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Messaggi - davintro

#331
Citazione di: bobmax il 09 Settembre 2018, 18:31:46 PMSarà pure per una mia deformazione professionale, ma ritengo che un'esperienza lavorativa in ambito tecnico sia quasi indispensabile per chi intende filosofare. Tematiche come la logica, per esempio, assumono un significato più profondo quando ci sforziamo di applicarle provando e riprovando per giungere ad un risultato concreto. Occorre che l'esperienza sia proprio lavorativa, perché è qui che normalmente il gioco si fa più duro. E quando un ragionamento si rivela inefficace occorre rimettere tutto in discussione. E ricominciare da capo. Alla fine, si spera, una soluzione verrà trovata. Ma lo smacco, la frustrazione del fallimento seppur temporaneo, possono risvegliare in noi la consapevolezza della profondità del reale.

andrebbe credo chiarito cosa va inteso come "lavoro": la logica che applichiamo per giungere ad un risultato è una necessità ricorrente in qualunque tipo di attività, compreso lo studio per superare un esame, o la preparazione e pubblicazione di un saggio o di un libro (che a mio avviso ricade a tutti gli effetti nella categoria di "lavoro"), non solo  nelle occupazioni "tecniche", che erroneamente, molti vedono come unico ambito nel quale una persona può esprimere i suoi talenti al servizio della comunità (perché servizio viene inteso in un'ottica solo materialistica, e quindi si considera "lavoratori" l'operaio o il manager aziendale e non il poeta o il saggista, che sarebbero solo degli "hobby" perché il contributo che portano è di tipo spirituale e non materiale). In generale tendo a dare un enorme peso all'unicità di ogni singola persona umana, e ciò mi porta a diffidare dei discorsi in cui ricorre il concetto di "indispensabile", non mi piace l'idea che esistano delle "conditio sine qua non", in assenza delle quali si è necessariamente destinati al fallimento. Le nostre diversità fanno sì, che a qualunque limite o handicap personale si possa essere facendo forza sulle nostre doti positive, poi il successo non può che essere valutato in base al risultato finale di ciò che si realizza, anziché tramite la rigida applicazione di presunti aspetti metodologici, la cui importanza è sempre relativa al soggetto che agisce. Il principio per cui "tutto è utile, nulla è indispensabile" lo trovo meno limitante, e molto più riconoscente del valore della diversità dei talenti tra i singoli individui
#332
Citazione di: 0xdeadbeef il 30 Agosto 2018, 16:23:01 PMA Davintro Ma sì, in linea di massima sono d'accordo; solo che, mi chiedo: è possibile una filosofia "oltre" Kant? E su questa domanda la mia risposta è: no, non è possibile; la sola cosa possibile è una, per così dire, "nota a margine", una specificazione di quanto già intuito da Kant. Chiaramente c'è una evidentissima "frattura epistemologica" fra la Ragion Pura e quella Pratica, ove quest'ultima agisce "come se" la prima avesse fornito a questo agire una solida base teoretica. E se consideriamo quella che Kant chiamava l'"unità originaria dell'appercezione" (cioè l'"io penso"), non possiamo a mio parere che ricavarne la constatazione che quello che chiami "ritorno a Cartesio" della Fenomenologia era già presente in Kant. Mi pare infatti che anche attraverso l'"io penso" kantiano si possa in un certo qual modo ricomporre la frattura fra fenomeno e noumeno (senza che ciò comporti la "produzione idealista" dell'oggetto da parte del soggetto). Quanto tutto questo possa servire ad evitare l'insidia del relativismo non saprei (direi poco...). saluti


Il puro riconoscimento kantiano dell'Io penso come appercezione trascendentale non è a mio avviso sufficiente a colmare il fossato tra fenomeno e noumeno (cioè a superare il rischio dello scetticismo). L'Io penso, inteso come puro atto soggettivo unificatore di tutte le mie rappresentazioni, ancora non legittima l'idea che i contenuti oggettivi delle rappresentazioni siano descrivibili in base a leggi a-priori e necessarie, manca cioè il collegamento intenzionale tra noesi, atti soggettivi di coscienza, e noemi, contenuti oggettivi intenzionati dalle noesi, su cui tanto insiste la fenomenologia. L'io-penso kantiano è una noesi del cui accadere possiamo essere certi, ma che non riesce a implicare la certezza delle attribuzioni di qualità essenziali ai suoi noemi oggettivi, la certezza dell'Io penso resta una certezza di qualcosa di soggettivo, non accompagnata dalla certezza di un sapere oggettivo, anche se fenomenico, perché l'approccio kantiano, probabilmente ancora troppo influenzato dall'empirismo, identifica l'oggettività con la trascendenza del realismo ingenuo, delle cose del mondo esterno nella misura in cui non sono fenomeni, e siccome, giustamente, Kant riconosce che non ha senso pensare ad un'oggettività senza che sia data fenomenicamente a una coscienza (altrimenti come potremmo pensarla?), allora deduce, erroneamente secondo me, che non sia possibile una conoscenza dell'oggettività tout court. Invece la lezione fenomenologica consiste nell'affermare la possibilità di un sapere oggettivo, non nel senso del realismo ingenuo, che separa totalmente le cose dalla coscienza che ne ha esperienza, ma nel senso di un' oggettività intrafenomenica, cioè residuo della certezza della coscienza soggettiva, collegata ad essa tramite la relazione (intenzionalità) noesi-noema: una volta che mi rendo conto che il mio Io cosciente resta come residuo indubitabile dopo la messa fra parentesi della pretesa di esistenza delle cose al di là del mio Io, intuisco che in questo residuo resta non solo l'Io come attività soggettiva (noesi), ma anche i propri contenuti fenomenici oggettivi (noemi), che anche una volta non associati più a cose esistenti nel mondo trascendente, restano comunque come contenuto dei nostri vissuti esperienziali registrati nella coscienza. Anche quando comincio a dubitare che la percezione dell'albero rimandi a un albero reale, perché potrei essere vittima di un'allucinazione, non per questo l'immagine percettiva dell'albero cessa di restare contenuto nella mia coscienza. E una volta appurato questo punto, inizia la trattazione analitica vera e propria, individuare e discernere nel complesso dei contenuti fenomenici, le sfumature che segnano le varie diversità qualitative a cui far corrispondere i differenti ambiti nei quali la realtà è strutturata in tutti i suoi aspetti, riuscendo a sviluppare una "mappa" delle varie dimensioni dell'essere e delle corrispondenti punti di vista soggettivi tramite cui la coscienza attribuisce loro un determinato senso (compresi anche le varie discipline scientifiche) ad esse ordinate, evitando sovrapposizioni, confusioni di approcci ecc. La validità oggettiva della mappa sarebbe garantita dal fatto che le qualità oggettive dei fenomeni da cui l'analisi ha mosso piedi sono necessariamente implicate nella relazione con l'indubitabilità della coscienza soggettiva che le comprende. Credo sia questo a grandi linee il senso della cosiddetta "ontologia regionale" proposta da Husserl, con le "regioni" dell'essere a cui corrispondono le diverse specie di fenomeni oggettivi, qualitativamente distinte nell'analisi, almeno per come penso di aver capito la cosa, con tutti i miei grandi limiti...
#333
Tematiche Filosofiche / Re:Scienza e scientismo
06 Settembre 2018, 16:33:49 PM
personalmente considero lo scientismo un tentativo di assolutizzazione delle possibilità della scienza, che però al tempo stesso si fonda sul fraintendimento del significato stesso di "scienza". Intendendo come "scienza" ogni discorso che non si limita ad affermare una tesi, ma che si preoccupa anche di portare argomenti e dimostrazioni che mostrino la corrispondenza tra il discorso soggettivo che viene esposto e la realtà oggettiva delle cose che il discorso mira a rispecchiare, si dovrebbe concludere che non esiste alcun argomento razionale che possa dimostrare come il campo della conoscenza umana, avente base sensibile, possa esaurire la realtà come totalità del possibile. Da qui, l'impossibilità di fondare scientificamente la negazione dell'esistenza di un livello della realtà irriducibile alle potenzialità conoscitive umane, un livello a cui riferire l'idea di un sapere puramente spirituale, come quello della metafisica o della religione. Lo scientismo invece consiste proprio nella pretesa di tale fondazione scientifica, ciò che ne deriva è un'ideologia materialistica, nella quale tutto ciò che esiste o potrebbe esistere è visibile sensibile, la realtà coincide con il complesso delle cose fisiche. Come è evidente, ne deriva anche che il modello di scienza posto come unico adeguata alla conoscenza della realtà, è quello delle scienze naturali, fondato sull'esperienza sensibile. La contraddizione sta nel fatto che non è a partire da questo modello che si può legittimare la pretesa di porre la realtà fisica come realtà assoluta, in quanto nessuna sperimentazione sensibile potrebbe usare il concetto di "assoluto", essendo, nel carattere intelligibile e immateriale del suo significato, qualcosa di non sperimentabile, fuori dai limiti di spazio e tempo all'interno dei quali abbiamo un'esperienza sensibile degli oggetti fisici. Quindi lo scientismo è a tutti gli effetti una metafisica, che però, rigettando esplicitamente la validità della metafisica, dovrebbe negare la sua stessa validità, mostra di esaltare la scienza, ma senza aver chiaro in quale accezione definirla: pone la scienza naturale sperimentale come unico modello legittimo di conoscenza della realtà, ma le sue basi epistemologiche rimandano alla scienza filosofica e metafisica,  in quanto il suo è un discorso che considera la realtà come "totalità", "tutto è materia", dunque un discorso chiaramente non fondabile per via empirica. Lo scientismo è metafisica e filosofia camuffata da "scienza", o meglio da un'idea di scienza che non è quella su cui presume di fondarsi. Non a caso l'esempio credo più sistematico ed evidente di "scientismo" nella storia della filosofia, il positivismo comtiano e più in generale ottocentesco, che relegava religione e metafisica a saperi primitivi nella storia dell'umanità, destinati a essere soppiantati dalle scienze positive, induttive e naturali, è correttamente presentata a tutti gli effetti come una corrente filosofica, non certo scientifica nel senso galileiano del termine
#334
oltre a ringraziare per l'interessante discussione che avete sviluppato, volevo anche aggiungere che ho sempre trovato la metafora dei "nani sulle spalle dei giganti" espressione di quel dogmatismo storicistico, che purtroppo contribuisce a svilire il carattere scientifico e razionale della filosofia, riducendola a porre come argomenti della verità delle tesi che si sostengono non la logica e la corrispondenza tra discorso e realtà, ma il principio di autorità, per cui i pensatori del passato (i giganti) sono delle autorità infallibili, da dover usare come base delle sviluppo delle nostri posizioni personali, senza metterle in discussione. Evidentemente ciò è all'antitesi di una corretta razionalità scientifica: se Galilei e Copernico avessero accettato il ruolo di nani sulle spalle del gigante Tolomeo, saremmo ancora fermi al modello geocentrico, avrebbero dovuto limitarsi ad aggiungere nuove nozioni ad un base prestabilita, senza smentire la validità della base stessa, perché "il gigante Tolomeo non può sbagliare, ipse dixit". Ma anche, ammesso e non concesso, di ritenere il compito del filosofo come quello di aggiungere nuove conoscenze ad una base teorica ricavata dalla storia, anziché costruire in modo autonomo le basi stesse, cioè accettare di essere nani sulle spalle dei giganti, appare come la pretesa di validità della metafora sia autocontradditoria: chi stabilisce chi sono i veri giganti, alle cui spalle appoggiarmi? Se fossi solo un nano non potrei essere io a stabilirlo, essendo nano il mio sguardo non avrebbe la capacità di elevarsi al punto di raffrontare l'altezza delle persone intorno a me e scegliere i più alti su cui poi poggiare per avere una visione della realtà più completa. La verità è che i giganti possono riconoscersi solo tra loro, solo un gigante ha la statura necessaria per distinguere la vera altezza delle persone e valutare quali sono le altezze maggiori su cui poggiare. Ma poi, essendo lui stesso un gigante, dovrebbe comprendere che anche facendo leva su se stesso, autonomamente, sarebbe comunque in grado di avere una sufficientemente ampia visione del paesaggio... fuor di metafora, la storia della filosofia è costituita da un'infinità di posizioni diverse, in gran parte antitetiche e non sintetizzabili, e non può essere accolta in toto come base teorica di fondazione di un pensiero autonomo e razionale, ma vanno selezionati quegli autori, e, soprattutto, quei punti e modelli teoretici, che ci sembrano più validi e razionali, siamo noi oggi a essere responsabili nello stabilire quali sono i giganti e quali no, ma il punto è che propria questa libertà e responsabilità mostrano l'autonomia della filosofia dalla storia della filosofia! Nel momento in cui sono in grado di valutare con la mia testa cosa prendere e cosa escludere della storia della filosofia, dimostro che non è la tradizione storica, ma la mia logica personale la base a partire da cui elaborare un autonomo sistema di pensiero, altrimenti dovrei passivamente assorbire tutto ciò che apprendo dalla storia, senza alcun filtro critico. Se, leggendo Kant o Hegel, sono in grado di giudicare e discernere i torti e le ragioni, le coerenze e le incoerenze dei loro discorsi, allora vuol dire che i parametri di tale giudicare e discernere non sono storici, ma originali e personali: sono già in me le basi a partire dalle quali valutare il valore teoretico dei testi, non mi sto appoggiando ad alcun gigante, non sono una tabula rasa colpita dal condizionamento esterno del libro. Il libro suggerisce, ispira, stimola la riflessione, ma il criterio di giudizio resta appannaggio della soggettività critica del lettore contemporaneo: qui sta l'autonomia della filosofia teoretica, elaborazione originale, rispetto alla storia della filosofia, ricezione passiva del passato.

 

 

Infine, per sintetizzare, mi piacerebbe opporre alla metafora dei nani sulle spalle dei giganti, quella della contrapposizione fra città e singolo cantiere in costruzione. La storia della filosofia non dovrebbe vedersi come un unico cantiere in costruzione dove ciascun pensatore aggiunge un mattoncino alla base di mattoni posti da altri prima di lui (l'anima immortale di Platone come può integrarsi nella stessa costruzione accanto all'anima aristotelica, che una volta separata dal sostrato materiale del corpo è destinata a perdersi? Di fronte a conclusioni contrarie non è possibile sintesi, ma solo un aut aut, tertium non datur ), bensì un città dove ciascun singolo filosofo costruisce la sua personale casetta, ed ha certamente l'opportunità di trovare ispirazione nelle case costruite dai suoi vicini, ma l'ultima parola sul progetto spetta a lui, al suo gusto personale, e le fondamenta a partire da cui sviluppare la sua costruzione, appartengono solo alla sua casa, senza nessun parassitario allaccio con le altre
#335
Citazione di: Socrate78 il 29 Agosto 2018, 15:48:10 PMMi chiedo se la filosofia kantiana non porti di fatto a ridurre la realtà esterna al soggetto ad una sostanziale illusione. Infatti se l'ente conosciuto viene filtrato attraverso le forme a priori, ciò significa che le nostre percezioni non corrispondono alla verità autentica del mondo, ma sono un'apparenza creata dalla nostra mente. LO spazio e il tempo non sarebbero, per quanto mi sembra di comprendere, per Kant realtà esistenti, ma solo un'apparenza creata dalla nostra mente per farci fare esperienza del mondo: ma se è così ciò non dovrebbe sfociare nello scetticismo più totale visto che praticamente ogni nostro giudizio sul mondo è inserito in uno schema spaziale e temporale? L'interpretazione migliore del kantismo mi sembra a questo punto quella data da Edmund Husserl, quando afferma che è necessario porre tra parentesi tutta la realtà esterna sospendendo il giudizio su di essa e non si potrebbe fare altrimenti visto che essa è un'apparenza mentale, e non un dato di fatto obiettivo.


 

 

Sono d'accordo, l'esito scettico mi sembra la necessaria conseguenza della pretesa di poter salvare la conoscibilità di una conoscenza a priori (in Kant ricavabile sinteticamente) eliminando la conoscenza del Noumeno. Certamente, la possibilità di recuperare una certa, seppur limitata, conoscenza noumenica, considerando le "cose stesse" come supporto necessario per la loro esperienza, sarebbe una corretta e coerente implicazione dell'esigenza critica di fondare epistemologicamente un discorso sulla realtà sull'analisi delle strutture della nostra esperienza, ma di fatto implicazione resta non sviluppata all'interno dello schema kantiano che identifica il materiale della conoscenza con ciò che ricade nelle categorie estetiche di spazio e tempo (cioè i fenomeni sensibili, fisici), riducendo l'ambito dell'apriori alla forma di per sé vuota delle categorie, a delle mere funzioni ordinatrici di un materiale sempre altro da sé. In questo schema il noumeno nella sua intelligibilità, non rientra nel recinto del materiale sensibile della conoscenza, e dunque ogni affermazione fatta su di esso non avrebbe alcuna legittimità scientifica, nemmeno nella posizione del noumeno come ideale regolativo e fondamento della sua scienza, e nemmeno, negativamente nell'attestazione della sua inconoscibilità, dato che anche affermare la non conoscibilità di qualcosa, implica pur sempre un certo sapere positivo di questo "qualcosa", quantomeno il suo significato concettuale. Ammettere un limite che fissa un dualismo tra fenomeno e noumeno implica pur sempre una certa intuizione (oggettivante un materiale) di entrambi i piani che vengono distinti. In breve, l'appiattimento del materiale della conoscenza scientifica a quello dei sensi, rende impossibile la critica stessa della conoscenza. Nello spirito dell'opposizione a questa deriva che a mio avviso va letto lo sforzo fenomenologico husserliano del "ritorno alle cose stesse". L'intelligenza di questo tentativo è consistito nel non sviluppare tale "ritorno" come un recupero di un realismo ingenuo, un'accettazione dogmatico dell'esistenza di un mondo esterno, senza un'analisi critica dei fondamenti con cui la nostra soggettività può avere di questo mondo un'esperienza, ma in un "ritorno a Cartesio", cioè porre la coscienza soggettiva, in quanto residuo indubitabile della radicalizzazione del dubbio riguardo ogni tesi sulla realtà trascendente, come ambito in cui individuare i fenomeni nell'essenzialità delle loro relazioni. Tale approccio, di Cartesio evita la sostanzializzazione del cogito, identificato con l'anima, ma ne salva l'idea di dedurre dall'evidenza della presenza di un Io pensante e rivolto intenzionalmente a un mondo di oggetti, il considerare come oggetti degli atti dell'Io delle idee in cui cogliere delle verità trascendentali, cioè indipendenti dalle circostanze particolari in cui l'Io si trova ad esistere: se la coscienza è ciò della cui certezza possiamo avere la certezza, allora anche gli oggetti, nella misura in cui sono fenomeni, cioè contenuti di questa coscienza, sono ciò di cui possiamo avere un sapere evidente, non condizionato dalla dubitabilità del loro esistere fattuale nel mondo esterno. In questo modo si può ricomporre la frattura tra noumeno e fenomeno e superare l'insidia del relativismo. Possiamo dubitare che una certa cosa esista fuori di noi, ma non del fatto di averne un contenuto fenomenico e di poter ricavare da ciò tramite intuizione e deduzione logica delle implicazioni da connettere in un sistema di relazioni con altri fenomeni
#336
Tematiche Filosofiche / Re:Critica all'emergentismo
28 Agosto 2018, 01:15:03 AM
Samuelsilver scrive:



"Per rispondere innanzitutto a Davintro, vorrei chiarire che dal mio punto di vista l'intelligenza, ossia la causa che da forma alla materia, è essa stessa costituita da materia. La materia, o se vogliamo le componenti dell'universo che sono sullo stesso piano ontologico della materia, possono organizzarsi sia in modo tale da formare il passivo marmo, sia in modo da creare l'intelligenza attiva che lo manipola."







L'immaterialità delle forme consiste nell'identificarsi con le idee, i concetti degli enti a cui le forme si riferiscono. Certamente l'idea di qualcosa non è condizione sufficiente perché quel qualcosa esista, altrimenti dovremmo ammettere l'effettiva esistenza di draghi, unicorni, per il fatto di averne tramite l'immaginazione una certa rappresentazione mentale.  E difatti, per quel che riguarda, gli enti fisici, sintesi di materia e forma, non sto affermando che la componente immateriale sia sufficiente per determinare l'esistenza dell'ente come sostanza autonoma, facendo a meno della materia, ma che tale autosufficienza non sia attribuibile nemmeno alla materia, al punto di pensare ciò che costituisce l'essenza di un ente sia la sua estensione spaziale. Se la materia fosse causa della forma, dovrebbe già identificarsi con ciò che differenzia un singolo ente dall'altro, ma questo non è possibile alla luce dell'identificazione della materia con ciò che consente di estendersi nello spazio, di avere una una consistenza quantitativa (perché divisibile), ma non ancora specificata qualitativamente. Tra causa ed effetto deve sempre esserci un rapporto di adeguazione, nella causa deve già essere insitiotutto ciò che poi riscontriamo negli effetti, almeno a livello virtuale: il piccolo, il semplice non può essere la causa del grande, del complesso, perché gli effetti sarebbero al di là della portata della forza creativa della causa. Se le forme definiscono il quid, l'essenza di un ente, ciò che lo distingue da tutti gli altri, allora non potrebbero essere il risultato di ciò che diversi enti hanno in comune, vale a dire la materia, perché se così fosse la materia in sé dovrebbe già differenziarsi nei diversi enti, per ciascuna specie di enti dovrebbe determinare diversi effetti qualitativi, e ciò presupporrebbe che la materia stessa, causa, esprima la sua attività causale in modo differenziato, per essere adeguata a supportare la diversità qualitativa degli gli effetti prodotti. Ma se la materia fosse già differenziata, vorrebbe dire che è già FORMATA, cioè ha già in sé le caratteristiche che la rendono diversa da ente ad ente, e dunque ciò che distingue un ente dall'altro, la forma, sarebbe già aprioristicamente nella materia! Ecco perché non si possono concepire le forme come un effetto secondario derivato da qualcos'altro. Se intendiamo le forme come principio di differenziazione degli enti, allora anche le cause che li producono dovrebbero a loro volta essere differenziate, e non riconducibili a qualcosa di preesistente indifferenziato e informale come la materia intesa in sé stessa. Quindi dal mio punto di vista il principio formale delle cose è un dato originario, da sempre accompagnante la materialità, e dunque non derivante da essa
#337
Tematiche Filosofiche / Re:Critica all'emergentismo
28 Agosto 2018, 00:06:21 AM
Samuelsilver scrive:



"Per rispondere innanzitutto a Davintro, vorrei chiarire che dal mio punto di vista l'intelligenza, ossia la causa che da forma alla materia, è essa stessa costituita da materia. La materia, o se vogliamo le componenti dell'universo che sono sullo stesso piano ontologico della materia, possono organizzarsi sia in modo tale da formare il passivo marmo, sia in modo da creare l'intelligenza attiva che lo manipola."

 

 

 

L'immaterialità delle forme consiste nell'identificarsi con le idee, i concetti degli enti a cui le forme si riferiscono. Certamente l'idea di qualcosa non è condizione sufficiente perché quel qualcosa esista, altrimenti dovremmo ammettere l'effettiva esistenza di draghi, unicorni, per il fatto di averne tramite l'immaginazione una certa rappresentazione mentale.  E difatti, per quel che riguarda, gli enti fisici, sintesi di materia e forma, non sto affermando che la componente immateriale sia sufficiente per determinare l'esistenza dell'ente come sostanza autonoma, facendo a meno della materia, ma che tale autosufficienza non sia attribuibile nemmeno alla materia, al punto di pensare ciò che costituisce l'essenza di un ente sia la sua estensione spaziale. Se la materia fosse causa della forma, dovrebbe già identificarsi con ciò che differenzia un singolo ente dall'altro, ma questo non è possibile alla luce dell'identificazione della materia con ciò che consente di estendersi nello spazio, di avere una una consistenza quantitativa (perché divisibile), ma non ancora specificata qualitativamente. Tra causa ed effetto deve sempre esserci un rapporto di adeguazione, nella causa devono già essere insiti tutto ciò che poi riscontriamo negli effetti, almeno a livello virtuale: il piccolo, il semplice non può essere la causa del grande, del complesso, perché gli effetti sarebbero al di là della portata della forza creativa della causa. Se le forme definiscono il quid, l'essenza di un ente, ciò che lo distingue da tutti gli altri, allora non potrebbero essere il risultato di ciò che diversi enti hanno in comune, vale a dire la materia, perché se così fosse la materia in sé dovrebbe già differenziarsi nei diversi enti, per ciascuna specie di enti dovrebbe determinare diversi effetti qualitativi, e ciò presupporrebbe che la materia stessa, causa, esprima la sua attività causale in modo differenziato, per essere adeguata a supportare la diversità qualitativa degli gli effetti prodotti. Ma se la materia fosse già differenziata, vorrebbe dire che è già FORMATA, cioè ha già in sé le caratteristiche che la rendono diversa da ente ad ente, e dunque ciò che distingue un ente dall'altro, la forma, sarebbe già aprioristicamente nella materia! Ecco perché non si possono concepire le forme come un effetto secondario derivato da qualcos'altro. Se intendiamo le forme come principio di differenziazione degli enti, allora anche le cause che li producono dovrebbero a loro volta essere differenziate, e non riconducibili a qualcosa di preesistente indifferenziato e informale come la materia intesa in sé stessa. Quindi dal mio punto di vista il principio formale delle cose è un dato originario, da sempre accompagnante la materialità, e dunque non derivante da essa

 
#338
Tematiche Filosofiche / Re:Critica all'emergentismo
27 Agosto 2018, 01:28:10 AM
per valutare la necessità della materia come ragion d'essere non solo del contenuto delle cose (che la materia costituisca quella che Aristotele definiva "causa materiale", di fatto è una tautologia), ma anche come fattore sufficiente per rendere conto delle relazioni che collegano le singole parti di un ente complesso alla totalità, andrebbe attuata una "strategia" basata sull'ipotizzare a livello intuitivo se l'ordine logico in cui la materia è organizzata sia contingente o necessario in relazione alla materia organizzata. La risposta mi pare debba essere la prima opzione: non esiste un unico ordine possibile e certamente non necessariamente stabile. Un blocco di marmo ha una sua forma, un suo complesso di relazioni entro ciascuna particella materiale ha il suo posto, ma ciò non esclude che uno scultore possa intervenire sulla materia imprimendogli una nuova forma, la forma della statua. La permeabilità della materia all'attività formatrice umana dello scultore esemplifica la sua condizione di passività, coerente con la sua definizione di "estensione": una cosa è materiale nella misura in cui occupa uno spazio. L'estensione spaziale di un oggetto ne determina il carattere di passività, in quanto qualcosa occupa uno spazio può subire un intervento dall'esterno atto a deformarlo, lacerarlo, spezzarlo. Questa passività impedisce alla materia di essere soggetto attivo dell'elaborazione della forma complessiva del proprio oggetto, ne spiega la componente contenutistica, spaziale, misurabile quantitativamente, teoricamente divisibile, ma non la forma intesa come unità logica delle relazioni. Nella trasformazione del blocco di marmo in statua di marmo, l'elemento materiale, il marmo resta tale, e proprio per questo non può essere esso il fondamento della differenza tra le due diverse forme, è insufficiente nel renderne ragione, e conseguentemente non può essere posta come fattore causale delle diverse configurazioni formali, cioè le relazioni. La causa formale va considerata come autonoma da quella materiale, non coincidente con essa, e se il carattere intelligibile, immateriale della forma sembra piuttosto velato nel caso delle forme degli oggetti naturali come una pietra o un albero, dove quantomeno a uno sguardo superficiale non si riesce ad avvertire il fondamento di un'intelligenza autrice, diviene invece più chiaro nel caso degli oggetti artificiali, prodotto di un essere intelligente come l'uomo, nel quale la forma degli oggetti rispecchia, anche se mai in modo perfettamente adeguato, le idee di quegli oggetti progettati nella mente dell'autore che interviene la materia: l'immateriale, la forma, indica ciò a partire da cui la materia subisce la formazione, e dunque in un certo senso preesiste a quest'ultima.


In conclusione, tenendo conto di ciò, direi che l'emergentismo, inteso come posizione che olisticamente afferma la non riducibilità della complessità alla somma delle parti, è un modello valido in quanto deve negare che la materia sia l'unica causa e componente della struttura ontologica delle cose
#339
In sede di interpretazione degli autori del passato è comune il costante richiamo alla contestualizzazione, al riconoscere quanto le loro idee fossero condizionate dal periodo storico in cui sono vissuti, il contesto sociale-culturale di provenienza, la lingua nella quale le loro idee sono espresse, le loro vicende biografiche. L'opportunità di questo richiamo è un'ovvietà, sarebbe assurdo non ammettere quanto fattori extrateoretici come l'epoca storica, la vita e la lingua influenzino il pensiero dei filosofi, come di qualunque essere umano. Il punto che volevo sollevare e su cui poter eventualmente discutere però è: assolutizzare il momento della contestualizzazione, negare la possibilità di poter cogliere degli aspetti sovrastorici e sovracontingenti nel pensiero degli autori non finisce con il rinchiudere il giudizio sulla validità teoretica di un certo pensiero all'interno del limitato contesto storico in cui è sorto, separandola da qualunque legame con l'attualità? Non rischia, all'interno dell'impegno interpretativo, di sovrapporre le finalità dello storico della filosofia (ricostruzione filologicamente puntale delle vicissitudini storiche dell'evoluzione del pensiero) rispetto a quelle del filosofo teoretico (valutazione critica e personale della verità o falsità di un certo modello teoretico in riferimento alla capacità di rispecchiare le cose stesse oggettive), perdendo totalmente di vista queste ultime? Se l'obiettivo dello storico della filosofia dovrebbe essere quello di arrivare a una precisa conoscenza degli autori del passato, quello del filosofo teoretico dovrebbe invece essere quello di sviluppare un'originale e personale punto di vista in cui si cercano risposte aventi base razionale alle questioni filosofiche, ed in questo senso l'interesse verso la conoscenza dei filosofi del passato non è, come invece è per lo storico della filosofia, fine a se stesso, ma teso a considerare questi filosofi come degli interlocutori, utili fonti di ispirazione per una visione razionale del reale nelle sue strutture universali, sovratemporali, e dunque perennemente attuali. Appare chiaro come l'attualità perenne di un pensiero è presente nella misura in cui quel pensiero non è riconducibile alla limitatezza del contesto storico in cui è sorto, cioè supera la necessità di una contestualizzazione che lo vincola alla relatività del periodo storico, o alla biografia empirica del pensatore che lo ha espresso. Non si tratta di negare la componente storica-personale all'interno delle filosofie del passato, la cui presenza è ovvia, ma porci il problema di come una contestualizzazione senza limiti, assuma tale componente come l'unica effettiva arrivi a spezzare il legame tra la perenne attualità delle cose stesse e i filosofi, in tutto e per tutto "figli del loro tempo" rinchiusi in un relativismo per il quale il loro pensiero si è sviluppato come determinato da circostanze particolari e irripetibili, in assenza delle quali si sarebbe sviluppato in modo nettamente diverso, con la conseguenza di togliere ogni carattere di oggettività e razionalità nella loro prospettiva, perché condizionata dalla loro particolare situazione. Dal punto di vista non storiografico ma teoretico, un pensatore del passato è interessante nella misura in cui non è solo "del passato", nella misura in cui la sua visione ha saputo trascendere lo steccato della sua contingenza storica, legato alla sua vita, alla sua epoca, alla sua lingua, per rispecchiare con fedeltà le cose stesse, la realtà oggettiva, fedeltà garantibile a livello di argomentazione razionale, la capacità di cogliere la componente di sovratemporalità di queste cose stesse, solo così possono dirci qualcosa di attuale per noi, fornire spunti di riflessione e suggerimenti sul mondo in cui OGGI viviamo, e tutto ciò è possibile nella misura in cui non c'è bisogno di contestualizzazione, la loro visione è attuale e oggettiva in quanto resterebbe valida anche fosse stata formulata in un'epoca diversa da quella in cui effettivamente è stata posta. Insomma il dialogo teoretico con i pensatori del passato presuppone un limite alla necessità di contestualizzarli, mentre l'esasperazione della contestualizzazione può a mio avviso, indicare un predominio della storia della filosofia, mirante alla ricostruzione del passato come obiettivo in sé, rispetto alla filosofia vera e propria, cioè dialogare con la storia come ispirazione per sviluppare un discorso di verità sulla realtà attuale, punto di vista quest'ultimo che, personalmente, trovo molto più stimolante
#340
L'ambiguità del miracolo nel contesto di una religiosità di tipo teista e trascendentista consiste nel fatto che, se da un lato tramite la manifestazione del potere divino nella storia, in forme che appaiono contrastare le leggi di natura, l'uomo avvertirebbe la non assolutezza di tali leggi, ma il loro essere vincolate al potere di una forza superiore, cioè trascendente, che in ogni momento è libero di infrangerle, dall'altro, presuppone che tale manifestazione debba, per mostrare di saper infrangere le leggi di natura, adottare delle forme sensibili, quindi non davvero espressioni della natura puramente spirituale dell'idea di un Dio trascendente. Non a caso in alcuni passi del Vangelo è Gesù stesso a raccomandare il silenzio ai suoi discepoli sui miracoli compiuti: una religiosità che trae dai miracoli la sua principale fonte di legittimazione finirebbe con l'abituare l'uomo a identificare la natura di Dio con le sue miracolistiche manifestazioni sensibili, adeguate alla realtà materiale di chi è capace di osservarli, distorcendo la visione corretta del trascendente, cioè una visione intellettuale e spirituale, adeguata alla natura spirituale dell'Oggetto cioè Dio. Il senso stesso del miracolo rischierebbe di venir distorto, non più manifestazione della superiorità di Dio sulle leggi di natura, ma inserimento di Dio stesso nella natura, confuso con uno dei suoi eventi, in quanto l'essenza del suo potere verrebbe identificata con qualcosa di materiale, esteriore, osservabile dai sensi, anziché dall'esperienza interiore di una fede per la quale l'uomo avverte nelle profondità dell'anima, della mente la presenza di Dio, nella sua spiritualità non coglibile con i sensi del corpo. Il superamento dell'ambiguità potrebbe accadere solo nel preservare un carattere di rigorosa eccezionalità del miracolo, nel concepirlo non come costante e abituale forma di relazione e comunicazione di Dio con l'uomo (che resta l'esperienza interiore della fede per il "semplice" credente e della razionalità per chi non si accontenta di una conoscenza di Dio unicamente sentimentale e necessita di un supporto della logica, oppure, il caso estremo dell'esperienza mistica, dove la visione divina assume lo stesso livello di concretezza delle percezioni degli oggetti sensibili in carne e ossa, ma preservando il carattere spirituale della visione), ma come estemporanea e saltuaria espressione, che resta però ai margini della prospettiva nella quale l'idea di Dio dovrebbe richiedere di essere interpretata in un coerente vissuto della trascendenza
#341
Per Oxdeadbeef

 
evitare di "segare" il ramo in cui si è" cioè evitare di delimitare l'ambito della conoscenza scientifica tagliando fuori la conoscenza chiamata alla riflessione critica sulla scienza stessa (riflessione che in questo modo dovrebbe autonegarsi come scientifica), è possibile nel momento in cui si riconosce, accanto al materiale fenomenico sensibile, che riportiamo alle categorie estetiche di spazio e tempo, un materiale fenomenico intelligibile, consistente nel complesso delle strutture trascendentali della mente, che in quanto "trascendentali", cioè operanti e presenti al di là delle contingenze empiriche spaziotemporali, non possono essere assimilati al materiale della sensibilità. La loro visione è a tutti gli effetti una visione metafisica, dato che il contenuto in questione non è di natura fisica, e se questa visione è ciò cui si fonda la critica della conoscenza, allora la scientificità di tale critica dovrebbe richiedere anche la validità scientifica della visione, cioè di una metafisica. Forse Kant non ha saputo trarre fino in fondo le conseguenze di questo discorso perché ha sovrapposto l'idea di "metafisica" quella di "ontologia", cioè ha associato l'idea di metafisica alla pretesa di far corrispondere un contenuto concettuale (in cui rientrerebbero le strutture trascendentali della conoscenza) ad un complesso di sostanze, esistenti reali ed autonome adeguato ad esso. Forse Kant è stato condizionato dalla necessità, storica, di doversi contrapporre alla metafisica cartesiana nella quale veniva operato un passaggio diretto dall'Io ancora formale e trascendentale (il cogito) a una sostanza autonoma (la res cogitans, l'anima) facendo coincidere metafisica e ontologia. Pur avendo parte di ragione nel contestare tale passaggio, Kant sarebbe caduto nell'errore di squalificare tout court la metafisica come scienza per evitare sovrapposizioni con l'ontologia, cioè per evitare la sostanzializzazione delle categorie a priori, non tenendo conto che è possibile riconoscere la validità della visione metafisica tesa a oggettivare un contenuto intelligibile, le condizioni a priori della conoscenza, cioè il contenuto della critica, senza per forza identificare tale contenuto con una sostanza reale come l' "anima" o "Dio".

 


Per Carlo Pierini

 
Se un giorno venissimo a scoprire che gli scopritori delle verità delle scienze sperimentali che oggi accettiamo come assodate erano in realtà vittime di disturbi dell'apparato percettivo, dovremmo rimettere in discussione le loro scoperte, che proprio dai loro strumenti percettivi soggettivi traggono la loro fonte. Possiamo considerare questa ipotesi come fantascientifica, improbabile, ma non escluderla al 100%. In questo caso la lingua italiana ci viene in aiuto per chiarire questa cosa attraverso l'espressione "PRATICAMENTE IMPOSSIBILE". Ciò che è "praticamente impossibile" si distingue a rigor di termini da ciò che è "ASSOLUTAMENTE IMPOSSIBILE". Quel "praticamente" sta ad attestare che il tipo di impossibilità che specifica non è in assoluto non-smentibile, ma consiste in un'improbabilità sufficiente a orientare una linea d'azione, appunto pratica, una linea d'azione che può consentirsi di trascurare l'ipotesi che l'evento a cui ci si sta riferendo possa davvero realizzarsi. Posso ritenere "praticamente impossibile" che nella mente di mio familiare, con cui ho vissuto per tanti anni possa sorgere l'idea di uccidermi o farmi intenzionalmente, e da ciò deriverà una linea d'azione che trascura quest'ipotesi e si incentrerà su una piena fiducia nei suoi confronti, anche se l'ipotesi che in un certo momento, in un attimo di follia imprevedibile dall'esterno, la sua personalità possa mutare non può essere esclusa al 100%. Diverso è il caso dei giudizi deducibili dagli assiomi della logica formale: Il principio di non contraddizione per cui, una volta data l'uguaglianza di A e B, e di B e C, si determina che A è uguale a C, fa sì che, stante le premesse, che A sia diversa da C, non sia "praticamente impossibile", ma "assolutamente impossibile". Cioè, non si tratta solo di un'improbabilità di cui un certo comportamento pratico può permettersi di non far caso, ma di un'impossibilità certa, che lascerebbe nella totale assurdità qualunque tentativo di negarla come tale. Ed è proprio verso questo ambito, questo modello di certezze assolute, che sfugge alle scienze sperimentali, perché non ricavabili empiricamente, che la filosofia si orienta, al di là delle sue difettose applicazioni storiche
#342
Citazione di: Carlo Pierini il 27 Luglio 2018, 18:40:08 PMDAVINTRO Filosofia e scienza sperimentali non sono come due corridori che competono per la stessa gara e di cui si possono rilevare i fallimenti perché uno dei due non arriva al risultato che invece ottiene l'altro, ma "corrono" in campi separati, l'uno (quello della filosofia) quello dell'individuazione di princìpi assoluti, evidenti, indubitabili, che restano tali indipendentemente dalle contingenze spazio-temporali, princìpi che possono sia essere riferiti alla sfera dell'esistenza (ontologia) o della fondazione razionale della conoscenza (gnoseologia e epistemologia), CARLO ...E dopo due millenni e mezzo di ricerca, quanti di questi <<princìpi assoluti, evidenti, indubitabili>> ha scoperto la filosofia? Vuoi che te la dia io una risposta, oppure la conosci anche tu? DAVINTRO ...l'altro (le scienze sperimentali) devono limitarsi a un sapere costantemente provvisorio e incerto, perché fondato sull'esperienza, cioè su una dimensione per la quale ogni verifica successiva può in ogni momento smentire la pretesa di ricavare leggi universali sulla base dei dati precedentemente raccolti, CARLO Hai una concezione della storia del sapere totalmente immaginaria e fuori della realtà. Le scienze sperimentali solo le sole ad aver svelato una tale quantità di verità indubitabili e di leggi della natura da aver dato luogo alla più grande rivoluzione di tutti i tempi, sia sul piano dell'affidabilità delle sue conoscenza sia sul piano dell'utilizzo di queste conoscenze nella trasformazione della materia sia a proprio immenso vantaggio che, purtroppo, per fini distruttivi.


Non va confusa la filosofia con la storia della filosofia: le diatribe tra le differenti scuole (che comunque, anche se in misura forse minore sono presenti anche nelle scienze sperimentali, vedi i dibattiti circa l'evoluzionismo darwiniano o le varie interpretazioni delle teorie dei quanti) riguardo i risultati della filosofia derivano, non da un'intrinseca ed essenziale imperfezione del metodo, ma dal fatto che questi risultati hanno delle implicazioni che toccano la sfera dei valori e dei sentimenti morali, che varia da persona a persona, ed impedisce che sulle questioni fondamentali della filosofia le persone abbiano quel totale distacco e freddezza necessari per pervenire a delle conclusioni il più possibile oggettive. Il metodo filosofico, proprio perché non basato sull'esperienza, ma sulla logica dialettica, è di per sé pienamente razionale, ma storicamente non riesce mai a essere applicato con il dovuto rigore richiesto, perché condizionato dai pregiudizi, dalla sensibilità valoriale, soggettiva, dei filosofi, intesi non in quanto tali, ma in quanto esseri umani. Non a caso la morale è considerata una ramificazione della filosofia, non delle altre scienze. Cioè il limite circa la possibilità per la filosofia di raggiungere conclusioni certe e inoppugnabili non è un limite che squalifica il metodo nella sua essenzialità, ma qualcosa che proviene da qualcosa di esterno ad esso, cioè la "debolezza" della natura umana, i cui sentimenti di valori sono maggiormente coinvolti nelle questioni filosofiche in un modo più intenso che in ogni altro genere di questione. L'individuazione del ruolo e il metodo della filosofia attengono alla sua essenza, non alle sue applicazioni storiche. Confondere le due cose misurando la prima sulla base delle seconde è un comune errore storicista ed empirista

Per quanto riguarda la presunta indubitabilità delle scienze sperimentali, non si tratta del tipo di concezione della storia del sapere che si ha, ma dell'analisi delle conseguenze a partire dall'individuazione del loro metodo. Un sapere fondato sull'esperienza non può mai raggiungere verità indubitabili al 100%, perché dovrebbe dare per scontata l'infallibilità dei strumenti percettivi, sia naturali (i 5 sensi corporei) che artificiali (microscopi, telescopi ecc.) nella loro funzione di far coincidere il complesso dei fenomeni che si manifestano alla nostra coscienza soggettiva e la cose stesse oggettive. L'incapacità di argomentare circa tale infallibilità (data dal fatto che, fermandoci all'ambito dell'esperienza, anche l'esperienza, un certo esperimento, in base a cui si cercherebbe di garantire l'infallibilità degli strumenti percettivi usati, dovrebbe a sua volta giustificare se stessa, cioè l'adeguatezza dei suoi strumenti, e così via, in un regresso aporetico all'infinito) preserva un margine quantomeno minimo di incertezza, di cui, come scritto nel precedente messaggio, potremmo anche non curarci a livello pragmatico, limitandoci a tenere per buoni i risultati che appaiono più probabili sotto il profilo quantitativo, per utilizzarli nelle produzioni di oggetti tecnologici, ma se l'obiettivo è invece puramente teoretico (cioè puramente contemplativo, senza voler strumentalizzare il sapere raggiunto per fini pratici), cioè quello di fissare una conoscenza del tutto certa e indubitabile, allora il margine va riconosciuto come impedente alla scienza empirica di poter assurgere a conoscenza di questo tipo, e quindi di essere un sapere davvero fondativo, che dovrebbe comprendere le premesse evidenti, a partire da cui dedurre un sistema razionale di conoscenze. Il realismo ingenuo del senso comune che ritiene di poter legittimare la credenza in determinato modo d'essere delle cose sulla base di una costanza abitudinaria delle nostre percezioni su di esse, va superato in favore di un realismo critico, che sa giustificare l'uscita dal solipsismo e il riconoscimento di una realtà oggettiva, nella misura in cui questa diviene necessaria per giustificare l'esistenza della nostra coscienza e delle esperienze fenomeniche soggettive, cioè ciò che, cartesianamente, è al riparo dalla possibilità di cancellazione sulla base dell'esercizio del dubbio riguardo la corrispondenza fra esse e la realtà. In sintesi, recuperare l'Oggetto partendo però metodologicamente dal Soggetto.
#343
direi Socrate, sulla base dell'idea che se ne ricava dai dialoghi platonici. Apprezzerei molto la conversazione con un pensatore che invece di intimidire l'interlocutore sfoggiando un'erudito citazionismo, come se la validità di un discorso dipendesse da un principio di autorità, per cui una verità è tale perché sostenuta da qualcuno invece che da un altro, utilizzasse l'ironia, non presumendo di essere in possesso di un sapere superiore all'interlocutore, ma si ponesse al suo stesso livello, usando l'analisi delle definizioni, e la logica deduttiva, cioè strumenti argomentativi comuni a ciascuna persona, indipendentemente dalla sua erudizione, dalla quantità di fonti e citazioni a cui rifarsi, limitandosi a concentrarsi sulla validità intrinseca dei discorsi. Un bel confronto senza timori reverenziali, basato solo su una comune razionalità.

Non avrei particolari questioni da porre, il bello dell'argomentazione filosofica sta proprio nella possibilità di poter trovare sempre un nesso logico per il quale, partendo da un tema casuale, si può sempre arrivare a discutere di qualunque cosa ci interessi

In generale, ho certa invidia per i pensatori greci, che non avendo dietro di essi ancora il peso di una tradizione storiografia imponente come la nostra, potevano permettersi di ragionare e discutere molto più " a mente libera", privi della tentazione di soccombere alla riverenza verso il principio di autorità, dogmaticamente accettata come indiscutibile, ponendo come criterio di verità la pura ragione che valuta il merito delle questioni, considerando la verità in termini di coerenza logica interna e corrispondenza con la realtà delle cose, senza timore di porsi in contrasto con le tendenze che emergono come dominanti sulla base dell'evoluzione della storia della filosofia, come coloro che argomentano con considerazioni del tipo "dopo Nietzsche non è più possibile pensare..." "dopo Heidegger non è più possibile pensare che...", come se la verità dei temi filosofici mutassero sulla base della successione delle opinioni storiche, come se una verità o una falsità non fosse tale prima o dopo essere stata sostenuta da un certo pensatore
#344
gli obiettivi delle scienze empiriche non sono gli stessi di quella della filosofia, che pone tra i suoi ambiti la riflessione critica sui limiti e possibilità di una conoscenza razionale delle singole scienze. Essendo diversi gli obiettivi non ha senso fare un confronto, pretendendo di misurare la validità di un ambito sulla base dei parametri che sono sufficientemente adeguati per un altro. Filosofia e scienza sperimentali non sono come due corridori che competono per la stessa gara e di cui si possono rilevare i fallimenti perché uno dei due non arriva al risultato che invece ottiene l'altro, ma "corrono" in campi separati, l'uno (quello della filosofia) quello dell'individuazione di princìpi assoluti, evidenti, indubitabili, che restano tali indipendentemente dalle contingenze spazio-temporali, princìpi che possono sia essere riferiti alla sfera dell'esistenza (ontologia) o della fondazione razionale della conoscenza (gnoseologia e epistemologia), l'altro (le scienze sperimentali) devono limitarsi a un sapere costantemente provvisorio e incerto, perché fondato sull'esperienza, cioè su una dimensione per la quale ogni verifica successiva può in ogni momento smentire la pretesa di ricavare leggi universali sulla base dei dati precedentemente raccolti, e nella quale la non necessità della coincidenza fra fenomeni sensibili e realtà oggettiva lascia costantemente aperta la possibilità di inganni percettivi da parte di un soggetto riguardo la credenza che l'immagine soggettiva del mondo coincida col mondo in sé. Le innovazioni tecnologiche sono certamente più conseguenze di un sapere di questo tipo, perché presuppongono una conoscenza del mondo fisico, che ne permetta l'intervento umano teso a formare un materiale per produrre oggetti in vista di un agire pratico, mentre la filosofia è da questo punto di vista estremamente più sterile, in quanto il sapere trascendentale, valido al di là della contingenza spaziotemporale, non può essere ricavato nell'ambito dell'esperienza del mondo fisico, ma dall'intuizione di un mondo spirituale, che non può essere strumentalizzato per dei bisogni pratici e materiali, come ciò a cui la tecnologia è finalizzata. Non ha però senso considerare questa sterilità della filosofia come una sua imperfezione, che andrebbe corretta adeguandosi ai metodi delle scienze che perseguono obiettivi diversi da quelli perseguiti da essa. Il sapere delle verità assolute ed evidenti che il filosofo ricerca è abbastanza irrilevante per quanto riguarda la produzione di oggetti tecnologici (molto diverso, ovviamente, è il caso dell'individuazione delle finalità e ripercussioni etico-politiche della tecnologia). La produzione tecnologica implica un complesso di scelte tecniche che possono essere decise anche indipendentemente dal problema di una conoscenza indubitabile come quella che ricerca il filosofo, occorre prendere per forza una decisione, e quindi accontentarsi di stabilire quale tra diverse prospettive sia più valida, anche se non del tutto intrinsecamente evidente. Se devo progettare un aereo mi trovo forzato a stabilire quale tra diversi materiali è più efficace a essere utilizzato per creare velivoli il più possibile solidi e rapidi, e dovrò basarmi sul sapere empirico, sull'osservazione dei vari materiali, considerando quale tra le diverse visioni in merito appare più valida, anche se resta sempre quel margine di incertezza dato dalla possibilità di inganni percettivi, mentre la ricerca di un sapere totalmente evidente comporterebbe la stasi, la sospensione di qualunque decisione. Ma un conto è il piano pragmatico un altro quello teoretico: la filosofia è prima di tutto orientata a quello teoretico, e la filosofia della scienza dovrà tener fermo questo ideale regolativo di un sapere del tutto certo ed evidente come parametro di valutazione di quanto una certa metodologia scientifica sia più o meno adeguata ad esso, cioè sue possibilità e i suoi limiti, ed ecco perché, nella posizione di questo ideale di sapere svincolato dai condizionamenti spaziotemporali, la critica della scienza, l'epistemologia, implica sempre, di fondo una posizione metafisica (anche se non direttamente ontologica), quel punto di vista trascendentale in base a cui il filosofo della scienza è legittimato a valutare quanto la scienza che sottopone a critica è più o meno adeguata a quell'ideale di sapere assoluto ed evidente, in relazione a cui è possibile rilevare i limiti e possibilità. Ed ecco le mie perplessità sulla critica kantiana di voler operare una critica in questo senso concludendo con la negazione della scientificità della metafisica, finendo di fatto col segare il ramo su cui si è necessariamente appoggiato, vale a dire una intuizione degli aspetti necessari e aprioristici della conoscenza umana, una visione sovrasensibile che sfugge ai limiti entro cui ha preteso di demarcare l'ambito della scienza (il materiale dell'esperienza esteriore sensibile). Ma, fortunatamente, la gnoseologia kantiana non è certo l'unica possibile...

 
#345
I concetti di "giusto" e "sbagliato" sono soggettivi e arbitrari. Secondo un'ideologia egualitaria radicale, qualunque diseguaglianza, sia essa determinata dalla nascita, o conseguenza dei diversi comportamenti sociali, è ingiusta, secondo un'ideologia meritocratica vanno distinte le diseguaglianze per nascita da quelle determinate dal "merito", di cui si pretende che si possano ottenere parametri di riconoscimento del tutto oggettivi e condivisi. La mia personale posizione si differenzia da entrambe e cerca di attenersi all'idea del liberalismo classico. Il piano politico non deve intervenire sulla base di un concetto moralistico di "giustizia" o di "merito", sempre soggettivo e discutibile, ma ha il compito di tutelare il benessere complessivo della comunità, cercando di massimizzarlo, lasciando massima libertà di agire agli individui, con l'unico limite di impedire che la libertà di qualcuno danneggi i diritti fondamentali di altri, in quanto solo la libertà è la condizione in cui ciascun singolo può agire sulla base delle sue esigenze soggettive e personali, diverse le une dalle altre e in questo senso va affermato decisamente il primato della libertà rispetto l'uguaglianza: la libertà, entro certi limiti, è ciò che permette a ciascuno di poter realizzare i propri desideri, senza che qualcuno pretenda di imporre ad altri la sua personale idea di "cosa va fatto e cosa no", quindi è sempre un valore positivo, portatore di benessere e di realizzazione individuale. L'uguaglianza invece non è mai un valore positivo in assoluto, ma è positivo se intesa come livellamento verso l'alto, verso il benessere, mentre se è livellamento verso il basso, verso il malessere, diventa qualcosa di negativo. Cioè, ciò che va considerato ingiusto è la povertà, non le diseguaglianze, a meno che per "giustizia" non si intenda il soddisfacimento degli istinti di invidia verso chi, senza aver danneggiato nessuno, sta meglio di loro. Il compito di uno stato dovrebbe essere quello, non di livellare il livello di ricchezza complessivo (che non coinciderebbe con una reale equità del benessere, dato che ciascuna persona vincola il suo benessere a delle esigenze materiali diverse da individuo a individuo, abbiamo Socrate che viveva più o meno come un barbone ed era pienamente appagato dalla sua vita, e un amante del lusso che non è felice di avere un'utilitaria anziché un auto di lusso...), ma di permettere a più individui possibili di accedere a delle condizioni di benessere che rispondano alle loro esigenze soggettive. Sarà quindi fondamentale favorire la mobilità sociale DAL BASSO VERSO l'ALTO, ma non quella DALL'ALTO VERSO IL BASSO, in nome di un astratto principio di eguaglianza, perché la tutela delle esigenze nei confronti di chi "sale" sarebbe annullata dal torto nei confronti di chi viene costretto a "scendere", mentre l'obiettivo dovrebbe quello di far sì che più persone possibili possano vivere un'esistenza adeguata ai loro bisogni, ma siccome i bisogni variano da persona a persona sulla base delle diverse personalità individuali, la strategia più efficiente non può essere quella dell'omologazione effettiva delle ricchezze, ma favorire la massima libertà individuale per ciascuno, perché più persone possibili  possano avere facilitazioni per vivere in base alle loro esigenze senza che ciò comporti danneggiare l'esistenza di altri (penso ad esempio all'eliminazione o riduzione di impacci sociali, come tasse o burocrazia)

 

Per quanto riguarda l'ideologia della meritocrazia, che scinde le diseguaglianze per nascita (ingiuste) da quelle ottenute "per merito" (giuste) essa ricade nello stesso errore moralistico. Come già provato ad argomentare nel topic, su "liberalismo e tassa di successione", l'idea che il compito della società sia redistribuire il reddito sulla base del "merito" è di fatto un abuso di potere nei confronti degli individui, perché comporterebbe l'esistenza di un'elite governativa che si arrogherebbe la pretesa di stabilire in modo oggettivo dei parametri meritocratici, non considerando che ciascun criterio è sempre riconoscibile o meno in base ai valori soggettivi dei singoli. Prendiamo ad esempio il lavoro: qualcuno potrebbe pensare che il "merito" debba consistere nella quantità di ore lavorative, ma è facile accorgersi che l'effettivo impegno e l'espressione delle proprie capacità non può sempre essere valutato in termini quantitativi, è possibile che una persona serie e onesta che lavora 4 o 6 ore al giorno si impegni ed esprima le sue qualità più che un lavoratore che per contratto lavora 10 ore, lavorando però di malavoglia, in modo inefficace e irrispettosi verso colleghi o pubblico/clienti. Solo una concezione di un meccanicismo da catena di montaggio ottocentesca estremo può valutare la qualità di un lavoro solo in termini quantitativi (per non parlare del fatto che sulla base di questo criterio dovremmo considerare come "immeritevoli" tutti gli autonomi o liberi professionisti, che lavorano senza vincoli di orario fisso, gestendo liberamente il loro tempo, ma che non per questo vanno necessariamente reputati come dei nullafacenti...) La volontà di impegnarsi è un fatto interiore, non è qualcosa di riconoscibile sulla base di un contratto, non può essere oggetto di una valutazione politica-sociale, lo stato non è uno psicologo. Inoltre, calcolare la ricchezza ottenuta per merito contrapponendola in termini assoluti a quella determinata dalla nascita la trovo una forzatura demagogica, chi ci dice che l'eredità non possa beneficiare anche persone che, al di là della fortuna di trovarsi a essere nati in una famiglia anziché in un'altra (fortuna, che ricordo, non è mai una colpa, da scontare con una vendetta sulla base dell'invidia di chi non ha avuta quella fortuna), sono effettivamente persone di valore, e "meritevoli" nel contesto dell'ambito professionale o intellettuale a cui decideranno di dedicarsi? L'istituto dell'eredità è ciò che ha permesso a giganti della cultura come Platone, Aristotele, Seneca, Cartesio, di poter godere di quella tranquillità economica che ha loro concesso di potersi dedicare all'Otium letterario, allo studio, alla ricerca, alla produzione di quei capolavori della cultura in modo disinteressato, senza sovrapporre alla pura esigenza culturale delle istanze commerciali, rivendicando l'autonomia spirituale della cultura dai criteri del mercato, del successo economico. Dovremmo forse dire che il "merito" di chi scrive libri col fine primario di arricchirsi, scrivendo libri di barzellette (molto vendibili) piuttosto che il Discorso sul Metodo (molto più di nicchia) è maggiore di chi, potendo beneficiare di cospicue eredità, può permettersi di dedicarsi ad ambiti di ricerca di grande spessore culturale, anche se con scarse prospettive di profitto e remunerazione economica (le lettere non danno pane)? Il punto è che la valutazione del "merito" è nella natura umana costantemente relativizzata e condizionata da dei sentimenti valoriali insiti nella soggettività delle persone, tra cui rientrano anche i sentimenti di affetto verso i nostri familiari e discendenti, ed è assurdo pretendere di stilare criteri universali e pseudo-oggettivi di "merito", sarebbe solo un'imposizione moralistica del potere che finisce col discriminare e limitare la libertà di chi pone dei criteri alternativi e non per questo necessariamente meno validi