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Messaggi - davintro

#316
personalmente penso che l'affermazione per cui la religione in realtà esprime la sofferenza, il sospiro dell'uomo, che cerca di scorgere in una dimensione di trascendenza l'appagamento di quelle esigenze che trova frustrate nell'ingiustizia della società attuale, vale in riferimento alla questione genetico-antropologica sull'origine della fede nell'uomo, "cosa spinge l'uomo a credere". Tale questione è però distinta da quella, più propriamente filosofico-metafisica, dell'effettiva verità della religione. Ammettendo come valida la tesi dell'origine della fede come desiderio di giustizia mondana, fede che il cui appagamento storico dovrebbe di fatto annullare, questo ancora non determinerebbe la verità o falsità oggettiva della fede in questione, a meno di non concepire, in una piuttosto insensata epistemologia, che la verità coincide con il consenso maggioritario delle persone, cioè a far dipendere la verità di Dio dalla fede delle persone. In realtà, i due piani restano distinti, e nulla potrebbe escludere che anche nella massima realizzazione possibile delle istanze di giustizia umane che il mondo, nella sua imperfezione può offrire, resti costante una riserva di aspirazione verso un'ideale di giustizia ancora più compiuta, trascendente le imperfette realizzazioni mondane, quindi un margine di religiosità, magari, almeno si spera, che si esprimerà in forme diverse da quelle finora conosciute,  più pure, perché forse più consapevoli dello scarto incolmabile tra la perfezione della giustizia divina e l'imperfezione di ogni sua imitazione storica, dunque più consapevoli dei limiti della pretesa di un certo clericalismo di far coincidere la chiesta visibile fatta da uomini, e la "Chiesa invisibile", irriducibile a ogni presunta rappresentazione storica. Azzarderei un, magari strampalato, tentativo di interpretazione storico-filosofico, forse questo legame di dipendenza del problema della "verità" della religione da quello dell'origine umana della fede, potrebbe essere un residuo di mentalità idealistica che il marxismo ha preservato in se stesso, l'idea della dipendenza della realtà oggettiva dall'attività cosciente del soggetto o dei soggetti.
#317
la questione dell'esistenza del libero arbitrio presuppone la chiarificazione delle definizione concettuale di "libertà". In un'impostazione di tipo compatibilista, dove libertà e determinismo vengono conciliati, definendo la libertà non come assenza di cause determinanti, ma come immanenza delle cause al soggetto che compie gli atti (mentre le cause lesive della libertà sarebbero solo quelle provenienti dal mondo esterno all'Io), ritengo il libero arbitrio sarebbe ancora possibile, in quanto la sua esistenza non sarebbe più contrapposta all'esistenza della causalità, causalità senza la quale la realtà cadrebbe nell'assurdo logico, nell'impossibilità di rendere ragione del perché le cose sono in un modo anziché in un altro. Invece in un approccio incompatibilista nel quale libertà e determinismo vengono posti come reciprocamente escludenti, allora la libertà non potrebbe in alcun modo esistere, sarebbe pura possibilità astratta, frutto dell'immaginazione tramite cui ipotizzo la possibilità di poter agire diversamente da come effettivamente agisco. Ma in questo caso la libertà non sarebbe una condizione reale, dato che comunque, un certo modo di agire ne esclude un altro, e deve pur esistere, al di là delle varie specificazioni possibili, una causa che ha fatto sì che una certa azione venisse compiuta piuttosto che un'altra. Difatti non considero il caso come qualcosa di reale, ma solo come la definizione che attribuiamo a ciò che sta oltre il nostro velo di ignoranza delle cause. Un'altra prospettiva, tipica della concezione cristiana ma, credo, non solamente, sarebbe quella di distinguere il concetto di "libertà" e di "libero arbitrio", intendendo il primo come la condizione di coerenza del soggetto con la propria natura, essenza autentica e originaria, solitamente giudicata moralmente positiva, almeno così non potrebbe essere altrimenti nel teismo, e il secondo come possibilità di poter scegliere indifferentemente tra due alternative, come possono essere, bene o male. Mi pare evidente che in questa prospettiva il significato di "libertà" rientrerebbe nell'ottica di compatibilismo: dalla propria natura originaria si sprigionano necessariamente delle tendenze finalistiche che portano l'ente a svilupparsi in una determinata direzione, quindi la necessità che dal seme della pianta di ciliegio cresca effettivamente e necessariamente l'albero di ciliegio non è negazione della libertà, ma sua espressione, tendenza coerente che la pianta segue rispetto alla propria natura intrinseca. Il limite alla libertà consisterebbe piuttosto nell'interferenza esterna, come l'intervento di qualcuno che taglia l'albero o ne storce i rami. Al contrario, il libero arbitrio seguirebbe la definizione degli incompatibilisti, la libertà contrapposta alla necessità causale, che la relega nell'impossibilità dell'esistenza fattuale. 

Per quanto riguarda le implicazioni giuridiche del tema del libero arbitrio e del principio di responsabilità, penso il problema si ponga solo in un'ottica di Stato Etico totalitario, dove la giustizia mira a certificare una condanna morale, quindi dovrebbe per forza valutare quanto un certo reato rispecchi davvero la personalità interiore del reo, mentre in un'ottica di stato liberale, nel quale la giustizia mira (o dovrebbe mirare) solo alla tutela della tranquillità sociale e dunque a sanzionare non la moralità interiore ma solo la pericolosità sociale del reo, allora il giudizio sulla responsabilità dovrebbe passare in secondo piano, rispetto alla valutazione pratica su quanto una persona, lasciata libera, possa continuare a perpetuare reati, al di là delle cause che la hanno spinta a commettere il crimine (anche se penso che il problema delle cause potrebbe tornare a essere centrale, non dal punto di vista della condanna, ma in quello ugualmente fondamentale, della rieducazione, a cui sempre la pena dovrebbe tendere: conoscendo le cause che hanno spinto una persona a delinquere, sarà maggiormente possibile intervenire per recuperarla dal punto di vista del rispetto dei valori civici della comunità, ma sono due discorsi distinti)
#318
ho cliccato su "accetto" cookie, e ora sono riuscito a entrare anche da pc. Ringrazio davvero per le informazioni 

Saluti
#319
Problemi utilizzo forum / Problema accesso tramite pc
21 Novembre 2018, 18:27:51 PM
Buonasera
Da molto tempo non riesco ad accedere col mio profilo  tramite pc nel forum, il login viene negato anche quando provo a trovare una nuova password. Solo tramite cellulare riesco ad accedere ma spero che il problema si possa risolvere  anche  tramite pc, essendo ovviamente molto scomodo scrivere post articolati su smartphone. Sarebbe possibile trovare una soluzione?
Grazie
#320
per Bobmax

 
a mio avviso non si tratta di far prevalere etica o teoretica, in quanto non sono atteggiamenti contrapposti, dato che i loro domini esistenziali sono distinti e non sovrapponibili. Nel caso che ho portato si tematizza il concetto di "santità" che ha una valenza etica, ma questo non implica che l'approccio con cui lo si tematizza debba a sua volta essere etico, e non mirante all'acquisizione di una conoscenza oggettiva e razionale. Non è infatti necessario che l'oggetto che si tematizza debba essere della stessa natura della forma dell'approccio, del punto di vista soggettivo tematizzante. La santità è un valore etico, ma l'insoddisfazione socratica ai tentativi definitori di Eutifrone rivela un approccio teoretico ben definito che si può discutere. Non penso che un modello alternativo a quello nel quale l'individuazione delle essenze finisce quasi nel cadere nel tautologico implichi l'abbandono del piano teoretico per passare a quello etico, bensì la proposta di una teoretica alternativa. La contestazione del modello in cui l'essenza di ogni singolo concetto è qualcosa del tutto slegato dall'essenza di tutti gli altri (cioè l'essenza della santità non avrebbe nulla a che fare con l'essenza dell'amore degli Dei) dovrebbe basarsi sull'idea che il mondo delle Idee, se non vuole proporsi come affermazione dogmatica immotivata, deve mostrare di saper rendere ragione del mondo di cui abbiamo esperienza, rispecchiarlo, e se nel mondo in cui viviamo ogni cosa appare essere in relazione con tutte le altre, anche nell'Universo Ideale costituito da essenze le relazioni reciproche dovrebbero essere indicativi del loro senso, senza essere relegate ad accidentalità empiriche, anche esso dovrebbe presentarsi come dimensione internamente interconnessa fra i singoli elementi. E questa preoccupazione, di presentare un paradigma metafisico adeguato a rispecchiare la realtà fedelmente, per poterne rendere ragione nel modo più oggettivo ed esauriente, è a tutti gli effetti una preoccupazione teoretica, riguarda il piano della conoscenza razionale. Si può fare buona o cattiva teoretica, ma la teoretica non è mai sostituibile dall'etica, non essendo questa una posizione contrapposta a quella, ma solo è un diverso e parallelo contesto in cui rapportarci alla realtà

 

  

Per Paul

 
La mia critica a un'impostazione socratica-platonica troppo astrattista poggia su basi lontane anni luce dal positivismo che relega qualunque discorso sulle "essenze" a forme primitivo di pensiero che una razionalità schiacciata sul metodo induttivo-empirico delle scienze naturali dovrebbe nel tempo superare. Personalmente condivido appieno la metodologia di fondare la razionalità dei discorsi sulla base dell'individuazione del loro senso universale astraendo dalle circostanze empiriche, che relegano le cose ai limiti spaziotemporali. Ciò che mi viene di contestare è il rifiuto di comprendere in tale senso universale il riferimento relazionale ad altre essenze, trattando ogni singola idea come del tutto isolata dalle altre, precludendosi la possibilità di vedere il mondo delle Idee come davvero rappresentativo del mondo dei fatti, rispecchiandone la relazionalità. Pensare che definire il "bello" come "ciò che piace alle persone", o il "santo" come "ciò che è amato dagli dei" implichi la perdita del senso universale di questi concetti è un errore dovuto alla confusione tra accezione formale della definizione e il contenuto semantico "riempiente", Anche definendo in questo modo concetti come "bellezza" o "santità", la loro definizione resterebbe comunque universale, cioè ne coglierebbe l'essenza, perché tale definizione li indicherebbe in ogni possibile contesto in cui si realizzano negli oggetti, in quanto ogni definire in quanto tale è universalizzare, indipendentemente dallo specifico significato che viene indicato nella definizione. Cioè, la relazione tra santità e amore degli dei o tra bellezza e piacere di una coscienza estetica, verrebbe indicata come proprietà universale della santità o della bellezza come idea in sé, e tale associazione può essere contestata non in nome dell'esigenze di universalità della definizione, ma solo sulla base di un alternativo modello di categorizzazione. Il mio obiettivo dunque non era dimostrare la validità della definizione di Eutifrone, ma la sua potenziale legittimità, a cui Socrate sembra opporsi non in nome di una coerenza logica deduttiva, ma di una pregiudiziale (non per questo errata) metafisica, nella quale gli Dei vengono posti su di un piano non dico ateistico, ma quantomeno di subordinazione rispetto all'idea astratta di Santità, ritenuta in grado di definire tautologicamente tutto ciò che è santo, isolandolo dal rapporto con le divinità.
#321
condivido molto l'impostazione di Socrate 78, e non ritengo vi sia nulla di sbagliato nel preferire un genere anziché un altro, dato che la scelta di ciò che si desidera leggere non può che avere un valore soggettivo, relativo cioè agli interessi che ciascuno liberamente si pone. Personalmente anch'io trovo in genere più stimolante la saggistica rispetto alla narrativa, il motivo è che nel relazionarmi a un saggio, cioè una forma letteraria in cui l'autore esplicitamente presenta e argomenti una tesi mirante a rispecchiare la verità oggettiva su un certo argomento, mi sento per così dire più "protagonista attivo", perché dato che il tema è appunto la realtà oggettiva, cioè un orizzonte la cui visione è potenzialmente aperta a tutti, sono più stimolato a confrontarmi interiormente con l'autore, sentendomi libero di poter essere d'accordo o in disaccordo con la tesi proposta. E nell'argomentare le mie posizioni mi sento partecipe dell'opera, sento che l'opera parla anche di me, perché intenzionata a rispecchiare delle verità oggettive, in quanto oggettive, ci accomunano tutti e di fronte a cui possiamo a nostra volta prendere una posizione. Questa possibilità è più difficilmente realizzabile nella narrativa, dato che un racconto non esprime una tesi, un'opinione, ma la narrazione di una storia, cioè eventi che accadono a personaggi, con cui non ho personalmente a che fare, e sui cui quindi è difficile trovare un legame che motivi l'interesse. In genere l'unica condizione entro cui potrei sentirmi coinvolto nella lettura di un racconto è l'intrecciare un legame di empatia e immedesimazione con uno dei personaggi, magari qualcuno con cui trovo di poter avere di valori o aspetti caratteriali in comune, in quel caso la simpatia potrebbe portarmi a seguire con interesse le sue vicende, perché mi rispecchierei in lui, e seguirei la trama sperando che le cose gli vadano bene. Non è facile che scatti questo meccanismo in modo così intenso (il racconto che finora più di tutti si è realizzato direi sia "Le notti bianche" di Dostoevskij, che quindi potrei collocare per ora al primo posto tra i miei libri di narrativa). Ovviamente so che nella narrativa oltre alla semplice storia c'è molto di più dietro, ci sono idee, visioni del mondo dell'autore ecc,, solo che personalmente mi trovo più a mio agio relazionarmi a teorie e concetti presentati esplicitamente come tali: ricavare le idee sulla base dell'interpretazione dei personaggi o degli eventi è operazione legittima e interessante, ma avrei spesso l'impressione di operare delle forzature, nel passaggio dalla narrazione particolare agli schemi teorici astratti e universali: a volte forse una storia è davvero solo una storia
#322
Tematiche Filosofiche / In difesa del povero Eutifrone
30 Settembre 2018, 17:59:56 PM
Qualche giorno fa, leggendo un saggio del teologo tedesco Romano Guardini su Socrate e Platone, ho colto uno spunto di riflessione riguardo un'eventuale fallo logico non secondario all'interno delle maglie solitamente così rigorose e consequienziali della maieutica socratica, e credo possa essere uno stimolo interessante da discutere qua. Il punto è il tema centrale del primo dei quattro dialoghi platonici dedicati alla morte di Socrate, l' "Eutifrone". Per chi non lo sapesse, Eutifrone è un uomo che Socrate incontra causalmente mentre sta per recarsi in tribunale per difendersi dall'accusa di corruzione. Eutifrone racconta di trovarsi nello stesso luogo per accusare suo padre dell'assassinio di un servo, e presenta la sua decisione come improntata ad un criterio di santità. Ben presto, la discussione vira sulla ricerca di una corretta definizione del concetto di "santità", in perfetta con l'impostazione socratica (e platonica), mirante a cogliere l'essenza universale dei concetti come presupposto fondamentale della ricerca razionale della verità delle questioni, in contrapposizione con la trascuratezza e il dogmatismo nell'utilizzo di questi concetti tipica degli esponenti della sofistica ateniese, filone in cui certamente va inquadrato Eutifrone.





Dopo esser stato redarguito da Socrate circa l'impossibilità di definire il "santo" come "ciò che è amato dagli Dei", in virtù dei continui litigi e conflitti tra le diverse divinità della religione olimpica che impedirebbero a tale definizione di indicare l'idea di santità in modo univoco e condiviso, Eutifrone corregge il tiro, precisando che il santo dovrebbe definirsi come "ciò che è amato da TUTTI gli dei". Ma Socrate non è soddisfatto nemmeno da quest'ipotesi di soluzione, respingendo la possibilità che la definizione essenziale di un concetto, la santità, possa coincidere con un qualcosa, l'amore degli Dei, che considera un fatto accidentale, un effetto secondario, che presupporrebbe l'essenza del concetto, senza dunque poterla rappresentare adeguatamente. Nell'approccio idealistico (nel senso di un idealismo classico, si intende, ben distinto da quello moderno tedesco) platonico, che si esprime per mezzo della figura di Socrate, il fatto empirico non può fondare il senso ideale di un concetto, ma viceversa, occorre prima definire quest'ultimo, in modo che possa illuminare tutti i fatti possibili immaginabili, in cui il concetto potrebbe realizzarsi. Dunque Socrate ribatte al suo interlocutore che l'amore degli Dei non può davvero definire la santità, dato che dovrebbe essere "l'essere amato dagli Dei" una conseguenza della santità di ciò che si ama, e non viceversa, e non si può utilizzare una conseguenza come definizione dell'essenza di qualcosa che della conseguenza ne è la ragion d'essere. Qua inizia la mia perplessità: a me pare che la critica socratica si accanisca sulla soluzione del "povero" Eutifrone in modo gratuito e pregiudiziale, cioè che si confonda una relazione logica di reciproca implicazione, la soluzione di Eutifrone, con la pretesa individuare il senso di qualcosa sulla base di una presunta produzione causale di questo senso a partire da ciò con cui si vorrebbe definirlo. Cioè, se l'amore degli Dei producesse in modo performativo la santità degli oggetti amati, se la santità fosse un mero effetto secondario dell'amore divino che la creerebbe dal nulla, attribuendola a degli oggetti in cui entrerebbe come attributo accidentale a posteriori, Socrate avrebbe ragione nel rigettare l' "essere amato" come definizione del santo, perché la "Santità in sè," intesa come Idea generale, non coinciderebbe con la santità fattuale che si realizza in una certa circostanza particolare, il fatto che sia amato da qualcuno. Il significato della Santità resterebbe tale indipendentemente dal fatto che nella realtà empirica gli oggetti diventino santi a causa della forza produttiva dell'amore. Ma se invece si considera non un rapporto causativo, ma di pura e reciproca implicazione logica fra amore degli dei e santità, cioè si pone l'amore come criterio riconoscitivo della santità delle cose, allora non vedo come la proposta di Eutifrone non possa presentarsi come possibile definizione della santità nella sua valenza essenziale. L'amore degli dei definirebbe l'idea di Santità, come attributo universale, senza produrla arbitrariamente in uno specifico contesto particolare. La definizione di Eutifrone è ovviamente contestabile (un ateo non la accetterebbe, come un credente in una fede monoteista respingerebbe l'accezione di pluralità degli Dei), ma logicamente legittima, non contraddittoria, rispettosa dei canoni di universalità richiesti dall'approccio socratico-platonico. Socrate può contestarla solo sulla base di premesse diverse da quelle di Eutifrone, ma a questo punto è chiaro che la sua critica, pur a sua volta legittima, è una critica estrinseca, pregiudiziale, non frutto stavolta dell'Ironia o della Maiuetica, Socrate non può considerare non valida la soluzione di Eutifrone, simulando ironicamente di accettare le sue premesse, per poi individuare una contraddizione interna al discorso, può contestarla perché sin dal principio fonda la sua critica su un rigetto della visione religiosa-mitologica del suo interlocutore.



La questione che ho provato a esporre potrebbe sembrare solo un rompicapo intellettualistico fine a se stesso e autoreferenziale, ma occorre considerare che il tema del Dialogo coinvolge un tema, quello del rapporto tra critica razionale-filosofica, impersonata da Socrate e tradizione mitologica incarnata da Eutifrone, e quanto la prima comporti più o meno il rigetto della seconda è una questione di larghissimo respiro che coinvolge tutto l'impianto metafisico che poi sarà di Platone, in particolar modo il suo livello di compatibilità con una visione religiosa nella quale gli Dei sono presentati come princìpi del reale caratterizzandoli in modo ben più concreto che non le Idee (e questo è un problema che riguarderà anche il tentativo cristiano, una volta operato il passaggio dal politeismo al monoteismo, di inserire l'idea specificamente personale di un Dio all'interno del sistema metafisico platonico modellato su base razionale). L'impressione è che Socrate potesse appagarsi solo se Eutifrone fosse pervenuto a una definizione di "santo" quasi tautologica, del tipo "santo è ciò che ricade sotto il concetto di santità", un'idea di Santità che si costituisce in totale autonomia con qualunque altro concetto. Ma questa la ritendo una deriva eccessivamente astrattista dell'idealismo platonico, che rischia di considerare il mondo delle Idee, come un sistema atomistico dove ogni singola Idea è solo un'unità logica semplice, semanticamente chiusa in se stessa, slegata da ogni relazione con le altre, perché ogni relazione viene relegata a livello dell'accidentalità, e dunque ad esempio il Santo esprime il suo senso nella sa pura formulazione astrattiva, riducendo a fattore accidentale la sua relazione con qualcosa di concreto come l'amore degli Dei verso esso, e finendo col porsi in contrapposizione con un modello metafisico nel quale invece si ricercano le connessioni concettuali tra Idee e realtà personali, come le divinità, l' unire l'ontologia formale astratta con quella concreta e "materiale". Molto più appropriatamente invece, noi intendiamo le definizioni come valide proprio nella misura in cui utilizzano concetti e parole distinti da quello del soggetto a cui la definizione è chiamata a riferirsi. Per definire un albero cerchiamo di trovare un'espressione in cui il termine "albero" non sia presente, pena cadere in un circolo vizioso infinito, in cui anche la definizione stessa dovrebbe chiarirsi sulla base di cui a sa volta si sente il bisogno di definire.
#323
Per Carlo Pierini



Sono pienamente d'accordo sulla presenza di una trascendenza interiore psichica avente la stessa dignità di autonomia della trascendenza esteriore della realtà fisica, ma per evitare la contraddizione di ritenere "inconsci" dei fenomeni che registriamo comunque a livello conscio (non mi risulta che Freud e Jung scrivessero le loro opere mentre erano in trance ipnotica, o nel corso dei loro sogni, ma in stato di veglia, condizione in cui potevano operare un'analisi razionale e conscia anche se applicata a un contenuto emergenti a livello onirico, ascoltando i racconti dei sogni dei loro pazienti, o, come credo in particolare nel caso di Jung, anche i loro propri sogni, ma comunque hanno potuto trattare l'inconscio nella misura in cui era cessato di essere tale, per divenire contenuto conscio), trovo necessario che tale trascendenza sia relativa non alla "coscienza", ma all'Io inteso come connotazione del soggetto come libero e attivo, responsabile di se stesso e delle proprie azioni, In questo senso, penso avrebbe una logica la definizione freudiana dell'inconscio come "Es", cioè una componente della psiche che sfugge all'autocoscienza deliminante un'individualità personale da parte dell'Io, la parte di noi che preesiste alla nostra libertà di autodeterminarci, e da dove dunque riceviamo passivamente i fenomeni. La "passività" è la chiave del discorso, è la passività l'avvertimento nella nostra coscienza della trascendenza delle cose rispetto al nostro Io da cui provengono i fenomeni esperiti: come nell'esperienza sensibile la passività, intesa come incapacità dell'Io di selezionare arbitrariamente i contenuti da percepire a legittimare l'ulteriorità di un mondo esterno che realmente entra in contatto col nostro corpo per farsi esperire, così a livello psichico, una trascendenza interiore non posta dall'Io, ma presente in noi si manifesta alla luce dell'incapacità dell'Io di scegliere liberamente cosa sognare, il contenuto delle visioni, i lapsus. In virtù di ciò trovo ambiguo a contradditorio il termine "inconscio", che non può trascendere la coscienza, dato che tutto quel che ne possiamo sapere lo sappiamo nella misura in cui entra all'interno dei confini della coscienza, il suo significato sarebbe meglio indicato da un termine come "transegoico", che appunto sottolinea il senso vero della sua trascendenza, non trascendente la coscienza, ma l'Io, inteso come punto originario degli atti liberi della persona
#324
potenzialmente, non solo la psicologia potrebbe fregiarsi del titolo di "scienza", ma addirittura occupare un posto privilegiato all'interno di un sistema comprendente il complesso delle scienze, in quanto se ogni forma di osservazione della realtà presuppone un Io cosciente osservante, con annessi tutti i vari vissuti tramite cui ci relazioniamo ad essa, che nel complesso costituiscono la psiche, la psicologia, cogliendo il significato dei singoli vissuti, avrebbe il compito di chiarire le fondamenta stesse di ogni scienza, avendo chiaro ogni elemento della realtà correlato agli atti psichici soggettivi tramite cui ne facciamo esperienza. Sarebbe la psicologia, ad esempio, a chiarire la distinzione essenziale tra "empatia" e "simpatia", ricordando allo studioso empirico delle scienze sociali a non presumere un passaggio logico necessario sempre valido tra il rilevare tracce di comprensione intersoggettiva all'interno di un gruppo, di una comunità (empatia), e l'indurre la presenza di legami di solidarietà e condivisione valoriale tra le persone (simpatia). Per assurgere a questo ruolo fondativo, la psicologia dovrebbe rivedere radicalmente il proprio statuto epistemologico, passando da scienza empirica a scienza trascendentale. Fintato che la psicologia resta sapere empirico, cioè sapere che osserva il suo oggetto nell'atteggiamento naturale-ingenuo, come una cosa trascendente, separata rispetto alla coscienza, resta condannata al residuo di dogmatismo presente in ogni realismo ingenuo: la pretesa di poter conoscere con certezza qualcosa senza considerare il suo legame con gli atti soggettivi della coscienza che ne fa esperienza, la pretesa di una necessaria coincidenza fra il contenuto fenomenico e la realtà oggettiva. Mutuando lo stesso metodo di ricerca delle altre scienze naturali, la psicologia perde contatto con l'ambito nel quale solo è possibile fondare una sapere certo e fondativo delle relazioni fra gli elementi che costituiscono il suo oggetto di indagine, la psiche, vale a dire la coscienza, che viene "lasciata alle spalle", presupposto non più tematizzato ed esplicitato. Trattando la psiche come realtà naturale fra le altre, come un albero, una pietra, studiabile come un oggetto dall'esterno, separandola dalla coscienza, la psicologia diventa una scienza come le altre, come tutte le altre soggetta alle fallacie del metodo induttivo e al residuo dogmatico del realismo ingenuo di cui sopra. E in questo quadro si possa credo considerare anche la posizione dell'inconscio così problematica, come intesa spesso nella psicanalisi: l'inconscio inteso come realtà trascendente rispetto alla coscienza, di cui però si presume di averne una conoscenza ben articolata, e dunque, in evidente contraddizione, di poterne avere un'esperienza cosciente, dunque non più separabile dalla coscienza. Una volta passata da un livello empirico a uno trascendentale, cioè ad una consapevolezza della coscienza come "assoluto" (non assoluto in senso ontologico o men che meno teologico, ma gnoseologico: "assoluto" nel senso che nessuna conoscenza è possibile se non considerata come fenomeno in rapporto a una coscienza) anche l'idea stessa dell'inconscio sarebbe meglio riformulata: non più realtà autonoma dalla coscienza, ma come "coscienza potenziale": considerando l'essere umano in termini aristotelici, come ente diveniente e imperfetto, cioè sintesi di potenza e atto, l'inconscio designerebbe il complesso degli elementi psichici di cui attualmente non disponiamo un sapere cosciente, che sfugge alla consapevolezza attuale e provvisoria di un singolo individuo, e che in un teorico ipotetico futuro potremmo comprendere e far diventare "conscio", cioè far passare la coscienza di tali elementi dalla potenza all'atto. Cioè l'inconscio non sarebbe più una realtà oggetto di un sapere "positivo" contrapposto al sapere della coscienza, ma solo un'idea limite, una negatività relativa ai limiti della nostra coscienza imperfetta. Ma questi limiti non colpirebbero l'idea di coscienza in generale, vista nella sua essenza trascendentale, ma le forme in cui la coscienza si realizza empiricamente nelle realtà degli esseri umani in carne e ossa. L'imperfezione non sarebbe nella coscienza in sé, ma nelle nostre realtà in cui essa è compresa.
#325
Tematiche Filosofiche / Re:Perchè il materialismo basta
17 Settembre 2018, 16:04:12 PM
quote author=SamuelSilver link=topic=1241.msg24180#msg24180 date=1537140307]
Citazione
Citazione di: viator il 16 Settembre 2018, 19:26:17 PMSalve. Per SamuelSilver : Ho apprezzato il fatto che (mi sembra) tu condivida il concetto per il quale la qualità delle cose, una volta risolta a livello essenziale, finisca invariabilmente per rivelarsi solo come un insieme di rapporti (precedentemente ignoti) tra le diverse quantità dei loro ingredienti e delle relazioni tra questi.
[size=undefined] Si, questo è esattamente ciò che penso. [/size]
CitazioneNon amo le trattazioni chilometriche. A proposito di monade e materialismo, anzi del "contrario" del materialismo, se vorrai potrai dare un'occhiata al "nuovo" argomento che ho inaugurato minuti fa. Cordialmente. PS : Ho apprezzato anche la tua chiarezza e ragionevolezza, nonché la persino eccessiva educazione con la quale sempre ti esprimi.
[size=undefined] Si mi rendo conto che è piuttosto lunga come argomentazione, ma lo è perchè ho cercato di essere il più chiaro possibile: sacrifico volentieri la sintesi se ciò vuol dire far capire meglio il messaggio. Grazie degli apprezzamenti comunque e per quanto riguarda l'eccessiva educazione, lo faccio perchè un'atmosfera positiva è essenziale per qualsiasi scambio di opinioni ragionevole: in questo modo si è più disposti ad ascoltare ed eventualmente accettare ciò che gli altri hanno da dire. Vorrei ora rispondere a Sgiombo. [/size]
Citazione
Citazione di: sgiombo il 16 Settembre 2018, 12:54:07 PM Mi scuso con SamuelSilver per l' incalzare un po' ossessivo delle obiezioni e integrazioni alle obiezioni, ma l' argomento mi sta tantissimo a cuore ...contrariamente alla maggior parte dei frequentatori del forum, a quanto pare, purtroppo
[size=undefined] [size=undefined]Innanzitutto non c'è bisogno di scuse: d'altronde si sta parlando di ragionamenti scaturiti da tue idee ed è normale essere pignoli. Ciò che vorrei chiarire è la parte del "fantasma nella macchina". Mi accorgo ora dell'inevitabile confusione scaturita dal mio erroneo utilizzo del termine "vedere". Mi rendo conto che è paradossale pensare che ci sia qualcuno che "vede" gli eventi cerebrali dentro di noi poichè in questo modo si andrebbe avanti all'infinito nell'ipotizzare omuncoli dentro altri omuncoli. Mi scuso per la confusione e chiedo di sostituire le parti in cui parlo di "vedere" con quanto segue. La differenza tra punto di vista esterno e interno che ho descritto si può riassumere con: essere i qualia è diverso dal "vedere" i qualia (che sarebbe come a dire "essere un tavolo è diverso dal vedere un tavolo"). Io non affermo che con il punto di vista interno qualcuno possa vedere i propri qualia, ciò che intendevo è che il punto di vista interno corrisponde all'essere i qualia, mentre quello esterno corrisponde al "vedere" i qualia. Cosa vuol dire vedere i qualia? Vuol dire che io, in quanto qualia, sono influenzato dai qualia di qualcun'altro. Ora bisognerebbe fare un passo ulteriore affermando che i qualia sono processi cerebrali. Ne consegue che: essere dei processi cerebrali è differente dal "vedere" dei processi cerebrali. Cosa vuol dire vedere i processi cerebrali? Vuol dire che io, in quanto processo cerebrale, sono influenzato dai processi cerebrali (attraverso, per esempio, la visione di immagini fMRI) di un cervello diverso dal mio. Si potrebbe anche dire che l'essere influenzati da processi cerebrali del proprio cervello è diverso dall'essere influenzati da processi cerebrali del cervello altrui. L'apparente limitatezza del materialismo nello spiegare i fenomeni mentali sarebbe dovuta a questa diversità. Spiegare i fenomeni mentali, infatti, corrisponde unicamente alla descrizione di tali fenomeni in termini di processi cerebrali visti dall'esterno. L'ipotetica ulteriore spiegazione che il materialismo non riesce a dare corrisponde in realtà all'esperienza soggettiva di essere questi processi cerebrali. Ma questa non è una spiegazione. Se sto cercando di spiegare come fa Tizio a percepire un fiore, poter entrare nella sua mente e provare quello che prova lui non aggiunge niente, da un punto di vista funzionale, alla spiegazione materiale che potrei dare dall'esterno, se non il fatto che ora ho in memoria l'esperienza di essere stato i processi cerebrali di Tizio e di aver visto il fiore come lo vede lui (ed ecco Paul Churchland). Ma ciò che interessa non è avere in memoria le esperienze soggettive di tutti, ma spiegare queste esperienze in termini oggettivi e utili a chiunque. Spero di essere stato più chiaro questa volta. [/size] [/quote][/size]

 

trovo corretto distinguere un piano descrittivo-fenomenologico nel quale tramite l'esperienza si esperiscono i "qualia", le esperienze vissute nella misura in cui le avverte soggettivamente, rispetto alla questione esplicativa-causale, per la quale uno scienziato naturale ricerca le cause neurologiche, di ordine materiale, dei processi materiali. Ma questa distinzione non può essere esasperata al punto di farci dimenticare la necessita di un nesso di proporzionalità che sempre dovrebbe intercorrere tra causa ed effetto. La spiegazione causale di un fenomeno non può prescindere dall'osservazione della natura dell'effetto, ma deve individuare una causa adeguata ad essa, e per questo non si può trascurare l'esperienza interna delle qualità dei fenomeni nella soggettività, al contrario è a partire da essa che vanno considerate delle cause adeguate ad esse. Nell'esperienza interna avvertiamo la nostra vita come una realtà attuale, costantemente dinamica, in cui ogni istante presente da un lato si protende a trattenere  il residuo delle esperienze passate e dall'altro si slancia verso il futuro, mentre dal punto di vista dell'esperienza esterna, lo studio implica la staticizzazione dell'oggetto, la sua cristalizzazione all'interno di un particolare contesto spazio-temporale in cui l'osservazione viene effettuata: l'osservazione esterna, che nell'ottica rigorosamente materialistica dovrebbe essere l'unico possibile approccio allo studio della coscienza perché unico punto di vista in cui comprendere il cervello, necessita che la realtà osservata risponda a delle leggi causali costanti individuabili a partire dalla realtà che osservo in determinato tempo, realtà che deve per così dire "stare ferma", perché intendendola come un dinamismo, sarebbe impossibile notare come i meccanismi che la governano in un certo momento continuerebbero a vigere anche negli altri. La cosa si può capire con l'esempio della fotografia: pensare che l'osservazione esterna colga la realtà in forma più veritiera rispetto all'esperienza soggettiva nella mia coscienza sarebbe come pensare che la foto di un uccello in volo, cioè un uccello "oggettivizzato", rappresentato in un oggetto esterno al mio sguardo soggettivo come appunto la foto, rappresenti il volo dell'uccello più autenticamente che il mio sguardo nudo e soggettivo, che coglie il volo nella sua dinamicità. La verità non è nella foto, nell'oggettivazione, che vede l'uccello fermo, ma nell'esperienza soggettiva del suo dinamismo, della sua attualità, la verità della foto presupporrebbe la staticità del suo oggetto, quando ritrae qualcosa in movimento si fa sfocata, "viene mossa" (faccio notare che anche ipotizzando la possibilità di continui scatti ripetuti di foto, ancora non avremmo rappresentata la realtà del volo, ma solo una serie di immagini statiche da cui non si può indurre l'unità dinamica del processo di volo: una somma di staticità non fa il movimento, il movimento presuppone l'interiorità qualitativa della spinta del soggetto in questione, nel nostro esempio, l'energia vitale dell'uccello). Quindi se ci interessa lo studio della soggettività, che per definizione, indica l'attualità e la dinamicità di un ente che come "soggetto" compie delle azioni, la pretesa di rappresentarlo perfettamente e compiutamente dall'esterno, come un "oggetto" che staticamente e passivamente attende di essere osservato, appare inadeguata, in quanto è proprio l'approccio esterno e oggettivante che per i suoi limiti strutturali è incapace di dar conto del dinamismo e dell'originalità della vita cosciente, che proprio in quanto "soggettiva", "attiva", non può essere trattata come un oggetto passivo, senza subire una distorsione quantomeno parziale della sua rappresentazione, come appunto un foto sfocata che ritrae qualcosa che si muove.
#326
Citazione di: 0xdeadbeef il 11 Settembre 2018, 17:27:49 PM
Citazione di: davintro il 10 Settembre 2018, 20:34:25 PMi contenuti fenomenici nella mia coscienza non sono prodotti arbitrari dell'Io, perché non sono il prodotto di una volontà di un Io, che liberamente decide di immaginare una certa cosa in un modo anziché in un altro, ma rappresentano l'essenza, il nucleo necessario della cosa, una volta spogliata, tramite l'epoche, degli aspetti che lo vincolerebbero a un determinato contesto empirico spaziotemporale, accidentale rispetto al suo senso. La sospensione del giudizio di esistenza spoglia la cosa di un attributo non necessario, per mettere in evidenza gli aspetti necessari ed essenziali. Torno sull'esempio con cui tempo fa avevamo discusso, la memoria. Che ogni atto soggettivo noetico, l'atto del ricordare da parte di un Io, implica un contenuto oggettivo, il noema, il fenomeno oggettivo del "ricordato". La corrispondenza tra una noesi, ricordo, e un noema, un ricordato, non è una produzione soggettivistica e arbitraria dell'Io, ma una necessità strutturale dell'intenzionalità che caratterizza ogni coscienza, come ad ogni pensiero corrisponde un pensato, ad una percezione un percepito, ad un ricordo un ricordato. La dimostrazione di tale necessità è data dal fatto che essa è un residuo che resta presente anche una volta che, tramite riduzione fenomenologica, metto tra parentesi, cioè sospendo il giudizio circa la verità effettiva del ricordo, la corrispondenza fra rappresentazione mentale del ricordato e corrispondenza con l'effettiva realtà del passato: se anche fossi vittima di un'illusione circa il fatto che il mio ricordo rappresenti un evento del passato realmente accaduto, resta il fatto che non posso dubitare di stare provando un'esperienza cosciente intenzionalmente riferita al passato, avente una qualità vissuta distinta da quelle vissute nella percezione di un fenomeno presente, o di un'immaginazione rivolta al futuro. Questa qualità vissuta rappresenta un dato oggettivo, anche se intracoscienziale, in quanto non posto arbitrariamente dall'Io, ma riconosciuto come essenza necessaria del ricordo, essendo residuo della radicalizzazione del dubbio che elimina gli aspetti non-necessari. Una volta individuate le varie distinzioni qualitative delle singole specie di atti con cui la coscienza attribuisce un senso alle cose del mondo, possiamo stilare una "mappa" (spero così di riuscire a chiarire meglio il punto anche per Oxdeadbeef, oltre che per me stesso) delle varie modalità in cui la coscienza entra in relazione con il mondo sulla base dei vari atti di esperienza vissuta, distinguibili sulla base delle differenze in cui i loro oggetti vengono vissuti in essa. Ad esempio, dalla distinzione qualitativa del ricordo rispetto al presente e al futuro, sarebbe possibile individuare una regione dell'Essere corrispondente alla conoscenza storica, cioè il modo in cui un Io si relaziona al passato, come ambito distinto dalle esperienze del presente e del futuro, e quindi dotata di caratteristiche, strutture e regole autonome.
Potremmo, se ben interpretto, dire la medesima cosa affermando che la corrispondenza fra il "segno" e l'oggetto indicato dal segno non è una produzione soggettivistica, ma una necessità strutturale. Il "problema", dal punto di vista semiotico (e, almeno per me, kantiano), è dire se e in quale misura il "segno" rappresenta l'oggetto (non che la loro corrispondenza sia o non sia una necessità strutturale - evidentemente lo è). Se, ad esempio, io dico "barca" ne avrò una certa immagine; magari un milionario immaginerà un lussuoso yacht e un indigeno della Nuova Guinea una piroga: chiaramente si tratta di visioni diverse ma che non escludono un "contesto comune", come ad esempio quello rappresentato da un qualcosa che galleggia sull'acqua. E vengo dunque alla domanda: intendi forse un qualcosa di simile con i termini "mappa" e "ontologia regionale"? Cioè intendi una ricerca di un qualcosa di "comune" nelle varie rappresentazioni (un qualcosa di comune che, voglio dire, ne possa indicare in un certo qual modo l'"oggettività")? saluti (scusami l'insistenza ma l'argomento mii interessa assai)


se ho ben capito l'appunto, mi verrebbe da notare un'analogia fra dei caratteri universali su sui poggia la definizione linguistica del segno, un residuo che permane identico rispetto alla molteplicità delle diverse interpretazioni che diverse persone e culture potrebbero attribuire, e l'universalità delle qualità delle esperienze vissute dei fenomeni, che nel discorso che provavo a esporre, era la base teorica della delineazione di una "mappa" delle varie forme tramite cui la coscienza umana dà significato alle cose del mondo. Resta però l'importante differenza per cui, mentre l'universalità linguisticamente indicata dal segno resta pur sempre una convenzione arbitraria dell'uomo, strutture, che anche se possono avere un certo appiglio semantico con la cosa stessa che indicano (evidente ad esempio nel caso del linguaggio onomatopeico), le essenze che specificano i vari vissuti della coscienza non sono un prodotto umano, ma un dato che l'uomo intuisce come necessario, vigente a livello trascendentale, cioè per ogni tipo di coscienza possibile immaginabile, perché residuo della spoliazione (riduzione fenomenologica) di tutti gli aspetti contingenti e dubitabili del fenomeno. Quindi l'oggettività e l'universalità della "mappa" ha a mio avviso un supporto nelle strutture della coscienza più forte di quello linguistico-segnico su cui fanno leva l'universalità semantica delle definizioni: mentre posso immaginare senza grandi problemi un futuro in cui potremmo usare un termine diverso da "casa" per indicare la casa, oppure addirittura in cui faremmo a meno di un apposito termine sostitutivo, in favore di diversi termini indicanti diverse specie di case, è al di fuori di qualunque pensabilità che un ricordo venga vissuto con la stessa qualità coscienziale di una percezione presente, o che un atto di empatia rivolto all'interiorità di un altro sia vissuto con la stessa qualità con cui sentiamo la nostra interiorità negli della percezione interna, e questa "oggettività", anche se di tipo fenomenico e intracoscienziale, resterà sempre, anche nel caso decidessimo convenzionalmente di utilizzare segni, termini linguistici come "empatia", "ricordo" ecc. A queste differenze di essenze di vissute coscienti corrispondono diverse "regioni" dell'essere, diversi modi in cui la coscienza si relaziona al mondo, il modo di relazionarsi nel ricordo, non può coincidere con quello nell'empatia ecc., e il complesso di queste regioni è la "mappa". Tutto ciò è dovuto al fatto che l'espediente metodologico tramite cui pervengo all'evidenziazione del nucleo essenziale dei fenomeni, cioè dei contenuti degli atti di esperienza vissuti della coscienza, l'epochè, coincide con il passaggio da un punto di vista in cui il mondo mi appare come complesso di cose utilizzabili sulla base di esigenze pratiche, a un punto di vista, che poi è quello autenticamente filosofico, guidato da istanze puramente teoretiche, di chiarificazione scientifica del senso dei vissuti tramite cui la mia coscienza si relaziona al mondo. Le essenze dei vissuti non coincidono con segni e definizioni linguistiche, rimandano ad un livello di rapporto coscienza-mondo prelinguistico, interiore, che non consiste nella produzione di strumenti pratici tramite cui intervenire attivamente nella realtà dei fatti, mentre in tale produzione rientra il linguaggio, che anche se non va considerato del tutto separato e indifferente rispetto al piano del pensiero, se ne distingue in quanto prodotto umano utilizzabile a fini comunicativi, cioè pratici. Le parole servono per intendersi, e senza intesa intersoggettiva la vita sarebbe praticamente impossibile, le essenze dei vissuti coscienziali invece non hanno un'utilità pratica direttamente applicabile nell'azione, ma rispondono a una necessità teoretica di individuazione delle fondamenta trascendentali a partire da cui ogni scienza è possibile, un apriori teoretico, da qui la loro irriducibilità ai "segni" o alle definizioni linguistiche.
#327
io non vorrei apparire risentito e offensivo verso qualcuno, ma confesso che mi dispiace molto, leggendo la maggior parte dei commenti, avvertire come non sia adeguatamente sentito un valore che reputo di una dignità assoluta, quello della Libertà Individuale, che viene quasi relegato a un capriccio ideologico del liberalismo (liberalismo che, faccio notare, è quella cosa che consente a tutti noi di poter stare in questo forum a esprimere le nostre opinioni senza timore che qualche polizia statale ci legga e ci  possa incriminare e incarcerare perché dissentiamo dai governanti...), quando invece è un valore solidamente radicato in un dato reale, quello della singolarità e unicità di ciascuna personalità individuale: dalla diversità di ciascuna persona discende che il benessere di ciascuno non può mai coincidere con l'idea di benessere adeguata per tutti gli altri, quindi, nessuno ha il diritto di imporre il suo modello di giusto e di bello a tutti come fosse un valore necessariamente oggettivo e che tutti dovrebbero condividere. Ma chi siamo noi per giudicare male le persone a cui piace andare ai centri commerciali, anche di domenica (proprio perché, magari hanno meno tempo durante la settimana, lavorando), da dove nasce la pretesa di imporre a tutti gli altri i nostri gusti, il nostro modo di vivere, perché non deve esserci il rispetto delle diversità? Ovviamente ciò non vuol dire che io sia per un modello di società anarchica, caotica, senza regole. Ogni stato impone delle regole, ma (qui mi pare di rispondere soprattutto a Baylahm) ciò non vuol dire che si debba parlare di "stato etico": lo stato a mio avviso deve limitarsi a essere una funzione pratica, non un'autorità morale che impone a tutti un'ideale di giustizia omologante, le regole sono un male necessario, che serve a garantire in modo più efficace un bene maggiore, la tutela dei diritti fondamentali e naturali dei singoli: nel momento in cui la mia libertà danneggia i diritti e le libertà fondamentali di un altro, lo stato interviene per cercare di impedirlo, ma ciò non per un convincimento morale, ma per tutelare a livello collettivo più ampio l'idea stessa di libertà. L'intervento statale dovrebbe essere lecito solo nel caso in cui la libertà che limita è di misura inferiore a quella che verrebbe messa a repentaglio non intervenendo. Lo stato non dovrebbe punire il ladro o l'assassino perché "uccidere e rubare è immorale", o peggio ancora per vendetta, ma solo sulla base di un ragionamento pratico di massimizzazione di libertà e conseguentemente di benessere: la limitazione della libertà del ladro e dell'assassino è una limitazione della libertà inferiore a quella che i cittadini potrebbero subire nella gestione dei loro diritti di vita e proprietà, lasciando individui socialmente pericolosi continuare ad agire indisturbati. Tornando al caso della chiusura dei centri commerciali di domenica, la domanda che dovremmo chiederci è: la limitazione della libertà che tale intervento determina è giustificabile, in termini di massimizzazione, cioè di tutela di una libertà più ampia? A me pare che ciò non risulti, al contrario ci troviamo di fronte un ingiustificato arbitrio statale dettato da convincimenti demagogici e moralistici, come la sacralità religiosa della domenica, che in uno stato laico non dovrebbe in alcun modo essere una motivazione per limitare le scelte delle persone, oppure una retorica nostalgica, moralista e familista che non è affatto debba essere condivisa da tutti (personalmente, pur con tutti i suoi difetti mi ritengo fortunato a essere nato in quest'epoca, e il mio pensiero non mi rende moralmente inferiore a chi la pensa diversamente, o quantomeno non discriminabile sulla base di scelte politiche). La libertà di chi apprezza i centri commerciali e sceglie di andarci di domenica non limita la libertà di non andarci di chi non li apprezza, la scelta delle persone di lavorare di domenica non limita la libertà di chi preferirebbe passare questo giorno in altri modi, di scegliersi un lavoro in cui il riposo domenicale è previsto.

Con ciò non voglio affermare che il mercato del lavoro sia attualmente una condizione perfetta e paradisiaca, il migliore dei mondi possibili, e che non sia migliorabile e riformabile per andare meglio incontro alle esigenze dei lavoratori (nonché dei consumatori). Il tempo libero è un valore che mi sta molto a cuore, ma il suo valore sta proprio nel suo essere LIBERO, cioè tempo dedicato a fare ciò che ci piace e ci appaga interiormente: dal punto di vista di uno stakanovista che ama il suo lavoro, e non avrebbe alcun problema nel lavorare 24 h su 24 h, il "tempo libero" non sarebbe davvero tale, sarebbe un'imposizione esterna, che, fosse a lui a decidere liberamente, forse non avrebbe. Un tempo libero/imposto per legge è un ossimoro. Mi ritengo un grande sostenitore dell'Otium letterario, una condizione in cui le persone saranno liberate dallo stress della frenetica ricerca di prestazioni, per uno stile di vita basato sulla lentezza e sul godimento dei piaceri estetici e intellettuali, ma non vorrei  mai che tale condizione fosse imposta per legge, vorrei che fosse il risultato di una progressiva rivoluzione interiore che ciascuno di noi opera in se stesso in modo spontaneo, senza forzature imposte da chi, i governanti, non hanno alcun titolo per condannare il modo in cui desidero vivere, fintanto che non produce danno a nessuno. Anziché tramite arbitrarie e moralistiche imposizioni, riterrei opportuna una politica che intervenisse per migliorare la qualità del lavoro, rendendolo più possibile armonico con i tempi della vita e delle relazioni umane, tramite interventi indiretti, come possono essere incentivi fiscali (sgravi) per le aziende che investono particolarmente nel part time, nei contratti che prevedono un certo margine di autonomia del lavoratore nella gestione degli orari di lavoro, superando lo schema meccanicistico ottocentesco per cui la produttività viene fatta coincidere un orario di lavoro fisso e rigido, nel telelavoro che consente di poter lavorare da casa...
#328
Citazione di: sgiombo il 10 Settembre 2018, 14:50:19 PM
Citazione di: davintro il 08 Settembre 2018, 17:49:19 PMIl puro riconoscimento kantiano dell'Io penso come appercezione trascendentale non è a mio avviso sufficiente a colmare il fossato tra fenomeno e noumeno (cioè a superare il rischio dello scetticismo). L'Io penso, inteso come puro atto soggettivo unificatore di tutte le mie rappresentazioni, ancora non legittima l'idea che i contenuti oggettivi delle rappresentazioni siano descrivibili in base a leggi a-priori e necessarie, manca cioè il collegamento intenzionale tra noesi, atti soggettivi di coscienza, e noemi, contenuti oggettivi intenzionati dalle noesi, su cui tanto insiste la fenomenologia. L'io-penso kantiano è una noesi del cui accadere possiamo essere certi, ma che non riesce a implicare la certezza delle attribuzioni di qualità essenziali ai suoi noemi oggettivi, la certezza dell'Io penso resta una certezza di qualcosa di soggettivo, non accompagnata dalla certezza di un sapere oggettivo, anche se fenomenico, perché l'approccio kantiano, probabilmente ancora troppo influenzato dall'empirismo, identifica l'oggettività con la trascendenza del realismo ingenuo, delle cose del mondo esterno nella misura in cui non sono fenomeni, e siccome, giustamente, Kant riconosce che non ha senso pensare ad un'oggettività senza che sia data fenomenicamente a una coscienza (altrimenti come potremmo pensarla?), allora deduce, erroneamente secondo me, che non sia possibile una conoscenza dell'oggettività tout court. Invece la lezione fenomenologica consiste nell'affermare la possibilità di un sapere oggettivo, non nel senso del realismo ingenuo, che separa totalmente le cose dalla coscienza che ne ha esperienza, ma nel senso di un' oggettività intrafenomenica, cioè residuo della certezza della coscienza soggettiva, collegata ad essa tramite la relazione (intenzionalità) noesi-noema: una volta che mi rendo conto che il mio Io cosciente resta come residuo indubitabile dopo la messa fra parentesi della pretesa di esistenza delle cose al di là del mio Io, intuisco che in questo residuo resta non solo l'Io come attività soggettiva (noesi), ma anche i propri contenuti fenomenici oggettivi (noemi), che anche una volta non associati più a cose esistenti nel mondo trascendente, restano comunque come contenuto dei nostri vissuti esperienziali registrati nella coscienza. Anche quando comincio a dubitare che la percezione dell'albero rimandi a un albero reale, perché potrei essere vittima di un'allucinazione, non per questo l'immagine percettiva dell'albero cessa di restare contenuto nella mia coscienza. E una volta appurato questo punto, inizia la trattazione analitica vera e propria, individuare e discernere nel complesso dei contenuti fenomenici, le sfumature che segnano le varie diversità qualitative a cui far corrispondere i differenti ambiti nei quali la realtà è strutturata in tutti i suoi aspetti, riuscendo a sviluppare una "mappa" delle varie dimensioni dell'essere e delle corrispondenti punti di vista soggettivi tramite cui la coscienza attribuisce loro un determinato senso (compresi anche le varie discipline scientifiche) ad esse ordinate, evitando sovrapposizioni, confusioni di approcci ecc. La validità oggettiva della mappa sarebbe garantita dal fatto che le qualità oggettive dei fenomeni da cui l'analisi ha mosso piedi sono necessariamente implicate nella relazione con l'indubitabilità della coscienza soggettiva che le comprende. Credo sia questo a grandi linee il senso della cosiddetta "ontologia regionale" proposta da Husserl, con le "regioni" dell'essere a cui corrispondono le diverse specie di fenomeni oggettivi, qualitativamente distinte nell'analisi, almeno per come penso di aver capito la cosa, con tutti i miei grandi limiti...
Ma come si può (ti domando; secondo me non si può) dimostrare (logicamente; posto che in alternativa il -preteso- concetto di una constatazione empirica sarebbe a mio parere con tutta evidenza autocontraddittorio) questa "intuizione" secondo cui esisterebbe realmente una relazione (intenzionalità) noesi-noema fra dati fenomenici di coscienza e realtà in sé, indipendente dalla coscienza di essi? A mio parere ciò di cui vi può essere indubitabile certezza (se e quando accade) é l' esistenza dei dati fenomenici (mentali) costituenti il pensiero "io penso" (non necessariamente, non con indubitabile certezza vero) e non di un "io" reale indipendentemente da essi, anche se e quando essi non accadono realmente (e dunque diverso da essi). Ma anche ammesso e non concesso ciò, se una volta che mi rendo conto che il mio Io cosciente resta come residuo indubitabile dopo la messa fra parentesi della pretesa di esistenza delle cose al di là del mio Io, intuisco che in questo residuo resta non solo l'Io come attività soggettiva (noesi), ma anche i propri contenuti fenomenici oggettivi (noemi), che anche una volta non associati più a cose esistenti nel mondo trascendente, restano comunque come contenuto dei nostri vissuti esperienziali registrati nella coscienza, allora l' aggettivo "oggettivi" attribuito ai propri contenuti fenomenici non é corretto, dal momento che essi restano comunque come contenuto dei nostri vissuti esperienziali registrati nella coscienza (fenomenica, soggettiva, ovvero propria di noi soggetti di essa). Anche quando comincio a dubitare che la percezione dell'albero rimandi a un albero reale, perché potrei essere vittima di un'allucinazione, non per questo l'immagine percettiva dell'albero cessa di restare contenuto nella mia coscienza: appunto, nient' altro che un contenuto di coscienza, indistinguibile in alcun modo -di per sé- da quello costituito da un albero sognato e percepito allucinatoriamente, comunque nulla di reale in sé, anche se e quando la sua (di esso, costituente esso) sensazione cosciente (soggettiva) non accade, nulla di indipendente dall' accadere di essa. E una volta appurato questo punto, la trattazione analitica vera e propria, individuare e discernere nel complesso dei contenuti fenomenici, le sfumature che segnano le varie diversità qualitative a cui far corrispondere i differenti ambiti nei quali la realtà è strutturata in tutti i suoi aspetti, riuscendo a sviluppare una "mappa" delle varie dimensioni dell'essere e delle corrispondenti punti di vista soggettivi tramite cui la coscienza attribuisce loro un determinato senso (compresi anche le varie discipline scientifiche) ad esse ordinate, evitando sovrapposizioni, confusioni di approcci ecc. non può assolutamente andare oltre i dati fenomenici, non può assolutamente attingere alcuna realtà in sé, resta conoscenza di meri fenomeni nell' ambito della coscienza e di nient' altro: "esse est percipi"! La validità oggettiva della mappa non può essere garantita dal fatto che le qualità dei fenomeni da cui l'analisi ha mosso piedi sono necessariamente implicate nella relazione con l'indubitabilità della coscienza soggettiva che le comprende. Esse non hanno comunque alcuna realtà indipendente dall' accadere reale dell' esperienza cosciente soggettiva di cui fanno parte.



i contenuti fenomenici nella mia coscienza non sono prodotti arbitrari dell'Io, perché non sono il prodotto di una volontà di un Io, che liberamente decide di immaginare una certa cosa in un modo anziché in un altro, ma rappresentano l'essenza, il nucleo necessario della cosa, una volta spogliata, tramite l'epoche, degli aspetti che lo vincolerebbero a un determinato contesto empirico spaziotemporale, accidentale rispetto al suo senso. La sospensione del giudizio di esistenza spoglia la cosa di un attributo non necessario, per mettere in evidenza gli aspetti necessari ed essenziali. Torno sull'esempio con cui tempo  fa avevamo discusso, la memoria. Che ogni atto soggettivo noetico, l'atto del ricordare da parte di un Io, implica un contenuto oggettivo, il noema, il fenomeno oggettivo del "ricordato". La corrispondenza tra una noesi, ricordo, e un noema, un ricordato, non è una produzione soggettivistica e arbitraria dell'Io, ma una necessità strutturale dell'intenzionalità che caratterizza ogni coscienza, come ad ogni pensiero corrisponde un pensato, ad una percezione un percepito, ad un ricordo un ricordato. La dimostrazione di tale necessità è data dal fatto che essa è un residuo che resta presente anche una volta che, tramite riduzione fenomenologica, metto tra parentesi, cioè sospendo il giudizio circa la verità effettiva del ricordo, la corrispondenza fra rappresentazione mentale del ricordato e corrispondenza con l'effettiva realtà del passato: se anche fossi vittima di un'illusione circa il fatto che il mio ricordo  rappresenti un evento del passato realmente accaduto, resta il fatto che non posso dubitare di stare provando un'esperienza cosciente intenzionalmente riferita al passato, avente una qualità vissuta distinta da quelle vissute nella percezione di un fenomeno presente, o di un'immaginazione rivolta al futuro. Questa qualità vissuta rappresenta un dato oggettivo, anche se intracoscienziale, in quanto non posto arbitrariamente dall'Io, ma riconosciuto come essenza necessaria del ricordo, essendo residuo della radicalizzazione del dubbio che elimina gli aspetti non-necessari. Una volta individuate le varie distinzioni qualitative delle singole specie di atti con cui la coscienza attribuisce un senso alle cose del mondo, possiamo stilare una "mappa" (spero così di riuscire a chiarire meglio il punto anche per Oxdeadbeef, oltre che per me stesso) delle varie modalità in cui la coscienza entra in relazione con il mondo sulla base dei vari atti di esperienza vissuta, distinguibili sulla base delle differenze in cui i loro oggetti vengono vissuti in essa. Ad esempio, dalla distinzione qualitativa del ricordo rispetto al presente e al futuro, sarebbe possibile individuare una regione dell'Essere corrispondente alla conoscenza storica, cioè il modo in cui un Io si relaziona al passato, come ambito distinto dalle esperienze del presente e del futuro, e quindi dotata di caratteristiche, strutture e regole autonome.
#329
contrario alla chiusura, in quanto la ritengo un'interferenza arbitraria dello stato nella vita dei singoli individui, e quel che è peggio che cerca di giustificare se stessa sulla base di argomenti moralistici, come l'idea che la Domenica debba essere riservata alla famiglia anziché al lavoro tipici di uno stato etico totalitario che vuole imporre una morale pseudooggettiva, a scapito della libertà di scelta dei singoli, lavoratori e consumatori. Non mi ritengo uno schiavo del consumismo e non ho molta simpatia per i centri commerciali, ma ho l'umiltà di considerare ciò un mio semplice gusto soggettivo che mai desidererei imporre agli altri. Sarebbe come se fossi favorevole a vietare per legge cibi come il formaggio o la mozzarella perché mi disgustano, non considerando che sono liberissimo di evitare di mangiarli senza bisogno di obbligare gli altri a comportarsi come me. In generale sono contrario a qualunque idea di stato etico totalitario che pretenda di saperne più di me in cosa dovrebbe consistere il mio benessere, trattandomi come un bambino incapace di discernere autonomamente il suo bene, e compire scelte conseguenti. Dove sta scritto che una persona non possa coltivare le sue relazioni con la famiglia e con i suoi amici in un giorno infrasettimanale? Dove sta scritto che per tutti stare in famiglia sia più piacevole che lavorare, dove sta scritto che una persona non possa preferire avere come giornata libera un giorno infrasettimanale, magari un amante della lettura, che nel tempo libero preferisce frequentare librerie o biblioteche nei giorni in cui sono aperte, anziché di domenica dove questi luoghi sono chiusi? Perché lo stato deve imporre a tutti una ruotine settimanale in cui il tempo libero dal lavoro consiste nella tradizionale gita fuori porta la domenica con la famiglia, anziché avere liberi il Martedì o Mercoledì per leggersi un libro in biblioteca e incontrare gli amici che condividono i suoi interessi culturali, anziché lasciare che ciascuno si organizzi sulla base delle proprie esigenze personali?
#330
Citazione di: bobmax il 10 Settembre 2018, 10:02:00 AM
Citazione di: davintro il 09 Settembre 2018, 18:57:17 PMandrebbe credo chiarito cosa va inteso come "lavoro": la logica che applichiamo per giungere ad un risultato è una necessità ricorrente in qualunque tipo di attività, compreso lo studio per superare un esame, o la preparazione e pubblicazione di un saggio o di un libro (che a mio avviso ricade a tutti gli effetti nella categoria di "lavoro"), non solo nelle occupazioni "tecniche", che erroneamente, molti vedono come unico ambito nel quale una persona può esprimere i suoi talenti al servizio della comunità (perché servizio viene inteso in un'ottica solo materialistica, e quindi si considera "lavoratori" l'operaio o il manager aziendale e non il poeta o il saggista, che sarebbero solo degli "hobby" perché il contributo che portano è di tipo spirituale e non materiale). In generale tendo a dare un enorme peso all'unicità di ogni singola persona umana, e ciò mi porta a diffidare dei discorsi in cui ricorre il concetto di "indispensabile", non mi piace l'idea che esistano delle "conditio sine qua non", in assenza delle quali si è necessariamente destinati al fallimento.
In effetti avevo scritto "quasi indispensabile" perché si potrebbe anche forse farne a meno. Tuttavia ritengo tale evenienza abbastanza improbabile. Il "lavoro in ambito tecnico" implica che siano soddisfatte due condizioni, che sfuggono invece nella preparazione di un esame o nella stesura di un saggio. Queste condizioni sono: 1) Il "fare" concreto, con la progettazione e realizzazione di un qualcosa che "funzioni" e che possa essere utilizzato da altri. Ben diverso perciò dal semplice sviluppo ad uso personale, perché deve poter essere messo sul mercato. E affrontarne così tutti i rischi e le responsabilità. 2) La sua "utilità" viene riconosciuta e compensata. Se ciò non avvenisse, non si riesce a mantenere la famiglia... Non pochi filosofi, come i pur apprezzabili Severino e Galimberti, mostrano a mio avviso una grave carenza nel comprendere questi aspetti fondamentali della tecnica. Così vi si scagliano contro, senza avvedersi di disprezzare nient'altro che l'applicazione concreta (nella realtà fisica!) dello stesso pensiero logico/razionale del quale ritengono, a torto, di aver compreso tutte le implicazioni.




Non posso condividere questo discorso perché mi sembra del tutto ammantato di un pregiudizio materialista che porta a sviare la corretta espressione di alcuni concetti chiave. Mi riferisco in particolare a concetti come "concretezza", "utilità", "funzionare". Far coincidere la "concretezza" con l'applicazione nel campo fisico, relegando l'intellettuale e spirituale ad "astrazione" è puro materialismo che si ferma a una visione superficiale dell'essere umano e delle azioni che compie. La mentalità, le nostre convinzioni sono concrete nella misura in cui influenzano le nostre scelte e comportamenti, e possono essere formate tramite la riflessione e lo studio filosofico, ed in questo modo lo spirito, inteso come complesso delle nostre idee e visioni del mondo, è concretezza, in quanto concretamente incide sempre sulla nostra vita, anche se in molti casi inavvertitamente, dato che influisce ad un livello profondo interiore, non visibile a uno sguardo superficiale che si limita a osservare i meri movimenti fisici del corpo, senza poter intuire ciò che c'è "dentro" che motiva quei movimenti. L'utilità non ha mai un significato assoluto, ma relativo, relativo ai fini soggettivi e diversificati che ciascun singolo si pone. Quindi non ha alcun senso pensare che qualcosa sia in assoluto più "utile" rispetto a un'altra", tutto dipende dalle esigenze della persona che usufruisce della cosa. Scrivere un saggio non è necessariamente meno "utile" che una lampadina o un ventilatore frutto di un prodotto tecnico, sono entrambi utili in relazione a fini molto diversi fra loro, il saggio verrà letto da chi, evidentemente, ritiene utile per delle sue esigenze personali, approfondire la conoscenza di uno specifico argomento, essere stimolato nella ricerca di spunti di riflessione in merito, e il saggio "funzionerà" nella misura in cui si dimostra efficace nella realizzazione delle finalità di chi ha interesse a leggerlo, nella stessa misura in cui una lampadina funziona quando adeguata alle esigenze di chi la utilizza, fare luce. E il "funzionare" del saggio, come quello della lampadina, consiste nel rispetto di criteri oggettivi, anche se non "tecnici" nel senso stretto del termine: coerenza interna e rigore argomentativo, doti di intuizione dell'autore degli aspetti della realtà delle cose oggetto della sua trattazione, chiarezza espositiva. Per quanto riguarda il discorso della retribuzione economica, (e in qualche modo ci avviciniamo all'argomento del topic anche se in una chiave diversa), direi che è indispensabile al filosofare in modo indiretto: per filosofare bisogna vivere, per vivere occorre esaudire dei bisogni materiali tramite il denaro. Ma non trovo alcun legame diretto tra la retribuzione economica e la qualità del filosofare. La molla che motiva l'uomo verso la filosofia non può mai essere un'esigenza di guadagno, ma di disinteressato amore del sapere, la "teoria", la contemplazione di cui parlava Aristotele. Da ciò discende anche che non ha alcun senso vincolare un giudizio sulla qualità di un lavoro filosofico (ma più in generale, direi "scientifico" se come ricorda Burioni nella sua polemica contro i no-vax "la scienza non è democratica") alla quantità di persone che lo apprezzano e sono disposti a spendere per compare i libri, non c'è una necessaria corrispondenza tra successo commerciale e spessore culturale di ciò che si produce, e comunque non è al primo che il filosofo in quanto tale dovrebbe mirare.



In definitiva direi l'abilità pratica-tecnica applicata alla sfera delle produzioni materiale certamente migliora e completa l'idea di essere umano inteso nella complessità delle sue doti, essendo l'essere umano non puro spirito, ma unità di anima e corpo, ma non determina il valore della sua filosofia, un ambito che ha un proprio determinato ambito di applicazione e conseguenti autonome qualità richieste per il suo esprimersi al meglio.