi piace immaginare un mondo in cui i buoni genuini ricevono almeno qualche gratificazione al posto di una pedata nel posteriore, come invece capita loro spesso. Certo non pretendo che questa sia verità! Nemmanco la Verità! Può darsi benissimo che il mondo sia tutt'altro, potrebbe essere un'illusione coperta dal velo di Maya, forse lo guardiamo dalla caverna platonica, forse siamo tutti ologrammi in un mondo ologrammatico oppure avatar di noi stessi in un mondo parallelo, ragion per cui è vano illudersi di scegliere liberamente qualsiasi cosa e di avere qualche scopo che non sia diretto da forze invisibili e ignote. La fantasia sfrenata dei fisici non ci fa mancare nulla oggigiorno. Attenzione solo a non perdere la bussola (e lo dico prima di tutto a me stessa). E' vecchia ma pare che per certe funzioni basiche sia ancora valida.

Il punto è che nel nostro stato di diritto, e giustamente aggiungerei, le pene non  dovrebbero infliggersi sulla base del riconoscimento di una "colpa", che la pena dovrebbe pareggiare in nome del principio vendicativo dell' "occhio per occhio, dente per dente". L'obiettivo della giustizia dovrebbe essere quello di garantire nel modo più efficace possibile la preservazione della sicurezza dei cittadini, evitando però inutili violenze quando queste non sono strettamente necessarie al fine della tutela di tale sicurezza. Quindi per lo stato di diritto non ha alcun senso porsi il problema se la causa che ha spinto un assassino a compiere i suoi crimini riguardi o meno il suo libero arbitrio. Ormai il danno è fatto, l'unica cosa che si può fare è cercare di evitare nuovi crimini valutando la sua pericolosità sociale, quindi valutare se la causa che lo ha spinto avrebbe o no ancora la forza per spingerlo a commetterli di nuovo. In questo senso il tema giudiziario è slegato dalla riflessione sul libero arbitrio. Poi ovviamente se ci si allontana dal modello dello stato di diritto liberale e garantista e ci si vuole porre nel contesto dello "stato etico" dove la morale viene confusa con la legge, allora la pena non potrà più limitarsi a un effetto preventivo/pratico, ma dovrà sanzionare moralmente il reo, finendo con l'identificare la giustizia con la vendetta, e sarà allora necessario valutare l'effettivo spessore morale del condannato, la sua responsabilità, e quanto il suo libero arbitrio è stato davvero determinante per il compimento dei suoi reati, ma, ripeto, questo è tutt' altro contesto
#314
Attualità / Re:Vita umana modificata geneticamente
02 Dicembre 2018, 23:14:20 PM
fintanto che le applicazioni delle possibilità di modificazioni genetiche si limitano alla cura di patologie OGGETTIVAMENTE invalidanti, causa di sofferenza fisica/psichica, considererei la cosa come progresso tecnologico da salutare molto positivamente. Il discorso cambia radicalmente se si inizia a parlare di interventi che tocchino delle caratteristiche antropologiche sulle quali un giudizio etico di valore resta positivo o negativo, e che dunque finirebbero ad essere non un frutto spontaneo della personalità individuale, ma la conseguenza di un'imposizione esterna di chi decide di far operare tali modifiche: di fatto la fine della libertà della persona umana. Penso soprattutto alla possibilità di interventi al fine di influenzare lo sviluppo di determinate tendenze psichiche caratteriali sulla base di modelli di virtù socialmente riconosciuti. La differenza tra i due contesti è evidente: mentre è un dato oggettivo che nessuno avrebbe piacere a nascere con una patologia genetica (tranne casi estremamente perversi di masochismo e comunque anche in quel caso nulla impedirebbe di condurre una volta nati una vita del tutto sregolata per favorire l'emergere di tali patologie...), e sarebbe dunque un oggettivo beneficio la rimozione di tale patologia, le cose si complicano se si parla di costruzione della personalità. Ogni giudizio di valore su modelli di personalità migliori di altri non può che essere relativo alla soggettiva personalità di chi giudica, o al contingente sistema di valori di una società, cioè un giudizio arbitrario, e un'arbitraria intromissione nel libero sviluppo della personalità di chi subisce la manipolazione. Facciamo l'esempio dell'introversione: in contrasto con l'accezione che ne dava Jung, nella società è un tratto caratteriale comunemente etichettato in negativo, magari confusa con l'asocialità o la timidezza, mentre in realtà la capacità di apprezzare la solitudine è un aspetto fondamentale nella formazione di uno spirito critico e creativo. Se un giorno venisse scoperto il gene dell'estroversione, molti genitori potrebbero essere disposti ad intervenire sulla personalità del nascituro, per evitare modelli di personalità arbitrariamente considerati in negativo, o comunque non rappresentativi delle autentiche tendenze naturali del loro figli. Quale genitore oggi avrebbe piacere nell'avere figli introversi, tendenti al malinconico, ipercritiche, come un Leopardi o un Schopenhauer? Eppure proprio la loro introversione, la loro tendenza alla solitudine si è rivelata così creativa del loro talento letterario e filosofico... Chiaramente i confini tra interventi mirati all'evitare patologie fisiche e interventi mirati alla manipolazione psichica per vincolare la personalità a dei modelli standard esteriori di "virtù" sono ben distinti, ma quello che mi preoccupa è il cosiddetto "piano inclinato": una volta che si legittimano delle possibilità di intervento per un certo ambito, anche correttamente, è sempre possibile evitare che ciò venga utilizzato come "precedente" per spostare a poco a poco sempre più l'asticella verso derive per le quali le perplessità di natura etica si presenterebbero come più appropriate?
#315
sono dell'idea che in molti casi dare un maggior rilievo all'aspetto fisico, esteriore, rispetto alla personalità interiore, non sia sempre riconducibile a una mentalità materialista che antepone l'esteriore all'interiore, bensì al fatto che il giudizio estetico sia spesso più dirimente per selezionare in modo netto le persone con  cui decidiamo di rapportarci. Cioè, dare maggior peso all'aspetto fisico rispetto a quello interiore non implica necessariamente attribuire in modo assoluto al primo una superiorità assiologica rispetto al secondo, ma che il primo offre dei parametri di giudizio più netti, demarcati. Riguardo l'essere bello/brutto è, in linea generale, maggiormente possibile delineare giudizi più chiari, selettivi, rispetto all'essere intelligente, simpatico/antipatico ecc., in quanto mentre, al netto di casi estremi, siamo tutti più o meno intelligenti, più o meno simpatici, più o meno gentili, ed è più difficile giungere a conclusioni radicali e definitive,  il giudizio estetico, magari considerato meno importante in senso assoluto, finisce col rilevarsi però più decisivo per selezionare le persone con cui entrare in contatto (ovviamente è soprattutto nel caso dell'attrazione erotica che questa necessità selettiva è più forte). In fondo ciò è coerente con la distinzione fondamentale tra il piano dello spirituale e quello della materia: lo spirituale è l'ambito della continua compenetrazione e interazione tra aspetti diversi della personalità, intelligenza, sentimenti, volontà, spirituale è proprio questa tendenza all'unità, al globale, a sfumare le contrapposizioni, laddove la materia è il regno della spazialità, della divisibilità, dei confini discreti, a partire da cui separare in modo più netto gli elementi, e i giudizi su di essi:  biondo è distinto dal castano, il pallido dall'abbronzato, il bello dal brutto, più di quanto a livello spirituale la tristezza sia separata dall'angoscia, la gioia dalla serenità, essere amichevole con alcune persone e disinvolto in certe circostanze non esclude non esserlo con altre persone e in altre circostanze, sono lati della personalità che tra loro convivono, mentre se sei biondo non sei castano, se sei alto non sei basso, e qua è dunque più facile avere a disposizione parametri selettivi di giudizio. Magari questa mia lettura è troppo ottimista, certamente in molti altri casi la ragione del prevalere dell'interesse sull'aspetto fisico è davvero l'idea che questo sia più importante dell'interiorità, perché si preferisce lasciare priorità all'immagine immediata con cui entriamo nelle relazioni sociali, quella che conta a livello superficiale, mentre il valore della profondità viene messo da parte... però forse anche la tesi che ho provato a esporre potrebbe incidere a suo modo