ciao CVC. Le domande, se ho ben capito, sono due. La criminologia è appiattita sul comportamentismo? Il Kamikaze è un mostro, o cosa. E' possibile spiegarlo solo attraverso il comportamentismo?
1) La criminologia è una scienza molto trasversale. Puoi trovare comportamentisti, psicoanalisti, filosofi, giuristi, fenomenologhi, strutturalisti, marxisti e chi più ne ha, più ne metta. Sintetizzando la criminologia ha due funzioni, una teorica e una pratica. Teoricamente, cerca di capire perchè esistono i delinquenti ed eventualmente come diminuire il loro tasso di presenza, "trattandoli" e "riconvertendoli" (da bug a patch). Una disciplina che implica discorsi sull'uomo geneticamente costituito, sulle società storiche che ha costituito e sul rapporto fra dimensione "interna" ed "esterna" di ognuno di noi (quella che possiamo definire "mente"). La funzione pratica invece consiste nel definire la capacità di intendere e di volere di un soggetto se commette un reato e la sua pericolosità sociale, di solito nell'ambito di un processo penale.
Quindi direi che il comportamentismo è solo un possibile modo di affrontare il problema. Le teorie più recenti tendono a mescolare i diversi saperi, giungendo ad una conclusione abbastanza scontata, cioè all'influenza multifattoriale (ambientale, soggettiva, storica, genetica) per spiegare l'agire deviante. Il trend comunque, dagli anni '90 in poi, è quello di ridare spazio alle teorie genetiche ed organiche, dopo che per circa mezzo secolo, la vulgata più affermata voleva che la devianza nascesse dalle disparità sociali (visione marxista). Ovviamente attraverso le neuroscienze queste conoscenze non sono certo una riproposizione dei metodi lombrosiani, ma hanno una loro validità verificata attraverso metodi scientifici (cfr ad esempio A. Raine, "L'anatomia della violenza").
2) Il tema "kamikaze" nell'ambito di un discorso criminologico invece non l'ho mai approfondito. Ti posso dire le mie impressioni "naive".
Credo che ogni kamikaze abbia una sua storia personale molto differente l'una dall'altra ed è quindi difficile ricondurre il problema ad un'unica causa. D'altra parte occorre anche generalizzare per tentare politiche sociali tese a contenere il problema. Credo che molto sia riconducibile alla mancanza di reali opportunità di successo da offrire alle seconde e terze generazioni di immigrati. La situazione storica è molto diversa da quella che si presentava agli immigrati italiani di un secolo fa. "La natura è satura": non ci sono più vaste praterie da colonizzare e il figlio del "vù cumprà" ad un certo punto realizza che anche lui sarà costretto a fare il "vu cumprà" (magari attualizzato in un call center).
Un altra possibile lettura riguarda il senso di anomia che pervade la società occidentale. Ogni discorso è dotato di senso solo se produce guadagno, al punto che ormai se il politico o il giudice o la ONG è onesta, viene guardata con sospetto. E' molto più coerente essere tutti disonesti ma ricchi. Chi non riesce ad arricchirsi, o anche chi ha visto arricchire i propri genitori in modo illecito, potrebbe avere una crisi da rigetto e cercare un nuovo senso alla vita attraverso il fondamentalismo.
Terza lettura. In medio oriente si susseguono guerre ormai da mezzo secolo, prima circoscritte ad Israele e zone limitrofe e poi espanse in una macroarea che va dall'Algeria all'Afghanistan. Chi ha visto violenze efferate, la morte dei propri genitori o fratelli da bambino, torture, bombardamenti, desidera ripetere il trauma per poterlo gestire, quindi in modo attivo, piuttosto che in quel modo passivo, sperimentato da bambini.
Quarta lettura. In tutto il mondo occidentale tutte le amministrazioni penitenziarie stanno svolgendo studi accurati per capire il nesso fra delinquenza e fondamentalismo islamico. Un arabo che finisce in galera per motivi penali comuni rischia molto più facilmente di entrare in una cerchia integralista. Anche qui potrebbero entrare in gioco motivazioni molto diverse, dal senso di ingiustizia al desiderio di mettere al servizio la propria professionalità violenta per una causa nobile, magari per cercare di attutire i sensi di colpa e riscoprire un senso di comunità andato perso, fino alla possibilità di essere manipolati, allorquando non si hanno strumenti culturali sufficienti.
1) La criminologia è una scienza molto trasversale. Puoi trovare comportamentisti, psicoanalisti, filosofi, giuristi, fenomenologhi, strutturalisti, marxisti e chi più ne ha, più ne metta. Sintetizzando la criminologia ha due funzioni, una teorica e una pratica. Teoricamente, cerca di capire perchè esistono i delinquenti ed eventualmente come diminuire il loro tasso di presenza, "trattandoli" e "riconvertendoli" (da bug a patch). Una disciplina che implica discorsi sull'uomo geneticamente costituito, sulle società storiche che ha costituito e sul rapporto fra dimensione "interna" ed "esterna" di ognuno di noi (quella che possiamo definire "mente"). La funzione pratica invece consiste nel definire la capacità di intendere e di volere di un soggetto se commette un reato e la sua pericolosità sociale, di solito nell'ambito di un processo penale.
Quindi direi che il comportamentismo è solo un possibile modo di affrontare il problema. Le teorie più recenti tendono a mescolare i diversi saperi, giungendo ad una conclusione abbastanza scontata, cioè all'influenza multifattoriale (ambientale, soggettiva, storica, genetica) per spiegare l'agire deviante. Il trend comunque, dagli anni '90 in poi, è quello di ridare spazio alle teorie genetiche ed organiche, dopo che per circa mezzo secolo, la vulgata più affermata voleva che la devianza nascesse dalle disparità sociali (visione marxista). Ovviamente attraverso le neuroscienze queste conoscenze non sono certo una riproposizione dei metodi lombrosiani, ma hanno una loro validità verificata attraverso metodi scientifici (cfr ad esempio A. Raine, "L'anatomia della violenza").
2) Il tema "kamikaze" nell'ambito di un discorso criminologico invece non l'ho mai approfondito. Ti posso dire le mie impressioni "naive".
Credo che ogni kamikaze abbia una sua storia personale molto differente l'una dall'altra ed è quindi difficile ricondurre il problema ad un'unica causa. D'altra parte occorre anche generalizzare per tentare politiche sociali tese a contenere il problema. Credo che molto sia riconducibile alla mancanza di reali opportunità di successo da offrire alle seconde e terze generazioni di immigrati. La situazione storica è molto diversa da quella che si presentava agli immigrati italiani di un secolo fa. "La natura è satura": non ci sono più vaste praterie da colonizzare e il figlio del "vù cumprà" ad un certo punto realizza che anche lui sarà costretto a fare il "vu cumprà" (magari attualizzato in un call center).
Un altra possibile lettura riguarda il senso di anomia che pervade la società occidentale. Ogni discorso è dotato di senso solo se produce guadagno, al punto che ormai se il politico o il giudice o la ONG è onesta, viene guardata con sospetto. E' molto più coerente essere tutti disonesti ma ricchi. Chi non riesce ad arricchirsi, o anche chi ha visto arricchire i propri genitori in modo illecito, potrebbe avere una crisi da rigetto e cercare un nuovo senso alla vita attraverso il fondamentalismo.
Terza lettura. In medio oriente si susseguono guerre ormai da mezzo secolo, prima circoscritte ad Israele e zone limitrofe e poi espanse in una macroarea che va dall'Algeria all'Afghanistan. Chi ha visto violenze efferate, la morte dei propri genitori o fratelli da bambino, torture, bombardamenti, desidera ripetere il trauma per poterlo gestire, quindi in modo attivo, piuttosto che in quel modo passivo, sperimentato da bambini.
Quarta lettura. In tutto il mondo occidentale tutte le amministrazioni penitenziarie stanno svolgendo studi accurati per capire il nesso fra delinquenza e fondamentalismo islamico. Un arabo che finisce in galera per motivi penali comuni rischia molto più facilmente di entrare in una cerchia integralista. Anche qui potrebbero entrare in gioco motivazioni molto diverse, dal senso di ingiustizia al desiderio di mettere al servizio la propria professionalità violenta per una causa nobile, magari per cercare di attutire i sensi di colpa e riscoprire un senso di comunità andato perso, fino alla possibilità di essere manipolati, allorquando non si hanno strumenti culturali sufficienti.