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Messaggi - sgiombo

#3211
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
20 Ottobre 2016, 21:37:13 PM
Citazione di: maral il 20 Ottobre 2016, 19:06:14 PM
Per quanto riguarda il verbo essere si potrebbe dire che vi sono due modi per intenderlo. Il primo è quello della perfetta tautologia che si afferma quando si dice che una cosa è (ed è l'uso che ne fa Severino), Se dico che il cavallo è intendo che per qualsiasi cosa significhi "cavallo" esso è se stesso (e chiaramente non può che esserlo sempre). In tal senso la negazione dell'essere è assoluta contraddizione, in quanto non vi può essere alcuna cosa (qualsiasi cosa sia) che non sia se stessa, nemmeno un cerchio quadrato, nemmeno lo stesso contraddirsi logico.
L'altro modo con cui si intende "essere" vuole dire invece che la cosa è nel modo in cui appare e questo è il modo più frequente di usarlo e sul quale è possibile discutere (mentre nel primo caso, trattandosi di una tautologia è assolutamente indiscutibile). E' in tal senso che si può dire: "questo animale è un cavallo" e di conseguenza discuterne con chi non gli appare come un cavallo, ma magari come un ippogrifo (che cito per fare contento Sgiombo, che richiama sempre volentieri questi "animali" :)). Nel senso espresso, in cui l'essere si riferisce all'apparire, l'essere non esclude un modo di apparire diverso, nella prospettiva di un contesto che diversamente lo presenta, pur riconducendolo alla medesima astrazione.
In ogni caso comunque la cosa è ricondotta al gioco dei suoi significati, è solo significando qualcosa (ossia affermando di sé qualcosa in rapporto alle sue negazioni) che qualsiasi cosa può concretamente esistere.  

CitazioneCosa volete? ci sono cinofili, ippofili, ornitofili, "gattare", ecc.
Io sono decisamente un ippogrifofilo! (E quasi quasi fondo un' ONG di "Amici degli ippogrifi" e chiedo qualche finanziamento al governo e ai privati...).

Mi sembra inutile ripetere le obiezioni già proposte non so quante volte circa il presunto necessario significare di ogni e qualsiasi cosa.


Piuttosto mi sembra utile reiterare la mia convinzione che un concetto di per sé non può essere tautologico (o meno; né vero o falso): tautologico é il predicato "un cavallo (o un da me amatissimo ippogrifo) é un cavallo (o rispettivamente uno splendido, meraviglioso ippogrifo)".
"Essere", "non essere", "cavallo", "ippogrifo", ecc., presi da soli e non sintatticamente articolati in una proposizione o predicato, non sono né veri né falsi, né tautologici, né contraddittori, né logicamente corretti.


Il contraddirsi logico non può essere perché la logica (almeno la logica classica) é statutariamente incompatibile con il contraddirsi.
Ma un contraddirsi illogico può ben essere, ovvero accadere realmente, eccone qui appena sotto uno:

"Un ippogrifo non é un ippogrifo".

Questa é una successione di parole reale, ed é autocontraddittoria, letteralmente "un contraddirsi illogico".


D' altra parte i concetti si definiscono gli uni tramite gli altri.

E infatti i vocaboli nei dizionari sono definiti tramite altri vocaboli.

Dunque le connotazioni dei concetti non possono che essere "più o meno strettamente" circolari (il circolo é strettissimo, "a due" nel caso dei concetti più generali e astratti di tutti, "essere" e "non essere" come "condizioni reciprocamente escludentisi", ma anche qualsiasi altro concetto si definisce mediante altri concetti definiti mediante altri concetti e così via fino a trovare inevitabilmente prima o poi il concetto da definire nelle definizioni di quelli che direttamente o più o meno indirettamente lo definiscono (o in alternativa anche ostativamente: "questo é un cavallo"; purtroppo, con grande dispiacere,  non sono riuscito a trovare ippogrifi reali da mostrare... Ma comunque l' indicare é un po' diverso dal definire).

Ma non si tratta di una circolarità "viziosa", contrariamente a quella fra predicati in inferenze fallaci, proprio perché le definizioni di concetti non affermano (più o meno correttamente) qualcosa circa la realtà (non sono veri o falsi), ma semplicemente "stabiliscono" ciò che si intende considerare, pensare, ciò di cui si parla (indipendentemente da come é la realtà), e dunque hanno come unici limiti inderogabili quelli della correttezza logica (e reciproca compatibilità e coerenza semantica), non quelli della correttezza gnoseologica: non sono veri o falsi di per sé.


Esempi:
"Asiafrica" non é né vero né falso (può essere cervellotico, ridicolo, inutile, ecc. ma non falso).
"L' Asiafrica é meno estesa dell' Eurasia" é falso.
"L' Asiafrica é l' Asiafrica" é tautologico.
"L' Asiafrica non é l' Asiafrica é contraddittorio".
#3212
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
20 Ottobre 2016, 15:09:02 PM
Citazione di: Angelo Cannata il 20 Ottobre 2016, 13:39:54 PM
Citazione di: sgiombo il 20 Ottobre 2016, 11:45:50 AM... stabilisco per definzione, arbitrariamente ...
La questione che avevo sollevato era che quando usiamo il verbo essere non sappiamo mai cosa stiamo dicendo, perché è impossibile definirlo senza servirsi di esso stesso (e quindi senza incorrere in tautologie). Hai fornito delle definizioni che confermano la questione che avevo sollevato.
CitazioneNo, non l' ha affatto confermata:  il concetto di essere si definisce come negazione di "non essere" e viceversa.

L' "essere" si definisce (arbitrariamente, come qualsiasi altro concetto) attraverso la negazione, come ciò che nelle stesse circostanze (di tempo e di luogo per lo meno) non può darsi insieme al, non può accadere insieme al, "non essere".

Dove starebbe mai l' uso del concetto di "essere" in questa definizione del concetto di essere"?

"Omnis determinatio est negatio" (Spinoza)

Peraltro torno a ripetere che delle definizioni, non essendo predicati o proposizioni, non può dirsi (non ha senso dire) che siano tautologiche o meno.
Una proposizione o predicato può essere tautologica o meno, una definizione (di un concetto) potrà casomai essere più o meno "azzeccata" o "calzante" o "utile al discorso", preferibile a un' altra, ecc., ma non essendo un' affermazione non può attribuire (o meno) nel predicato (che non é attribuito al concetto stesso) la stessa cosa che é nell' oggetto di predicazione (sintatticamente il soggetto della frase), la quale infatti non accade.
#3213
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
20 Ottobre 2016, 11:45:50 AM
Citazione di: Angelo Cannata il 20 Ottobre 2016, 11:07:18 AM
Citazionesgiombo
esso si definisce (arbitrariamente, come qualsiasi altro concetto) attraverso la negazione, come ciò che nelle stesse circostanze (di tempo e di luogo per lo meno) non è compatibile con il, non può accadere insieme al, "non essere"

Angelo Cannata
Mi sembra che così hai confermato ciò che avevo detto: per definire l'essere hai dovuto far riferimento al "non essere", il quale a sua volta non è definibile se non facendo riferimento all'essere.

sgiombo
Ovvio!
Qualsiasi concetto si definisce così: mettendo in determinate relazioni sintattiche determinati altri concetti.
Il problema è che hai messo in relazioni sintattiche non altri concetti, ma il concetto che è da spiegare. Che senso ha che io, per spiegare cos'è una mela a chi non ne ha mai vista una, gli dica che essa è il contrario di una non-mela?
CitazioneNo, nessun problema: ho messo in relazione di negazione il concetto di "essere" con quello di "non essere", così definendoli (arbitrariamente).
Peraltro una definizione non é un predicato o giudizio, non ha senso porsi il problema se sia vera o meno (casomai se e quanto e come sia utilizzabile nel discorso).

che io, per spiegare cos'è una mela a chi non ne ha mai vista una, gli dica che essa è il contrario di una non-mela non serve a nulla.
Ma questo é un altro discorso, la definizione di "essere" é diversa dalla definizione di "mela".

Idem per la definzione di "vero" che hai dato:
CitazioneSignificato di "vero" (per definizione; cui non pertiene il dubbio o la credenza, non trattandosi di predicato): "affermazione che qualcosa é...
è una tautologia.
CitazioneNo, é una definizione!

Non dico (predico) alcunché (predicazione che potrebbe essere tautologica o meno; oltre che vera o meno; se tautologica certamente "vera" nel senso di "logicamente corretta" ma assolutamente inutile, non apportatrice di conoscenza), bensì stabilisco per definzione, arbitrariamente che cosa intendo per "vero" (in linea di principio, teorica; di fatto impiego ,"faccio mia", "accolgo" una definizione già in precedennza arbitrariamente stabilita -e convenuta- da altri).
#3214
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
19 Ottobre 2016, 21:40:17 PM
Citazione di: green demetr il 19 Ottobre 2016, 19:07:40 PM
Le categorie che si richiamano a questo monismo radicale si chiamano riduzioniste (il cervello nella vasca), e sono nella lora eccezione debole (si ammettono impulsi

esterni) la punta di diamante dell'intero movimento analitico.

Possiamo annoverare fra essi il buon sgiombo credo, con la sua particolare variante dualista nella impossibilità di constatare se questo monismo sia vero o meno.(per

questo probabilmente avrà come suoi interlocutori i monisti non riduzionisti, posizione difficile da difendere, e infatti sgiombo parla di atto di fede, ma forse

qualcuno in giro c'è che prova ad argomentare in altro modo, non è il caso di sgiombo, ma quelli hanno un cattedra da proteggere).

CitazioneLungi da me qualsiasi atteggiamento egocentrico, tuttavia non posso esimermi (si, anche stavolta: sono un' "anesimiente") dal rigettare la qualifica di "monista radicale" -materialista mi par chiaramente di capire- sia pure in un' accezione "debole" (che fra l' altro mi pare un concetto alquanto incoerente: come si fa ad essere "radicali" in un' accezione "debole"? Mi sembra un po' come dire "estremisti" in un' accezione "moderata").
A questo proposito mi sento costretto a copiare/incollare dal mio intervento precedente (forse non l' avevi letto: poco male, almeno chiarisco la mia convinzione) queste telegrafiche considerazioni:

"Non é la coscienza ad essere nel cervello (come credono i monisti materialisti; nel cervello ci sono solo neuroni, assoni, sinapsi, ecc, costituiti da molecole, atomi, particelle/onde subatomiche, campi di forza, ecc,: tutt' altra cosa che il verde albero che sto guardando, il teorema di Pitagora che sto dimostrando, il pensiero di mio figlio che mi sta passando per la mente, ecc. e che costituiscono -in momenti diversi- la mia esperienza fenomenica cosciente).

E' invece il cervello ad essere nella coscienza di che ha percezione (diretta; o più spesso di fatto indiretta, per il tramite dell' imaging neurologico) del cervello stesso: senza compiere questa rivoluzione copernicana non si può risolvere il problema dei rapporti coscienza/cervello".

Inoltre scusate il narcisismo, ma pur considerando la filosofia analitica infinitamente migliore degli epigoni "continentali" di Heidegger (credo basti ben poco per esserlo!), sono un "filosofo fai da te", un "cane sciolto". E mi richiamo (fra l' altro) direttamente all' empirismo classico (che pure, riguardo alla filosofia analitica, ne può lecitamente essere considerata una delle principali "radici teoriche", ma per me né più né meno; e comunque la mia formazione non è questa).



Il problema caro sgiombo è come puoi descrive questa presunta coincidenza tra stato funzionale della mente e il noumenico?
D'altronde anche le recenti scoperte neuroscientifiche dovrebbero aiutarti a capire che l'ambiente è essenziale nello stesso processo cognitivo.

Che poi è (per me) anche il problema del monismo relativo o assoluto che sia: come far coincidere in un rapporto 1:1 la questione del reale?

Certo forse per quelli relativisti si concede la questione sensoriale, ma l'esperienza non è la sensorialità.

E il tempo cosa sarebbe per tutti voi????? una funzione? una variabile?? si ma di cosa????? visto che partite dal presupposto che è il cervello a stabilirla.
Eppoi non dimentichiamo proprio del termini esperienza....cosa sarebbe una funzione "uscita male"? un black out neuronale??? perchè ci ostiniamo a voler credere di

essere esseri storici????un mero traviamento dei sensi, un loro non prenderli troppo sul serio?????

e sopratutto come conciliare la questione del materialismo storico presente nel pensiero marxista?????
CitazioneLungi da me il sostenere una presunta coincidenza fra "stato funzionale della mente e il noumenico".
Per me gli stati funzionali del cervello (e non della mente!) corrispondono biunivocamente (e non coincidono!) al noumeno; precisamente a determinati "enti ed eventi" in sé, non fenomenici, i quali corrispondono biunivocamente anche a una determinata esperienza cosciente; e transitivamente determinati stati funzionali di un determinato cervello corrispondono biunivocamente a una determinata esperienza fenomenica cosciente.
Questo mi sembra in perfetta compatibilità e coerenza con le recenti (e anche per niente recenti: anche risalenti a Broca e Wernicke!) scoperte neuroscientifiche.
 
Non sono in grado di comprendere le righe successive.
 
Posso solo dire che il tempo é per me un' aspetto del mutamento, del divenire (non stabilito di certo dal cervello, ma constato empiricamente).
E che il materialismo storico è per me una teoria scientifica, nel senso "largo" delle "scienze umane", confermata da un' infinità di osservazioni; che trovando il tempo come manifesto dato empirico non pone alcun problema in proposito.
 
Quello di Angelo Cannata non mi sembra un monismo ma uno scetticismo (secondo me, se posso permettermi, malinteso).
 
#3215
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
19 Ottobre 2016, 18:11:16 PM
Citazione di: Apeiron il 19 Ottobre 2016, 15:31:07 PM


@sgiombo,

Il problema è che se di una cosa non puoi avere esperienza non puoi nemmeno parlarne. Tu puoi avere esperienza degli esseri, ma non dell'essere. Parlare dell'essere/noumeno è insensato, eppure siamo tentati a farlo perchè sarebbe "oggettività pura". Quindi anche secondo me non è possibile avere una conoscenza veramente oggettiva della realtà: se una cosa è veramente indipendente dall'esperienza come può essere descritta da un linguaggio nato per l'esperienza?

CitazioneCredo che si possa parlare (comunque sensatamente; casomai vagamente, oscuramente) di cose di cui non si ha esperienza: tantissimi parlano sensatamente di Dio (magari per dirne che non se ne può dimostrare l' esistenza), di Ippogrifi, centauri, chimere e chi più ne ha più ne metta (quelle della verità e della certezza di questi discorsi sono altre questioni).

Della realtà in sé o noumeno non può aversi certezza; essa sarebbe effettivamente oggettiva in senso forte, non meramente intersoggettiva, cioé puntualmente ed univocamente corrispondente fra diversi soggetti, come si può ritenere (comunque né mostrare né dimostrare nemmeno questo!) siano i fenomeni materiali - naturali (non quelli mentali) .
Ma credo se ne possa sensatissimamente parlare come -fra l' altro- di ciò che (forse: incertezza ineliminabile!) continua ad esserci anche allorchè chiudo gli occhi e non vedo più la montagna che ho davanti a me (e dunque i fenomeni costituenti la visione della montagna non accadono più) e fa sì che ogni volta che li riapro (o che ritorno qui e guardo nella giusta direzione) puntualmente la rivedo.



In ogni caso continuate a parlare di cervello, come se fosse il noumeno, una cosa oggettiva in modo assoluto. Ma d'altronde io ho la conoscenza del cervello tramite l'esperienza. Non è una conoscenza come quella  del principio di non-contraddizione.
CitazioneSono stato eccessivamente stringato nel primo intervento in questa discussione, ma tu non l' hai capito per nulla (poco male, non pretendo certo di salire in cattedra!). 

Ho infatti sostenuto che il mio cervello in un certo determinato stato funzionale (che é fatto di sensazioni fenomeniche nell' ambito delle esperienze coscienti di chi -direttamente o indirettamente- lo osserva) corrisponde agli stessi eventi in sé a cui corrisponde la mia propria esperienza cosciente con certi suoi determinati contenuti (e transitivamente certi miei determinati contenuti di coscienza corrispondono biunivocamente a certi determinati stati fisiologici del mio cervello, per lo meno potenzialmente e indirettamente nell' ambito delle esperienze coscienti di eventuali osservatori: tutti fenomeni, sia quelli costituenti la mia esperienza cosciente, sia quelle costituenti -perlomeno potenzialmente e indirettamente- il mio cervello nell' ambito dell' esperienza cosciente di eventuali osservatori).

Non é la coscienza ad essere nel cervello (come credono i monisti materialisti; nel cervello ci sono solo neuroni, assoni, sinapsi, ecc, costituiti da molecole, atomi, particelle/onde subatomiche, campi di forza, ecc,: tutt' altra cosa che il verde albero che sto guardando, il teorema di Pitagora che sto dimostrando, il pensiero di mio figlio che mi sta passando per la mente, ecc. e che costituiscono -in momenti diversi- la mia esperienza fenomenica cosciente).

E' invece il cervello ad essere nella coscienza di che ha percezione (diretta; o più spesso di fatto indiretta, per il tramite dell' imaging neurologico) del cervello stesso: senza compiere questa rivoluzione copernicana non si può risolvere il problema dei rapporti coscienza/cervello.
#3216
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
19 Ottobre 2016, 17:27:19 PM
Citazione di: cvc il 19 Ottobre 2016, 14:24:05 PM
Citazione di: Angelo Cannata il 19 Ottobre 2016, 14:10:34 PM
Citazione di: cvc il 19 Ottobre 2016, 13:55:39 PM
L'esistenza dell'oggettività si può dimostrare per assurdo. Se non esistesse nulla di oggettivo, non potrebbero esistere le strade, le case, le città, in generale niente di ciò per cui sia necessaria la collaborazione e la reciproca comprensione. Non esisterebbe il linguaggio. Il problema sorge quando si vuole dare all'oggettività un significato assoluto. L'oggettività è più una convenzione che un principio inattaccabile. Probabilmente l'oggettività esiste solo all'interno del linguaggio, dove si è generata. Quindi non possiamo osservarla nel mondo esterno se non indirettamente. Vale a dire, è perché gli uomini reputano, attraverso il linguaggio, alcune cose oggettive che esistono strade, case, ecc.
Non mi sembra che il senso dato da Apeiron al discorso fosse quello di discutere di oggettività non assoluta. Che senso ha dire che l'oggettività si può dimostrare e dopo aggiungere che però la intendi in modo diverso? Io posso dire che un cane è un gatto e poi aggiungere: sì, ma io attribuivo alla parola "cane" il significato di "gatto". Mi sembra che procedere in questo modo serva solo a cambiare le carte in tavola, creare confusione che non serve a nessuno.
Si parlava comunque di oggettività. Il senso di quello che ho detto è che l'oggettività è una convenzione del linguaggio. Non mi sembra di aver confuso niente.
Citazione


Quello di "oggettività", come qualsiasi altro concetto, é definito arbitrariamente ed accettato (da chi l' accetta) convenzionalmente.

Ma il suo significato (arbitrariamente e convenzionalmente stabilito) é quello di una condizione reale (della realtà) indipendente da chi eventualmente la conosca o meno, tale sia che sia conosciuta veracemente, sia che sia misconosciuta falsamente, sia che sia ignorata (tale a prescindere dall' eventuale accadere o meno di pensieri circa la realtà stessa  e dagli eventuali "contenuti" di tali pensieri).
#3217
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
19 Ottobre 2016, 17:18:31 PM
Citazione di: Angelo Cannata il 19 Ottobre 2016, 13:58:09 PM
Citazionequalsiasi cosa (sensatamente) si creda potrebbe benissimo essere falsa; ma potrebbe anche altrettanto bene essere vera
L'ipotesi che potrebbe essere vera presuppone che sia chiaro il significato di "vera". Il dubbio però non mette in questione non solo l'esistenza della verità; ne mette in questione anche il significato: se la verità potrebbe non essere mai esistita, se essa potrebbe essere stata nella nostra mente nient'altro che un inganno, non è più possibile dare per scontato che il suo significato sia chiaro; e se il suo significato non è chiaro non ha senso ipotizzare che essa potrebbe anche esistere.
CitazioneSignificato di "vero" (per definizione; cui non pertiene il dubbio o la credenza, non trattandosi di predicato): "affermazione che qualcosa é o accade, essendo o accadendo realmente tale qualcosa o che qualcosa non é o non accade non essendo o accadendo tale qualcosa".

Il dubbio mette in discussione  la verità ma anche la falsità di qualsiasi affermazione a cui sui applichi (é diverso dalla negazione -perentoria, certa- della verità).


CitazioneSeconde me essere scettici conseguentemente, fino in fondo, significa condannarsi all'inerzia pratica
Questo vale per chi ha deciso di far guidare la propria vita pratica da certi presupposti appartenenti a certa filosofia. Ma nel mondo non esiste né solo la filosofia, né solo certa filosofia. Un mare di gente di una vita significativa senza alcun bisogno di farsi guidare da una filosofia o da certa logica filosofica.
CitazioneSi, certo.
Ma costoro generalmente non sono scettici, bensì credono più o meno acriticamente a un sacco di cose (o almeno ad alcune cose, più o meno numerose).
Non é il mio caso nè -credo- di chi, come me, si considera un filosofo (e dunque bazzica per i forum di filosofia).



Citazioneesso si definisce (arbitrariamente, come qualsiasi altro concetto) attraverso la negazione, come ciò che nelle stesse circostanze (di tempo e di luogo per lo meno) non è compatibile con il, non può accadere insieme al, "non essere"
Mi sembra che così hai confermato ciò che avevo detto: per definire l'essere hai dovuto far riferimento al "non essere", il quale a sua volta non è definibile se non facendo riferimento all'essere.
CitazioneOvvio!
Qualsiasi concetto si definisce così: mettendo in determinate relazioni sintattiche determinarti altri concetti.

#3218
Citazione di: acquario69 il 19 Ottobre 2016, 14:07:40 PM

questa considerazione mi e' venuta in mente anche a me

toto' era una persona tristissima e molto seria nella sua vita privata.
alighiero noschese (quelli della mia eta lo conosceranno senz'altro) era divertentissimo nelle sue imitazioni...si e' suicidato.
persino alberto sordi non era da meno per una sua personalità molto rigida ed isolata,fuori dal set.

anche nel mio piccolo ho conosciuto persone che all'esterno parevano tanto allegre,in realtà era una maschera che usavano per nascondere una profonda angoscia e solitudine.

infatti credo anch'io che in questi casi,puo far riflettere sul fatto che la risata o l'allegria non e' qualcosa che può venire a comando..e magari succede proprio che più la forzi e più questa ti respinge..e' un ipotesi


CitazioneE infatti non c' é niente di più penoso di quegli pseudocomici (oggi piuttosto numerosi, soprattutto in TV) che non sanno far ridere, mancando totalmente di "talento" (almeno un attore drammatico poco dotato fa un po' ridere, ma un comico incapace, non dico che fa piangere, ma comunque fa pena...).

E forse é anche per questo che grandissimi attori comici talora interpretano assai efficacemente parti tragiche (Aldo Fabrizi, Zero Mostel, Charly Chaplin), o comunque serie, mentre quasi mai grandissimi attori drammatici sanno cimentarsi abilmente in parti comiche.

#3219
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
19 Ottobre 2016, 13:30:15 PM
Citazione di: Angelo Cannata il 19 Ottobre 2016, 00:26:40 AM
No, Apeiron, non esiste alcun metodo che ci permetta una comprensione oggettiva della realtà. I motivi sono tanti e si possono esprimere in diversi modi. Ne elenco qualcuno:

- non è possibile dimostrare che la realtà non sia un sogno; da tale impossibilità consegue che il concetto di "oggettività" non ha alcun significato, ma è solo frutto di una nostra immaginazione; tale mancanza di significato ci costringe a concludere che ciò che chiamiamo realtà è effettivamente un sogno e non può essere altrimenti per noi esseri umani; non ci è umanamente possibile immaginare alcunché se non come sogno, cioè come creazione da parte della nostra immaginazione; ciò che pensiamo di immaginare come realtà esterna al nostro cervello non può essere immaginato che come sogno; la nostra impressione di poterlo immaginare come realtà esterna è un'illusione, visto che il nostro cervello non ha alcuna possibilità di venire a contatto con idee, percezioni, fenomeni o alcunché che non siano sua creazione, o come minimo (che poi è la stessa cosa), esperienze radicalmente condizionate da esso stesso;

- non abbiamo alcuna possibilità di dare un senso al verbo "essere", poiché è impossibile darne spiegazione senza fare ricorso ad esso stesso; ciò significa che tutte le volte che usiamo il verbo essere non ci è possibile sapere cosa stiamo dicendo;

- non ci è possibile pervenire ad alcuna verità, poiché qualsiasi cosa che chiamiamo con questo termine non può fare a meno di passare prima per il nostro cervello; e umanamente non abbiamo alcuna possibilità di verificare se il nostro cervello ci inganna senza usare esso stesso; qualunque corrispondenza, qualunque conto matematico che torna, non può essere valutato come tale se non passando attraverso il nostro cervello, il quale però è proprio l'indagato, il sospettato; non abbiamo alcuna possibilità di uscire dal nostro cervello.

Una volta mi dissero che una cosa è certa ed è il principio di non contraddizione e che io non avrei potuto dire tutte queste cose senza servirmi di esso. Ma in realtà, umanamente, non abbiamo alcuna possibilità di verificare se il principio di contraddizione è un inganno del nostro cervello; qualunque metodo riusciamo ad escogitare per verificare ciò, alla fine esso non potrà fare a meno di passare per il nostro cervello per essere valutato.

Conclusione: come esseri umani non sappiamo fondamentalmente niente di niente, non ci è possibile affermare niente. Possiamo solo andare a tentoni, procedere con estrema modestia e umiltà, per tentativi. Altro che realtà oggettiva! Non esistono affermazioni a cui non si possano contrapporre critiche in grado di smentirle, le quali a loro volta potranno essere criticate e così via all'infinito. Anche tutte queste cose che ho detto sono incerte, ma ciò non serve a creare alcuna certezza, contribuisce soltanto ad accrescere il dubbio, l'incertezza, il disorientamento: dubitare del dubbio non fornisce certezze, non fa altro che accrescere ulteriormente il dubbio.
CitazioneRammento il noto paradosso "antipseudoscettico" per il quale se "non ci è possibile pervenire ad alcuna verità", allora nemmeno questa affermazione fra virgolette può essere vera, nemmeno essa è vera (scrivo "antipseudoscettico perché lo scetticismo autentico non è l' affermare che non è possibile conoscere -veramente- alcunché, bensì che non ci può essere certezza -e non: verità- di alcunché, è sospendere il giudizio; col che il paradosso è brillantemente superato).
 
Ribadisco la mia convinzione già espressa nel precedente intervento in questa discussione, che lo scetticismo non è superabile razionalmente.
Ma come non si può avere certezza razionalmente fondata di alcuna conoscenza, così non la si può avere nemmeno della non conoscenza di alcunché: qualsiasi cosa (sensatamente) si creda potrebbe benissimo essere falsa; ma potrebbe anche altrettanto bene essere vera.
Di qui le ipotesi indimostrabili logicamente e non constatabili empiricamente da me avanzate (con qualche imprecisione per la pretesa di essere troppo sintetico) nel suddetto precedente intervento.
Seconde me essere scettici conseguentemente, fino in fondo, significa condannarsi all' inerzia pratica, cosa che -in modo non conseguentemente razionalistico- non sono disposto ad accettare; se si hanno interessi e aspirazioni che ci spingono ad agire in qualche modo, allora per lo meno ci si comporta "come se" si fosse sicuramente convinti di almeno qualcosa. E volendo (irrazionalisticamente) essere il più razionalistici possibile senza condannarsi all' inerzia pratica ("ragionevoli", se così vogliamo dire; invero non del tutto conseguentemente "razionalisti") si può applicare limitatamente (non fino in fondo) il fondamentale principio razionalistico del rasoio di Ockam, e dunque credere al minor numero possibile di tesi indimostrabili compatibile con il coltivare interessi e aspirazioni, nella consapevolezza dell' infondatezza, arbitrarietà di tali tesi (del fatto che letteralmente le si crede "per fede" irrazionale).
D' altra parte di fatto si constata (ammessa la verità di talune tesi indimostrabili né constatabili empiricamente) che tutte le persone comunemente ritenute sane di mente per lo meno si comportano "come se" credessero in qualcosa (per esempio -fra gli innumerevoli possibili- gettarsi dal centesimo piano di un grattacielo perché, non credendo alla costanza della legge di gravità, è indubbio che prima o poi si potrebbe finire per essere sfracellati contro il soffitto, e comunque la probabilità che ciò accada è uguale a quella che ci si sfracelli al suolo gettandosi e dunque tanto vale prima o poi provare, non è un comportamento da persona comunemente ritenuta sana di mente).
 
Sull' insensatezza del concetto di "essere" non sono d' accordo: esso si definisce (arbitrariamente, come qualsiasi altro concetto) attraverso la negazione, come ciò che nelle stesse circostanze (di tempo e di luogo per lo meno) non è compatibile con il, non può accadere insieme al, "non essere" (è una regola generale che i concetti hanno significati stabiliti arbitrariamente per definizione ed espressi, costituiti da locuzioni, ovvero mettendo in determinati rapporti sintattici determinati altri concetti. "Omnis determinatio est negatio", Spinoza; i concetti di "essere" e di "non essere" sono i più generali, i più astratti, i meno determinarti di tutti e si definiscono unicamente attraverso il rapporto di negazione reciproca).
Ma certamente con la logica e applicando il principio di identità – non contraddizione e quello del terzo escluso si possono proporre solo giudizi analitici a priori, che propriamente non aggiungono conoscenze o verità a quelle ipotizzate nelle premesse -non "producono" conoscenza- ma si limitano ad esplicitarne talune in esse di già implicite: "poco più che tautologie".
E quanto ai giudizi sintetici a posteriori, stante la critica humeiana della causalità, la certezza della loro verità deve essere limitata alle singole, particolari constatazioni empiriche; e inoltre, poiché nulla garantisce della veridicità della memoria, solo nell' effimero istante presente nel quale sono in atto (accadono; se accadono).
#3220
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
18 Ottobre 2016, 22:15:00 PM
CitazioneRitengo che il solipsismo (e più generalmente lo scetticismo) non sia superabile razionalmente ma solo assumendo fideisticamente la verità di alcune tesi indimostrabili, né direttamente constatabili empiricamente.

Possiamo solo arbitrariamente, fideisticamente assumere -non dimostrare, né tantomeno constatare empiricamente- che altre esperienze coscienti oltre la "propria" direttamente esperita accadono realmente (come di fatto fanno -o almeno si comportano come se lo credessero- tutte le persone comunemente ritenute sane di mente).

E che la parte materiale – naturale (pressappoco la cartesiana "res extensa", intesa, contrariamente a Cartesio, come insieme e successione di mere sensazioni fenomeniche coscienti: "esse est percipi"!) sia poliunivocamente corrispondente fra le diverse esperienze fenomeniche coscienti (sempre come di fatto fanno -o almeno si comportano come se lo credessero- tutte le persone comunemente ritenute sane di mente).

E lo stesso dicasi (con David Hume!) per il divenire ordinato, secondo regolarità o "leggi" universali e costanti esprimibili mediante formule matematiche ed empiricamente falsificabili nelle specifiche formulazioni che se ne possono ipotizzare.

La nostra conoscenza certa é quindi inevitabilmente limitata alle sensazioni fenomeniche (materiali – naturali e mentali o di pensiero) della "nostra esperienza fenomenica cosciente (e per ciascun effimero istante in cui sono in atto: già la memoria delle passate è degna di dubbio).

Onde spiegare la (indimostrabile) intersoggettività (= corrispondenza poliunivoca) delle componenti materiali – naturali delle diverse (a loro volta indimostrabili) esperienze fenomeniche coscienti, nonché la corrispondenza biunivoca fra (ciascuna) esperienza cosciente e (ciascun) cervello (dimostrata -alla condizione dell' indimostrabile verità dei necessari assunti indimostrabili, né constatabili empiricamente- dalle moderne neuroscienze) si possono poi ipotizzare determinate relazioni fra le diverse esperienze fenomeniche coscienti e fra queste e una realtà in sé non apparente (non fatta di fenomeni) ma solo congetturabile (noumeno).
Personalmente lo spiego ipotizzando (e credendo per fede, indimostrabilmente, né men che meno mostrabilmente; le ripetute virgolette a segnalare che parlando del noumeno non si può evitare un' irriducibile incertezza e vaghezza dei termini usati) che nel "divenire" del noumeno accada l' esistenza di determinati "enti" a ciascuno dei quali corrisponde (è correlata) una determinata esperienza fenomenica cosciente.
E che allorché questi "enti" si trovano in determinate "relazioni estrinseche" con "altri, da essi distinti determinati enti ed eventi del noumeno", allora  essi "si vengono a trovare in determinate condizioni" alle quali nell' ambito della "loro propria" (la corrispondente, ad essi correlata) esperienza fenomenica cosciente corrispondono biunivocamente certe determinate sensazioni materiali – naturali; mentre allorché essi si trovano in determinate "relazioni intrinseche" con se stessi, allora  essi "si vengono a trovare in determinate condizioni" alle quali nell' ambito della "loro propria" (la corrispondente) esperienza fenomenica cosciente corrispondono biunivocamente certe determinate sensazioni mentali o di pensiero.
Così quando nella "mia" esperienza fenomenica cosciente vi sono determinate sensazioni (materiali e/o mentali) esse corrispondono biunivocamente a "determinate circostanze" del noumeno, riguardanti i "rapporti fra" la "entità in sé" che possiamo indicare come "me" e "altre entità noumeniche da essa diverse"; e che a determinate altre circostanze del noumeno contemporaneamente riguardanti "determinati rapporti estrinseci" fra altre "entità" cui corrispondano altre esperienze fenomeniche coscienti (per esempio quella che possiamo chiamare "te") e quella di cui sopra ("me"), allora in tali esperienze altre fenomeniche coscienti diverse dalla "mia" (correlate a queste altre "entità noumeniche" diverse da "me": per esempio la "tua", quella correlata all' "entità noumenica <te>") accada la visione del mio cervello (di solito di fatto indirettamente, per il tramite dell' imaging neurologico funzionale; e comunque in teoria e in potenza anche direttamente) in certe determinate circostanze funzionali biunivocamente corrispondenti alla di quest' ultimo (la "mia") esperienza fenomenica cosciente in corso (e alle "condizioni dell' entità noumenica <me>").

In sostanza propongo la seguente soluzione al problema dei rapporti mente/cervello (o pensiero/materia):

gli stessi "enti ed eventi in sé" (nell' ambito del noumeno), in quanto "percepiti fenomenicamente dall' esterno" -come oggetti di conoscenza da parte di soggetti altri, da essi diversi" sono le sensazioni fenomeniche materiali di un determinato cervello in un determinato stato funzionale (percepite nell' ambito delle esperienze coscienti di altri, di "osservatori"), in quanto "percepiti fenomenicamente dall' interno" -come oggetti di conoscenza coincidenti con il soggetto stesso di conoscenza- sono le sensazioni fenomeniche mentali (i pensieri) di un "osservato", cioé del "titolare" di tale cervello.

MI scuso con tutti coloro che hanno già letto ripetutamente queste teorie metafisiche.
#3221
Citazione di: maral il 18 Ottobre 2016, 16:58:01 PMCONTINUAZIONE

CitazioneNon vedo alcuna inconciliabilità degli accenni ipotetici che proponi sull' origine del linguaggio con una scelta arbitraria e convenzionale.
L'inconciliabilità sta nel pensare che quel mettersi insieme ad esempio a modulare ritmicamente la voce partecipando di un'immediata comprensione comune sia una scelta arbitraria e convenzionale e non che tale possa apparire solo a posteriori
CitazioneIntanto la comprensione frequentemente non è affatto immediata, di solito ci vogliono un po' di tempo e qualche sforzo per raggiungerla.
Inoltre se non è una scelta convenzionale ma tale può solo apparire (falsamente) a posteriori, sono sempre in attesa di sapere che cosa significhino (di diverso dalla voce baritonale, dall' etichetta merceologica o dal solito cappello del perstigiatore) queste parole.




CitazioneInfatti la natura é come è indipendentemente dalla frase "la natura è come è, ecc.": la natura è come è sia che se ne parli in qualsiasi modo, sia che non se ne parli; non è come è dipendentemente dal modo di parlarne; ad esempio per dirne che è deterministica o meno, comprendente ippogrifi o meno: non è che dicendo che comprende gli ippogrifi accada che esistano in essa ippogrifi (questo potrebbe farlo solo Dio, se esistesse!).
Dunque vale anche il contrario: non è che dicendo che non comprende gli ippogrifi accade che  non esistano in essi ippogrifi? (non è che sia attaccato agli ippogrifi, è solo per rilevare l'assurdità di un certo realismo ingenuo per cui le cose e le cose dette sono sempre ben separabili per una mente ben raziocinante. Ingenuità che si rivela appunto in quella aggiunta: "la natura è indipendente da come la si dice", ma perdinci è così che la stai dicendo! E se la dici così, proprio perché lo dici e dando ragione a quello che hai detto, non vale nulla.
CitazioneCerto!
Ovviamente se non esistono in natura ippogrifi non è certo perché qualcuno ha detto che la natura non comprende gli ippogrifi (non esisterebbero anche se -per assurdo- tutti dicessero che esistono.

Non vedo alcuna ingenuità nel distinguere due "cose" così diverse come enti ed eventi reali da una parte ed enti ed eventi immaginari dall' altra: trovo casomai ingenuo (ed errato, falso) il confonderli, come se avessero la stessa valenza ontologica!

Ma che male c' è e perché mai quel che dico non varrebbe nulla se dico che la natura è come è indipendentemente da coma la si dice (e in particolare da come personalmente ora la dico essere)?



Citazionein quest' ultima mia affermazione, che infatti non è una mera tautologia c' è "qualcosa di più" che ritengo molto importante a livello ontologico e gnoseologico, e che constato tu continui a ignorare, confondendo due ben diverse nozioni, quelle di "realtà" e di "pensiero circa la realtà (o meno)".
Ma infatti: come se ci fosse una realtà dalla quale tutto è dicibile con verità! E dove sta questa realtà? Non sta forse solo nei discorsi che ne facciamo? non sta forse solo nel nostro attuale, contingentissimo dire di essa che pretende di dire che le cose stanno così e cosà perché sono così e cosà?
Noi non ci inventiamo mai nulla, le nostre idee, le nostre immagini, i sogni , le fantasie più assurde sono risultati, effetti necessari e reali di quello che c'è e quello che c'è è così che ci incontra. Il sogno più assurdo non sono gli ippogrifi, ma un io che possa volere e sappia decidere dall'alto della sua visione panoramica cosa è assolutamente (oggettivamente) vero o no. Eppure anche questa mostruosità fantastica, questa chimera ben più assurda di qualunque chimera-animale-divinità, esprime una realtà, esprime un reale significato, sia pure con conseguenze sempre terribilmente nefaste.
CitazioneNon ho mai affermato che esiste "una realtà dalla quale tutto è dicibile con verità": casomai il contrario!!!

Nei discorsi che ne facciamo sta il nostro pensiero (se vero, la nostra conoscenza) della realtà, che tu continui a confondere con la realtà.

Da empirista sottoscrivo in pieno l' affermazione "Noi non ci inventiamo mai nulla, le nostre idee, le nostre immagini, i sogni , le fantasie più assurde sono risultati, effetti (...) reali di quello che c'è".

Ma quando e dove mai avrei parlato di "un io che possa volere e sappia decidere dall'alto della sua visione panoramica cosa è assolutamente (oggettivamente) vero o no"?????
(Frase ovviamente sensata, ma falsissima).

Dare arbitrariamente nomi alle cose è ben altra, diversissima cosa che pretendere di decidere cosa è assolutamente (oggettivamente) vero o no!



CitazioneIl nome è irrilevante per la natura, che tanto non ne dipende nel suo modo di essere, ma è rilevantissimo per la conoscenza della natura, essendo necessario per pensarne, descriverne predicarne il modo di essere (predicazione che, se adeguata, veritiera, per definizione ne costituisce appunto la conoscenza).
Ed è appunto compito della filosofia indagare se e come (a quali condizioni, entro quali limiti, in che senso, ecc.) ciò possa accadere
Sì mai noi, comunque siamo nella natura, la scienza e la tecnico sono nella natura del mondo. Quindi se il nome per esse è rilevante, è rilevante pure per la natura di cui fanno parte. Non è che la scienza ci possa lanciare ad altezze siderali da cui godere tutto lo spettacolo della natura, come se non vi appartenessimo. La filosofia è questo che può e deve dirci, non se gli ippogrifi sono veri o no, ma perché un significato acquista senso reale e un altro lo perde e soprattutto ricordarci che il vertice del nostro sapere può solo essere sapere di non sapere, come già si era espresso Socrate più di 2 mila anni fa, contro tutte le pretesi di quelli (e in primo luogo noi stessi) che credono di sapere di sapere, mentre solo non sanno di non sapere.
CitazioneMa quando mai avrei negato che "noi, comunque siamo nella natura, la scienza e la tecnica sono nella natura del mondo" o affermato che "la scienza ci può lanciare ad altezze siderali da cui godere tutto lo spettacolo della natura, come se non vi appartenessimo"?!?!?!

Ma la natura è del tutto indifferente a noi e alla nostra conoscenza di essa, e ai nomi che usiamo per parlarne e conoscerla.

Con tutto il rispetto per Socrate, ed essendo ben lungi dal soffrire di delirio di onnipotenza (fra l' altro ritenendo lo scetticismo non superabile razionalmente ma solo assumendo fideisticamente la verità alcune tesi indimostrabili né direttamente constatabili empiricamente, come ho ripetutamente affermato a chiare lettere nel forum), credo che (a tale condizione indimostrabile) qualcosa possa pur essere conosciuto.
 

#3222
Citazione di: maral il 18 Ottobre 2016, 16:58:01 PM
Citazione di: sgiombo il 18 Ottobre 2016, 14:02:01 PM
Esistere in quanto apparenze, cioè come fenomeni, percezioni coscienti, ed esistere in sé sono due possibili reciprocamente alternative condizioni delle "cose" assolutamente da non confondere.
Certamente, ma dato che di ogni cosa si può conoscere solo nell'interpretazione di ciò che appare e per come il contesto ce lo fa apparire nel suo essere segno, la cosa in sé resta del tutto inconoscibile ed è anche assurdo pretendere di conoscerla e di dirla. In realtà la distinzione non la facciamo mai tra l'apparenza e la cosa in sé, ma tra le apparenze che hanno valore soggettivo individuale e privato e le apparenze che hanno valore condiviso, pubblico e comune, cercando sempre di ricondurre le prime alle seconde. E dare un nome alle cose significa appunto questo: presentare con una valenza pubblica (a tutti udibile) ciò che si sente individualmente.
Forse vi saranno pure, come dici, "cose reali  non accompagnate inoltre da- (-le sensazioni fenomeniche costituenti) il pensiero, la predicazione del loro accadere, id est (per definizione) la loro conoscenza, ovvero senza che siano conosciute", ma resta il fatto che pure queste "cose reali" le stiamo predicando esistenti solo in quanto le pensiamo e ce le diciamo. I pedoni che stanno raggiungendo il poliambulatorio li puoi concepire in quanto li pensi e li puoi pensare solo in quanto li hai precedentemente e ripetutamente visti, in qualche modo ti si sono presentati e ti sono apparsi nel significato che di loro conservi. Non c'è nulla che esca dal significato e dall'interpretazione di esso. quei pedoni non sono cose in sé, ma significati per te, la cui realtà non è per nulla "oggettiva", ma  è data da una condivisione pubblica, condivisione pubblica che invece verrebbe certo a mancare se tu pensassi che un ippogrifo stesse volando verso il poliambulatorio. Quello che fa la differenza non è la realtà in sé (assoluta) della cosa, ma il trovarla insieme e pubblicamente condivisibile quando se ne parla e la si nomina. E questa condivisibilità è prodotta dal contesto in cui insieme esistiamo e operiamo, non da noi, è sempre e solo a partire da questo contesto che noi giudichiamo ciò che ha senso reale e ciò che non lo ha.
Tutto quello che immaginiamo e pensiamo è rappresentazione di qualcosa che realmente accade, altrimenti, se fosse immagine del nulla, anche l'immagine sarebbe nulla, non si può immaginare il nulla, Ma appunto sono queste rappresentazioni che godono di maggiore o minore credibilità nel momento e nel luogo in cui si presentano, sono esse a determinare in noi un senso e la stessa rappresentazione di ciò che immaginiamo di essere, riassunta dal nostro nome. Le cose pensate che non sono non reali sono solo interpretazioni di eventi reali che noi possiamo pensare nel contesto in cui esistiamo, solo come non reali
CitazioneContinui a confondere la realtà con la conoscenza della realtà.

Continui ad attribuire indebitamente alle cose (tutte, e non solo a quelle particolari cose che son i simboli) un preteso "essere segno" ( e 'dde che?)..

Ma i nomi che si danno alle cose onde presentare con una valenza pubblica (a tutti udibile) ciò che si sente individualmente sono arbitrari (anche se spesso non casuali) e pubblicamente, convenzionalmente accettati.

Non capisco la pretesa obiezione (a quale mai mia affermazione?!?!?!) "resta il fatto che pure queste "cose reali" le stiamo predicando esistenti solo in quanto le pensiamo e ce le diciamo.", che mi sembra evidente espressione della solita confusione fra realtà e pensiero della realtà.
Quei pedoni non sono cose in sé (bensì apparenze fenomeniche: "esse est percipi"!); e inoltre sono significati nel senso di denotazioni reali del concetto da me pensato "quei pedoni" (non così gli ippogrifi!). E non mi sono affatto apparsi nel significato che ne conservo, mi sono apparsi (e basta) come (insiemi di) percezioni fenomeniche: il significato (denotazione reale in questo caso, non in quello degli ippogrifi), l' ho attribuito poi io alle parole "quei pedoni" seguendo una convenzione arbitraria dei parlanti italiano quando le ho ho pensate e poi dette o scritte.

Quello che fa la differenza è la realtà o meno di ciò che si pensa; l' intersoggettività può essere assunta (indimostrabilmente) come una caratteristica del mondo materiale naturale (fenomenico, non in sé: qui sfondi una porta spalancatissima), necessaria perché sia scientificamente conoscibile; ma non esiste solo la conoscenza scientifica.

Se "Tutto quello che immaginiamo e pensiamo è rappresentazione di qualcosa che realmente accade", allora evidentemente (per te) esistono realmente gli ippogrifi e accade realmente lo svolazzare nel cielo di stromi di ippogrifi.
Non sono d' accordo. Per me Tutto quello che immaginiamo e pensiamo è rappresentazione che realmente accade di qualcosa che a volte (come nel caso dell' immaginare e pensare gli ippogrifi) non accade.
Continui a confondere il concetto, il pensiero (o l' immagine) che c' è, accade realmente (anche quello o quella degli ippogrifi) con la cosa pensata che (come é nel caso degli ippogrifi) può anche non esserci, non accadere realmente.




CitazioneNon vedo come "cose" che non appaiono" possono in alcun modo essere "lo sfondo" di alcunché: contraddizione!
Non appaiono come cose-figure, ma appaiono come sfondo. La cosa non appare rispetto al nulla, poiché non vi è il nulla, vi è il nascosto e il nascosto delle cose è appunto lo sfondo ed è rispetto a questo sfondo che gli eventi che appaiono prendono forma, così come una figura tracciata con una matita nera prende forma sullo sfondo di una superficie bianca costituita da una miriade di punti diversamente bianchi (mescolati ad altri punti neri) che non appaiono.
Lo schermo di un computer può apparire a un selvaggio solo se in quella cosa (che noi vediamo apparire nel significato di schermo di un computer) ha per lui un significato, che non sarà certamente il nostro, ma deve esserci, altrimenti non lo vede, proprio come noi non vediamo un ramoscello spezzato nella foresta, mentre il selvaggio lo vede e lo interpreta per quello che significa. Non appare non perché si soffre di disturbi visivi, non perché si è ciechi alle cose in sé, ma perché si è ciechi al loro significato e dunque, come insignificanti, esse costituiscono lo sfondo su cui altro da esse appare.  
Ed è proprio questo apparire che nell'essere umano è nel richiamo di un nome. Un nome che non è mai arbitrario, poiché è legato al significato stesso per come esso si manifesta e deve essere richiamato con il suo nome, non qualsiasi. La parola non è la cosa, ma è ciò che la fa pubblicamente apparire chiamandola per come appare.
Potremmo chiamare quello schermo come vogliamo, ma invece è proprio "schermo" che lo chiamiamo e non "arturo" e se volessimo chiamarlo in altro modo, solo riferendoci a "schermo" potremmo dirci cos'è: il problema irrisolto del linguaggio che nasce dalla sua assenza (il problema in generale della semiologia, un problema che si è scoperto ormai da un secolo) è che ci vuole un linguaggio per costruire qualsiasi linguaggio, dunque non c'è alcuna origine del linguaggio prima della quale non c'era nessun linguaggio.
I nomi che indicano (più o meno) le stesse cose sono diversi nelle diverse lingue non perché sono arbitrari, ma, esattamente al contrario, perché le cose che considerano non prescindono dai contesti storici, sociali e culturali che in un determinato luogo e tempo hanno portato a chiamarle (e quindi intenderle) così.
CitazioneDunque le cose che fanno da sfondo appaiono.
Ma come fanno le cose che appaiono come sfondo ad apparire (sia pure come sfondo) se contraddittoriamente sono "il nascosto delle cose"?
Gli infiniti punti bianchi della pagina appaiono anch' essi, altrimenti non apparirebbe (relativamente ad essi) nemmeno la figura disegnata: "ominis determinatio est negatio".

Il selvaggio ( e non solo) può benissimo vedere lo schermo del computer senza pensarci (ad esempio perché concentrato a pensare a tutt' altro), e anche in questo caso lo schermo gli apparirebbe ugualmente (se fosse davanti ai suoi occhi aperti e lui non fosse cieco).
E comunque se lo pensasse verbalmente chiamandolo -che ne so?- "canguro" non sarebbero le circostanze del suo apparire ma l' aborigeno arbitrariamente a dare alla parola "canguro" -e non alla cosa computer- il significato (denotazione).

Non son per nulla d' accordo che ci vuole un linguaggio per costruire qualsiasi linguaggio, dunque non c'è alcuna origine del linguaggio prima della quale non c'era nessun linguaggio.
Se così fosse il linguaggio non potrebbe esistere, non esisterebbe; oppure sarebbe sempre esistito in eterno "ab omnia secula seculorum" (e allora l' umanità sarebbe eterna; oppure ce l' avrebbe insegnato Dio).

Le diversità delle parole delle diverse lingue possono anche (non necessariamente) non essere casuali ma conseguire le più svariate circostanze, eventualmente anche intenzionali, ma sicuramente sono arbitrarie (altrimenti bisognerebbe sempre invocare la famosa "voce baritonale, ecc." o il famoso "cartellino a mo' di prezzo delle merci al supermercato"...





CitazioneDire che "Salta fuori originariamente dal contesto dei parlanti che vivono insieme e praticano quotidianamente le stesse cose" non può significare altro che il fatto che costoro arbitrariamente (per una loro libera scelta, non imposta loro da nessuno) convengono di assegnare quel nome a quella cosa.
Assolutamente no. Dire che salta fuori dal contesto dei parlanti non implica per nulla alcuna scelta in merito, alcuna volontà che decida di farlo saltar fuori, questo nome anziché un altro.
Il pianto di un bambino non è simbolico per il bambino, per il quale non esiste nemmeno il bambino che ha fame, esiste solo fame-bambino-pianto tutto insieme, ma è simbolico per noi. E' segno del suo aver fame e a questo segno in genere rispondiamo, senza bisogno di vocabolari o interpreti (forse oggi un po' meno, dato che riusciamo sempre meno a cavarcela senza de-finizioni). Il pianto di un bambino non è ancora così diverso dall'uggiolare di un cane che ha il mal di pancia, ma è un segno, l'elemento primordiale di un linguaggio.
Il dire (il dire di qualsiasi linguaggio) nasce da una necessità che lega il segno a quello che accade, è espressione che evoca propriamente quello che si sente (pur non essendo quello che si sente, ma appunto il segno) e nasce da quello che effettivamente si sente, non dalla nostra arbitrarietà. Un bambino di tre anni che piagnucolando ha imparato a dire anche "ho mal di pancia" non ha inventato alcun linguaggio, perché infatti nessun linguaggio è mai stato inventato da nessuno, adulto o bambino che fosse, ma ogni linguaggio si forma a partire dal contesto sociale in cui si vive, senza che nessuno lo voglia.  
Continui a dire che i nomi delle cose sono convenzionali (pur non essendovi traccia di alcuna convenzione, pur essendo la storia delle convenzioni una pura mitologia) perché le stesse cose si potrebbero benissimo chiamare in modo diverso, ma resta il fatto che non le chiamiamo in modo diverso e se un giorno le chiameremo in modo diverso sarà solo perché i contesti che ne esprimono i significati cambiano, dunque cambiano anche le cose, dato che solo nei loro significati esse esistono.
Certo, pancia si può dire anche addome, ma i contesti in cui si dice "addome" invece di "pancia" o "algia" invece di "dolore fisico" sono ben diversi e sono i rapporti sociali a determinarli. Noi possiamo chiamare la stessa cosa in modi diversi in relazione alla capacità che abbiamo di comprenderla in modi diversi, non in relazione alla nostra arbitraria volontà di chiamarla in un modo o nell'altro. E' la stessa cosa che accade quando impariamo un'altra lingua: infatti non impariamo solo dei segni fonici arbitrari, ma la cultura e il modo di pensare di un popolo. Non è una questione di genetica, ma di cultura, che è pe certi versi più fondamentale della stessa genetica (essendo la stessa visione genetica un risultato culturale). In questo senso i poliglotti possono davvero accedere a modi di essere, non certo solo a segni arbitrari.
Sono costretto a segnalare un' altra contraddizione. "anche se questa cosa è lì presente, il nome la chiama e la chiama perché quello che chiama non c'è mai davvero"
Non c'è contraddizione, perché il nome non è la cosa che chiama. Il "cavallo" evoca un cavallo che anche se ci fosse un cavallo in carne e ossa qui davanti, non è quel cavallo in carne e ossa. E' sempre un assenza che il nome comunque evoca chiamandola.
Citazione
Beh, se i nomi delle cose non fossero frutto di convenzione arbitraria che altro potrebbe significare che "Saltano fuori originariamente dal contesto dei parlanti che vivono insieme e praticano quotidianamente le stesse cose"? Che saltano fuori da qualche cappello di qualche prestigiatore? Che sono detti dalla solita voce baritonale? Che sono scritti sulle solite etichette da supermercato?

Il pianto del bambino può essere detto "simbolico per noi" solo metaforicamente; metafora da tradurre nell' affermazione letterale "Noi capiamo che è causato da dolore (da fame? Dolore di pancia? Di testa? Perché si sente trascurato dalla mamma? Ecc.?).

Il bimbo di tre anni ovviamente non inventa la frase "ho il mal di pancia", ma l' ha imparata come insieme di segni verbali arbitrari e convenzionali, arbitrariamente e convenzionalmente messi in reciproche relazioni sintattiche.
Solo qualche genitore snaturato potrebbe non voler insegnare a parlare a suo figlio: tutti quelli mentalmente sani lo vogliono.

C' è traccia documentale inoppugnabile (altro che "mitologia"!) di tantissime attribuzioni arbitrarie e convenzionali di nomi a cose; per esempio dei nomi italiani (che non sono mere traduzioni, tutt' altro: Sud Tyrol -o come che si dica e scriva in tedesco- si traduce "Tirolo Meridionale"!) al Tirolo Meridionale e a quasi tutte (nelle intenzioni di chi l' ha arbitrariamente convenuto di tutte) le sue località.
Il "contesto naturale" del Sud Tirolo non è cambiato per il fatto di essere stato denominato "Alto Adige" (è un pochino cambiato contemporaneamente per ben altri motivi: anche se Severino non è d' accordo "panta rei").

Che si di solito e non affatto necessariamente si dica "pancia" e "addome" in contesti diversi non muta l' arbitrarietà (che non necessariamente = casualità) di tali parole.

(Senza falsa modestia) Non è certo a me che puoi insegnare l' importanza sociale della cultura e la sua prevalenza per molti fondamentali aspetti sulla genetica.
Ma tutti i condizionamenti culturali che possono determinare l' affermarsi delle diverse parole nelle diverse lingue non ne inficiano affatto l' arbitrarietà e convenzionalità.

Bene: allora ammetti (ma contraddittoriamente a ripetute altre tue affermazioni)  che il nome "cavallo" non è la cosa che denota.
Ma non è vero che "é sempre un assenza che il nome comunque evoca chiamandola": il nome "cavallo" può benissimo denotare e spessissimo di fatto denota un cavallo presente (o credi che in presenza di un cavallo non si possa dire "questo è un cavallo" (ma solo in sua assenza)?).

CONTINUA

#3223
Meno male che il nostro Sari l' ha scampata anche stamattina ed é ancora qui a sollecitare il nostro senso critico!
Per tutti noi non é di certo stato qualcosa di irrilevante.

leggendo che questa tua  riflessione ti è sorta ultimamente seguitando a leggere le argomentazioni del nostro caro forum nel quale dopo innumerevoli interventi ci si ritrova sempre al punto di partenza...ognuno con le sue idee mi sono ovviamente sentito chiamato in causa (tra me e Maral é in corso proprio un' innumerevole ripetizione di argomentazioni, col che ci si ritrova ciascuno sempre al proprio punto di partenza).

Per me é un rischio che vale la pena di correre: anche se l' alternativa (correzione di errori in cui si era incorsi, superamento di credenze false, miglioramento delle proprie idee e convinzioni, acquisizione di nuovo sapere e di maggiore consapevolezza critica circa noi stessi e il mondo in cui viviamo) é assai improbabile, si realizza molto raramente, per noi filosofi (più o meno inadeguati: non solo tu, ma un po' tutti lo siamo!) é talmente desiderabile che lo corriamo volentieri (il rischio di inutili, estenuanti ripetizioni del già detto).

Certo per l' "ebete", o meglio per il filosofo ingenuo, "alle prime armi" é generalmente più difficile incorrere in incomprensioni dovute alla tenacia delle proprie convinzioni (corrette o scorrette, vere o false che siano), é tendenzialmente più facile imparare; ma questo é il prezzo per lo meno in larga misura inevitabile dell' esperienza (in generale), il fatto che richiede tempo per formarsi, e dunque é tendenzialmente legata alla perdita della gioventù (parafrasando Gaber: io non mi sento "utente anziano" -veramente anziano mi ci sento, piuttosto vorrei non esserlo- ma per fortuna o purtroppo lo sono...).
#3224
Citazione di: maral il 17 Ottobre 2016, 23:50:26 PM
CitazioneSono costretto a ripetere che per definizione le "cose" in generale non significano nulla (né collettivamente, intersoggettivamente, né privatamente, individualisticamente): sono (accadono), se e quando sono (accadono), "e basta"!
Sono le cose in generale e prive di significato (ossia le cose in sé) che non esistono proprio (nel senso letterale che non appaiono in alcun modo). Questo non significa che non siano, accadono con grande probabilità tantissime cose in questo preciso istante che non ci appaiono, ma quelle innumerevoli cose prive di significato e di nome, sono lo sfondo su cui qualcosa invece appare e apparendo esiste per noi tutti e non in sé, non "oggettivamente". Lo schermo che immagino tu abbia davanti agli occhi, mentre leggi queste mie righe (e su cui ho ora attirato la tua attenzione per fartelo apparire dallo sfondo in cui non appariva) non è originariamente una cosa in sé senza significato e senza nome, ma, nel momento in cui appare appare già con il suo significato che dice cos'è. E questo significato ha come simbolo pubblico (per tutti noi), quel nome che ben prima di denotarlo e definirlo, lo connota e lo evoca.
Citazione
Esistere in quanto apparenze, cioè come fenomeni, percezioni coscienti, ed esistere in sé sono due possibili reciprocamente alternative condizioni delle "cose" assolutamente da non confondere.
Ma anche limitatamente ai fenomeni (le cose che appaiono) è possibilissimo che accada e di fatto accade (se dobbiamo credere alla memoria; senza di che non è possibile ragionare su realtà e conoscenza: si può solo restare a constatare il presente) che vi siano "cose" reali (enti ed eventi fenomenici, reali in quanto insiemi di sensazioni coscienti) non accompagnati inoltre da- (-le sensazioni fenomeniche costituenti) il pensiero, la predicazione del loro accadere, id est (per definizione) la loro conoscenza, ovvero senza che siano conosciute (ad esempio vari pedoni che stamane mentre guidavo per raggiungere il poliambulatorio ove presto servizio, tutto intento a pensare al difficile lavoro che mi attendeva, come tutti i giorni camminavano sui marciapiedi vicino alla carreggiata da me percorsa).
E allo stesso modo è possibilissimo che accadano e di fatto accadono (le sensazioni fenomeniche de-) i pensieri di "cose" pensate (concetti; magari predicati falsamente essere o accadere realmente) non accompagnate inoltre da riferimenti o denotazioni reali dei concetti stessi, id est (per definizione) pensieri di "cose" non reali, "cose" pensate e non reali.

Non vedo come "cose" che non appaiono" possono in alcun modo essere "lo sfondo" di alcunché: contraddizione!

Nel momento in cui lo schermo del computer appare a qualcuno appare come mero insieme assolutamente insignificante di sensazioni fenomeniche coscienti (solo se si legge quanto vi è scritto appare significare qualcosa, ma solo indirettamente, come portatore di simboli dotati di significato; non comunque come di per sé significante alcunché:
Infatti apparirebbe benissimo anche a un selvaggio (purché non fosse cieco) che assolutamente non sapesse cosa sia e magari pensasse trattarsi di qualcosa di magico.
Ma anche a me (al contrario delle parole che vi sono scritte, le quali però sono simboli) appare senza significare alcunché; il significato che diche che cosa è non è affatto lo schermo stesso, bensì la parola (il simbolo verbale) "schermo" arbitrariamente impostagli; che se invece fosse stato denominato -che ne so?- "arturo" non cambierebbe proprio assolutamente nulla nello schermo stesso e nella nostra conoscenza di esso (come infatti nulla cambia negli schermi degli anglofoni, chiamati invece "screen(s)" e nella loro conoscenza di essi).

Il termine "schermo" oltre a connotare qualsiasi schermo reale o anche immaginario, nel caso dello schermo reale del mio computer che ora è qui davanti a me, lo denota pure in quanto referente real (e non solo pensato).



Citazioneda dove salta fuori quel nome? Dal cappello del prestigiatore? Da Dio? Dal nulla?
Salta fuori originariamente dal contesto dei parlanti che vivono insieme e praticano quotidianamente le stesse cose.
Come ipotesi potrei dire che forse accade qualcosa di simile al canto degli uccelli o ai vari versi che emettono i cani e i lupi a seconda delle situazioni. Un cane non inventa che un suono latrante ha un certo significato, guaire un altro ecc., esattamente come nessun bambino si inventa il suono del pianto o del riso per poi mettersi d'accordo con gli altri sul suo significato. La comunità di appartenenza riprende quei suoni e risponde con altri suoni complementari (succede anche ai genitori con i bambini piccoli, finché non decidono di interpretare il loro ruolo sociale di correttori). Nell'essere umano ci sono possibilità di fonazione assai superiori a quelle di qualsiasi altro essere vivente, ma non solo, c'è soprattutto una capacità simbolica condivisa, che vive di una simbologia comune di significati. Così la combinazione dei suoni che un uomo emette (che non sceglie lui, così come non si sceglie né si concorda su che suono emettere quando si ride o si piange, né lo si impara perché si sia udito nel cielo una risata stridula o baritonale con sotto scritto "questo è il suono da riprodurre quando sei allegro") può presentarsi a tutti come un simbolo per quella situazione, per quell'accadimento e acquisire una capacità evocatrice autonomamente persistente. La parola, il nome è un'evocazione per qualcosa che non c'è, significa "chiamare insieme la presenza di ciò che manca". Il nome non è mai la cosa che denota proprio per questo, anche se questa cosa è lì presente, il nome la chiama e la chiama perché quello che chiama non c'è mai davvero. In origine, come avevo già detto, forse il linguaggio è stato solo una specie di balbettamento da ripetere ritualmente insieme accogliendone il significato, senza scegliere cosa dovesse significare, già significava evocando per risonanza tra parlanti che vivevano intimamente insieme senza  dover concordare nulla per capirsi. Forse il linguaggio è nato come un canto evocativo e ritualmente ripetuto, un canto le cui espressioni foniche prese di per sé non significavano nulla (solo una modulazione vocale, che gli altri potevano sentire), finché non ci si è messo a cantarlo insieme facendosi anche il contrappunto e insieme variandolo qua e là, ma non troppo.
CitazioneDire che "Salta fuori originariamente dal contesto dei parlanti che vivono insieme e praticano quotidianamente le stesse cose" non può significare altro che il fatto che costoro arbitrariamente (per una loro libera scelta, non imposta loro da nessuno) convengono di assegnare quel nome a quella cosa.

Il pianto di un bambino è un evento non simbolico (anche se un adulto comprende benissimo che è causato da dolore): c' è una bella differenza fra il pianto di un bambino di pochi mesi che ha il mal di pancia (o il latrato di un cane) da una parte e le parole di uno di tre anni che dice "ho mal di pancia" (non nel mal di pancia, ma del dirlo da una parte e nel piangere dall' altra).
I singhiozzi di un bimbo non sono arbitrari e convenzionali (non potrebbero essere sostituiti da risate), le parole "dolore e "pancia" no: potrebbero benissimo essere sostituite da altre parole (per esempio "male fisico" o "algia" e "addome": il pianto o il latrato non sono convenzionalmente inventati ad libitum, certo (non può piangere o latrare in diverse lingue), ma le parole "mal di pancia" invece lo sono (il concetto può essere significato da diverse parole in diverse lingue).

la combinazione dei suoni che un uomo emette parlando la sceglie lui ad libitum, eccome: infatti se si rivolge a uno che parla italiano sceglie liberamente la parola "cane", se a un anglofobo la parola "dog", a un francofono senza essere costretto da nessuno (se non alla sua propria volontà di comunicare, ergo liberamente, liberamente volendo comunicare) la parola "chien", ecc.

Il ridere è istintivo, perfettamente d' accordo.
Ma invece il dire "sono allegro" è conseguenza di una arbitraria convenzione linguistica oppure si è udito dalla voce baritonale del Dio dei film di Hollywood sulla Bibbia, oppure è un istinto innato come il ridere (in quest' ultimo caso i parlanti le diverse lingue dovrebbero avere corredi genetici diversi, le lingue verrebbero ereditate "mendelianamente" e i poliglotti avrebbero materiale genetico in eccesso, un po' come gli affetti da mongolismo; non uso eufemismi non avendo mai attribuito a questo termine e a chi è affetto da questa patologia alcunchè di offensivo o vergognoso, allo stesso modo in  cui uso tranquillamente il termine "negro").

Sono costretto a segnalare un' altra contraddizione. "anche se questa cosa è lì presente, il nome la chiama e la chiama perché quello che chiama non c'è mai davvero".

Non vedo alcuna inconciliabilità degli accenni ipotetici che proponi sull' origine del linguaggio con una scelta arbitraria e convenzionale.




CitazioneLa frase "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice" non è affatto contraddittoria

Ripeto, dato che "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice" è una frase che dici riguardo alla natura, se è vera, la natura per come è, è indipendente pure da questa frase che dici di essa, la natura è cioè indipendente dall'essere indipendente da come la si dice (dato che lo dici). Basterebbe allora dire "la natura è come è" (per quanto anche questo è sempre qualcosa che solo si dice, ma almeno fino a qui non sembra contraddittorio), ma dirlo non vuol dire nulla (Anche se Severino ci vedrebbe la prova dell'eternità della natura per come è), dato che qualsiasi cosa, pure gli ippogrifi, sono come sono (e in qualche modo sono, anche se qui e ora non ce li troviamo davanti in carne e ossa. Perché come non appaiono cose senza significato, così non possono apparire significati senza qualcosa a cui poterli riferire fossero anche solo immagini di un sogno o giochi della fantasia nostri o altrui). Ma se il come si dice la natura è del tutto irrilevante dato che conta solo come è, tanto vale non dire nulla (anzi meglio non dire nulla evitando di dire come la natura non è credendo, per averlo detto, che lo sia), ma allora perché continuiamo a dirla, a spiegarla e a interpretarla? Non è che qualcuno (o più probabilmente tutti) pensa di dirla, nel modo suo, proprio per come è, ossia per come gliela hanno detta essere come è? Sempre si ritiene (tu, io, chiunque altro, fosse anche il più relativista e scettico) che come la si dice (come il contesto ha insegnato a dire) dica come davvero stanno le cose. E in base a cosa si può pensarlo?
CitazioneInfatti la natura é come è indipendentemente dalla frase "la natura è come è, ecc.": la natura è come è sia che se ne parli in qualsiasi modo, sia che non se ne parli; non è come è dipendentemente dal modo di parlarne; ad esempio per dirne che è deterministica o meno, comprendente ippogrifi o meno: non è che dicendo che comprende gli ippogrifi accada che esistano in essa ippogrifi (questo potrebbe farlo solo Dio, se esistesse!).
La tautologia "la natura è come è" non basta affatto per sostenere contro di te che non è il parlarne che la fa essere come è: in quest' ultima mia affermazione, che infatti non è una mera tautologia c' è "qualcosa di più" che ritengo molto importante a livello ontologico e gnoseologico, e che constato tu continui a ignorare, confondendo due ben diverse nozioni, quelle di "realtà" e di "pensiero circa la realtà (o meno)".
Infatti concordo che gli ippogrifi in qualche modo sono; ma il problema è proprio nel modo (meramente immaginario) in cui "sono" gli ippogrifi), ben diverso da quello (reale) in cui "sono" i cavalli.

Sono costretto a ripetere che la stragrande maggioranza delle cose che appaiono, non essendo simboli, sono senza significato, non significano alcunché: "sono (apparenze fenomeniche) e basta"!
E ovviamente i significati sono significati "di qualcosa" (questa sì che è un' altra tautologia!), ma la questione è: questi significati sono mere connotazioni mentali, di pensiero oppure sono anche denotazioni di cose (enti ed eventi) reali?

Tanto vale non dire nulla se non si ha interesse a conoscere la realtà (in generale; e in particolare la realtà naturale): ma questo non è il mio caso!
Il nome è irrilevante per la natura, che tanto non ne dipende nel suo modo di essere, ma è rilevantissimo per la conoscenza della natura, essendo necessario per pensarne, descriverne predicarne il modo di essere (predicazione che, se adeguata, veritiera, per definizione ne costituisce appunto la conoscenza).
Ed è appunto compito della filosofia indagare se e come (a quali condizioni, entro quali limiti, in che senso, ecc.) ciò possa accadere.

#3225
Citazione di: maral il 16 Ottobre 2016, 10:43:05 AM
Il significato di arbitrario è legato a un punto di discussione filosofica basilare e molto più generale: l'esistenza del libero arbitrio. Nello specifico la domanda è se vi sia o meno libero arbitrio nella scelta dei nomi e nel linguaggio. Ancora più radicalmente il problema coinvolge l'effettiva esistenza di un soggetto (un io) che in quanto tale possa esercitare delle scelte (con riferimento alla critica di Spinoza a Cartesio).
Tu dici che "arbitrario" non significa "immotivato" né "casuale" e sono d'accordo, ma quali sono i motivi che portano il soggetto a una certa scelta anziché a un'altra? Li sceglie lui, fermo restando che avrebbe potuto scegliere in modo diverso? A me sembra piuttosto evidente che non li scegli lui tra una serie equivalente (casuale) di possibilità, ma li determina nella loro prevalenza il contesto in cui esiste e questo contesto esprime già un accordo tra i soggetti che vivono in esso, poiché usano gli stessi strumenti, esercitano le stesse prassi, hanno in comune gli stessi riferimenti simbolici e quindi le stesse conoscenze e prospettive di significato. Nel caso specifico dei nomi e del linguaggio quando dico che la cosa si mostra con il suo nome non dico nulla di metafisicamente arcano, ma semplicemente che la cosa viene subito colta nel suo significare collettivo, intersoggettivo e questo significare è espresso pubblicamente da un nome che emerge e trae il suo senso comunicabile dall'insieme dei parlanti senza che vi sia nulla di arbitrario o concordato per tentativi. Nessuno dei parlanti esercita delle scelte, nessuno dei parlanti agisce arbitrariamente e nessuno dei parlanti in quel contesto è poi chiamato a stipulare accordi con altri parlanti per potersi intendere, perché si intende già e quel nome solo rende pubblica quell'intesa.
E' proprio in questo modo che noi ci parliamo ed è sempre stato così, poiché l'essere umano nasce con il linguaggio, non nasce prima del linguaggio per istituirlo in seguito concordando sui termini da usare. Nessun uomo, nessun ominide, nessuna scimmia che potesse parlare ha mai originariamente stabilito alcun accordo, né ha mai scelto o inventato alcun segno (vocale o di altro tipo) a suo arbitrio, perché è stato il contesto in cui viveva a imporglielo mentre in quel contesto, e non nel vuoto assoluto, qualcosa accadendo emergeva già con il suo significato particolare, ossia con quella particolare espressione prospettica in cui si mostrava accadendo. Il nome non è originariamente che il segno sonoro pubblico (che coinvolge tutti gli udenti parlanti) di qualcosa che accade in un certo modo (proprio come una forma e un colore con tutto il loro significato emotivo sono segni visivi e soggettivi di quel medesimo accadere) e questo suono ci dice a tutti che qui e ora quel qualcosa significa (è un simbolo per)  questo e non quest'altro.
E proprio poiché quel suono simbolo di un particolare accadere lo sentiamo intimamente nostro nella sua originaria risonanza pubblica e collettiva che possiamo poi credere a posteriori che quella cosa avremmo potuto indifferentemente chiamarla in modo diverso, ma non è così e non è così perché così è stata chiamata e potrà essere chiamata (al futuro, non al condizionale passato) in modo diverso quando il contesto in cui accade la farà apparire in modo diverso e questo "modo diverso" sarà allora necessariamente e non arbitrariamente espresso da un nuovo nome che ne darà un significato collettivo, pubblico e per nulla arbitrario.

Per quanto riguarda la tautologia, filosoficamente ognuno è libero di uscirne, ma se ne esce deve dimostrare di non contraddirsi. La frase che avevo indicato come contraddittoria è "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice", dato che in tutta evidenza, mentre proclamiamo la natura essere indipendente da come la si dice, la si dice tale pretendendo che quanto si dice dica come è certamente la natura!

CitazioneNon sono d' accordo.
Per me indipendentemente dal fatto che esista il libero arbitrio o che si tratti di un' illusione, la questione circa i significati dei simboli verbali e dell' attribuzione dei simboli verbali ai (significanti i) concetti è quella se l' attribuzione degli uni agli altri è imposta in qualche misterioso modo dalle cose che (eventualmente, non sempre necessariamente: solito concetto di "ippogrifo") costituiscono le denotazioni reali dei concetti, come sostieni tu, oppure se è scelta indipendentemente da coercizioni estrinseche (per un determinismo intrinseco ai soggetti umani parlanti, cioè deterministicamente, oppure liberoarbitrariamente cioè indeterministicamente: non fa differenza nella fattispecie), ovvero arbitrariamente, ad libitum, come sostengo io.
 
I motivi che inducono i parlanti a scegliere determinati simboli verbali per determinati concetti, dotati di denotazioni reali (es.: cavalli) o meno (es.: ippogrifi), possono essere i più disparati; in teoria potrebbe anche accadere che si decida di tirare a sorte.
 
Sono costretto a ripetere che per definizione le "cose" in generale non significano nulla (né collettivamente, intersoggettivamente, né privatamente, individualisticamente): sono (accadono), se e quando sono (accadono), "e basta"!
Sono solo certe determinate assai peculiari cose, cioè i simboli (e non tutte le altre cose che simboli non sono), a possedere un significato (o anche più di uno, variabile arbitrariamente e determinatamente a seconda degli usi e dei contesti).
Se "Nessuno dei parlanti esercita delle scelte, nessuno dei parlanti agisce arbitrariamente e nessuno dei parlanti in quel contesto è poi chiamato a stipulare accordi con altri parlanti per potersi intendere, perché si intende già e quel nome solo rende pubblica quell'intesa", da dove salta fuori quel nome? Dal cappello del prestigiatore? Da Dio? Dal nulla?
In realtà salta fuori dal fatto che qualcuno lo propone, prova ad adoperarlo e gli altri o immediatamente lo accettano (arbitrariamente), oppure se ne vengono proposti più d' uno, per un po' li si prova un po' tutti, per poi finire per adottarne uno solo (o pochissimi di alternativi, come talora succede: sinonimi).
 
La nascita del linguaggio è un processo del quale siamo ben lungi dal possedere una teoria scientifica verificata e universalmente accattata.
Personalmente propendo per la tesi che di innate (conseguentemente all' evoluzione biologica) ci siano solo le capacità intellettive, raziocinative e simboliche umane, e che il linguaggio sia un' invenzione, una delle prime, importantissima, decisiva manifestazione dell' "innesto" sulla "storia naturale" della "storia umana", dell' integrazione, nella nostra specie, dell' evoluzione culturale sulla base della pregressa e perdurante evoluzione biologica.
E che si sia trattato di un' invenzione collettiva, sociale e non individuale (non di un Robinson Crusoe che non aveva nessuno con cui comunicare) mi sembra ovvio.
 
Questa della presunta "imposizione dei segni (vocali o di altro tipo) ai parlanti da parte del contesto in cui vivevano" è qualcosa di assolutamente misterioso e incomprensibile: cos' è concretamente accaduto, che si è sentita una voce (dal tono tra il basso e il baritonale e dal timbro possente e un tantino retorico simile a quella di Dio nei film hollywoodiani sulla Bibbia) che stentoreamente proclamava: "questo si chiama 'albero', quest' altro si chiama 'sasso', ecc."? Oppure è accaduta la comparsa di una specie di enorme "fumetto" a caratteri cubitali nel cielo con la scritta "albero" e una freccia verso un albero, ecc.?
O cos' altro è accaduto (di umanamente comprensibile)?
Non vedo in che cosa potrebbe consistere il "contesto che imporrebbe i nomi alle cose" ed eventualmente ne imporrebbe le variazioni nel tempo, se non (alternativamente):
a)    I parlanti che provano a cercare un nome per un concetto (inizialmente per concetti di oggetti concreti) e prima o poi si accordano arbitrariamente (variante naturale).
b)    Dio che lo comunica verbalmente o per iscritto (necessariamente e non ad arbitrio umano).
c)    Voci impersonali che risuonano o scritte che spontaneamente si formano nel celo o su apposti cartelli che compaiono con uguale spontaneità (necessariamente e non ad arbitrio umano).
d)    D) Altri fantasiosi eventi sopra- o preter- naturali (che impongono i nomi alle cose necessariamente e non ad arbitrio umano).
I nomi possono essere imposti alle cose necessariamente e non ad arbitrio umano solo attraverso eventi sopra- o preter- naturali; non riesco a immaginare in che modo naturalmente.
E personalmente opto per il naturalismo degli eventi, ergo: per l' assegnazione umana arbitraria dei rispettivi vocaboli ai concetti.
 
La frase "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice" non è affatto contraddittoria.
Proclamando la natura essere come é indipendentemente da come la si dice, la si dice tale (essere come è indipendentemente da come la si dice) pretendendo del tutto correttamente, coerentemente, logicamente che quanto si dice dica qualcosa della natura e del parlare della natura (e non pretendendo affatto di parlare della natura non parlando della natura o di non parlare della natura parlando della natura). Certo! Dove sarebbe mai la contraddizione?
Sarebbero contraddittorie casomai le frasi "la natura è come non è, indipendentemente da come la si dice"; oppure "la natura non è come è, indipendentemente da come la si dice"; oppure il parlare della natura è ciò che è non parlando della natura (se questo significassero, ma non è per niente chiaro, le parole "indipendentemente dal parlare della natura").


Ma ora precisi:
CitazioneNon dico che la natura è "indipendente da come la si dice (quindi compreso anche come la sto dicendo io)", bensì che è come è indipendentemente dal fatto che il suo essere come è comprenda (ipoteticamente, fra l' altro) me che lo dico (che parlo della natura) oppure (come ipotesi alternativa) che non lo (mi) comprenda
Allora se semplicemente intendi dire che la natura è come è, che comprenda o meno il "come la si dice", che fine fa il "come la si dice" su cui stiamo discutendo e quindi dicendo? e che fine fa tutta quello che pensiamo di poter dire e quindi di sapere e spiegare sulla natura? Wittgenstein arrivò a concludere che ciò di cui non si può dire (in questo caso la natura) bisogna tacere, ma anche così aveva detto troppo, quindi non resterebbe che un assoluto silenzio, forse il silenzio assoluto dell'Essere. E' questa la realtà? Se lo è, a questa domanda può solo seguire, per coerenza, il silenzio.
CitazioneInfatti intendo dire che la natura è come è, che comprenda o meno il "come la si dice"; il "come la si dice" fa la fine -per così dire, per usare le tue parole- che il suo accadere o meno è irrilevante circa il fatto che la natura è come è.
Essa è come è sia che comprenda il dirla in un qualche modo, sia che non lo comprenda: non è l' eventuale dire che la natura è vuota (costituita dal nulla; per assurdo, poiché il dirlo è già qualcosa), oppure che è fissa "a la Parmenide" o "a la Severino", oppure che diviene deterministicamente, oppure che muta caoticamente, indeterministicamente, ecc., che fa sì che la natura sia vuota (costituita dal nulla), oppure che sia fissa "a la Parmenide" o "a la Severino", oppure che divenga deterministicamente, oppure che muti caoticamente, indeterministicamente, ecc. o meno (sarebbe troppo comodo: penserei subito che sia piena di donne bellissime disposte ad accontentarmi in tutto e per tutto e automaticamente sarei un grandissimo tombeur de femmes!).
 
E quanto pare la realtà non è (costituita da-) il nulla.
E si può benissimo parlarne, correttamente, veracemente o meno)..