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Messaggi - Koba

#331
Della verità come adequatio ne abbiamo parlato fin troppo.
Vediamo ora la nozione di verità di Heidegger come aletheia.
Per H. la verità è dis-velamento dell'ente, è l'uscire fuori dell'ente dall'oscurità.
Già la fenomenologia di Husserl insisteva sull'imparare a vedere, sulla necessità di mettere tra parentesi i propri interessi, la propria soggettività particolare, storica, in modo da potersi porre di fronte alla cosa senza pregiudizi.
Per H. bisogna lasciare all'ente la libertà di manifestarsi per quello che è.
Sembra ci sia una doppia libertà: la scelta del soggetto di rinunciare a dominare la cosa che si ha davanti; la libertà originaria dell'apertura che rende possibile il disvelamento dell'ente.
Ma nel disvelamento dell'ente particolare c'è sempre un velamento della totalità dell'ente.
Questo fatto, che la manifestazione dell'ente presuppone anche l'indietreggiare dell'essere, H. lo definisce proprio "il mistero".
Il mistero è insomma questo velamento dell'essere che tuttavia è ciò che rende possibile il disvelamento dell'ente singolo.
Per questi motivi la vicenda della conoscenza umana è un errare necessario, è la vicenda storica della sua attenzione sull'ente singolo senza poter mai coglierne la totalità.
#332
La formula tomistica descrive la verità come adeguamento dell'intelletto alla realtà.
Il soggetto conoscente per conoscere l'oggetto si costruisce delle immagini mentali, delle rappresentazioni.
Ipotizziamo che se ne costruisca tre, diverse.
Come può decidere quale sia quella più vera, cioè quella più adeguata all'oggetto reale?
Per poterlo fare dovrebbe potersi porre di fronte all'oggetto secondo un punto di vista neutro.
Ma questo non è possibile. Non esiste un punto di vista neutro, non esiste l'osservazione pura.
Per esempio se volessimo conoscere la tazza che sta sul tavolo di fronte a noi, cioè se dopo averla riconosciuta come tazza volessimo apprendere i dettagli della sua particolarità, averne quindi una conoscenza più approfondita, e facessimo tre descrizioni, cambiando posizione, distanza, momento della giornata etc., alla fine potremmo chiederci quale delle tre è la più adeguata.
Per deciderlo dovremmo quindi porci di fronte alla tazza, quindi con la tazza da una parte e le tre rappresentazioni dall'altra, e confrontare ciascuna delle tre con l'oggetto.
Ma perché questa posizione dovrebbe essere neutra? Quella da cui stabilire il confronto decisivo con l'oggetto?
In realtà questa posizione non è altro che un ulteriore punto di vista possibile, il quarto punto di vista, che produce la quarta rappresentazione.

La formula tomistica presuppone cioè uno sguardo panoramico, metafisico, la possibilità di porsi di fronte all'oggetto come farebbe dio.

Quello che ho descritto è il problema teorico di cui parlavo nel precedente post.
Dopodiché proponevo di guardare al fatto che ogni nostro punto di vista, quando ci poniamo di fronte all'oggetto da conoscere, è ineluttabilmente interessato.
L'adeguatezza sarebbe così legata allo specifico interesse del soggetto conoscitivo, il quale si ricollega a tradizioni etc.
Infine riprendevo alcune aspirazioni (probabilmente illusorie) del tipo di quelle proposte dalla fenomenologia.
#333
La formula tomistica della verità come "adaequatio rei et intellectus" ha un problema teorico importante che gli antichi non potevano vedere, ma che noi siamo costretti ad affrontare.
È il termine "adaequatio" ad essere il problema.
Nel processo della conoscenza io mi faccio varie copie dell'oggetto che voglio conoscere. Poter dire quale delle copie, delle rappresentazioni, sia la più adeguata significa potersi mettere di fronte all'oggetto originale e stabilire un confronto.
Ma, questo è il punto, nel momento stesso in cui io mi pongo di fronte all'originale per iniziare il confronto, mentre osservo l'originale, ecco che ho già costruito una nuova copia.
Non esistendo l'osservazione pura non c'è modo di stabilire quale delle copie di cui dispongo sia la più adeguata.
Eppure la nostra esperienza, i nostri successi nella conoscenza del mondo che ci circonda, sembrano garantirci che tale confronto si può stabilire, eccome!
Bisogna allora capire che io mi pongo di fronte all'oggetto sempre da un punto di vista particolare. Quindi l'adeguatezza, in generale impossibile da stabilire, è, nel concreto, funzione di quel mio interesse di partenza. Se sono interessato a manipolare l'oggetto l'approccio più adeguato sarà quello che ricerca i dati quantitativi e maggiore sarà la precisione delle misurazioni e delle leggi utilizzate, e maggiore sarà l'adeguatezza di questa conoscenza. Ecco perché la fisica di Galileo e Newton è più adeguata di quella aristotelica.
L'adeguatezza maggiore si riferisce agli interessi del soggetto che conosce, non all'oggetto conosciuto. Dal punto di vista della ragione scientifica sarà senz'altro più vera la conoscenza che offrono Newton e Galileo a quella che proponeva Aristotele. Ma non si può dire che tali rappresentazioni siano in generale più vere. Appunto, come dicevo prima, non esiste un punto di vista generale.

Ora però ribaltiamo quello che ho detto sopra.
Le critiche che sono state avanzate, per esempio l'impossibilità dell'osservazione pura, sono state costruite storicamente per colpire la scienza non tanto nel suo normale procedere di accumulazione di nuove conoscenze, ma nel suo porsi come nuova episteme, nuovo sapere incontrovertibile. La scienza cioè nella sua tendenza a presentarsi come metafisica.
Ora, di fatto, queste stesse critiche si sono rovesciate sulla filosofia, sul logos. Logos che però non è ragione strumentale (come lo è la ratio scientifica). Che è piuttosto orientato al tutto. Disinteressato, quindi?
Prendiamo per esempio Platone. Nietzsche vuole vedere nel platonismo una strategia che ha come obiettivo proteggersi dal mondo sensibile, nel mondo intellegibile eterno, immutabile. Ma la soluzione di Platone, le idee eterne, per quanto possa essere ritenuta sbagliata, esprime in realtà la  comune esperienza di universalità del logos. Perché di fatto, quando cerchiamo di fare filosofia, nel nostro piccolo, tutti ci sentiamo distaccati, capaci di uno sguardo magnanimo, diciamo così.

Concludo: è corretto che quel reticolo di argomentazioni critiche nei confronti di metafisica e scienza, le cui ragioni stavano nel liberarsi da teologie invasive e dal predominio della tecnica, si siano rovesciate sulla filosofia?
Mi si dirà: quell'esperienza di universalità del logos è un residuo dell'approccio metafisico che è ancora presente in te.
E se invece non fosse così? Se fosse vero, piuttosto, che di metafisica ci può essere soluzione storica specifica mentre lo sguardo, lo stesso di Anassimandro, Eraclito, etc., ne è immune?
#334
Citazione di: Alberto Knox il 24 Febbraio 2024, 01:21:10 AMPrenderò uno dei punti cardini del postmodernismo, ovviamente scegliendolo in base a ciò che è pertinente alla discussione in corso .

Che differenza c'è fra l'oggetto che ci si presenta in quanto tale e che chiamerò X e quello che sappiamo sull oggetto X? innanzitutto stiamo allora parlando di ontologia (quello che c'è) e non dipende dagli schemi concettuali ed epistemolgia (quello che sappiamo dell 'oggetto X)  che dipende dagli schemi concettuali.
A questo punto la filosofia postmoderna fa un ragionamento alquanto sottile; dal momento che il sapere dipende dagli schemi concettuali , allora la conoscenza è intrinsicamente costruzione (di idee, di concetti, di teorie, di formule) .
E se la conoscienza è costruzione allora non c'è differenza di principio tra il fatto che noi conosciamo l'oggetto X e il fatto che noi lo costruiamo. Esattamente per come avviene nella matematica in cui conoscere che 7+5 fa 12 equivale a costruire l addizione 7+5=12 . In questo maniera è facile giungere a nuove conclusioni , ovvero che la sfera dell essere coincide in larga misura con quella del conoscibile e che il conoscibile  equivale essenzialmente al costruibile. A questo punto, con una piena realizzazione della fallacia dell essere/sapere si conclude che ; quello che c'è risulta determinato da quello che ne sappiamo. è una radicalizzazione all ennesima potenza di kant. Vorrei far notare che l argomento non è del tutto privo di forza anche se confonde l'ontologia con l'epistemologia. Le due cose non si equivalgono , cioè io posso anche sapere che una tale chiave mi apre la porta di casa ma se non ce l ho in tasca  o la perdo non mi permetterà mai di aprirla.

Puoi fare una descrizione della realtà (ontologia) solo se hai già stabilito cosa possiamo conoscere (gnoseologia), solo se hai già stabilito qual'è lo status del sapere contenuto nella tua descrizione (epistemologia).
Le correnti del postmoderno in generale fanno proprie, in ambito conoscitivo, un atteggiamento che si potrebbe definire (con un po' di parzialità...) come uno scetticismo consapevole degli studi sull'antropocentrismo e sull'etnocentrismo.
Facendo i conti con queste ricerche, ed estendendo in generale al sapere critiche che tradizionalmente sono sempre state indirizzate ai costumi (Montaigne, per esempio), si finisce per concludere in un approccio di "relativismo culturale".
Il quale va letto in questi termini: non io, soggetto, sono la misura di tutte le cose, ma è la mia cultura, la mia civiltà, che parla attraverso di me, in quei concetti che io sento come naturali, evidenti (democrazia, uguaglianza, etc.), ma che al di fuori di essa (della mia civiltà) non lo sono affatto.
Se è così (e basta confrontare l'Occidente con il Giappone, non con tribù esotiche) l'ontologia, per quanto io mi imponga di essere rigoroso, non può che risultare la descrizione della realtà di un soggetto appartenente ad una certa civiltà. Non posso mettere tra parentesi la mia appartenenza culturale, perché essa è troppo profonda, rischio di rimanere senza niente in mano, un soggetto puro talmente puro da essere un niente.
Il postmoderno non è un'opzione che si sceglie liberamente per affinità con la distruzione dei sistemi tradizionali, ma si presenta come una risposta possibile ad argomenti ineludibili (gli argomenti sono ineludibili, la risposta ad essi può essere diversa, naturalmente).

Kant rispondeva alle obiezioni scettiche, da una parte, e agli abusi del razionalismo moderno dall'altra, con la soluzione di un soggettivismo universale (cioè dipendente dalle strutture dell'intelletto umano, che per quanto portino a produrre una conoscenza solo per l'uomo, ineluttabilmente legata alla specie umana, garantisce che questa sia oggettiva per tutti gli uomini, qualunque fosse la cultura di appartenenza).
Ma basta mostrare che le rappresentazioni della realtà, le categorie attraverso cui viene organizzata, hanno avuto una loro storia nella civiltà d'appartenenza, hanno subito metamorfosi, sono state "lavorate" e trasformate dal potere, dalle ideologie, dalle metafisiche, e soprattutto sono inconciliabili, almeno parzialmente, tra di loro, per "confutare" la soluzione di Kant.
#335
Citazione di: bobmax il 22 Febbraio 2024, 13:05:08 PMIl tratto forse più emblematico, della involuzione in atto, è riscontrabile nella negazione della Verità.
Delirio della ragione.
La Verità non può essere negata.
Questa dovrebbe essere l'evidenza suprema. Che fonda ogni possibile ragionamento.
E invece... è diffuso il convincimento che la Verità non sia.
Pure qui, non sono rare le posizioni che negano la Verità assoluta.
Si tratta di un mero non pensiero.
Cioè sembra di pensare, ma in effetti non si pensa.
Basterebbe infatti riflettere un attimo su cosa si sta dicendo... per ammutolirsi.
Ma perché siamo giunti a questo punto?
Donde scaturisce questo sonno della ragione?
Come mai avviene quello che, a tutti gli effetti, è un corto circuito cerebrale?
Secondo me le cause sono da ricercarsi nello stesso pensiero logico-razionale che ha perduto consapevolezza di se stesso.
Cioè ha perduto ciò che permette  la sua stessa esistenza: la Verità.
La Verità viene prima di ogni possibile pensiero.
Essendo Verità = Essere
Tutto è incluso nella Verità.
Anche la negazione della Verità, è nella Verità.
Ma come mai siamo arrivati a questo punto?
Secondo me per lo stesso splendore dell'Essere, della Verità.
Che per merito dello sviluppo scientifico è diventato sempre più accecante.
Infatti il nostro inoltrarci nel mondo ha comportato, da un lato lo svanire di ogni rimedio all'angoscia esistenziale, e dall'altro è ormai ineludibile il nostro diretto coinvolgimento.
Un coinvolgimento che richiede un grande sforzo razionale. Perché si tratta di giungere al limite del comprensibile. E lì resistere!
Occorre cioè un pensiero coerente e fermo nella sua logica, costi quello che costi.
Impresa non facile.
Non per niente tra i negatori della Verità non è infrequente la presenza di una capacità logica non eccelsa...

La verità non è uguale all'essere, ma è accordo tra pensiero ed essere.
Nessuno, tranne il sofista, nega che il pensiero sia sempre teso a raggiungere questo accordo, anche quando di fatto è impegnato a raccogliere argomentazioni che ne dimostrano l'impossibilità (come nello scettico).
Detto questo, non si capisce perché la verità dovrebbe essere qualificata ulteriormente come "assoluta". Se è tale, dice l'essere. E allora in che senso dovrebbe essere "assoluta"?
Di solito maiuscole e termini come "assoluto" vengono usati per coprire un deficit di reale sensatezza, come in Hegel per esempio.

"Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere" (L. Wittgenstein, da Prefazione al Tractatus)
#336
Citazione di: iano il 22 Febbraio 2024, 20:31:33 PMNon hai torto, ma io la racconto in un altro modo questa storia.
Io credo che senza metafisica non vi sia comprensione della fisica.
In particolare non vi è evidenza delle cose, cioè la comprensione immediata delle cose, anche se immediata propriamente non è, in quanto appunto è mediata dalla metafisica. la metafisica è un iceberg del quale noi balbettiamo solo ciò che confusamente emerge alla nostra coscienza., di modo che percepiamo qualcosa di cui non sappiamo dire, e non potendo dire non possiamo criticare.
La critica alla metafisica difficilmente può intaccare quindi la sua parte sommersa, se ciò può darti un pò di ottimismo.
Questo è il motivo per cui anche quando sgamiamo la natura illusiva di certe apparenti evidenze, ciò non intacca la loro natura di immediatezza, perchè la parte sommersa della metafisica non viene intaccata da una consapevolezza residuale.

La metafisica è la fonte della nostra comprensione, e funziona come tale finché non viene compresa, e può venire compresa solo se una nuova metafisica la sostituisce, a partire da essa.
Abbiamo esempi di ciò col senno di poi?
Chi conosce a fondo la storia della filosofia potrebbe provare a rispondere.
Io ne dubito, perchè associo la costruzione metafisica ai tempi evolutivi.
Anche se mai dire mai, viste le accelerazioni evolutive che viviamo.
Però non è da credere che assisteremo ad una evoluzione che seppellisce dentro di noi i cambiamenti evolutivi facendone carne della nostra carne, senza bisogno che ne siamo consapevoli.
Le nuove tecnologie resteranno fuori di noi, prestandosi in tal modo più che mai alle critiche, e l'unico modo per legarle a noi è un uso massiccio, mai sperimentato, di coscienza.
Non è un compito facile e facile è cadere invece nel pessimismo.
Uno sguardo a volo d'uccello, o di drone, sulla storia dell'uomo dovrebbe però rilevarci, che a parte i dettagli, non c'è niente di nuovo.
Basterebbe usare il senno di poi senza farsi prendere dall'emotività.
Non credo che stiamo vivendo tempi speciali, nonostante tutto, per quanto gli uomini tendano a dare un posto centrale al tempo che vivono.

La tua nozione di metafisica, come di ciò che sta sopra la fisica e che ci permette di comprenderla, è talmente generica da coincidere con la conoscenza. Noi costruiamo immagini, concetti, modelli esplicativi per capire la natura: questa è conoscenza, conoscenza per sua natura astratta, generale, non vedo perché definirla metafisica, confondendola con ciò che storicamente è stata la metafisica, cioè dottrina dell'essere vero, di ciò che è principio, causa, fondamento della realtà.
Il fatto che una nozione come "materia" sia presa come naturale, scontata, come se non fosse problematica, come se non avesse una storia, indica un errore di natura epistemologica, ovvero tradisce un realismo inconsapevole, la convinzione cioè che quel concetto è tanto appropriato alla realtà che descrive da essere quasi tutt'uno con essa, e non rappresentazione astratta.
Ma ciò che fa la metafisica è altro e ha delle ripercussioni etiche importanti. La metafisica copre le "irregolarità" del reale, l'irrazionale e l'orrore, lo fa tramite spiegazioni dall'alto, onnicomprensive, etc.
D'altra parte, scrivevo nel post precedente, anche il pensiero debole, postmoderno, può finire per dimenticarsi del compito di critica del pensiero filosofico quando, disdegnando discorsi organici, se ne sta tranquillo nel suo cantuccio a osservare, con distacco fenomenologico, qualche porcheria pop.

La prima lezione di filosofia dovrebbe essere un tour tra carceri, ospedali, mattatoi.
#337
Citazione di: Phil il 21 Febbraio 2024, 22:45:59 PMPer me queste sono due considerazioni portanti e al contempo sintomatiche: portanti perché parlano di attualità, senza tuttavia recidere il filo con la storia occidentale, sintomatiche perché, proprio essendo ancora legate a quel filo, espongono il "nervo scoperto" su cui batte il disagio del passaggio al pensiero contemporaneo, ossia un'inconscia avversione per la fragilità delle relazioni umane (prima citazione) e per la debolezza della verità (seconda citazione). Questo duplice rifiuto è "semplicemente" alla base della proiezione tanto di divinità nel cielo quanto di velleità assolutistiche sulla terra (dal fascino dei "poteri forti" al transumanesimo per rendere l'uomo più "forte").
Qualunque meta-fisica che ci promette di ridurre fragilità e debolezza, siano sociali o individuali, copre quel nervo, ci fa sentire meglio, e allora ci sembra "ovvio" che una prospettiva auspicabile debba avere un fondamento forte (ed essere a sua volta forte) e se non è disponibile sarà sufficiente cercarlo, o crearlo o concordarlo. Quando poi questa forza si rivela ancora una volta inadatta a coprire totalmente fragilità e debolezza, ecco che il nervo scoperto si fa sentire e si parla di crisi, di "mala tempora", etc. quando è "semplicemente" umanità al suo stato di disincanto attuale. E anche il parlare della "forza che deriva dal farsi consapevolmente carico della debolezza individuale e sociale" non fa altro che confermare l'istintiva avversione per la debolezza (che in fondo è un modo brutale e istintuale di leggere l'impermanenza).

Sì, ma per onestà occorre evidenziare anche il rischio di questo approccio: che la filosofia smetta di essere critica del reale e si specializzi nell'apprezzamento di ogni suo aspetto.
Cioè, così come la metafisica copre le cose incomprensibili e irrazionali e terribili con il suo sistema, così una filosofia che si limita a dire che l'orrore fa parte dell'umano rischia di essere totalmente ininfluente, un inutile invito a non concentrarsi troppo sul negativo perché tutto sommato il negativo è tale solo se confrontato con un positivo solo immaginato.

Il pessimismo è una prospettiva in fondo errata, basata solo sulle aspettative impossibili della metafisica? È una tonalità emotiva causata dal solo disincanto?
#338
Ultime osservazioni. Poi chiudo.
L'episteme, intesa come verità incontrovertibile, come verità in senso forte, è proprio ciò di cui non disponiamo, come risultato della critica filosofica degli ultimi 150 anni.
Ovviamente non può essere fondata o rifondata sull'accordo intersoggettivo. È la doxa, intesa come opinione di valore, non come semplice punto di vista soggettivo, che può uscire da un dibattito pubblico.
L'episteme può essere fondata o sul realismo (ingenuo) della scienza, o sul ripristino di una metafisica. Nel primo caso la sua incontrovertibilità sarebbe garantita dal fatto che la scienza moderna esprime la realtà così come essa è. Ma un'attenta analisi mostra che questo punto di vista è insostenibile. Nel secondo caso si ritorna a un pensiero ancora meno sostenibile. Ma qui per metafisica si intende proprio un sistema, non l'uso di concetti che ingenuamente si pensano come rispecchianti la realtà ma che da un'attenta analisi risultano essere "costruzioni" umane.

Il tuo commento all'aforisma di Umano troppo umano è poco chiaro, ma pensare che la gaia scienza possa essere la nuova episteme è ridicolo, a meno di voler usare le parole in totale libertà, o meglio "alla cavolo", così per il gusto di battute lapidarie.
#339
Citazione di: Ipazia il 19 Febbraio 2024, 15:42:49 PMQuesta è la visione del teista che pone il senso del mondo e della vita dietro/sopra il mondo e la vita. Superata dalla visione atea che trae il senso del mondo e della vita dal mondo e dalla vita. Un senso collettivo per forza di cose evolutive della nostra specie. Quindi un cammino ed un confronto continuo insieme, diverso da quello del teista tutto preso dalla salvezza della sua anima individuale e dal suo rapporto col nume di riferimento che lo giudica, e premia o punisce, individualmente.

No, affatto, qui il teismo non c'entra niente. Ti invito a non utilizzare sempre gli stessi schemi interpretativi. Catalogare velocemente il pensiero dell'altro non dovrebbe essere sentito come la finalità principale del "gioco".
Guardando il mondo, il male, il dolore etc., proprio mantenendo l'assenza di ogni spiegazione teologica o metafisica, come fa per esempio Leopardi, si può (e qui c'è la mia personale reazione, che naturalmente è discutibile) provare un senso di inconsistenza delle cose della vita, di quelle che concretamente riempiono la vita, non perché manchino di un riferimento trascendente, non perché solo terrene, ma perché inevitabilmente troppo fragili di fronte al polo negativo dell'esistenza.
D'altra parte, le ho definite illusioni proprio perché sono comunque capaci di convincerci di possedere un surplus di senso che ce ne fa dimenticare la fragilità, l'inconsistenza.
Il fatto di essere ancora vivo è una prova che il soggetto (affine a queste idee) è interno ad una specie di dialettica disillusione-illusione, che se si concludesse nell'uno o nell'altro polo sarebbe la fine del suo essere un soggetto filosofico (melanconia totale nel primo polo, becero edonismo nel secondo).
#340
Citazione di: Ipazia il 17 Febbraio 2024, 16:59:26 PMUna bella sfilza di giudizi aprioristici di valore che meriterebbero un adeguato corrispettivo di argomentazione.


La filosofia del Novecento ha senz'altro dedicato molta energia al tema della dissoluzione del soggetto. Ti richiami spesso a Nietzsche per la fedeltà alla terra e alla natura ma ti dimentichi che per lui la coscienza è un campo di battaglia di forze che l'individuo registra e subisce, e che quando pensa di poter controllare non può liberarsi dal sospetto che tale convinzione sia solo l'effetto superficiale di un'altra forza più profonda, ancora sconosciuta. Questo di fatto comporta l'impossibilità di ogni etica, presa come normativa (mentre resta la possibilità di descrizioni del comportamento umano, che del resto è sempre stato l'ambito dell'etica più credibile, più interessante).
Nel primo punto sulle tendenze contemporanee ("spiegare la tradizione mostrando che ciò che è elevato potrebbe venire da ciò che sta in basso etc.") avevo sintetizzato in modo estremo il primo aforisma di Umano troppo umano I, che può essere letto come l'anticipazione di un programma filosofico di tipo genealogico che verrà sviluppato nelle sue opere e in quelle di tanti altri filosofi dopo di lui.

Una conclusione inevitabile è che le idee principali dei pensatori più studiati nel secolo scorso hanno determinato una crisi profonda della riflessione etica.
La cui rifondazione può basarsi su alcuni progetti, che a me sembrano tutti fragili:
1) la ripresa della metafisica (da cui la possibilità della costruzione di un'etica oggettiva);
2) la socialità, la comunità, la comunicazione, secondo diverse declinazioni;
3) la natura e l'etologia;
4) una generale riflessione sulla fede, sui suoi paradossi e sul rapporto con l'altro.

Per cui il carattere pubblico della pratica filosofica, che comunque nella concretezza delle nostre vite non ha alcun riscontro reale, essendo da noi praticata con lettura e scrittura nella solitudine delle nostre abitazioni (per quanto sia bello ricordarsi dell'Atene classica e delle sue dispute di piazza), il carattere pubblico, dicevo, va argomentato, anzi rifondato, non è che basta ricordarsi di Socrate, e soprattutto è fuori luogo giudicare meschino chi prende atto di come di fatto viene vissuta oggi la pratica filosofica, chi ha l'onestà di ammettere che gli unici effetti sicuri sono una chiarificazione di se stessi.
#341
Citazione di: Jacopus il 17 Febbraio 2024, 17:23:26 PMRispettabile prospettiva ma appunto, trascendentale. La filosofia greca da Socrate in poi, ha insegnato la necessità di far incontrare la soggettività con l'etica collettiva, con ciò che è concepibile come giusto. Pur non risolvendosi solo in questo, questa è la mia personale interpretazione della filosofia: un metasapere in grado di riflettere su di sè e sugli altri saperi (che deve conoscere) al servizio non di sè stesso ma della giustizia umana.

 Hai parlato di giustizia. Ma perché la pratica della giustizia, sia quando ci riguarda direttamente in questioni private che in quelle pubbliche, è sempre così deludente, modesta?
A causa di un deficit di conoscenza?
Se fossimo stati bravi nell'attività di questo meta-sapere che è, secondo te, la filosofia, tutto sarebbe andato diversamente?
Io non credo.
Socrate faceva il suo primo passo nella filosofia proclamando di "sapere di non sapere"?
Ripartiamo da lì. Ribaltiamo noi stessi, le nostre certezze. Non accontentiamoci di discorsi pseudo-scientifici che vorrebbero spiegare quello che in realtà presuppongono. Teniamo d'occhio il senso comune, perché la filosofia è tutt'altro.
Allora si prenderà atto che ciò che si sta facendo è un cammino in solitudine. È comprensione dolorosa di se stessi, dolorosa perché è una rinuncia a tutte le cose del mondo, che ormai appaiono per quello che sono, inconsistenti, illusorie.
Ma, come ho già spiegato, questo stesso cammino, è in parte illusorio, perché è alimentato da una speranza assurda, cioè quella di arrivare ad una meta, anche se si sa fin dall'inizio che la meta non esiste o non è raggiungibile. Senza questa serietà "sbagliata" tuttavia ci si fermerebbe subito, al primo ristoro. Per cui, sia benedetta nei secoli dei secoli!


Per rispondere anche a bobmax: si è capito da quello che ho scritto sopra che sono almeno in parte d'accordo con te. Il tuo discorso si addice anche alla conversione religiosa. La metamorfosi, preparata dal lavoro della rinuncia e della disillusione, potrebbe essere l'accoglimento dell'assurdo, cioè della possibilità di Dio, del Dio cristiano, non di un dio che se ne sta lontano al riparo dai paradossi che la sua presenza provoca nel credente. Ma noi siamo come Abramo, senza però l'udito per sentire chiaramente ciò che ci comanda. Con il sospetto che ci rode dentro che il comando che crediamo di avere sentito era solo l'eco del discorso di un prete, l'eco delle parole di un clown.
#342
È illusorio il convincimento quasi inconscio, nel momento in cui si costruisce o si segue un discorso filosofico, di essere un po' più nel vero.
Mentre invece si sta semplicemente esprimendo una preferenza che ha origine in altri luoghi rispetto al logos.
Si confonde il bisogno psicologico, per esempio, per conoscenza pura, reale, necessaria.
Così non è.
#343
Citazione di: daniele22 il 17 Febbraio 2024, 12:35:20 PMNon sono d'accordo. Tra le altre cose la filosofia si occupa pure della correttezza del pensiero. Di chi sarebbe quindi il compito di segnalare che il pensiero umano è radicalmente sbagliato?
Della correttezza del ragionamento si occupa la logica. Se ne può in generale occupare anche la filosofia, e sì, nell'ambito di un dibattito è utile segnalare gli errori nelle argomentazioni, ma se parliamo, in modo più strettamente personale, di ciò che ci spinge a studiare filosofia la mia risposta non potrà mai essere "la gioia di correggere i falsi sillogismi".

Diverso è il discorso quando ciò che si ritiene sbagliato sono i fondamenti di una certa tradizione. Non è che vengano sentiti come semplici errori, come fraintendimenti, anche se magari vengono presentati come tali. Vengono criticati nel loro complesso. Qui siamo ad un livello molto più profondo. È la differenza tra la critica alla metafisica di Nietzsche e quella dei neopositivisti ai concetti "inconsistenti" (per loro) di un certo testo filosofico, di un certo autore.

Essere ossessionati dal platonismo (da una certa interpretazione del platonismo), come Alberto Knox, a mio giudizio, presuppone l'illusione che ripulito il proprio discorso da certe parole "vietate" si superino tutti i mali della civiltà occidentale, o si presenti un nuovo inizio.
Invece non solo non succede niente a livello di civiltà, ma non si è nemmeno iniziato a comprendere se stessi.

Ma è appunto, come dicevo, un discorso prettamente personale, qui veramente ogni forma è legittima, si tratta solo del proprio modo di intendere l'illusione della filosofia (perché di questo si tratta, di illusione).
#344
Citazione di: iano il 16 Febbraio 2024, 21:02:49 PMGrazie a tutti per le vostre risposte, che mi sarei dovuto aspettare, col senno di poi  :D , che avrebbero privilegiato il lato politico della questione.
In effetti il mio interesse era più di tipo filosofico in generale.
Forse il concetto non è facile da spiegare, ma ha a che fare in qualche modo con la mancata banalizzazione della filosofia, nel senso di una mancata presa di coscienza dei suoi meccanismi che si ripetono ciclicamente, piuttosto che assistere ogni volta a una drammatizzazione, come fosse sempre la prima volta che succedono le cose.
Bisognerebbe  vedere ormai, dopo millenni che la filosofia è in ballo, il mestiere del filosofo più come quello di un operaio alla catena di montaggio, laddove apparentemente egli costruisce sempre modelli nuovi, ma ripetendo sempre le stesse operazioni, per cui le novità del modello non sono sostanziali, ma servono a ravvivare l'interesse dell'acquirente. Quindi in sostanza forse non c'è mai da aspettarsi grandi sorprese se non nei dettagli inessenziali.
Quali sono in sostanza vi chiedo , secondo voi, quei meccanismi che al di là delle apparenze si ripetono sempre uguali nei lavori dei filosofi, o se credete invece che l'attuale fase della filosofia viva un momento speciale, tanto che nessuno avrebbe potuto prevederlo, al netto della centralità che inconsciamente  tendiamo ad attribuire ai tempi che viviamo, potendo ciò falsare il nostro giudizio.

In generale la filosofia contemporanea sembra influenzata da due tendenze:
1) spiegare la tradizione mostrando che ciò che è elevato potrebbe venire da ciò che sta in basso, che ciò che è nobile viene da ciò che è meschino (il che significa che più che una spiegazione si tratta di una distruzione);
2) sviluppare la critica alla nozione di verità.

Queste due tendenze, declinate in vari modi, mi sembra, impediscano che si possa continuamente tornare indietro agli stessi pensieri, come se fossimo destinati a ripetere cicli più o meno simili.

Per quanto riguarda la metafisica: l'ossessione odierna per l'immanentismo, la volontà (impossibile) di toccare con mano a tutti i costi la realtà, può far apparire filosoficamente importante criticare l'invenzione concettuale meta-fisica, che sta al di sopra delle cose del mondo e che usiamo per comprenderle. Non credo sia così. La filosofia, per quanto mi riguarda, serve essenzialmente a fare chiarezza, al singolo individuo, solo alla vita del singolo individuo anche se il suo discorso ha una forma universale (ingenuamente universale). Per me non è una cura (cura del linguaggio, dei concetti fondamentali di una civiltà, etc.), non è riforma dei rapporti di dominio.
#345
Tematiche Filosofiche / Re: Scienza e caso
15 Febbraio 2024, 10:16:40 AM
Intendevo dire la posizione che fa proprio il libero arbitrio, l'alternativa al determinismo sostenuta da Jacopus.