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Messaggi - sgiombo

#3286
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 21:06:48 PM
Citazione di: sgiombo il 28 Settembre 2016, 18:46:44 PM
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 14:33:54 PM
CitazioneMi pare Sini alluda piuttosto alla necessità di avere un nome, per poter "essere una cosa"(identificata), e quindi per potersi manifestare nel linguaggio (non ontologicamente!). Almeno è così che interpreto quel "noi non potremmo avere alcuna "cosa" nella presenza, alcun "cavallo", se già prima non si fosse per noi aperto lo spazio della parola, della nominazione", ovvero: se supponiamo non esista la parola "cavallo" come nominazione di quell'ente, non è possibile parlare del "cavallo", e quindi anche quando ce l'ho presente davanti a me, non è per me un "cavallo", giacché tale nominazione non è stata ancora formulata (per ipotesi).
Non credo sia un caso che Sini parli di "manifestazione delle cose nelle parole" e non di "esistenza", per cui non so fino a che punto è lecito parafrasarlo con "nessuna cosa può [/size]essere prima della parola che la nomina"(cit. Maral).
Mi pare Sini alluda piuttosto alla necessità di avere un nome, per poter "essere una cosa"(identificata), e quindi per potersi manifestare nel linguaggio (non ontologicamente!). Almeno è così che interpreto quel "noi non potremmo avere alcuna "cosa" nella presenza, alcun "cavallo", se già prima non si fosse per noi aperto lo spazio della parola, della nominazione", ovvero: se supponiamo non esista la parola "cavallo" come nominazione di quell'ente, non è possibile parlare del "cavallo", e quindi anche quando ce l'ho presente davanti a me, non è per me un "cavallo", giacché tale nominazione non è stata ancora formulata (per ipotesi).

Qualche pagina dopo quella citazione, Sini infatti dice: "La parola ha l'assente dentro di sè per sua costituzione e natura o non sarebbe parola. Il suo assente non è diverso quando la cosa empirica sta lì davanti o quando sta altrove; e anzi la cosa empirica può stare lì davanti solo perchè la parola ha nominato l'assenza, il per tutti" (p. 58), e questo "per tutti" è tale in virtù dell'astrazione linguistica che consente di parlare di oggetti assenti, proprio in quanto astratti, in un modo che tutti comprendano.

Quindi, se intendiamo così il discorso di Sini, il Monte Bianco esisteva anche prima della "comunità parlante", ma nessuno lo aveva "battezzato" così, quindi non era ancora (nei pensieri umani) identificato come il "Monte Bianco" (se non ho frainteso, la morale della favola è: finché qualcosa non ha una sua parola, una sua nominazione, resta non dicibile, non predicabile e non "ragionabile").

CitazioneGrazie per le chiare spiegazioni: le cose o i fatti reali esistono o accadono (ontologicamente) anche indipendentemente dagli eventuali pensieri o discorsi (fatti di parole) circa "cose " e "fatti" (identificati linguisticamente) ...se non intendi questo, allora non ho capito nulla.

Mi viene comunque da dire che (senza voler mancare di rispetto al prof. Sini) sostenenre che finché qualcosa non ha una sua parola, una sua nominazione, resta non dicibile, non predicabile e non "ragionabile") mi sembra un po' la scoperta dell' acqua calda.

       * * * 

Citazione di Maral:
Sgiombo, quello che Sini (e non solo Sini che si riferisce a tutta una corrente fenomenologica pragmatica di pensiero che si rifà a Wittgenstein, Husserl, Whitehead, Pierce, Mead, Derrida e via dicendo) viene dicendo è che per l'essere umano, in quanto essere continuamente parlante, le cose esistono solo nel loro significare e questo significare è parola, le cose sono inseparabili dalle parole con cui le si nomina. Non è che io vedo qualcosa e poi mi invento o convengo con degli altri su una parola per farne segno della cosa evocandola quando quella cosa non mi sta davanti, subito la parola si presenta se c'è la cosa, per il fatto che c'è come un significato, un'espressione vocale che ha un significato che risuona. Che poi questa espressione vocale sia diversa da lingua a lingua dipende dai dai contesi culturali contingenti e locali, ma la parola, qualsiasi essa sia, è necessaria alla cosa, proprio per poterla considerare oggettiva, condivisibile. E' alla luce del significato di questa parola "Monte Bianco" che noi riteniamo che quella cosa sia un monte (altra parola) e che quel monte è una parola che significa che quella cosa deve essere sempre esistita ed esistita per tutti, dove "esistita per tutti" sono ancora parole. E' implicito nella parola umana il significato di qualsiasi pre esistenza, non nella cosa. Per un bambino appena nato, per le aquile, gli stambecchi e i lupi che magari vivono sul monte, il monte non lo esperiscono come ciò che noi consideriamo monte vedendo degli stambecchi che ci si arrampicano sopra e attribuendogli di conseguenza il significato che noi gli diamo, non c'è per loro un soggetto che conosce qualcosa che sta fuori da lui come qualcosa a se stante più o meno permanente. Non è il "monte". perché non c'è né il monte né un me che possa concepirlo tale, con il significato (compreso quello di essere pre esistente a ogni esistenza) che noi, in quanto parlanti gli attribuiamo. Cos'è allora quel monte per essi che non hanno parola per concepirlo? Cos'è il monte prima di nominarlo? è un puro accadere in cui non è presente alcuna specificazione oggettuale, non è presente né soggetto, né oggetto, né monte, né stambecco che sta sul monte e nemmeno alcuna pre esistenza, perché l'accadere accade solo adesso e quando non accade non c'è e precede ogni distinzione tra dentro e fuori. E' solo la parola che lo fa rimanere e la parola costruisce la metafisica che lo pone e la scienza stessa, umana, che lo definisce e lo studia, perché anche la scienza, anche la matematica si esprime a parole.
Come vedi siamo all'opposto del pensiero severiniano e ai suoi enti eterni, ma alla fine si arriva a qualcosa di molto simile, se intendiamo che l'ente è il suo stesso completo significare in un mondo che per l'uomo implica il suo nome non come un'aggiunta arbitraria o semplicemente convenuta a posteriori potendo anche non convenirne: la cosa non è altro che il suo nome che risuona a tutti noi per come risuona.

CitazioneLa conoscenza o per lo meno la considerazione, il pensiero della cosa, e non la cosa é il "significare dell' ente (tramite il simbolo verbale) per noi che lo pensiamo".
Come dice Phil (se ben l' intendo), la cosa (esempio : il monte Bianco) esisteva anche prima della "comunità parlante", anche se nessuno lo aveva "battezzato" così, quindi non era ancora la cosa pensata (identificata linguisticamente) in quanto tale (per esempio in quanto "Monte Bianco"); ma non per questo era meno cosa reale.
#3287
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 14:33:54 PM
Per meglio chiarire ancora la questione mi rifaccio a un testo di Sini che è su posizioni pragmatiche ben diverse da quelle severiniane.  Nell'opinione comune, osserva Sini, si pensa che le parole siano dei segni convenzionali per indicare o evocare (nominare) l'assente. Se dico ad esempio "cavallo" io evoco quel particolare ente che è un cavallo quando ad esempio non abbiamo un cavallo sotto gli occhi. La parola sta al posto della cosa che non c'è. Ma, fa ancora notare Sini, per potersi accordare che la vocalizzazione (il segno vocale) "cavallo" significa l'animale in questione, dobbiamo già avere un linguaggio e delle parole e delle parole. Ma, aggiunge, "il fatto fondamentale è che la cosa della parola è assente anche quando, per ipotesi, la cosa stessa sia presente. La presenza davanti a noi di un cavallo non renderebbe meno assente l'oggetto della parola "cavallo". E inoltre noi non potremmo avere alcuna "cosa" nella presenza, alcun "cavallo", se già prima non si fosse per noi aperto lo spazio della parola, della nominazione... le cose si manifestano nelle parole e non prima di esse, così che noi possiamo stabilire dei segni che vi rimandino." (da C.Sini "Il silenzio e la parola")
Questo significa, che anche chi pensa in modo esperenziale e strettamente fenomenologico, senza alcuna implicazione metafisica ontologica, che nessuna cosa può essere prima della parola che la nomina, cosa e parola sono sempre insieme, sono il frutto di una rete di relazioni assai complessa che sola ce ne dà presenza reale e significato, sempre indissolubilmente e originariamente insieme.
CitazioneDunque -se ben capisco- secondo Sini quando nessun uomo in grado di parlare era ancora comparso sulla terra, e dunque non esisteva la parola (o meglio la locuzione costituita da due parole) "monte Bianco" il monte Bianco non esisteva (come insieme di sensazioni fenomeniche nell' ambito delle esperienze coscienti di altri animali già esistenti (per esempio aquile, stambecchi, lupi, ecc.).

Non sono d' accordo.
#3288
Citazione di: anthonyi il 28 Settembre 2016, 14:33:38 PM
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 13:59:23 PM
La tesi di una lingua comune non è altro che l'ipotesi sulla radice comune delle lingue Indo-Europee, cioè delle lingue sviluppatesi nelle aree mediterranee, mediorientali fino al continente Indiano, certamente c'è chi la mette in discussione ma è una tesi linguisticamente dominante. Essa è d'altronde associata con contenuti culturali, mitologici e cultuali che mantengono elementi comuni in tutte queste aree.
CitazioneLa tesi di una lingua originaria comune indoeuropea penso sia messa in discussione da ben pochi e ben poco convincentemente.
Ma é diversa da quella di una lingua autenticamente universale originaria innata.
#3289
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 13:59:23 PM
Per quanto riguarda la questione sul divenire e come la intende Severino se ne è molto discusso a suo tempo nel vecchio forum. Comunque in breve Severino parte dalla tautologia di ogni ente che si basa sul principio di identità (A è A) su cui non si può dubitare. Se A è A non potrà mai essere qualcosa di diverso da A nella sua concreta presenza (ove concreta significa completamente definita) da quello che è, quindi non solo Phil che adesso legge questo messaggio è mai stato un oocita, né un embrione, né un feto, tutti enti diversi da quello che Phil che legge questo messaggio è, ma non è nemmeno il Phil che qualche ora fa scriveva un altro messaggio, anche costui è un ente diverso ed eterno, non potendo mai essere altro da quello che è. Severino considera la fede nel divenire la follia e la violenza estrema dell'Occidente (che si esercita ogni volta che si vuole far diventare una cosa un'altra cosa), appunto perché con essa si crede che le cose possano essere ciò che non sono, pur restando ciò che sono (se dico che A è diventato B, dico che pur non essendo A B a un certo momento A è davvero B, e per diventare B A si è annullato pur rimanendo A).

CitazioneMannaggia a me, che non riesco a trattenermi dall' obiettare (per l' ennesima volta)!
Cercherò almeno di limitarmi al "minimo sindacale".


Da dove salta fuori questo "mai" (
Se A è A non potrà mai essere qualcosa di diverso da A)?
Se A è A in un determinato tempo o/e luogo non potrà assolutamente in alcun modo essere qualcosa di diverso da A in tale
determinato tempo o/e luogo, mentre in un altro tempo (successivo) potrà benissimo essersi trasformato in B (per esempio: A= l' embrione di ciascuno di noi; B = ciascuno di noi oggi).




CitazioneMa come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni?
Ottima domanda, infatti fenomenologicamente gli enti eterni non appaiono. Ma per Severino  noi non percepiamo affatto il mutamento, il mutamento che crediamo di percepire è solo il frutto di una volontà di crederlo (noi non percepiamo A che diventa B, ma A e B e poi affermiamo volendolo credere che l'uno è diventato l'altro). Questa fede sostiene che le cose possano cambiare pur rimanendo le stesse (lo stesso uomo che da embrione diventa bambino, poi adulto, poi  vecchio poi cadavere pur rimanendo il medesimo uomo). Questo errore è dato dal pensare astrattamente le cose non nella loro concreta ed effettiva interezza che è eterna e si manifesta nella dimensione di un continuo sopraggiungere e passare oltre degli enti eterni nei vari contesti di significato in cui parzialmente si mostrano. La dimensione in cui appaiono gli eterni è dunque quella di un immenso fluire la cui totalità è infinita.

CitazioneVeramente la mia volontà sarebbe che io, Sgiombo, restassi lo Sgiombo giovane di quando avevo vent' anni...
Ma malgrado la mia volontà di crederlo (non assoluta: per fortuna so accettare il destino), ciò che credo di percepire é invece il mio inesorabile diventare sempre più vecchio (e vicino alla morte).

#3290
Citazione di: Sariputra il 28 Settembre 2016, 08:31:55 AM
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 08:04:41 AMLasciando fra parentesi la mia prospettiva, per poter comprendere meglio la tua (sperando di non abusare della tua disponibilità), ti chiederei come intendi l'identità dell'ente, ovvero se
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PMA non può diventare B, perché B in quanto B è il niente di A così come A in quanto A è il niente di B.
Io, come ente, non sono il risultato di un processo in divenire che risale al mio essere feto, prima embrione, prima spermatozoo e cellula uovo, e così via? Quando e dove avviene il mio manifestarmi come "ente A"?

Scusa l'intromissione ma a me pare che, se A non diventa B e poi C ecc., non c'è proprio possibilità del divenire. Si deve per forza arrivare alla conclusione che tutti gli enti già esistono, sono eterni, immutabili e il divenire è solamente l'apparire alla coscienza di questi enti. Praticamente il pensiero tenta di "cristallizzare" il mutamento spezzettandolo in frammenti eterni (Severino?... :-\ ). Come quasi ad affermare che un corso d'acqua è formato da infinite gocce immutabili ed eterne che, solamente perchè così "appaiono" all'osservatore, sembrano un corso fluido d'acqua. Ma come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni? Secondo il mio modesto parere qui si intravedono veramente tutte le difficoltà e i limiti del pensiero designante che annaspa nel tentativo di fermare proprio il divenire, in un certo senso "attorcigliandosi" su se stesso, per darsi ragione del suo pensare. Come si fa a de-finire un qualcosa in perenne trasformazione?
Sembra quasi il desiderio, o il sogno, del pensiero umano di conservare "intatto" il mondo delle idee, di preservarlo dal di-venire stesso, percepito come una minaccia.

P.S: Perdonate il mio gettarmi a capofitto nelle discussioni di carattere filosofico, non avendone la competenza è sicuramente una dimostrazione di latente orgoglio...  :-[ ma ben sapete che , alla passione, non si comanda!!
CitazioneFai benissimo a gettarti nelle discussioni filosofiche (in base al principio "amicus quisquid -Platone, Chomsky, perfino Hume!!!-, sed magis amica veritas").

Condivido la sostanza delle tue considerazioni.
Preciserei (scusa la pignoleria) che enti ed eventi in perenne trasformazione (ed eventi) si possono definire (e conoscere scientificamente, se sono pure misurabili e intersoggettivi) se il loro divenire é ordinato sec. leggi universali e costanti (cosa indimostrabile: Hume! ma credibile "per fede"): una sorta di "sintesi dialettica" fra mutamento assoluto, integrale (caotico), "tesi", e fissità assoluta, integrale (parmenidea - severiniana), antitesi: mutamento di particolari concreti nel quale si possono astrarre modalità generali fisse e costanti.


#3291
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 21:09:08 PM
Il discorso di Maturana e Varela parte dal tentativo di individuare il vivente a prescindere dalla descrizione che ne dà l'osservatore con la sua concettualità astratta che stabilisce astrattamente un mondo esterno che fornisce degli input e un mondo interno che li riceve e risponde con degli output. L'unità vivente funziona come una macchina autopoietica che varia di struttura conservando la propria organizzazione che la mantiene unitaria per cui non conosce nulla di ciò che sta fuori di essa (questo non significa che non vi è nulla fuori di essa, solo che non si può conoscere se non nelle sue rappresentazioni interne), ma continuamente funziona in situazioni individuali e cooperative, ossia interagendo. L'osservatore è solo una macchina autopoietica in grado di sviluppare un dominio linguistico che aumenta le sue possibilità di autopoiesi. In altre parole il processo cognitivo non conosce alcun "oggetto reale fuori di noi", ma è solo un continuo modo di relazionarsi per mantenersi.
Ovviamente, come osservi, anche questo è detto da un osservatore che sceglie un contesto pragmatico (fondato sulle relazioni anziché sulle cose) in cui quello che dice risulta valido nel momento in cui riesce a superare le contraddizioni e i problemi di una metafisica tradizionale (compreso anche quello tra significato della cosa e cosa) che presuppone un mondo oggettuale esterno e uno interno, senza avvedersi che tutti gli enti che considera nella loro realtà oggettiva appartengono solo al discorso astratto dell'osservatore.  
Anche che tre mele o sette colle esitevano prima che qualcuno ne avesse esperienza rientra nel discorso astratto dell'osservatore: come può dirlo? E' solo la sua esperienza attuale che glielo rivela (e , sia ben chiaro, non è che rivelandoglielo glielo fa inventare, come se fosse lui con il suo pensiero a creare i sette colli dal nulla), è solo in virtù della relazione attuale che ha con il mondo per come si riflette a lui come significato che può dire che "i sette colli su cui è sorta Roma esistevano anche quando nessun uomo li aveva visti e men che meno contati", ma nemmeno questo significato dei colli è sorto per progressive trasformazioni dentro la testa di qualcuno da un suo originario essere nulla, nemmeno esso si è creato.

CitazioneTrovo assai realistico e concreto il fatto che alcune sensazioni (immaginazioni, pensieri, ragionamenti, desideri, sentimenti, ecc. -"res cogitans"- sono solitamemnte discretamente (anche se non assolutamente) dominabili volontariamente (ho generalmente buone possibilità di concentrare la mia attenzione su certe determinate piuttosto che su certe determinate altre di esse; anche se vi sono casi di pensieri "assillanti" e di ricordi "non evocabili" malgrado sforzi "eroici"); mentre altre (di oggetti materiali -res extensa- come pietre, alberi, case, montagne, ecc.) invece non sono dominabili ad libitum dalla mia volontà (se non, molto limitatamente, agendo su di essi o allontanandomi da essi nel rispetto di inderogabili leggi del divenire naturale onde praticare mezzi atti a conseguire i miei scopi purché realistici).


Ritengo inoltre che eventuali conoscenze non possano essere conseguite dalla macchina umana omeostatica e sociale (corpo, cervello) ma casomai nell' ambito della coscienza che la "accompagna".


Ritengo che tutti gli enti ed eventi conoscibili sono fenomenici, facenti parte dell' esperienza cosciente; ma non che ci sia contraddizione fra significato della cosa e cosa (sono diverse "cose" o eventi, ma non concetti o predicati reciprocamente contraddittori).


La conoscenza circa la preesistenza dei sette colli alla conoscenza di essi si fonda su assunzioni indimostrabili, su questo concordo.
Ma (se la conoscenza scientifica é vera, come credo senza poterlo dimostrare) il colle é sorto, fuori da qualsiasi testa (ma nell' ambito di esperienze fenomeniche coscienti intersoggettive), per mutamenti geologici ove prima non c' era.


CitazioneSo bene che Chomsky sostiene essere il linguaggio innato, ma amicus Chomsky, sed magis amica veritas (detto meno pomposamente: la sua autorità non basta a convincermi)
Ni stupisce questa tua affermazione, dato che Chomsky basa la sua asserzione sullo studio della costanza delle strutture sintattiche nelle diverse lingue, è un innatismo, il suo, fondato su una verifica oggettuale, nella quale mi pareva che anche tu credessi. Ma forse, come poi è un po' di tutti, lo accetti solo nella misura in cui non contrasta con i tuoi presupposti metafisici oggettuali a cui quella "veritas" pare alludere  ;)

Citazione
Confesso di conoscere Chomsky (come linguista; ho invece letto tutti o quasi i suoi scritti politici tradotti in italiano) solo "per sentito dire".
Ma ho sempre dissentito da ogni innatismo gnoseologico (che non sia di mere attitudini potenziali, attuate di fatto in seguito all' esperienza, a posteriori).
Inoltre sono convinto che il liguaggio (le lingue) sia (-no) una delle prime e fondamentali invenzioni "culturali" umane e non un comportamento istintivo innato biologicamente determinato, "naturale").


P.S.: Avendo già lungamente (e vanamente) discusso con Maral in altre occasioni nel vecchio forum le tesi "fissiste" parmenidee o piuttosto severiniane da lui sostenute (per me il divenire non é affatto contraddittorio, come sarebbe invece l' essere e non essere degli stessi enti nei medesimi lassi di tempo e intervalli di spazio), mi astengo dal ripetere vecchie argomentazioni in riposta alla sua replica a Phil.
#3292
Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AM
Citazione di: sgiombo il 25 Settembre 2016, 10:10:21 AM
Sgiombo:
Ma se usiamo quelli a me comprensibili di "cosa reale" (indipendentemente dall' eventuale essere anche pensato, dall' essere inoltre oggetto di pensiero, eventualmente di conoscenza vera) e "concetto pensato" (reale unicamente in quanto pensato; anche se può esistere -o meno- pure una "cosa reale" da esso denotata), allora non mi sembra che non abbia obiettato efficacemente a Phil: gli enti reali esistono anche indipendentemente dall' esistenza degli eventuali concetti che li denotassero, come dimostra l' esempio di "inflazione" intesa come concetto economico (che sul vocabolario ha una definizione diversa, pur sotto lo stesso lemma, di "inflazione" in senso fisico: per lo meno il primo concetto (l' aumento del denaro in circolazione e dei prezzi) con tutta evidenza non è innato, sempre esistito "inconsciamente" nella mente degli uomini in attesa che qualcuno lo conoscesse a priori: è stato "confezionato" dopo che qualcuno ha studiato l' economia capitalistica, e la parola che lo simboleggia é stata adottata da tutti i parlanti convenzionalmente. Se l' umanità si fosse estinta all' età della pietra nessuno avrebbe mai saputo a priori che cosa significa "inflazione" in senso economico.

MARAL:
Sgiombo se parliamo di "cose reali" filosoficamente complichiamo enormemente la faccenda rispetto al termine elementare di essente. Perché la realtà non è semplicemente data, ma si dà a ciascuno nelle sue rappresentazioni e stabilire un senso universalmente valido di questo darsi è impossibile. Richiamo ancora un passo da "Autopoiesi e cognizione" che, lo si condivida o meno, trovo interessante da proporre alla riflessione:
"Dato che la logica della descrizione è la stessa logica del sistema descrivente, possiamo asserire il bisogno epistemologico di un substrato perché avvengano le interazioni,ma non possiamo caratterizzare questo substrato in termini di proprietà indipendenti dall'osservatoreNe segue che la realtà come un universo di entità indipendenti delle quali possiamo parlare è necessariamente una finzione del dominio puramente descrittivo, e che noi dovremmo infatti applicare la nozione di realtà proprio a questo dominio di descrizioni col quale noi, il sistema descrivente, interagiamo con le nostre descrizioni come se fossero entità indipendenti, dunque la domanda su cosa sia l'oggetto della conoscenza" perde di ogni significato: non vi è alcun oggetto di conoscenza, fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa (p.104). 


CitazioneSgiombo:
Maturana e Varela dovrebbero però, prima di affermare che la conoscenza è indipendente dall' osservatore, dimostrare che oltre alla realtà di quanto percepito fenomenicamente esiste anche un' osservatore (evidentemente dai fenomeni percepiti diverso, trattandosi di un' ulteriore ente reale oltre ad essi).

Ma poiché sostengono che non vi è alcun oggetto di conoscenza, non vedo come possano poi (immediatamente di seguito, a mo di conseguenza!) affermare che fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa: di quale "situazione individuale o cooperativa" e di quale "capacità di operare adeguatamente" parlano, se non vi è alcun oggetto di conoscenza (dunque nemmeno è conoscibile –oggetto di conoscenza- alcuna "situazione individuale o cooperativa" né alcun "operatore più o meno adeguato ad essa")?
Se invece intendessero dire (non li ho letti, e trovo oscura la tua citazione, che forse potrebbe essere intesa in questo senso) che ciò che può essere conosciuto è unicamente costituito da sensazioni o insiemi di sensazioni, fenomeni e non "realtà in sé o noumeno sarei perfettamente d' accordo.
 
Ma ciò non toglie che gli enti reali conoscibili e conosciuti (fenomenici, certo!) esistono anche indipendentemente dall' esistenza degli eventuali concetti che li denotassero (percepiti mentalmente come ulteriori fenomeni "cogitans"), e dall' eventuale accadere della loro conoscenza, che avviene a posteriori (se e quando pure avviene), dopo che gli enti reali fenomenici (costituiti da sensazioni: "esse est percipi"!) sono appunto percepiti o sentiti -ovvero appaiono, accadono come fenomeni- e non apriori; in particolare la conoscenza di concetti astratti come "inflazione" (in senso fisico; e in senso economico a maggior ragione), che vengono ricavati dall' astrazione di caratteristiche comuni a più enti o eventi (ovviamente fenomenici) particolari e concreti (nel caso di "inflazione da più processi concreti di rigonfiamento come il lievitare del pane, il gonfiarsi di un palloncino in cui si soffia, il dilatarsi di una bolla di sapone con cui gioca un bambino, il riempirsi di un sacco di farina, il crescere della pancia di una donna incinta, ecc.).

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MARAL:
A proposito del concetto di inflazione, che mi assicuri si riferisca originariamente al denaro (anche se io ne dubito), faccio notare che anche "denaro" è un concetto ed esiste solo come tale, dunque inflazione sarebbe un concetto applicato a un altro concetto, lo stesso vale per "tanto" e per "poco", anche loro concetti, come lo sono i numeri. "Tanto" e "poco" sono termini che risuonano più imprecisi rispetto ad esempio a "125307" o "2", ma non per questo meno astratti. Tanto e poco, come i numeri, si riferiscono a insiemi di oggetti distinguibili considerati astrattamente insieme, ma pure "insieme" e "distinguibile" sono concetti. Quindi è sempre tra concetti che ci si muove e non trovo che ci siano ragioni per fissarne una tipologia più "realistica" rispetto a un'altra, o, se ci fosse, bisognerebbe spiegare perché... ma per  spiegarlo bisognerebbe ancora ricorrere a concetti, quindi la faccenda non si risolverebbe mai. 


CitazioneSgiombo:
Veramente non ti ho assicurato che sia primitivo il concetto di "inflazione" in senso economico e derivato quello in senso fisico, dato che mi pare evidentissimo il contrario!

 
Che "tanto" e "poco", "insieme" e "distinzione" siano concetti astratti mi pare ovvio.
Così come che linguisticamente si ragiona "per concetti", mettendo in determinate relazioni concetti (più meno astratti).
Ma non vedo come queste ovvie considerazioni possano servire come argomenti a sostegno del preteso carattere innato a priori e non acquisito a posteriori, per esperienza (e ragionamenti sull' esperienza) delle conoscenze (in generale e dei concetti astratti in particolare).
 

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Citazione da: sgiombo - 25 Settembre 2016, 10:10:21 am
CitazioneMa i gruppi di cose simili diversamente numerosi  (tre mele o tre pere, sette colli o sette laghi, dieci dita delle mani o dieci dita dei piedi, ecc.), esistevano prima dell' invenzione per astrazione da essi dei numeri naturali e della matematica.
E i rispettivi concetti astratti (i numeri naturali) esistono a posteriori, previa astrazione e non priori, nelle menti di chi li pensa.

MARAL:
Ma il problema è esattamente il medesimo: per dire che tre mele o sette colli esistevano prima di 3 e 7, occorre che 3 e 7 esistano; per contare fino a 3 e fino a 7 occorre che quei concetti esistano prima di contare e quindi non è che contando si arriva a definire il numero, ma contando facciamo esperienza del numero e quindi esso si mostra, ha luogo e ha luogo nel nostro contare. 

Esattamente come per convenire sul significato delle parole è necessario che le parole ci siano, ossia è necessario che ci sia già un linguaggio comunicativo che abbia dei segni fonetici o gestuali che di fatto sono già parole.
Mi fermo qui per evitare di estendere troppo il discorso o dargli una vena eccessivamente polemica che nuocerebbe alla comprensione effettiva della questione.
CitazioneSgiombo:
Per dire che tre mele o sette colli esistevano ovviamente (si tratta di una tautologia!) occorre che esistano, nel bagaglio delle conoscenze di chi lo dice, i concetti di "3" e "7"; così come per contare occorre conoscere i numeri naturali.

Ma le cose reali, per esempio quelle costituite dalle tre mele o dai sette colli, esistono prima dei concetti astratti dei numeri "3" e "7" che eventualmente le denotassero: i sette colli su cui è sorta Roma esistevano anche quando nessun uomo li aveva visti e men che meno contati, anche prima che chiunque pensasse il concetto astratto del numero 7; e sarebbero esistiti anche se nessuno avesse mai saputo (men che meno a priori) della loro esistenza.

Pure un' ovvia tautologia mi pare l' affermazione che contando abbiamo sensazione dei numeri che pronunciamo, scriviamo, oppure pensiamo mentalmente contando.
Che oggi per convenire sul significato delle parole sia necessario che le parole ci siano (altrimenti del significato di che si converrebbe?), e che di fatto oggi ci sia già un linguaggio comunicativo non dimostra che il linguaggio, se non come mera potenzialità, sia sempre esistito.

So bene che Chomsky sostiene essere il linguaggio innato, ma amicus Chomsky, sed magis amica veritas (detto meno pomposamente: la sua autorità non basta a convincermi)
#3293
Citazione di: davintro il 26 Settembre 2016, 01:32:29 AM
restando alla metafora del foglio bianco che seppur tabula rasa è predisposto a lasciarsi scrivere, occorrerebbe rendere ragione ciò che ha prodotto la "predisposizione" del foglio a permettere di essere usato per scrivere, la sua potenzialità di porsi come materia per un certo tipo di segnatura. A questo punto la domanda è "cosa ha fatto sì che il foglio sia predisposto a poterci scrivere sopra?" fuor di metafora "cosa rende la mente umana, a differenza della mente di un altro animale a poter essere sviluppata in vista di certe funzionalità?". Il foglio è statto progettato, immagino, per il fine di essere usato come carta per scrivere, quindi potremmo dire che il foglio possiede una sua"innatezza", una sua "originarietà"che corrisponde al progetto ideale con cui è stato fabbricato nella mente dell'artigiano o del progettatore industriale, e nel caso della mente umana occorre chiederci quale sia la causa ragion d'essere del suo essere predisposta così come è, con tutte le sue funzionalità.  Nel momento in cui tale ragion d'essere viene ricondotta a  qualunque processo mentale (compresa l'astrazione, o la didattica) che a sua volta è resa possibile dalla predisposizione stessa, si cade, come avevo già fatto notare, in una sorta di circolo vizioso per cui ciò che devo spiegare (la predisposizione) è tra le ragioni d'essere di ciò che dovrebbe spiegare (tutti i processi mentali che presuppongono tale predisposizione). Se è vero che la potenzialità non è un mero non-essere, ma una condizione necessaria per giustificare qualunque darsi di un evento (il mio camminare sarebbe inspiegabile senza la mia potenzialità di camminare), è anche vero che un essere che ha la potenzialità di svolgere una funzione o contribuire al realizzarsi di un fenomeno, questa potenzialità ce l'ha come conseguenza di qualcosa che potenziale non è, ma attuale e reale, una causalità concretamente agente che interviene sull'essere in questione dandogli una serie limitata di potenzialità. La fragilità del vetro dà al vetro la potenzialità di essere infranto, ma questa potenzialità è la conseguenza della attuale, non potenziale, struttura del vetro, i suoi legami fisici, chimici concretamente reali, così come la predisposizione innata della mente è la conseguenza di una causalità agente che fà sì che la mente sia predisposta a delle funzioni e non ad altre

Rilevato che la questione qui posta é diversa da quella filosofica (gnoseologica o epistemologica) della natura a priori o a posteriori, innata o acquisita della conoscenza), trovo ad essa una risposta scientifica: la selezione naturale per mutazioni genetiche causali e selezione naturale.

Le predisposizioni innate della mente sono conseguenza del divenire della mente correlato al divenire del cevello, il quale è la conseguenza di una causalità agente costituita dall' evoluzione biologica (nessun processo mentale reso possibile dalla predisposizione stessa, dunque nessun circolo vizioso!); questa causalità agente ha fatto sì che il cervello umano funzioni in un certo modo; e non conseguentemente al suo funzionamento ma comunque "correlatamente" ad esso funziona la mente umana, esplicando in seguito all' esperienza (che ne determina l' attuazione) le sue potenzialità conoscitive.
#3294
Citazione di: anthonyi il 25 Settembre 2016, 13:46:16 PMSulla questione dell'innatismo dei numeri riflettevo su una situazione per me tipica, cioè la sensazione di avere ancora una cosa da fare, tra quelle programmate, come se il cervello le contasse e, pur non ricordando cosa bisogna fare, sa che rimane una cosa da fare. Il discorso per me si associa a quella ricerca per la quale sembra che i pulcini abbiano una percezione istintiva del numero dei chicchi di mangime a terra, cioè in qualche modo li contano e organizzano i loro movimenti di conseguenza, o alle ricerche antropologiche su non ricordo quale tribù i cui componenti, pur non avendo concetti di numeri, si accorgevano perfettamente della mancanza di qualche capo di bestiame.


CitazioneNon vedo che cosa ci sia di problematico nel notare la differenza fra un gruppo di tre vacche e uno di quattro vacche (e con un po' di pratica, di "allenamento" fra un gruppo di 47 e un gruppo di 48) senza avere nozione dei numeri, e dunque come la cosa possa puntellare la pretesa conoscenza innata dei numeri (e la conoscenza innata in generale).

Anche qualsiasi animale che sicuramente non possiede linguaggio e dunque non ha nozione (nè innata, né acquisita a posteriori) dei significati dei vocaboli "largo" e "stretto" sa distinguere benissimo un pertugio stretto in cui non può passare per ripararsi da un predatore da un pertugio largo che può offrirgli l' occasione di scappare al pericolo di essere divorato.
Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PM
io credo che in linea generale sia un errore far coincidere la concreta applicazione di un processo mentale con l'apprensione dei contenuti di tale processo. Le pratiche di apprendimento di una funzione sviluppano la funzionalità di un processo mentale, ma senza creare il processo "ex nihilo". Se così non fosse allora si potrebbe, utilizzando tecniche didattiche standard, insegnere a contare, leggere, scrivere, a qualunque essere vivente, indipendentemente dalla struttura interiore mentale del soggetto che si ha di fronte. In realtà nell'uomo (ma non con altri mammiferi, ora non sono uno zoologo e non so se con altri animali come le scimmie si sia arrivati a risultati soddisfcenti da far pensare ad analogie con l'uomo) le tecniche didattiche possono aver successo perchè non autosufficienti, ma perchè nella loro opera si armonizzano non con una tabula rasa, ma una mente predisposta ad accoglierla. Questa ovvietà  potrebbe far pensare ad una mera dinamica potenzialità innata-attualità concreta esterna che fà passare dalla potenza all'atto il processo mentale. Invece, come già provato a dire all'inizio della discussione, limitarsi ad ammettere una potenzialità equivale a non spiegare nulla. La potenzialità fintanto che resta tale è un mero non-essere, dunque impossibilitata ad intervenire concretamente, completando l'azione proveniente dall'esterno. Tutto ciò che è reale è attuale, dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'attualità originaria e interiore che converge con la causalità esteriore per produrre l'applicabilità dei processi. Una mera potenzialità astratta non potrebbe mai porsi come fattore concreto nella costituzione di alcunche, resterebbe una pura idea, e l'idea senza attualità reale, è solo una staticità che non può partecipare ad alcuna dinamica

Nel caso dei numeri, ipotizzo che la predisposizione umana alla quantificazione preuspponga un innata, o meglio originaria, apprensione intuitiva del significato intelligibile dei numeri, che però resta impossibilitata ad essere espressa linguisticamente fintanto che non trova dei segni sensibili per comunicarla, e in assenza di un linguaggio adeguato il bambino ripiegherebbe su concetti qualitativi, come giustamente osservato da Phil, "tanto", "poco". L'apprendimento dei numeri implica l'associazione tra il segno sensibile e il significato intelligibile, ma questa associzione non potrebbe aver luogo se uno dei due termini, il significato intelligibile, non fosse già presente nel bambino a prescindere dall'apprensione di contenuti sensibili esteriori (a meno di non ipotizzare una sorta di telepatia, di comunicazione mentale intersoggettiva senza mediazioni sensibili!)

Per quanto riguarda il nesso che Phil rilevava tra affermazione dell'innatismo e esigenza sociale e politica di identificare il modello intepretativo dell'uomo proveniente da una certa tradizione culturale, con una naturalità originaria ed unica possibile, direi, sempre che abbia compreso il senso dell'osservazione, che è una tesi valida e condivisibile. Al tempo stesso credo però si possa anche dire che le posizioni antiinnatistiche siano in un altro senso funzionali a livello ideologico. Penso a tutte le dottrine politiche totalitarie e rivoluzionarie intenzionate ad edificare modelli di società totalmente nuovi e rivoluzionari, la cui edificazione presupporebbe una netta trasformazione dell'uomo, che per essere adeguato alla nuova società, deve il più possibile essere descritto come realtà fluida e plasmabile da interventi esterni. Quanto più invece l'uomo viene visto come realtà avente in sè dei caratteri stabili e presenti indipendetemente dagli influssi dell'ambiente circostante, tanto più si pone un limite alla possibilità di maniplazione con cui un qualsivoglia potere intenda intervenire per modificare la natura umana in relazione ai suoi fini ideologici. Quindi entrambe le posizioni in campo posso essere viste come convenienti o sconvenienti in relazione alla natura ideologica di un approccio politico, senza che si debba vedere una delle due come un'illusione costruita ad hoc per certe istanze sociali

Io ho l'impressione che questa visione del rapporto tra innatismo e socialità, dipendente da una visione ideologica, sfugga a una domanda di verità di fondo. L'individuo sociale prende le idee da altri individui, tali idee o sono innate negli altri o sono socialmente determinate. Nel secondo caso il discorso diventa ciclico, solo nel primo abbiamo fatto un passo avanti e dobbiamo solo spiegare da dove vengono le idee che sono sempre in origine innate.

CitazioneChe l' uomo sia un animale sociale (e politico) e dunque di fatto l' apprendimento per lo meno della stragrande maggioranza dei concetti avviene "per insegnamento ricevuto" o "trasmissione culturale" (e non per "scoperta diretta") non mi sembra comporti alcun circolo vizioso (nè regressione all' infinito);  né tantomeno mi sembra che ciò imponga di credere all' innatismo dei concetti in coloro che per primi li hanno pensati e insegnati ad altri.

A Davintro:

Le pratiche di apprendimento di una funzione sviluppano la funzionalità di un processo mentale, ma senza creare il processo assolutamente "ex nihilo" (a mo di creazione divina) bensì dalle mere potenzialità comportamentali innate, attuate ("rese reali", da mere potenzialità che erano. nulla di attualmente reale) dall' occasione dell' esperienza.

Le tecniche didattiche possono aver successo perchè non autosufficienti, ma perchè nella loro opera si armonizzano, ma una mente predisposta ad accoglierla, molto ben illustrata dalla metafora della tabula rasa; la quale per essere "rasa", cioé non avere scritto nulla a priori, non é "il nulla": é fatta di un certo o di un cero altro materiale (lavagna, carta, vetro, metallo, marmo, ecc.) e ha determinate caratteristiche fisiche o determinate altre (é liscia, ruvida, grande, piccola, ecc.), dipendentemente dalle quali caratteriostiche può ricevere, comunque sempre necessariamente a posteriori un tipo di scrittura piuttosto che un altro tipo (vernice apposta da un pennello, segni realizzati con gesso, incisi con uno scalpello, vergati con inchiostro; anche molto estesi se sufficientemente grande oppure solo minuscoli se insufficientemente grande, ecc.; fuor di metafora: può imparare meglio grazie a questo o quel metodo didattico, preferibilmente questo genere di nozioni o quest' altro).

La potenzialità fintanto che resta tale non è un mero (assoluto) non-essere, bensì una "predisposizione" reale, che esercita determinati effetti (=attualizza determinate potenzialità) in seguito ad azioni provenienti dall'esterno (esperienza a posteriori); ovviamente qualora -se e quando- queste accadano realmente.
Non solo tutto ciò che è reale è attuale, lo sono anche "potenzialità" (per esempio la fragilità reale del vetro e non reale dell' acciaio): dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'a realtà originaria e interiore, la quale é limitata a mera "predisposizione", come quella ad essere scritta con inchiostro e non con uno scalpello che é propria di una tabula rasa di carta e non di marmo, che converge a posteriori con la causalità esteriore (l' esperienza sensibile) per produrre l' applicazione (non l' applicabilità, che c' è già prima) dei processi (di astrazione).
Una mera potenzialità reale può dunque ben porsi come fattore concreto
nella costituzione (attuazione) delle conseguenze della sua interazione causale (a posteriori) con un "opportuno" fattore ' esterno (nella fattispecie l' esperienza sensibile).
Ecco come
limitarsi ad ammettere una potenzialità (e nulla di attuale)innata equivale a spiegare tutto della conoscenza umana.

#3295
Citazione di: maral il 25 Settembre 2016, 00:20:29 AM
CitazioneChiedo scusa a Phil (che ovviamente risponderà da par suo) per l' "entrata a gamba tesa".

Citazione di: Phil il 24 Settembre 2016, 17:12:43 PM
Cercando di restare sul piano ontologico (anche se il mio era perlopiù linguistico), non confonderei gli enti con i concetti: gli enti non si inventano, i concetti direi di si (non ex nihilo, ovviamente...), altrimenti il concetto di "inflazione" sarebbe dovuto esistere prima dell'invenzione del denaro... e ciò è ammissibile solo con una fantasiosa teoria neo-platonica, o mistica, in cui tutto il pensabile c'è già, da qualche parte (metaforicamente parlando, ma non troppo...) e noi ci limitiamo, epoca dopo epoca, ad attingere da questo "serbatoio concettuale eterno e completo" (è questa per me la congettura ardua da sostenere, se non per "fede"... ma non voglio impantanare il discorso con speculazioni ontologiche).
In termini ontologici è ente tutto ciò che è essente come unità, non alcuni elementi degli essenti, dunque anche i concetti sono essenti solo in virtù del loro esserci. E, dal punto di vista della sola essenza tutti gli enti sono perfettamente equivalenti, non ve ne sono alcuni che precedono altri in essenza.
Il concetto di inflazione peraltro non necessariamente è riferibile al denaro: si accompagna anche al concetto di denaro per descrivere certe situazioni, ma non solo mi pare.
CitazioneNon ti seguo bene attraverso i concetti (severiniani? Hedeggeriani?) Di ente! Ed "essente".
Ma se usiamo quelli a me comprensibili di "cosa reale" (indipendentemente dall' eventuale essere anche pensato, dall' essere inoltre oggetto di pensiero, eventualmente di conoscenza vera) e "concetto pensato" (reale unicamente in quanto pensato; anche se può esistere -o meno- pure una "cosa reale" da esso denotata), allora non mi sembra che non abbia obiettato efficacemente a Phil: gli enti reali esistono anche indipendentemente dall' esistenza degli eventuali concetti che li denotassero, come dimostra l' esempio di "inflazione" intesa come concetto economico (che sul vocabolario ha una definizione diversa, pur sotto lo stesso lemma, di "inflazione" in senso fisico: per lo meno il primo concetto (l' aumento del denaro in circolazione e dei prezzi) con tutta evidenza non è innato, sempre esistito "inconsciamente" nella mente degli uomini in attesa che qualcuno lo conoscesse a priori: è stato "confezionato" dopo che qualcuno ha studiato l' economia capitalistica, e la parola che lo simboleggia é stata adottata da tutti i parlanti convenzionalmente.
Se l' umanità si fosse estinta all' età della pietra nessuno avrebbe mai saputo a priori che cosa significa "inflazione" in senso economico.

Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMdove stanno allora i numeri e i colori prima del loro apparire alla nostra coscienza?
CitazioneIn questa domanda affiora il preconcetto che la (pre)orienta, ovvero che i numeri debbano essere sempre stati da qualche parte, per cui non resta che chiederci "dove?"; e se invece, fossero uno dei tanti concetti inventati?
Scusa, ma la mia domanda introduceva un dubbio a quello che venivo dicendo io stesso, non tu, e, per risolvere il dubbio concludevo che la domanda non ha senso: non può apparire un luogo dove stanno gli essenti prima di apparire, se questo luogo apparisse sarebbero già apparsi.
CitazioneMa i gruppi di cose simili diversamente numerosi  (tre mele o tre pere, sette colli o sette laghi, dieci dita delle mani o dieci dita dei piedi, ecc.), esistevano prima dell' invenzione per astrazione da essi dei numeri naturali e della matematica.
E i rispettivi concetti astratti (i numeri naturali) esistono a posteriori, previa astrazione e non priori, nelle menti di chi li pensa.

CitazioneProviamo a fare una dimostrazione per assurdo: se credere che i numeri non sono innati, comporta una contraddizione o va contro esperienze attendibili, allora i numeri sono innati...
La contraddizione è che non si può contare senza avere i numeri dunque non è contando che si arriva a inventare il numero, deve già esserci e non in un modo generico e impreciso da raffinare (un "tanti" o "pochi"), ma proprio per quello che è (dal "tanti" o "pochi", proprio come è già stato detto, non si arriva a nessun numero).
CitazioneChe non si possa contare senza avere i numeri non dice nulla circa il problema se la conoscenza dei numeri sia innata o acquisita per astrazione dall' esperienza: vale esattamente allo stesso modo in entrambi i casi.

Citazionela contraddizione in questo caso sarebbe l'ammissione di un'esistenza-non-manifesta (vedi sotto) che quindi va contro ogni esperienza attendibile (e anche se si è d'accordo con questa prospettiva, non sono pochi i punti interrogativi metafisici e epistemologici che ne conseguono...).
Bè mi pare che di esistenze non manifeste ce ne siano sempre state tante nella storia dell'umanità (e sicuramente ce ne sono tuttora che forse si manifesteranno in futuro), senza che questo pregiudichi alcuna esperienza attendibile. Tanto più che i numeri sono esistenze manifeste che ora hanno luogo, dunque esistenze si sono manifestati senza che, mi pare, questo implichi che a un certo punto siano sorti per pura invenzione da altro (da un non numero), ossia siano nati dal loro essere niente come numero.
Non è fede ciò che asserisce che ogni essente è, ma non ogni essente solo a un dato momento appare, lo constatiamo continuamente.
CitazioneEsistenze non manifeste se ne sono sempre credute (non necessariamente sono tutte esistite) ma in quanto pensate attraverso (denotate da) pensieri consapevolmente avvertiti nell' ambito della propria esperienza cosciente (e non: inconsciamente).


E i numeri naturali sono concetti stabiliti a posteriori per astrazione in seguito all' osservazione (e al conseguente ragionamento: attuazione di una mera facoltà o capacità potenziale innata –che in molti casi purtroppo non si attua mai: pargoli morti in tenera età- e non di conoscenze di già belle che confezionate a priori; questo per rispondere anche a Davintro) di gruppi variamente numerosi di oggetti simili.

CitazioneChiaramente le lingue, e le rispettive convenzioni, si sono modificate con i secoli, nessuna lingua è nata dalla sera alla mattina o ad opera di un solo uomo... per "convenzione" va inteso un "inventare artificiale" che diventa poi un "affermarsi socialmente"; se le lingue non fossero convenzioni, a cosa servirebbero i dizionari, le grammatiche, etc.?
I dizionari e le grammatiche fissano le lingue esistenti temporaneamente a mezzo di convenzioni, ma non è certo dai dizionari e dalle grammatiche che nascono le lingue. Ossia le lingue possono portare a convenzioni sull'uso dei termini, ma non viceversa. Non mi pare risulti a nessun antropologo che per cominciare a parlare una lingua si sia iniziato con il convenirne un dizionario, scritto o orale che fosse.

La prospettiva diacronica delle lingue sembra indicare il contrario: non c'è necessita del nominare qualcosa con un determinato segno o suono, semplicemente una comunità ha deciso di usare quella combinazione, altre una combinazione differente, ma non c'è nessuna "intrinseca necessità"(cit.) fra l'oggetto e la parola (salvo per le onomatopeiche), solo arbitrarietà convenzionale... 
CitazionePensa anche ai neologismi, che abbondano con il fiorire di nuove dimensioni (come quella attuale dell'informatica), che necessità c'è di chiamare alcune novità tecnologiche proprio con quel nome? Nessuna, semplicemente qualcuno le battezza così e gli altri "condividono" (in tutti i sensi  ;D ) quella parola...

CitazioneNon si è fatta una riunione ufficiale di un apposito "comitato di definizione dei concetti e assegnazione dei simboli verbali", ma spontaneamente, anche  senza pensarlo (senza pensare che lo si stava facendo, senza esserne autocoscienti), si è cominciato ad assegnare convenzionalmente (artificiosamente e di comune accordo) determinati simboli verbali a determinati concetti.

Citazione
Certo a posteriori posso dire che se chiamo quel colore con la parola rosso o red è sempre lo stesso colore e sicuramente è così, ma nessuna comunità fa questa scelta, cioè nessuna comunità si è mai trovata davanti a qualcosa di rosso e ha cominciato a discutere se chiamare quel colore rosso o red, mettendosi d'accordo magari per alzata di mano a maggioranza come suonava meglio. Anche perché se ci fosse mai stata questa discussione le parole avrebbero ben dovuto già esserci e dunque, di nuovo, come per i numeri, per avere le parole, ci vogliono delle parole!   

CitazioneCredo vada distinta la "scrittura" dal "gesto" (e penso lo faccia anche Derrida quando, vado a memoria, distingue il "segno" dal "fare-segno"...), altrimenti "scrivere" e "gesticolare" diventano sinonimi! Non ricordo bene, ma non scommetterei che il concetto di "archiscrittura" di Derrida, al netto di metafore e giochi linguistici, neghi che ci sia stato, come sottolineavo, un momento in cui l'uomo non scriveva ma comunicava solo oralmente...
Premesso che non conosco direttamente Derrida e quindi mi riferisco solo alla lezione di Sini che, per quanto ne so, potrebbe anche averlo interpretato male. Premesso che mi pare che lo scrivere nasce comunque come un gesto (anche se non direttamente rivolto all'interlocutore, ma rivolto all'interlocutore attraverso un mezzo che rende possibile una dilatazione del tempo tra espressione e ricevimento e forse questo è quello che distingue il gesto dello scrivere dal gesto del gesticolare). Non è di una scrittura umana che qui si parla, ma di una scrittura più originaria che nell'uomo si traduce in una ricerca di significati e quindi in suoni vocali, poi questa parola si può tradurre per l'uomo in una scrittura fonetica, come è accaduto in Occidente, ma non necessariamente in Oriente, ove la scrittura intende ancora richiamare direttamente proprio quella scrittura- segno originario e silente. Per questo, in Oriente, la scrittura viene prima della oralità e non è la semplice traduzione grafica di un suono. Questo mi pare si dica nella lezione di Sini.

CitazioneP:s. La convenzione, non la intenderei solo in modo accademico: ad esempio, come accennavo prima, molti neologismi nascono ed entrano nel vocabolario senza che ci sia un convegno di esperti, ma soltanto perché si innesca un "passaparola" fortuito e molto esteso: l'espressione "figlio dei fiori" (con tutti i riferimenti concettuali annessi) è ormai comprensibile a tutti, eppure non è sempre esistita, ma il suo successo sociale ne ha decretato la legittima appartenenza alla comunicazione (pur non sapendo, almeno io, chi sia stato il primo a coniare questa espressione).
Magari mi dirai che anche questa espressione esisteva da sempre, ma attendeva solo di manifestarsi, che "era ma non appariva", ma mi concederai che con questo presupposto di innatismo radicale, perdiamo ogni presa epistemologica sull'argomento, abbandoniamo la ricerca per "accomodarci" in una "fede metafisica" di cui tutto il '900 (con buona pace di Severino?) ci ha insegnato a dubitare...
Figurati, Severino è colui che vuole proprio mettere in dubbio le radici stesse della metafisica dell'Occidente che ritiene basata sulla pretesa assurda di un'assoluta e incontestabile evidenza del divenire. Ma tornando al tema, l'espressione "figlio dei fiori", certamente è apparsa a un certo punto come un composito fatto da espressioni che avevano già significato, è una combinazione di termini che si rivela nell'apparire di una certa figura umana che la richiama, per via metaforica. Tutti i linguaggi non sono altro fondamentalmente che metafore, ossia accoppiamenti tra enti diversi che si richiamano (si fanno segno) l'un l'altro, indipendentemente da qualsiasi scelta. I linguaggi sono sistemi di metafore non scelte, non eterne e tanto meno convenzionate.  
Citazione
 
A parte il mio radicale dissenso da Severino circa la realtà del divenire (che é altra questione), a me pare invece evidente che le lingue siano insiemi di simboli attribuiti a concetti, che accoppino enti (mentali) diversi (simboli e e significati, vocaboli e concetti) che si richiamano (si fanno segno) l'un l'altro (e non viceversa), per scelta arbitraria convenzionalmente condivisa.
#3296
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 10:34:23 AM
Citazione di: sgiombo il 19 Settembre 2016, 08:19:09 AM
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 00:13:39 AMQuello che emerge è che noi filosoficamente, scientificamente comunichiamo convenzionalmente, ovvero cerchiamo di comunicare solo la parte della conoscenza che "emerge" come oggettività, o che pensiamo sia solo oggettiva. Poi prendiamo un libro d'arte o di poesia, ed entriamo in un linguaggio che non è per niente convenzionale, perchè il rapporto è fra soggetti non gli importa dell'oggetto, lo strumento linguistico ,il colore, la parola, il disegno diventano "evocativi".Adatto che anche questa è una forma, che cosa significa quell'evocare se non andare oltre quella pretesa di dividere il soggetto e l'oggetto nella conoscenza? Sò già la risposta: ma quella non è la stessa conoscenza scientifica, ma daccapo se è la stessa mente che linguisticamente pensa di oggettivare la conoscenza e dall'altra invece conosce l'arte o c'è un cortocircuito logico e siamo schizofrenici oppure c'è un unica forma di conoscenza Andare oltre la convenzione ,perchè nella convenzione è vincente lo scettico o l'empirista affidabilista . Cosa ne pensate?
CitazioneMa perché mai? Conoscenza razionale (che cerca di essere quanto più oggettiva e realistica possibile) e fruizione artistica sono due diverse attitudini umane che si pongono per così dire su piani diversi: non sono né integrabili in un unico atteggiamento (se non compiendo un' astrazione alquanto "spericolata"), né reciprocamente escludentisi o contraddittori bensì complementari. Non trovo acuna problematticità nel loro coesistere come distinte e reciprocamente non contrarie.

Sgiombo,
... e come no?
Prima di tutto è un'unica mente che fa scienza e arte   e non lavora per compartimenti stagni.
Chi ti dice che ad esempio ad Einstein l'intuizione non gli sia scaturita mentre suonava il violino di alcuni passi della teoria della relatività. Siamo sicuri che l'intuizione sia a sè, che induzione e deduzione ognuna sia a sè,  che fare scienza escluda l'arte e fare arte escluda scienza? E'vero che noi utilizziamo forme diverse, nella scienza utilizziamo  di più la logica ma non esclude l'intuizione

CitazioneNon capisco in che senso queste affermazioni obietterebbero a quanto da me affermato.

 Ecco perchè i significati e i sensi sono essenze, che per la logica e matematica sono formule, equazioni rappresentative di un fenomeno, son la legge di gravità, la rappresentazione attuale standard dell'atomo, ma vuoi che anche culturalmente noi come mente come coscienza non compiamo la stessa funzione nella filosofia, nelle arti ,nelle scienze umane?

CitazioneLe leggi fisiche e le formule matematiche mi é chiaro che cosa siano.
Le "essenza" no.

Pensare é sempre pensare.
Pensare di filosofia é pensare diverso da pensare di scienza e ancor più di arte.
#3297
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 00:13:39 AM

Quello che emerge è che noi filosoficamente, scientificamente comunichiamo convenzionalmente, ovvero cerchiamo di comunicare  solo la parte della conoscenza che "emerge" come oggettività, o che pensiamo sia solo oggettiva. Poi prendiamo un libro d'arte o di poesia, ed entriamo in un linguaggio che non è per niente convenzionale, perchè  il rapporto è fra soggetti non gli importa dell'oggetto, lo strumento linguistico ,il colore, la parola, il disegno diventano "evocativi".Adatto che anche questa è una forma, che cosa significa quell'evocare se non andare oltre quella pretesa di dividere il soggetto e l'oggetto nella conoscenza?
Sò già la risposta: ma quella non è la stessa conoscenza scientifica, ma daccapo se è la stessa mente che linguisticamente pensa di oggettivare la conoscenza e dall'altra invece conosce l'arte  o c'è un cortocircuito logico e siamo schizofrenici oppure c'è un unica forma di conoscenza
Andare oltre la convenzione ,perchè nella convenzione è vincente lo scettico o l'empirista affidabilista .
Cosa ne pensate?
CitazioneMa perché mai?
Conoscenza razionale (che cerca di essere quanto più oggettiva e realistica possibile) e fruizione artistica sono due diverse attitudini umane che si pongono per così dire su piani diversi: non sono né integrabili in un unico atteggiamento (se non compiendo un' astrazione alquanto "spericolata"), né reciprocamente escludentisi o contraddittori bensì complementari.
Non trovo acuna problematticità nel loro coesistere come distinte e reciprocamente non contrarie.
#3298
Citazione di: and1972rea il 18 Settembre 2016, 16:58:58 PM

Quando affermo che la mia immagine riflessa nello specchio smette di essere pura apparenza e alterità per diventare emanazione dell"io sono" , intendo che quel fenomeno dismette i panni formali del fenomeno conoscibile razionalmente( ma più  avanti dirò che nemmeno l'alterita' può considerarsi fuori DALL' "IO SONO") per diventare ente ,per così dire ,"sapibile" in un tutt'uno con la nostra consapevole coscienza di essere. Ammetto che è facile scorgere delle ambiguità nel mio intervento senza aver prima capito il mio modo di intendere il "soggettivo"; l'opinione che mi sono formato , per certi versi influenzata da parecchie suggestioni hegeliane, è che non si può logicamente considerare nulla di soggettivo se non in maniera e da un punto di vista oggettivo;nello stesso momento in cui noi distinguiamo il soggetto dall' oggetto, infatti, noi poniamo il soggetto sullo stesso piano dell'oggetto, e facciamo sussistere l'idea di soggetto solo in funzione di un piano oggettivo, parliamo di soggetto e di oggetto,dunque, ma finiamo inevitabilmente per discutere soltanto di due oggetti. In questo senso, quando considero ció che appare , considero la sensazione pura soltanto come una diversa declinazione dell "IO SONO", e tutto ciò che posso logicamente considerare oggettivo non può andare oltre , non può astrarsi,  non può razionalmente considerarsi altro da ciò che " IO SONO". l'immagine che mi rimanda lo specchio è,  dunque, parte di me, perchè nell'istante in cui cambia la più piccola proprietà di quell'immagine,  e , ancor più,  di quel fenomeno, io cambio insieme ad essa, ma non per semplice analogia o corrispondenza biunivoca, ma per intima e coesistente sincronicità; l'entità che appare , dunque, non puó che consistere "NELL'IO SONO", ma non si può affermare che l'IO SONO consista tutto in quel fenomeno, prova logica ne è il fatto che una ulteriore identica immagine riflessa in quello stesso specchio non consisterebbe nelle stesse sensazioni "sapute", "sentite" ( non , cioé,  semplicemente, "conosciute") nella coscienza del mio essere Io; fenomeni identici, dunque, consistono diversamente fra loro nella autocoscienza del nostro essere, e mentre alcuni fenomeni li sentiamo più intimamente connessi alla nostra autocoscienza(per esempio, se agiamo chirurgicamente o chimicamente in alcune precise zone del nostro cervello FENOMENICO: memoria,funzioni emozionali etc...), altri ci appaiono più distanti (per esempio, se agiamo chirurgicamente o con farmaci in precise zone di un cervello che ci appare non essere il nostro), a tal punto da considerare quelle sensazioni in cui quelle apparenze consistono ,quasi altre da noi , quasi altre dall'"IO SONO". Esistono , dunque, fenomeni di cui evidentemente conosciamo in modo "sapiente", cioè profondo, assoluto, il nocciolo essenziale, perché quei fenomeni sono il Noi, cioè  l'io in sé e per sé,  altri fenomeni , a volte gli stessi identici, sono in apparenza distanti da noi, ma comunque non scindibili dalla coscienza del nostro "IO sono". Per le stesse ragioni è chiaro che non è possibile ridurre L'IO SONO ad un dato fenomenico, poiché sembrano proprio i fenomeni una proprietà dell "io sono" e non viceversa.


CitazioneNon riesco a seguirti.

Mi sembrerebbe che l' "io sono" di cui parli si identifichi con l' esperienza fenomenica cosciente (tutto ciò che si sente).

Ma tutto ciò potrebbe anche accadere senza che esistano realmente (inoltre) un soggetto e un oggetto (cose in sé e non apparenze fenomeniche) delle apparenze fenomeniche stesse.
La realtà in toto, per quel che se ne sa, potrebbe limitarsi alle sensazioni fenomeniche costituenti nel loro accadere l' esperienza cosciente e nient' altro.

Il mio cervello, visto indirettamente nello specchio o con la RM, non é la mia esperienza cosciente (la quale può includere la visione del mio cervello, ma non si limita certamente ad essa).

la mia esperienza cosciente e il mio cervello (nell' ambito della mia o più correntemente di altre esperienze fenomeniche coscienti), se, come credo, é vero quanto ci dicono le neuroscienze, necessariamente si corrispondono biunivocamente.
E questo può spiegarsi ammettendo (indimostrabilmente) che lo stesso ente (o insieme di eventi) in sè o "noumenico" (costituente il soggetto della mia esperienza cosciente, e un oggetto di altre: "io") corrisponde biunivocamente al mio cervello se percepito fenomenicamente da altri -o al limite da se stesso ma "indirettamente" o "esteriormente", e ai miei pensieri, ragionamenti, immaginazioni, ricordi, sentimenti, ecc. (la "mia res cogitans")
se percepito fenomenicamente -e "direttamente" o "interiormente"- da se stesso.
#3299
Citazione di: Socrate78 il 18 Settembre 2016, 13:49:30 PM
Ma c'è dell'altro: il sistema conoscitivo dell'uomo mi sembra molto fallace, poiché tante cose che vengono percepite attraverso i sensi (i colori, i suoni, i sapori) in realtà non esistono concretamente nel mondo esterno, ma sono solo il frutto dell'interpretazione del nostro cervello, ma in definitiva quest'interpretazione è una "menzogna", poiché non corrisponde ad un qualcosa di obiettivo. Ne consegue quindi il carattere relativo e del tutto aleatorio della conoscenza, un cane ad esempio ha una visione del mondo diversa dalla nostra, ma non si può affatto dire che sia sbagliata, semplicemente è differente. Quindi la natura sembra frustrarci anche nel nostro legittimo desiderio di obiettività e verità.
Secondo voi la mia analisi è corretta?

CitazioneSu quanto precede e ho tagliato da questa citazione concordo in sostanza con le considerazioni di Phil (che mi sembrano in gran parte piuttosto precisazioni o puntualizzazioni, "correzioni più di dettaglio che di sostanza"; ovviamente se l' ho decisamente frainteso, per quanto "l' entità delle divergenze o convergenze" di opinioni si inevitabilmente qualcosa di per lo meno non facilmente obiettivabile, Phil chiarirà eventualmente meglio il suo pensiero).

Con Berkeley (e soprattutto Hume) non ritengo fondata la differenza fra qualità primarie e secondarie: non solo colori, suoni e sapori, ma anche estensioni e masse, ecc. di ciò che percepiamo non sono altro che sensazioni, apparenze fenomeniche facenti parte della nostra esperienza cosciente, non più e/o non ancora reali (in quanto tali: insiemi di sensazioni) allorché non le percepiamo (id est: esse realmente non accadono
in quanto tali, sensazioni o insiemi di sensazioni).
L' unica differenza (importantissima!) fra qualità primarie e secondarie é che le prime sono direttamente misurabili (vi si possono stabilire rapporti quantitativi esprimibili da numeri e intersoggettivamente verificabili semplicemente "considerandole le una accanto alle altre"), mentre delle seconde ciò può essere fatto solo indirettamente: misurando le lunghezze d' onda, l' ampiezza, ecc. delle onde luminose e di quelle sonore o la concentrazione delle molecole aromatiche).

Ma ciò non toglie che entrambe siano di carattere meramente fenomenico: per entrambe é vero il berkeleyano "esse est percipi".
Il che vale di tutto ciò che è immediatamente e indubitabilmente conoscibile (per l' istantanea, effimera durata del giudizio sul suo accadere presentemente in atto; divenendo subito, immediatamente  mero oggetto di memoria, la quale é degna di dubbio).
Tutto il resto di ciò che possiamo credere (e che potrebbe anche essere vero, che forse potremmo anche effettivamente conoscere; ma non con certezza), fra l' altro la realtà di altre esperienze fenomeniche coscienti oltre quelle direttamente, immediatamente esperita da ognuno, e la realtà di "cose in sé" non sensibili (non apparenti, non fenomeni) ma soltanto pensabili congetturabili (noumeni; compresi soggetti e oggetti delle sensazioni fenomeniche reali anche allorché queste non accadono -ancora o non più- realmente), nonché la stessa intersoggettività delle sensazioni "esteriori" o materiali (magari spiegando tutto ciò, come personalmente amo fare, con una corrispondenza intersoggettivamente biunivoca con gli stessi enti e/o eventi in sé o "noumenici" delle sensazioni in ciascuna esperienza cosciente, dunque "poliunivoca" fra loro) non é razionalmente fondato (nel senso di dimostrato o men che meno mostrato, constatato, esperito): insuperabilità razionale dello scetticismo (che non é negazione della conoscenza vera -sarebbe autocontraddittorio pretendere di saperlo, conoscerlo- ma dubbio insuperabile circa di essa).

Concordo dunque, e a maggior ragione,
che Ne consegue quindi il carattere relativo e del tutto aleatorio della conoscenza.
#3300
Citazione di: paul11 il 18 Settembre 2016, 00:23:41 AM
Phil,
la matematica è numero che si applica a cose, diversamente non esisterebbero algoritmi che agiscono fuori dal suo diretto ambito.Ma è proprio questo accompagnarsi e applicarsi che è legato alla sola esperienza.
Insomma io penso che la prassi oggi è più forte della teoria, e forse è sempre stato così, l'uomo si fida di più dell'esperienza quotidiana anche se fosse data da comportamenti irrazionali che sono i nostri primitivi mentali, poi viene il resto che impariamo e che in qualche modo "ci inquadrano" mentalmente, ci disciplinano in un ordine.

La filosofia ha accompagnato questa cultura, forse e soprattutto inconsapevolmente,, perchè utopicamente si è illusa che la parola fossero come i numeri, che nelle parole ci potesse essere quella esattezza matematica.
Ma poi non solo ha distrutto la sua utopia, ma ha capito che postulati, enunciati che si sono creduti per secoli veri invece erano falsificabili.Noi viviamo il tempo della regola della decostruzione e del falsificabile, ma allora quale credibilità avrebbero le teorie scientifiche senza la prassi?Daccapo ,allora ci fidiamo delle pratiche essendo le teorie falsificabili.

Prendiamo allora atto che nulla è esatto tranne la metafisica di un sistema matematico, e  perchè mai è più veritiero l'empirico del metafisico? Il cortocircuito logico è che se quella ragione nasce da quell'inferenza innata, per  cui impariamo a distinguere le cose astraendole dal mondo e ordinandole mentalmente, perchè si continua  invece  credere più nella percezione dei sensi che schiavizza la ragione alla cosa invece che al concetto che crea la ragione che permette di conoscere anche, ma non solo quella cosa empirica nel mondo fattuale?
E' ovvio, che l'autocoscienza, come la chiamo io, ma chiunque può nominare quello che vuole, ha a sua volta un cortocircuito logico, perchè la ragione razionalizzata nel processo formale, la matematica stessa partorita dalla ragione, non basta   a sè, si chiede l'origine  tende ad oltre quell'empirico.

CitazioneSecondo me le "verità1" logiche e matematiche (qui Phil, che mi pare tenda ad enfatizzare la differenza fra matematica e logica in un modo che non mi é facile seguire, potrebbe opporre qualche interessante obiezione) sono certe (indubitabili) perché sono giudizi analitici a priori, mentre le "verità2" empiriche sono incerte perché sono giudizi sintetici a posteriori.

Sono cose ben diverse:

le verità2 empiriche sono reali conoscenze della realtà (conoscenze circa ciò che é o accade realmente o meno di nuova acquisizione, non eventualmente di già presenti); mentre le verità1 logiche e matematiche non sono che esercizi di inferenza logica (deduzioni di teoremi o calcoli matematici) che, se correttamente eseguiti, non ci dicono 
circa ciò che é o accade realmente o meno qualcosa che non sia di già postulato (creduto, ipotizzato, eventualmente anche veracemente saputo -?-)non costituiscono propriamente (nuove, non eventualmente di già presenti) conoscenza della realtàlimitandosi a esplicitare eventuali conoscenze di già implicite nelle premesse (piuttosto che acquisizioni di "conoscenze vere" sono "esercizi corretti di applicazione di regole arbitrariamente stabilite"). 

Non ritengo razionalmente superabile lo scetticismo:

La certezza dei giudizi analitici a priori della logica e della matematica (se correttamente espressi, rispettando regole logiche arbitrariamente stabilite) si paga al prezzo della loro "sterilità conoscitiva" (per lo meno relativa, dato che comunque sapere esplicitamente é qualcosa di più, o per lo meno di un po' diverso, dall' avere nozione implicita), mentre la "fertilità conoscitiva" dei giudizi sintetici a posteriori dell' esperienza si paga al prezzo della loro incertezza insuperabile (se non circa sensazioni immediatamente esperite, che é comunque effimera, "di durata infinitamente piccola", poiché immediatamente, col trascorrere ininterrotto del tempo, ciò che era per un effimero istante "sensazione immediata" diventa -sensazione di- contenuto  di memoria, il quale é sempre degno di dubbio: é vero solo "se la memoria non m' inganna").