Parliamo dunque. A me non interessa che uno possa credere che Dio abbia creato l'universo. Mi disturba invece assai che tale Dio ci abbia parlato, per tramite umano, comunicandoci la nostra storia e le sue leggi per noi; e mi disturba perché, a prescindere dal fatto che personalmente a me tale Dio non abbia mai detto nulla, non riterrei giusto il suo dire, anche se per certi aspetti lo sarebbe. ¿Dunque, qual è il problema allora, dato che tale problema è quello che mi fa parlare? Il problema sta innanzitutto nell'avere il problema. Questa faccenda viene spesso trascurata, ma è per certi aspetti fondamentale e la traduco in una precisa domanda: parlo perché voglio o perché devo? Sembrerebbe che io voglia, ma l'intenzione a parlare (agire parlando) può derivare anche da pulsioni non propriamente consapevoli e controllabili; quello che invece sarebbe certo è che dietro a questi due verbi ausiliari si celano almeno due diverse tipologie di intenzione: quella del gioco e quella della necessità.
Detto questo insisto sul tema naturale/artificiale. Se ciò che noi chiamiamo vivente esiste nel nostro pianeta nelle forme che vediamo, tutto ciò dovrebbe esistere in virtù del fatto che la terra, piuttosto che la luna, venere o marte, consente questa possibilità ... insomma, almeno una parte dell'universo ci consente di vivere, a noi e a tutto quello che si fa. Dedurre da questo status in cui ci si trova la possibilità di svincolarci dalle leggi naturali, le quali di fatto ci includono, mi sembra un fantasioso azzardo.
Ho così esposto stringatamente, dato pure che ne ho già parlato abbastanza, quel che penso del valore di una differenza sostanziale tra naturale e artificiale. Ribaltando ora il punto di vista sul tema naturale e artificiale e partendo dall'individuo che vive anziché dall'universo che ci consente di vivere mi riferirò al concetto di "bene comune" proponendo l'esordio di un potenziale dialogo:
Ciao, come va?
Abbastanza bene grazie, e tu?
Beh insomma, non proprio bene, ma si tira avanti.
Deducendo un pur vago concetto di bene da quel banale incontrarsi tra due persone si potrebbe anche vedere il "bene comune", quasi in antitesi con il "bene supremo", come una formula più semplice che evidenzia un tacito e semplice auspicio a volersi (o doversi) affrancare dalla sofferenza, dal dolore. "Bene" inteso quindi come distanza dal male.
Bene, dirò che se io non fossi sofferente di qualcosa (necessità) non mi perderei certo a dialogare di problemi antropo-filosofici. Il nostro linguaggio e i nostri comportamenti sarebbero naturali perché non si sarebbero mai smarcati, nonostante la produzione di artifici come l'intelligenza artificiale, da questo bisogno dell'individuo di schivare tutto ciò che potenzialmente può provocare il suo male, bisogno che si manifesta anche in una forma di dipendenza nei confronti della nostra tecnologia; al punto che sarebbe lecito supporre che le macchine ci modificano allo stesso modo che l'eroina modifica colui che ne resta agganciato quando non sia in grado di permettersi economicamente il suo vizio. Dipendenza tecnologica che però si esplica, almeno nel caso umano, tanto come attrazione quanto come repulsione nei confronti del prodotto tecnologico. Per inciso, tale condizione di "sudditanza" varrebbe pure per tutti i viventi, essendo che per vivere costoro abbisognano di tecniche di vita. In realtà, più che "essenti", i viventi sarebbero "conoscenti". Purtroppo però sembra che questi individui, umani compresi, non riescano a criticare i propri artifici abboccando invece all'immediata utilità di questi senza poter rendersi conto di possibili ritorsioni verso sé stessi o verso le eventuali società in cui vivono. E qualora un bel giorno se ne rendessero conto, l'abitudine radicata sarebbe di difficile gestione, pure se possibile con una buona motivazione e sforzo.
Per questo motivo i nostri discorsi, non intendo solo qui nel forum, almeno nei temi che possano avere rilevanza etica, sarebbero innanzitutto politici, dato che sottinderebbero comunque un'etica e un senso di giustizia che sarebbe a mio vedere in primo luogo confezionato su misura per sé stessi.
Parlare dunque di artificiale non sapendo bene su quale base abbia senso parlarne, significherebbe oggigiorno lasciare etica e giustizia tra le mani di un selvaggio arbitrio da saloon che ci offre quel che si vede, ovvero l'arbitrio dei professionisti, in particolare, di lobbisti, politici, giornalisti, capitalisti e infine dell'elite accademica. E state sicuri che il loro arbitrare include senz'ombra di dubbio un conflitto di interessi, essendo appunto professionisti. Chiaro sarebbe, da un punto di vista personale, cioè dal punto di vista di un "contemplativo", di uno abbastanza disinteressato allo sviluppo tecnologico, scienza medica a parte, chiaro sarebbe appunto che io prendo quello che passa il convento, ma voi che tanto decantate l'intelligenza umana sostenendo pure che di meglio non si può fare, non venite a raccontarmi che tutto quello che mi circonda sia frutto di una ragione che funziona bene, essendo per me solo il frutto di prepotenza linguistica (vedi l'arte di ottenere ragione).
Concludendo, torno all'arcaica società sul tema specifico della lingua citando quanto già detto in tema di linguaggio ancora il mese scorso:
"Se si vuole parlare di tecnica delle parole bisognerebbe distinguere le due classi di sostantivi che agiscono nella nostra lingua: quelli che possiedono un referente "là fuori ", la struttura, e quelli la cui referenza si riferisce all'esistenza della prima classe di sostantivi, la sovrastruttura".
Per quanto citato, sosterrei quindi l'idea del naturale superporsi delle conoscenze, tanto per la materia quanto per i sostantivi indotti. Cioè, l'invenzione di un martello o di un bulino, tanto per dire, e la tecnica per farli, avrebbe decretato prima o poi pure l'esistenza di fabbri e/o forgiatori di lame, i quali però non corrispondevano certo con gli inventori di tali arnesi; così come non avrebbero corrisposto, tempo passando, con coloro che tali arnesi avrebbero usati. Questo per dire che l'esistenza del fabbro si fonda sull'esistenza del martello, la quale si fonda sull'esistenza del suo inventore; l'esistenza dell'opera di quest'ultimo si deve ancora al fondarsi da parte dell'inventore sull'esistenza di cose che in modo casuale (casualità da intendersi come possibile realizzazione di un segnale dall'ambiente) gli suggerirono la costruzione di tale artefatto per un fine a lui idoneo