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Messaggi - davintro

#346
ringrazio tutti per gli immeritati apprezzamenti sul mio "stile"! Aggiungo, traendo spunto da alcune osservazioni di Phil, alcune precisazioni riguardo il problema del rapporto soggetto-oggetto. Se è vero che il sogno è un parto della mia mente, non lo è però nel senso dell'Io o del "soggetto", come l'ho inteso nel mio messaggio precedente. Più che di "mente" sarebbe meglio parlare in questo caso di "psiche". La fonte dei sogni è l'interiorità, ma non nel senso dell'Io puro, da cui scaturiscono gli atti intenzionali che sono davvero espressione della mia libera attività di soggetto, come l'immaginazione, i cui contenuti sono davvero prodotti liberamente dall'Io (voglio liberamente visualizzare mentalmente una cascata di cioccolata liquida, e la mia immaginazione si attiva in questo senso, anche se in una qualità di esperienza vissuta distinta da quella delle percezioni ordinarie). Non è questo il caso dei sogni, non c'è alcun volontario sforzo cosciente  e libero del mio Io nel decidere cosa sognare e cosa no (altrimenti non dovrebbero esistere gli incubi, tranne che per un'elite di coraggiosi interessata a sperimentare in modo così personale e reale le stesse sensazioni di orrore e angoscia che la maggior parte delle persone si limiterebbero a ricercare guardando film horror...), dunque i sogni provengono sì da un'interiorità che in quanto li determina si pone nei loro confronti come causa attiva, ma non dall'Io puro, per come lo intendevo quando parlavo di una sua passività nei confronti delle sensazioni, cioè l'Io come unità degli atti intenzionali attraversati dalla luce della coscienza, per l'intenderci l'Io riferito al cogito cartesiano, all'Io penso kantiano, al trascendentale fenomenologico. L'io inteso così apprende i contenuti onirici sullo stesso piano di passività dei contenuti sensibili ricavati dall'urto delle cose fisiche del mondo esterno sul nostro corpo, proprio perché così come reali e trascendenti rispetto l'Io sono le cose fisiche che attivamente ("attivamente" però in un senso indiretto) producono gli stimoli sensitivi, reale e trascendente è anche l'energia inconscia, anche se interiore, che origina i sogni, che l'Io subisce passivamente. I sogni non sono reali, ma reali sono le dinamiche inconsce che li determinano dal profondo. Questo punto fondamentale può venir frainteso nel momento in cui si fa coincidere, erroneamente, la polarità Io soggettivo-realtà oggettiva con quella interiorità-esteriorità: la realtà oggettiva non si esaurisce nel mondo esterno fisico, ma comprende anche l'energia psichica interiore al soggetto. Esiste un'oggettività esteriore ma anche una oggettività interiore, e così come l'Io riceve passivamente dalla prima i contenuti della sensazione, riceva passivamente dalla seconda i contenuti onirici, così come la passività della sensazione mostra l'esistenza di una realtà esterna, la passività dei sogni mostra quella interiore e psichica. Questo perché l'Io puro, cioè l'Io inteso come puro soggetto IN QUANTO SOGGETTO, non esiste, è un'astrazione concettuale, anche se fondamentale a livello di metodologia della ricerca epistemologica, l'Io acquisisce esistenza concreta spogliandosi della sua connotazione puramente soggettivista e astratta per considerarsi come Io empirico, cioè dotato di una determinata psiche, determinata energia vitale, determinata personalità, determinati sogni. Ma in questo modo l'Io rinuncia anche  a sentirsi del tutto "padrone a casa sua", deve accettare l'esistenza di un "fondo" oggettivo, di una trascendenza nella sua interiorità che sfugge al dominio della sua volontà cosciente... in pratica guadagna la concretezza esistenziale, a costo però di rinunciare alla sua onnipotenza di Soggetto nei confronti di se stesso, accettando quel margine di passività non solo riguardo a ciò che è fuori di sì ma anche dentro di sé.


Proprio perché la bellezza è negli occhi di chi guarda che in assenza di una coscienza soggettiva dotata di senso estetico, la bellezza della cosa oggettiva non avrebbe alcun senso, perché non potrebbe procurare alcun sentimento di piacere a chi, sulla base di autonomi criteri sarebbe capace di riconoscerla in essa. Penso che i criteri di bellezza siano soggettivi, eppure questo non esclude che anche nel caso della formazione dei sentimenti estetici non si possa riconoscere un certo margine di passività, cioè di autonomia della realtà oggettiva nei confronti dell'arbitrio dell'Io. Posso essere io a stabilire i criteri di valutazione di ciò che reputo bello o brutto, ma, una volta posti tali criteri, non sono io a stabilire che una determinata cosa che cade sotto il mio sguardo rientri o no nei criteri, l'applicazione dei criteri soggettivi presuppone sempre il riconoscimento di un contenuto materiale dotato di proprietà intrinseche, in base a cui la cosa può essere giudicata più o meno bella. E non posso forzare la cosa ad aderire o meno a questi criteri, il sentimento della bellezza non si svilupperà in assenza di una passiva ricezione delle qualità oggettive delle cose, adeguate ai miei criteri estetici: i criteri soggettivi sono la forma del sentimento estetico della bellezza, ma il materiale su cui applicarsi è sempre ricevuto passivamente da un'oggettività autonoma, sulla base della passività della sensazione. Ma se nel caso della bellezza la passività, la dipendenza dall'Oggetto, consiste solo nella sensazione delle proprietà fisiche della cosa da giudicare, soggettivamente, bella o brutta, nel caso della formazione di emozioni correlate all'esperienza di oggetti fisici, come la malinconia suscitata dalla visione di un tramonto o la serenità suggerita dalla visione di un verde parco alberato, l'autonomia dell'Oggetto sembra ancora più forte, la ricezione passiva sembra non solo limitarsi alla ricezione di stimoli fisici, ma all'avvertimento di una sorta di "spirito" negli oggetti, che tramite una comunicazione simbolica costituita da forme, colori, contesti ambientali, sembra intervenire sul nostro stato d'animo che riceve passivamente questi stimoli. Ovviamente in questa dinamica sono presenti fattori di proiezione del soggetto sulla cosa sulla base di schemi di associazione simbolica legata a schemi culturali convenzionali, eppure sembra esserci una sorta di legame naturale tra alcuni aspetti estetici delle cose con degli stimoli non solo fisici ma coinvolgenti la psiche, che la psiche non decide arbitrariamente di determinare in se stessa, ma riceve sulla base di un reale influsso proveniente dagli oggetti. Non sono io a "decidere" volontariamente di provare malinconia di fronte al tramonto o serenità in mezzo al parco, sono emozioni che ricevo mio malgrado a partire dall'apprensione di un materiale oggettivo che presenta aspetti corrispondenti in una certa necessità alle emozioni che provo, esistono dei nessi oggettivi, non del tutto convenzionali che legano il tramonto del sole alla malinconia (la fine del giorno come fine delle cose della vita), la quiete alle caratteristiche cromatiche del verde, l'impetuosità e la violenza al rosso ecc., e questo margine di non-convenzionalità fissa il carattere di autonomia degli oggetti, che ci comunicano degli stimoli da apprendere con una certa passività da parte nostra.
#347
se si intende "soggetto" come singolo individuo, penso dovremmo ammetterne l'esistenza indipendentemente dal pensiero del soggetto, in quanto la prima forma di esperienza del mondo per noi è un vissuto passivo come la sensazione, che costituisce il materiale grezzo che le cose impongono alle nostre strutture mentali. Se fosse il mio Io la condizione di esistenza delle cose, allora sarebbero, per così dire, in mio possesso, avrei un totale dominio su di esse, e la mia volontà potrebbe decidere i contenuti da percepire, mentre in realtà gli stimoli della sensazione sono passivamente recepiti, sono qualcosa che spingono la concentrazione dell'Io (suo malgrado) a orientarsi in direzione del luogo fisico da cui si diramano, e gli schemi associativi in base a cui l'Io interpreta i dati della sensazioni trasformandoli in unità percettive di determinate specie di oggetti, non sono mai fissati in una soggettività mentale che possa pretendere di essere assoluta e di agire arbitrariamente su un materiale oggettivo indifferenziato, ma sono costantemente modificati sulla base degli stimoli sensitivi che via via le cose ci inviano: in sintesi: gli schemi percettivi con cui organizziamo il materiale della sensazione (soggettività) è costantemente ristrutturato e modificato sulla base del materiale stesso (oggettività), cosicché l'oggettività può rivendicare una propria autonomia, nell'incidere sull'attività mentale del soggetto, rendendone possibile l'attività stessa, e questo incidere è una causalità di una esistenza effettivamente distinta e autonoma rispetto a ciò su cui si applica. Questo dal punto vista della pura esistenza, intesa come ciò che avrebbe questo potere causale di determinare le possibilità di una esperienza, diverso l'aspetto del complesso delle proprietà che caratterizzano la realtà, e che, in quanto conoscibili, mostrano una sorta di corrispondenza con le categorie con cui la mente le interpreta. Senza la passività della sensazione non ci sarebbe alcuna esperienza, ma d'altro lato, la conoscenza presuppone che il soggetto conoscente possieda in sé le forme universali dei concetti in base a cui formuliamo giudizi sulle cose, in definitiva in base a cui le cose hanno un significato. Se i singoli oggetti sono responsabili, tramite il contatto con i campi sensoriali del nostro corpo, dalla apprensione del materiale dell'esperienza, l'attribuzione di un carattere di universalità dei concetti con cui organizziamo il materiale e formuliamo giudizi su di esso è reso possibile dalla struttura intrinseca della soggettività, non derivata dal puro contatto fisico con le cose, e ciò rende possibile quel margine di libera attività del soggetto che attribuisce senso e valore al mondo. Si potrebbe sintetizzare dicendo che in assenza di una mente conoscente e valutante l'esistenza delle cose sarebbe conservata, ma smarrirebbe il suo senso, che è sempre dato dalla relazione con una mente dotata di categorie di giudizio che vengono utilizzate nelle valutazioni su tali cose. Anche la cosa più oggettivamente bella in natura, che significato avrebbe in assenza di una coscienza soggettiva dotata di un gusto estetico tale da poter godere di quella bellezza? Resterebbe una fattualità insensata, una bellezza oggettiva di cui nessuno può goderne, quindi un mero fatto autoreferenziale e astratto. Questo varrebbe in primo luogo per le bellezze artistiche che sono la diretta espressione dello spirito estetico umano, ma in fondo anche per le bellezze naturali come un paesaggio di montagna, la cui bellezza sembra essere sempre in fondo legata a categorie legate a un nesso con l'essere umano: il tramonto affascina perché ci comunica un senso di malinconia, tipico vissuto del soggetto umano che lo osserva, la quercia è bella perché "maestosa" ed "elegante", quindi associata a regalità e nobiltà, tutte categorie della società umana, ecc.
#348
Tematiche Filosofiche / Re:Kant e il Principio.
14 Luglio 2018, 16:05:09 PM
un modello gnoseologico come quello kantiano, che pone il materiale fenomenico sensibile come limite della scienza mi pare debba coerentemente escludere il problema della determinazione di un "Principio", inteso nell'accezione di un ente come Causa prima esplicativa del reale, in quanto la sua individuazione sarebbe impossibile da circoscrivere in un determinato spazio-tempo, cioè all'interno delle categorie estetiche, che sono per Kant la necessaria porta d'ingresso di ogni materiale organizzabile scientificamente, essendo questa Causa Prima qualcosa di trascendente ogni tempo e ogni spazio. Eppure la questione potrebbe complicarsi nel momento in cui si ipotizza come la nozione di "princìpio" possa assumere un significato non riducibile a quello di "causa prima", quantomeno nell'accezione aristotelica di "causa efficiente", che è quella con cui più comunemente viene a identificarsi (e a confondersi) l'idea di causa in generale. Inteso come "causa prima efficiente" il Principio verrebbe a porsi come forza producente ogni forma di divenire, cioè il mondo di cui abbiamo esperienza spaziotemporale, non soggetto esso stesso a "divenire". Ma forse, accanto a questa connotazione, è possibile  pensare a un significato alternativo del "principio": non intenderlo come riferibile a una sostanza che come causa efficiente produce il divenire della realtà di cui abbiamo esperienza fenomenica-sensibile, ma come un complesso di norme che strutturano l'attività della coscienza soggettiva che fa esperienza del mondo. L'individuazione kantiana della struttura apriori della conoscenza può essere visto come " individuazione di princìpi", anche se non riferito alla spiegazione naturalistica del mondo esterno, ma alle condizioni trascendentali, cioè necessarie e universali, della conoscenza. Per capire come,il trasferimento dell'analisi dei fondamenti, dal mondo esterno, alla mente soggettiva (la cosiddetta "rivoluzione copernicana") possa preservare l'ideale filosofico della "ricerca dei "princìpi", anche se in un senso modificato, bisogna risalire alla distinzione essenza-esistenza. Il trasferimento dell'analisi dei princìpi dall'oggetto al soggetto sospendendo la pretesa di una ingenua corrispondenza dei fenomeni soggettivi con delle esistenze indipendenti dal nostro pensiero, sospende la questione dell'esistenza delle cose ma ne lascia l'evidenza dell'essenza: l'esistenza degli oggetti è in fondo un'accidentalità rispetto alle loro idee. Ciò che specifica e definisce la qualità di una cosa non è il fatto della loro esistenza. Se anche l'albero del mio giardino non esistesse non per questo muterebbe la sua essenza, ciò che lo specifica come "albero" e che ci permette di definirlo come tale, ciò in base a cui giudichiamo di avere di fronte a noi un albero quando ne abbiamo una percezione. Ora, mentre l'esistenza trascendente di tale albero può essere messa in dubbio nell'ipotesi per chi lo vede di essere vittima di un'allucinazione, non si può mettere in dubbio il vissuto immanente alla mia coscienza dell'albero, che resta tale a prescindere dall'effettiva realtà dell'albero nel mondo esterno, l'idea dell'albero che nel mio vissuto coscienziale riconosco consiste dunque nell'essenza della cosa. Dunque intendendo come "princìpi" ciò che delle cose resta tale indipendentemente da ogni accidentalità o contingenza empirica, la loro dimensione di apriorità, proprio la considerazione delle cose come fenomeni a una coscienza (non la mia singola coscienza empirica, ma una coscienza nella sua struttura trascendentale) permette di disverlarli, di individuare leggi di rapporto essenziali e universalmente valide, perché slegate dalla considerazione della loro esistenza di fatto (che può esserci come non esserci). Inoltre, in questo modo di considerare i princìpi non sarebbe necessario nemmeno rompere del tutto il riferimento alla causalità. I princìpi, intesi come essenze del contenuto dei vissuti coscienti non sarebbero più certamente da vedersi come Cause prime EFFICIENTI, che producono l'esistenza delle realtà ad esse corrispondenti (a meno di non accettare una sorta di "idealismo magico" che vede il pensiero umano creare tramite un'energia mentale la realtà degli oggetti che pensa, come se io avessi la possibilità di creare la realtà effettiva di un albero dorato tramite l'immagine mentale che posso creare nella mia coscienza), ma resterebbero come cause FORMALI, cioè quel tipo di causalità che individua l'essenza della cosa in questione, l'idea che lo specifica come tale e lo differenzia dall'altra, anche se è un tipo di causalità che comunemente viene meno considerata come "causa", perché la nostra esperienza sempre diacronica del mondo ci condiziona a riconoscere la causa solo come ciò che temporalmente precede i suoi effetti, mentre è chiaro che la causa formale non possiede alcuna priorità temporale sulla cosa a cui si riferisce, ma solo logica, quindi è riconoscibile ad un livello più "astratto" e intellettualistico, ma non per questo meno autentico. Ciò che penso abbia impedito a Kant di giungere a questo tipo di rivalutazione dei princìpi come oggetto della filosofia, e l'essere troppo condizionato dal clima empiristico della sua epoca, e non aver colto questo legame tra fenomeno ed essenza, ponendo questo dualismo tra fenomeno e noumeno come dimensioni gnoseologicamente contrapposte
#349
Carlo Pierini scrive:

"Un oggetto inconoscibile è un non-oggetto, cioè, è un "significante" privo del suo "significato". Affermare che l' "oggetto in sé" è inconoscibile e che, invece, il "fenomeno" è conoscibile significa giocare con le parole, perché anche il fenomeno è un oggetto della conoscenza, quindi, con lo stesso gioco della minchia, potremmo dire che <<è conoscibile il fenomeno, ma non il "fenomeno in sé">>, infilandoci così in un circolo vizioso nel quale alla fine scopriamo che NULLA è conoscibile e che NULLA può essere considerato "verità", nemmeno la filosofia di Kant."

"Se si avesse UN MINIMO di buon senso, si capirebbe che, se è impossibile conoscere "l'oggetto in sé", sarà A MAGGIOR RAGIONE impossibile conoscere "in sé" <<il nostro modo di conoscere gli oggetti>>.
Solo delle seghe di filosofi come Kant non si rendono conto che predicando dei limiti DI PRINCIPIO alla conoscenza e alla verità si pongono GLI STESSI limiti alla verità di ciò che si predica, cioè, che si taglia il ramo su cui si è seduti. "





Al di là dell'uso di alcuni toni, mi pare di poter condividere il senso fondamentale di questi passi, che sembrano avvicinarsi a quelle che sono anche le mie perplessità sulla gnoseologia kantiana. Il dualismo, gnoseologicamente impostato, tra una sfera di fenomeni (conoscibili) e una noumenica (inconoscibile), rende impossibile qualunque tipo di scienza, compresa la scienza della critica stessa, perché ciò che differenzia la scienza dalla mera opinione consiste proprio nella garanzia razionale della corrispondenza tra la tesi soggettiva e la realtà oggettiva, indipendentemente dal nostro pensiero, garanzia che caratterizza la scienza, in contrasto con la mera opinione, che non ha argomenti per garantire tale corrispondenza, e la presunzione di verità resta puramente arbitraria. Ora, ridurre il piano della conoscibilità e della scienza ai "fenomeni" vuol dire negarsi le basi per la possibilità di qualunque scienza, in quanto i fenomeni, in quanto tali, sono sempre manifestazioni ad una certa coscienza individuale, apparenze che non necessariamente corrispondono a una realtà oggettiva, e la mancata garanzia razionale della corrispondenza fra apparenze soggettive e realtà oggettive, non può che condurre a esiti teoretici solipsisti o scettici in quanto manca la possibilità di notare come i fenomeni coscienziali soggettivi rimandino a una realtà oggettiva trascendente rispetto a noi stessi, proprio perché il complesso dei fenomeni sarebbe intrascendibile dal punto di vista della ragione (al massimo solo per un atto di fede o in virtù di alcune esigenze morali). Eppure la critica kantiana è un impegno teoretico che si è presentato a tutti gli effetti come "scienza", costituita da una serie di affermazioni il cui portato di verità è stato presentato come oggettivo e razionale, cioè indipendente dall'arbitrarietà delle opinioni soggettive. Kant ha potuto sostenere le sue tesi perché convinto di aver oggettivamente ragione, che le sue idee non fossero solo apparenze, ma adeguate alla realtà delle cose, quindi le sue pretese implicano necessariamente un trascendimento dei fenomeni , cioè delle apparenze, come unico riferimento della scienza, ed è qui la sua implicita contraddizione. Perché le tesi della critica siano legittimate a essere valide dal punto di vista della verità è stato necessario rompere l'equivoca ed errata identificazione tra "oggettività" ed "esteriorità", e questo, a mio avviso è stato il grande merito di Kant (anche se già ampiamente preparato dalla svolta moderna del dubbio metodico e dal primato metodologico del cogito cartesiano). Nell'individuare come compito della critica l'individuazione delle strutture necessarie e apriori della conoscenza, egli ha riconosciuto un piano di oggettività non coincidente con l'oggettività naturalistica della realtà fisica dell'esperienza esteriore (a cui invece si ferma il realismo ingenuo che pretende in modo induttivo di far coincidere necessariamente le percezioni sensibili con le cose stesse fidando di una certa costanza quantitativa di ciò che le percezioni mostrerebbero come "reale fuori di noi"), bensì con la dimensione interna della mente, dei suoi meccanismi conoscitivi, ha trattato la questione della soggettività pur considerandola non soggettivisticamente, ma in un punto di vista oggettivo, scientifico. La sua critica non implica l'annullamento della cosa in sé" come conoscibile, solo il suo trasferimento tematico dal mondo esterno, fisico, a quello mentale, interno. Ma, sia che tematizzi il mondo esterno o quello interno, in ogni caso la scienza necessita di mostrare, argomentando, la corrispondenza fra i fenomeni e le "cose stesse", anche se queste non sono cose fisiche ma giudizi e categorie dell'intelletto e dell'estetica. Trovo in fondo un'ovvietà che ogni conoscenza non possa evitare di basarsi su fenomeni, che necessiti che le cose si manifestino a una coscienza, il problema da porsi è se questi fenomeni restino fermi in se stessi o siano in grado di rispecchiare qualcosa che "fenomeno" non è, ossia le cose nella loro oggettività, il cui manifestarsi a una certa coscienza non è un tratto essenziale del loro essere. Insomma, se la premessa da cui partire è " non possiamo conoscere che fenomeni" allora nessuna scienza, compresa la scienza della critica, è possibile, perché avrebbe a che fare solo con apparenze soggettive, senza la possibilità di individuare una corrispondenza fra tali apparenze soggettive "fenomeni" e le cose stesse,  cioè di formulare un qualsivoglia giudizio vero , vero non solo per me. Infatti dei due termini del confronto fra fenomeni o apparenze soggettive e cose stesse o realtà oggettive, potremmo conoscere solo il primo, e dunque il raffronto, la verifica della corrispondenza sarebbe impossibile. L'esito inevitabile è lo scetticismo più estremo Se invece la premessa è "non possiamo conoscere che TRAMITE i fenomeni" allora la possibilità di una scienza, quindi anche della legittimazione razionale della critica kantiana, si riapre. La sfera dei fenomeni non esaurirebbe in sé il complesso del "conoscibile", chiusa in se stessa, ma presenterebbe un certo carattere di dinamicità, nella capacità di rimandare a qualcosa di altro da sé, cioè la realtà oggettiva, che i fenomeni potrebbero adeguatamente a rispecchiare. Quel "TRAMITE" da un lato rende ragione di una relazione fra fenomeno e cosa oggettiva, che eviti ogni dogmatismo che pretenda di fare affermazioni sulla realtà oggettiva senza rendere conto delle forme con cui tale realtà si manifesterebbe alla sua esperienza, rendendosi, appunto, fenomeni, ma dall'altro rompe l'identità fra "fenomeno" e conoscibile", preservando un certo margine di distanza fra i due ambiti, che la razionalità può attraversare passando dall'uno all'altro (questo attraversamento della razionalità è penso ciò che la fenomenologia definirà come "intenzionalità", questa spinta dinamica della coscienza ad andare al di là della propria immanenza attribuendo senso a un mondo oggettivo, aprendosi così ad esso), partendo dalla ricezione dei fenomeni, ma non più fermandosi ad una pura ricezione passiva e indifferenziata, ma attivandosi cercando di interpretandoli, mirando a valutarne il livello di rispecchiamento con le cose stesse, sulla base dei propri criteri fondamentali logici di verità. I fenomeni resterebbero l'indispensabile punto di partenza della conoscenza, ma non più il suo necessario sbocco conclusivo
#350
Per Sgiombo

 

Sono d'accordo sul fatto di non dover considerare le categorie a priori nella mente come reali di fatto, ciò che sostengo è che, anche se consistenti in enti non fattuali ma concettuali, sono comunque, evidentemente, oggetto di una conoscenza (altrimenti come potrebbe la critica kantiana accorgersi della loro presenza come strutture costitutive e necessarie della mente umana?), ma dovrà essere di un tipo di conoscenza diverso da quello sufficiente a ricevere i fenomeni degli oggetti sensibili, cioè dovrà fondarsi su un'intuizione intellettuale, appropriata a cogliere delle strutture e giudizi riconoscibili come validi aprioristicamente e universali. E questo tipo di conoscenza dovrà essere considerata "scienza" a tutti gli effetti, altrimenti la critica stessa, oggettivante questo nucleo aprioristico, dovrebbe negarsi come "scienza", per legittimare se stessa dunque dovrà allargare il campo della "scienza" al di là del campo ristretto del materiale consistente solo in fenomeni sensibili, riconducibili alle categorie estetiche di "spazio" e "tempo", cioè empirici. Insomma nel momento in cui Kant parla di "apriori", "trascendentale" questi concetti non possono più solo essere "forme", "funzioni", ma a tutti gli effetti "materia", "oggetto" di una specifica scienza, cioè la scienza critica, senza per forza bisogno di associarli a realtà fattuali o sostanziali. Del resto se si condivide l'assunto che qualunque cosa per essere conosciuta debba essere oggetto immanente di vissuti coscienti, indipendentemente dall'associarli a fatti reali (ed è per questo che dell'ippogrifo possiamo averne una conoscenza, cioè possiamo averne una rappresentazione e porlo come soggetto di giudizi anche consapevoli della non corrispondenza del concetto con un'esistenza fattuale), allora non vedo il problema di sostenere l'idea di una conoscenza, una scienza, oggettivante una sfera intelligibile, noumenica, identificabile con il complesso delle strutture necessarie, trascendentali della mente umana, senza per forza pretendere che tale sfera sia proiettabile come esistenza fuori dalla nostra mente, considerata come "realtà" o "sostanza"

 

 

I fenomeni intesi come "essenza" vanno visti come il residuo della messa tra parentesi di tutti gli aspetti del fenomeno, contingenti, cioè relativi alla condizione individuale del singolo soggetto che ne fa esperienza. Ciò che resta dopo la riduzione è ciò che del fenomeno resta tale indipendentemente dalle circostanze particolari, il nucleo costantemente e necessariamente presente in ogni sua possibile manifestazione empirica che accade in una certa coscienza individuale, un nucleo che vale per ogni individualità possibile. Così si passa dal soggetto empirico, questo singolo Io individuale con certe particolari proprietà, al soggetto trascendentale, il complesso delle strutture necessarie e fondamentali di ogni coscienza, del resto lo stesso ambito che Kant, a suo modo, ha provato a individuare nella sua critica. Questo "fenomeno-essenza", certamente, è un'astrazione, un concetto, non esistono autonomamente nella nostra realtà psichica, ma solo come comprendenti le determinazioni particolari inerenti le individualità, cioè nessuno concretamente ricorda il "ricordo in sé", l'essenza del ricordo, ma i SUOI ricordi, legati alla propria storia individuale. Eppure per un altro aspetto queste essenze non sono in assoluto astrazioni, ma possono essere considerate come "concrete" perché consistono nel senso generale che specifica una certa serie di fenomeni distinguendola dalle altre, un senso che riconosciamo come qualità dell'esperienza vissuta, che se non fosse esperita non potrebbe permettere di distinguere una specie di fenomeni dalle altre, e conseguentemente anche poterla definire in un certo modo. Nessuno ricorda il "ricordo in sé" in forma pura e autonoma, ma ci rendiamo conto di un senso, che ci consente di riconoscere il nostro particolare ricordo come appunto un "ricordo", e non una percezione presente o un aspettativa futura, dunque abbiamo un'intuizione intellettuale dell'essenza del fenomeno "ricordo", non realmente psichica a tutti gli effetti, perché psichicamente abbiamo esperienza di un particolare ricordo, ma comunque come qualità esperibile, quindi a suo modo concreta, in base a cui possiamo avere una nozione dell'idea di ricordo in generale.

 

 

Ricambio volentieri il saluto di Oxdeadbeef, e sottolineo come la fenomenologia, anche se da me studiata in alcuni suoi aspetti e "parti", mantiene anche per me molte zone d'ombre, pur non considerandomi un esperto la trovo comunque un filone di pensiero estremamente costruttivo per la riproposizione di un discorso filosofico realmente forte e razionalmente rigoroso, in contrapposizione con certe derive disfattiste nichiliste, oppure ingenuamente scientiste, purtroppo molto presenti nel panorama contemporaneo. Certamente, sarà un piacere discuterne, anche in altre discussioni
#351
Per Sgiombo

 

Il limite che mi è parso di cogliere nella critica kantiana non è il non aver sostanzializzato le categorie dell'intelletto ( anzi ritengo che la sostanzializzazione cartesiana del cogito come "res cogitans", "anima" sia stato un errore che ha condotto a un'antropologia eccessivamente dualista circa il rapporto spirito-materia), ma il non aver considerato le forme trascendentali dell'intelletto dal punto di vista di una "materia", nel senso di un contenuto specifico di un certo tipo di conoscenza che è quella su cui la critica dovrebbe far leva. Un tipo di conoscenza che per essere adeguato alla natura di questi contenuti, riconosciuti come universali e intelligibili, dovrebbe consistere in un tipo di intuizione diversa da quella disposta a ricevere il materiale sensibile empirico, cioè un'intuizione intellettuale che colga un contenuto a sua volta intelligibile e costitutivo di strutture mentali operanti al di là delle circostanze empiriche in cui l'uomo si trova storicamente a esistere. Cioè non dico affatto che Kant avrebbe dovuto considerare le categorie apriori come delle realtà in sé, trascendenti la mente, sostanzializzandole, ma che una critica capace di individuare la presenza nella mente di tali categorie avrebbe dovuto implicare l'ammettere all'interno del conoscibile, non solo i fenomeni sensibili, ma anche quelli intelligibili, il noumeno, liberando il piano dell'ideale e dell'intelligibile (il modo d'essere dell'apriori) dall'inconoscibilità e dall'indeterminazione, allargando così l'ambito delle possibilità della conoscenza scientifica (a meno di non dover concludere che la critica è capace di delimitare il campo della scienza senza essere essa stessa scienza, perché renderebbe conto di qualcosa di non-empirico e dunque al di fuori dei limiti che essa stessa impone alla scienza, ma sarebbe una conclusione abbastanza assurda e paradossale, una critica che dovrebbe ammettere di essere dogmatica)

 

 

Il messaggio sulle essenze nella fenomenologia come fenomeni di una coscienza voleva essere una replica rispetto all'idea di vedere la coincidenza fenomeno-essenza come tipica di un idealismo in cui la verità assoluta finisce con l'essere prodotto del pensiero di un singolo individuo, che confonde il suo punto di vista particolare con la realtà oggettiva. Volevo far notare l'equivoco che può nascere nell'intendere come "essenza" qualcosa di effettivamente reale. Su questo presupposto sarebbe corretto concludere che se l'essenza coincide con i fenomeni, allora la realtà coincide con l'idea che la coscienza ne ha (idealismo). Ma se si comprende che l "essenza" non è la fattualità, ma il residuo della "cosa" dopo che la riduzione fenomenologica ha sospeso il giudizio riguardo l'esistenza o meno della cosa, allora è chiaro che l'essenza della cosa coincida proprio col darsi come fenomeno, contenuto della mia esperienza cosciente, l'idea al di là del suo esistere in un certo contesto al di fuori di me. Distinta l'essenza dall'esistenza non ha più senso la pretesa di identificare i fenomeni della coscienza con una realtà oggettivamente esistente. Stabilire che la realtà esista o meno come dipendente dal pensiero vorrebbe dire restare ancora nell'ambito del problema dell'esistenza, mentre se fenomenologicamente mi limito a sostenere che il metodo per una conoscenza il più possibile rigorosa si basa sull'analisi del senso dei fenomeni della coscienza non sto dicendo nulla sul fatto che la realtà fuori di me esista come indipendente dal mio pensiero, quindi l'accusa di idealismo e solipsismo non è appropriata. Posso decidere metodologicamente di impostare una filosofia come descrizione essenziali dei fenomeni della mia coscienza senza ritenere che la realtà fuori di me non esista, o se esiste debba coincidere con questi fenomeni. Sono due ordini di problemi distinti e non sovrapponibili
#352
Citazione di: 0xdeadbeef il 01 Luglio 2018, 10:45:59 AM
Citazione di: Carlo Pierini il 01 Luglio 2018, 02:42:15 AMOXDEADBEEF Curioso. Per me il "noumeno" è l'equivalente dell'"evento" semiotico, del "primum assoluto" o "oggetto primo" che dir si voglia". Da un certo punto di vista direi, anzi, che la semiotica poco o nulla aggiunge alla filosofia di Kant. Voglio dire, che c'entra l'idea platonica? CARLO L'idea platonica è "l'oggetto primo", il "primum" assoluto, l'"evento semiotico"; cioè, è il "noumenon". Quindi c'entra! OXDEADBEEF La "cosa in sè" è il non (ancora) interpretato; l'oggetto che non dipende dall'osservatore (tanto per parafrasare il Principio di Heisemberg); è una cosa materiale, e non è affatto associabile al trascendente. CARLO E' proprio ciò che ho scritto io: la cosa non è associabile al trascendente. E la "cosa in sé" è un concetto privo di senso, perché la conoscenza è la conoscenza della cosa fenomenica, non della "cosa in sé", che non vuol dir nulla. <> è un elemento di conoscenza che ha rivoluzionato la cultura umana senza alcuna necessità di ricorrere a puttanate come la "Terra in sé", o il "Sole in sé" o il "girare in sé". E questo vale per TUTTE le altre migliaia e migliaia di cose o fenomeni che sono entrati a far parte della conoscenza. Esso, cioè, è solo un FALSO CONCETTO, utile solo alla ciarlataneria relativista.
L'idea platonica non è affatto l'oggetto primo della semiotica (o la "cosa in sè" kantiana). Non lo è per il semplice motivo che essa, l'idea platonica, è la sostanza essenziale, l'ideale, il modello unitario che possiamo riscontrare nella molteplicità. Con ogni evidenza non è questo che Kant intende per "cosa in sè". In essa, nella "cosa in sè", non vi è nessun richiamo alla "sostanza", al modello, all'ideale (così come pure ai concetti di unità e di molteplicità intesi in maniera "greca" - in Kant una unità siffatta non è concepita, e la molteplicità è intesa come molteplicità di interpretazioni). Se la "cosa in sè" fosse un concetto privo di senso, come tu affermi, il "fenomeno" assumerebbe, come in Husserl, la connotazione di "essenza". Ma per così dire ancor più a monte, il soggetto diverebbe "creatore", come di fatto avviene nell'Idealismo. Tralascio, almeno per il momento, di approfondire sul quanto queste tesi (di Husserl e dell'Idealismo) siano illogiche, errate, ed anche se vogliamo molto pericolose dal punto di vista morale, in quanto conducono, dritte, ad una concezione "assolutistica" per cui la mia verità è la verità in sè ("la verità è ciò che dico io", rifacendomi ad un mio precedente post su una affermazione di U.Eco). Attenderei, in conclusione, di sentire qualcosa anche sulla "colpa", che tu attribuisci a Kant, di aver provocato una "frattura inconciliabile" fra scienza e fede (per la qual cosa io ti ho rimandato a San Francesco - o all'agostinismo in generale, potrei aggiungere). saluti

uscendo probabilmente per un attimo dal seminato del topic, mi interesserebbe chiarire che secondo me la coincidenza fenomenologica fra essenza e fenomeno non ha a che fare con un idealismo soggettivista per cui la realtà oggettiva diverrebbe una proiezione del pensiero soggettivo, nel quale "la verità per me" finirebbe col coincidere con "la verità in assoluto". Che l'essenza delle cose coincida con il suo darsi come fenomeno a una coscienza non implica che le cose siano un prodotto del pensiero, ma che il loro senso universale, al di là delle particolari determinazioni con cui si esistenziano, può essere colto nel momento in cui non sono più concepiti come "fatti reali", la cui esistenza in un determinato spazio-tempo è solo accidentale, ma come contenuti di un vivere cosciente, che è l'ambito, non nel quale le cose esistono (come sarebbe in un'ottica idealista), ma dove possono essere riconosciute ad un livello pieno di evidenza e necessarietà, facendo leva sul fatto che, mentre i giudizi sull'esistenza delle cose in un'oggettività trascendente possono sempre essere messi in dubbio in base a eventuali disfunzioni delle nostre capacità percettive, l'esperienza cosciente soggettiva delle cose resta un residuo indiscutibile indipendentemente dal fatto che al "fenomeno" nella coscienza coincida una realtà effettivamente esistente nel mondo. Cioè, va distinto il piano metodologico da quello ontologico: metodologicamente la ricerca parte considerando l'evidenza del darsi dei fenomeni a una coscienza che ne fa esperienza, ma all'interno di questa evidenza si cerca di mettere alla luce un modo d'essere degli oggetti correlati agli atti coscienziali che resta tale al di là del fatto che se ne abbia esperienza o meno. Se la preservazione dell'autonomia dell'oggettivo cadesse in questa prospettiva non avrebbe senso il lavoro dell' epochè, nel quale il soggetto mira a eliminare tutta la serie di pregiudizi e filtri legata alla sua condizione storica per lasciare trasparire il senso dei fenomeni. Nella "messa tra parentesi" di tutto ciò che lascerebbe l'esperienza nell'arbitrarietà soggettiva è implicito il rispetto dell'autonomia della realtà, da recepire senza proiezioni soggettive. Il riferimento alla coscienza cioè è strumentale a guadagnare una posizione di oggettività più forte, perché è l'ambito nel quale le cose possono manifestarsi nella loro evidenza, mentre il rischio della proiezione soggettivista c'è fintanto che pretendo di associare il mio vissuto a un'esistenza trascendente. Il fenomeno che coincide con l'essenza non è il vissuto che ingenuamente penso di poter far coincidere con una realtà oggettiva, ma è il senso della cosa che lascio risaltare dopo che autocriticamente riconosco l'arbitrareità dei pregiudizi della visione del mondo dovuti alla finitezza e imperfezione del mio essere soggetto empirico
#353
penso che il limite della gnoseologia kantiana sia stato quello di costituirsi come di fatto una troppo rigida dualità fra "forme" con cui l'intelletto ordina e organizza i dati dell'esperienza sensibile, e una materia identificabile con i contenuti dell'esperienza intesa solo dal punto di vista degli oggetti fisici, che cadono primariamente sotto le categorie estetiche di spazio e tempo. Private di una propria specifica materialità, le categorie apriori dell'intelletto, cioè la componente di intelligibilità insita nella nostra mente, dovrebbero limitarsi ad essere "funzioni", ad operare nella loro attività di organizzazione e unificazione dei dati senza poter essere posti come oggetto di uno specifico sapere (di qui la squalifica della metafisica e dell'ontologia come scienza autonoma). Ma a questo punto la riduzione delle categorie presenti a priori nell'intelletto a "funzioni" impossibili da oggettivare dovrebbe limitarsi a spiegare il meccanismo della conoscenza del mondo esterno, ma sarebbe impossibilitata a giustificare le possibilità di una critica della conoscenza, cioè lo schema kantiano potrebbe bene spiegare come si sviluppa il processo conoscitivo, ma non riuscirebbe a rendere conto di sé, della possibilità di oggettivare in una riflessione ad hoc i fondamenti trascendentali dell'intelletto, dato che questi fondamenti essendo, per Kant, solo forme e funzioni, non potrebbero assurgere a materiale e oggetto di uno specifico tipo di intuizione e conoscenza. Come potrebbe Kant accorgersi dell'esistenza di strutture trascendentali se poi sulla base della sua concezione di "conoscenza" questa potrebbe solo ricevere un materiale sensibile, circoscrivibile a "spazio" e "tempo"? Se l'intuizione che fornisce sinteticamente i contenuti della conoscenza poi ordinata dalle "forme" può essere solo di natura sensibile, che tipo di intuizione ha utilizzato Kant per parlare di "apriori", "causalità", "spazio", "tempo", tutto ciò strutturalmente presente nella mente a livello trascendentale, cioè indipendentemente dalle condizioni empiriche di un certo tempo e spazio? E questo limite esplicativo si riflette poi sullo stesso dualismo fenomeno-noumeno: se il noumeno fosse del tutto inconoscibile sarebbe impossibile persino riconoscerne la distinzione rispetto al fenomeno, in quanto ogni riconoscimento di un limite, presuppone sempre una certa, seppur confusa e parziale, rappresentazione di ciò che sta al di là del limite stesso. La riflessione sui limiti della conoscenza sensibile è cioè resa possibile dall'individuazione di un "al di là" intelligibile, e solo in relazione ad esso la conoscenza sensibile può apparirmi come limitata, e quindi concepire una dualità, ma questo "al di là" intelligibile dovrebbe comunque in qualche misura essere oggetto di conoscenza. Altrimenti dovremmo limitarci a ricevere dati sensibili senza la possibilità di intraprendere una critica tesa a delimitare i confini di questo ambito. La mia impressione è che il dualismo fenomeno-noumeno in Kant sia il prodotto di un indebito passaggio dal rilevamento di una dualità tra la cosa come oggetto di esperienze, e la "cosa in sé" posta indipendentemente dal fatto di averne un'esperienza soggettiva, una dualità in un'accezione logica-formale, al rilevamento di una dualità gnoseologica e anche ontologico tra "fenomeno" e "noumeno", non considerando che, un conto è distinguere tra ciò che si può conoscere e ciò che non si può conoscere, un altro tra ciò che una cosa è oggettivamente, e ciò che è relativo a una mente soggettiva che ne fa esperienza. La confusione tra il piano logico (oggettività o inseità della cosa) e piano gnoseologico (inconoscibilità) conduce necessariamente al relativismo e solipsismo in quanto si fa coincidere la "cosa in sé", l'oggettività, con ciò che è al di là del fenomeno e dunque contenuto di un sapere scientifico, condizione da cui Kant spera di trarsene fuori con l'individuazione di una sfera di verità universali, quella dei giudizi sintetici a-priori. Ma l'errore sta nel ritenere che la nozione di "a priori" sia scindibile da quella di noumeno, di poter salvare la prima (come proprietà dei giudizi e delle categorie che si riconoscono nella nostra mente) relegando la seconda nell'ignoto. Perché nel momento in cui, criticamente, riconosco l'esistenza di strutture necessariamente presenti nell'intelletto e conseguentemente ne deduco un ambito di giudizi aprioristicamente veri, mi  sto riferendo a un correlato oggettivo di tale sfera di categorie e giudizi di cui colgo dei caratteri di universalità, cioè di indipendenza rispetto alla contingenza delle esperienze particolari, dunque a un nucleo noumenico, universale, che regge la possibilità di conoscere strutture a loro volta aprioriste, cioè universali, indipendentemente dal fatto che tale universalità non riguardi più il mondo esterno, ma il mondo interiore della nostra soggettività. Insomma, il limite della critica kantiana a mio avviso sta nel delineare un modello di meccanismo conoscitivo parziale, perché strutturalmente incapace di rendere ragione della critica stessa, perché il tipo di conoscenza che la critica utilizza non può essere lo stesso che pone come limite entro cui una scienza è possibile, dato che le strutture a priori dell'intelletto, nel momento in cui le riconosco in me, non possono più essere solo forme e funzioni al servizio di un materiale sensibile-estetico, ma devono essere a loro volta a tutti gli effetti "materia" e "oggetto" di scienza. Manca un momento autoriflessivo, "metacritico" nelle quali l'apriori sia oggetto di una modalità d'apprensione specifica, che non potrebbe che essere una sorta di intuizione intellettuale, autonoma rispetto a quella sensibile (anche se complementare ad essa nel concreto dell'esperienza) adeguata all'intelligibilità delle categorie apriori che la critica scopre, e che dunque renda possibile la critica stessa. Questa mancanza sarà poi un problema che la fenomenologia nel novecento proverà a colmare con il concetto di "intuizione eidetica", tramite cui rendere ragione della struttura universale, cioè essenziale dei fenomeni della coscienza, e risalire alle condizioni originarie dell'esperienza del mondo, riconnettendo il pensiero all' oggettività dell'essere, per superare il relativismo, e dunque recuperare a suo modo un'idea di ontologia, anche se in un'ottica diversa da quelle di tipo classico
#354
per Anthonyi

 

mi spiace per il mio essere prolisso, è che sento sempre il bisogno di mostrare le varie implicazioni di un discorso per renderlo il più possibile chiaro ed esaustivo, oltre che per evitare punti equivoci, che una eccessiva sintesi potrebbe lasciar emergere. Comunque, mi rendo conto, da lettore, delle difficoltà che ci possono effettivamente essere nel seguire un discorso eccessivamente lungo, quindi pur avendo in mente le ragioni del mio "stile", mi viene di scusarmi. Assolutamente, non ho mai inteso una sorta di "obbligo" di lasciare ai propri stretti discendenti l'eredità come un principio liberale, in quanto, essendo il rispetto delle libertà di scelta, di ciascuno il valore primario di ogni liberalismo, compresa la libertà di poter lasciare la propria eredità a chiunque, o addirittura di non lasciarla a nessuno portando le proprie ricchezze nella tomba con sé. Chiarito questo punto si comprende la differenza tra un vincolo familiare che  finisce con l'essere un'imposizione politica e giuridica tipica di un sistema feudale, basato su un'ideologia dogmaticamente familista e la neutralità dello stato liberale che tutela non l'eredità come obbligo, ma come espressione della libera scelta degli individui di relazionarsi tra loro anche dal punto di vista economico

 

 

Per Baylham

 

Non dico che la tassa di successione sia la più illiberale in senso assoluto, ma per uno specifico aspetto. Non lo è dal punto di vista delle conseguenze effettive che determina, bensì da quello delle motivazioni ideologiche per cui alcuni ne sostengono la legittimità etica, vale a dire quello di favorire l'eguaglianza economica dei punti di partenza tra gli individui, come se la realizzazione delle proprie qualità nella società debba necessariamente coincidere con il successo economico. Cioè lo stato dovrebbe promuovere una sorta di ideale meritocratico, però del tutto schiacciato in un'accezione meramente materialista ed economicista del "merito", in nome dunque di criteri meritocratici arbitrari e discutibili, come ho provato ad argomentare nel mio ultimo messaggio. Volevo far notare come nel momento in cui tramite il fisco lo stato interferisce con la vita delle persone non sulla base di motivazioni razionali e oggettive, eticamente neutre, ma sulla base di criteri moralistici soggettivi come una certa accezione ideologica di "merito" si va contro l'idea liberale di stato. Dunque, che le tasse colpiscano i beni delle persone al fine di finanziare servizi pubblici è una necessità che anche un liberale può tranquillamente accettare, mentre un'imposta che colpisce, non una ricchezza, bensì una transazione di denaro, dunque una scelta degli individui, è percepibile come invadente la sfera delle persone a un livello più intimo, quella della loro libertà di gestire i beni personali come meglio ritengono. Una tassa che colpisce una quantità di ricchezza limita la libertà su un piano più indiretto (non interferisce con un'azione ma come una risorsa da utilizzare nell'azione), mentre una tassa che colpisce una transazione va direttamente a sanzionare l'azione stessa, quella di destinare i propri beni ai propri cari, come fosse un comportamento da punire o disincentivare, e in questo modo lo stato si manifesta come "etico", ente che interviene non tanto per una necessità pratica, ma per influenzare e alterare i comportamenti con cui i privati si relazionano a livello familiare-affettivo sulla base di un'idea di giustizia arbitraria, quindi si manifesta in una forma decisamente in contrasto con l'idea di stato liberale, moralmente neutro e rispettoso delle libertà individuali
#355
esiste un piano per così dire "idealistico" in cui la coincidenza tra "assoluto" e "totalità" appare legittima, ed è quello per il quale la caratteristica definitoria del concetto di "assoluto", cioè l'indipendenza, l' essere "sciolto da legami" ben si può attribuire alla "totalità, cioè a ciò che tutto comprende in sé, e oltre il quale c'è il Nulla, dunque nulla di reale che possa influenzare e condizionare la natura di tale totalità. Ma questa prospettiva, seppur logicamente coerente, resta appunto valida ad un livello ancora idealistico e astratto, dato che il concetto di totalità appare come un'universalità ancora astratta e indeterminata, che non tiene conto delle differenze qualitative tra gli enti che concretamente esistono e agiscono all'interno di essa. La "totalità" a mio avviso non può esistere come esistenza a sé stante, ma come solo come concetto, e la sua qualifica come essere assoluto resta su di un piano a sua volta solo concettuale. Possiamo dire che tale visione è quella caratterizzante i modelli ontologici e metafisici di tipi immanentista-panteista, i quali, negando una dualità tra una realtà assoluta e una contingente, vedono l'assoluto solo come insieme delle singole parti, della totalità degli enti, che invece, concepiti ciascuno singolarmente, sarebbero relativi, in quanto costantemente a contatto gli uni con gli altri. In questi modelli, l'Assoluto viene visto come privo di un'esistenza autonoma, finisce di fatto, anche al di là delle esplicite intenzioni di partenza dei loro esponenti,  con l'essere "solo" una forma logica. Ma questa accezione mostra i suoi limiti... perché l'Assoluto sia pienamente e concretamente "sciolto dai legami", autosufficiente, non basta che sia la totalità degli enti, in quanto ogni totalità, per quanto organica e non riducibile a mera somma delle parti, non può nemmeno essere indipendente da esse, dato che queste consisterebbero nella materia che poi la forma universale unificherebbe. Ogni trasformazione, accadimento nei singoli enti componenti ne modificherebbe la natura di quest'ultima, che così non potrebbe davvero porsi come "assoluta" e autosufficiente, in quanto dipendente dalle caratteristiche delle singole parti che le compongono. Ecco perché a mio avviso l'esistenza dell'Assoluto avrebbe vera ragion d'essere solo come esistenza trascendente, causa di se stessa, e responsabile dell'esistenza degli enti relativi, relativi nel senso di contingenti, in quanto traggono la loro ragion d'essere dall'Assoluto anziché da essi stessi (qua in occidente tale modello si è sviluppato in rapporto con l'ispirazione della teologia giudaico-cristiana, col suo dualismo tra Dio Principio primo e creatore dell'Universo, e mondo creato e contingente, ma ciò non esclude che possa essere supportato anche in un contesto "laico", senza aderire a una determinata dottrina o teologia). Dunque, dal punto di vista esistenziale l'identificazione totalità-assoluto andrebbe superata, o quantomeno rivista... l'assoluto esisterebbe come totalità non nel senso di essere l'unità di tutti gli enti, immanente e non distinta da essi, ma nel senso che sarebbe quell'ente da cui la totalità delle cose deriva, ciascuna relativa, dato che qualunque cosa non ad esso subordinata finirebbe necessariamente per limitarlo, e quindi negarlo come "assoluto", cioè come realtà sciolta e indipendente.
#356
Citazione di: anthonyi il 10 Giugno 2018, 07:14:08 AM
Citazione di: davintro il 09 Giugno 2018, 16:46:52 PMè diventato un luogo comune considerare la tassa di successione sulle eredità come "tassa liberale", anche facendo leva sul pensiero di alcuni teorici, comunemente ascrivibili alla corrente del liberalismo economico, che si sono favorevolmente espressi sulla legittimità di tale imposta. A me pare che ciò offra lo stimolo per rivedere e chiarire in modo decisamente più puntuale il significato che si dovrebbe attribuire a tale categoria politica. Di quale "liberalismo" staremmo parlando? A me pare che qualunque idea di "tassa liberale" non possa che essere un ossimoro. Qualunque tassa, senza eccezioni. Il liberalismo, almeno come da me inteso, consiste nel difendere le libertà individuali dal potere arbitrario del governo, e la tassa di successione, nella misura in cui impedisce a un individuo di destinare i propri averi post-mortem a chi desidera, non può che essere una contravvenzione ai principi ideologici di un liberalismo coerente, che dovrebbe identificarsi con l'idea di uno stato che interferisce con le scelte individuali dei singoli, solo nella misura in cui tale intervento è funzionale alla tutela dei diritti fondamentali, vita e proprietà privata, cioè una limitazione della libertà è lecita solo nella misura in cui è tutela di una libertà più importante ed urgente rispetto a quella che verrebbe limitata (che poi in certe situazioni di emergenza una tassa di questo tipo possa divenire necessaria è un altro discorso che ora non mi interessa toccare, una questione pragmatica-economica, che non tocca il tema della valutazione circa la coerenza delle implicazioni rispetto a una base valoriale-ideologica). I sostenitori della tassa di successione come "tassa liberale" fanno leva sul fatto che tale tassa, minimizzando la rilevanza della provenienza familiare sul destino economico delle persone, favorisca "l'uguaglianza dei punti di partenza", come se il compito della politica fosse quello di determinare un'idea di vita come una competizione sportiva dove "vinca il migliore", e la tassa di successione dovrebbe far sì che ciascuno scatti da dei blocchi di partenza posti nella stessa linea orizzontale. Ora, a mio avviso, questa concezione ideologica col liberalismo non ha nulla a che fare. Non è "liberalismo", ma "darwinismo sociale", una sua deviazione e (giudizio di valore personale soggettivo) degradazione in senso materialistico e calvinista, una mentalità che vede il successo economico come l'unica possibile dimostrazione della propria autorealizzazione personale, e come unica forma di contributo al progresso della società. Il vero liberalismo, un liberalismo coerente con l'idea di considerare la libertà individuale come valore centrale assoluto, dovrebbe invece avere una base spirituale, giusnaturalista, l'idea che ogni individuo abbia una dignità e diritti indipendentemente da ciò che combina nella società tramite il lavoro, perché sono la società e il lavoro che esistono in funzione del benessere e della libertà degli individui, non viceversa. Al liberale coerente non interessa l'uguaglianza dei punti di partenza nella competizione economica della vita, (solo quella formale di fronte alla legge, che impedisce che singoli o gruppi di persone possano assumere un potere politico superiore agli altri, che consentirebbe di essere legittimati a calpestare i diritti fondamentali degli altri), ma la libertà di ciascuno di vivere come meglio desidera, dunque anche di non partecipare alla corsa per il profitto, di non sentirsi costretti a imbarcarsi in lavori che non piacciono e che non corrispondono ai nostri reali interessi e capacità, quando si ha la fortuna di poter vivere bene anche con ciò che si ha sulla base della propria situazione familiare, godersi la vita, le proprietà in santa pace, lasciarle in eredità a chi vuole, avere tempo per dedicarsi, anche con impegno alle proprie passioni, indipendentemente dalla retribuzione economica, senza essere criminalizzati ed etichettati come "parassiti nullafacenti", come se il valore di ciò che si realizza dipendesse solo dal guadagno economico, e non dalla passione che ci si mette per l'azione in sé. A questo punto sembrerebbero profilarsi due antitetici modelli etico-ideologici del liberalismo, con il modello che incentra il liberalismo sul rispetto dei diritti naturali, compreso il rispetto del sentimento naturale familiare di voler permettere ai propri discendenti di poter godere, tramite l'eredità, una serenità economica, che rimanda ai valori umanistici della classicità, che vedono come fine più nobile per l'uomo la vita contemplativa e considera il denaro come semplice strumento per ottenere ciò di cui si ha bisogno, e non come traguardo, dimostrazione del proprio valore sulla base di ciò che tramite il lavoro si è riuscito a guadagnare (vedi Aristotele che poneva la vita contemplativa come ben più elevata e nobile, rispetto alle attività pratiche, mercantili finalizzate al guadagno), contrapposto a un modello tipicamente anglosassone, pragmatico e materialista, per cui il denaro non è mezzo, ma fine, traguardo della realizzazione personale in base a cui misurare le proprie capacità, mentre ogni attività non remunerativa economicamente è relegata all'idea di vizio e parassitismo. Una visione del denaro quasi feticista. Due figure ben simboleggianti questa deriva sono il personaggio di Zio Paperone, ispirato al dickensiano Scrooge, che ama il denaro non perché gli consenta di spenderlo per cose piacevoli, ma come valore in sé, in cui fare il bagno nel deposito, godendoselo come frutto delle sue fatiche, e Bill Gates, non solo favorevolissimo alla tassa di successione, ma che ha annunciato addirittura di non voler lasciar nulla in eredità ai suoi figli, perché "devono mostrare di meritarsi la ricchezza partendo da zero". In nome di questa mentalità, che vede solo nell'attività finalizzata al successo economico l'unico impegno degno di questo nome, si dovrebbero disprezzare, e tacciare di ozio parassitario un Platone, o la quasi totalità dei letterati della classicità, che con le loro opere, hanno gettato le basi della nostra identità culturale occidentale, quasi tutti provenienti da famiglie nobili e possidenti, che non avendo bisogno di lavorare per vivere, vivevano di rendita, ma che proprio per questo avevano la possibilità di dedicare il loro tempo non certo alla nullafacenza, ma allo studio e alla creazione di cultura, non per guadagno, ma per amore del sapere come virtù fine a se stessa (meno male che Platone non era figlio di Bill Gates verrebbe da dire...) Inoltre i fautori della tassa di successione come "tassa liberale" utilizzano l'argomento della meritocrazia, che tale tassa dovrebbe favorire, sulla base dell'idea che la ricchezza che si eredita non è il prodotto del merito, dell'impegno della persona, ma dalla fortuna di essere nato in una certa famiglia. Che non ci sia alcun merito nella ricchezza ereditata è certamente un'ovvietà, ma il punto è... in che misura il valore della meritocrazia deve essere centrale in un'ottica di liberalismo coerente? A me pare che spesso la rilevanza del "merito" come fondamento di una visione liberale, sia un po' sopravvalutata. Il liberale vede lo stato come funzione, non come valore etico in sé, un servizio per garantire le esigenze degli individui, e che dunque ha il dovere di assicurare servizi il più possibili efficienti. E quindi la meritocrazia diviene ovviamente necessaria, e consisterà nel attuare criteri di selezione dei ruoli lavorativi per persone che sono per quei ruoli le più adatte, in modo che i servizi possa funzionare in modo più efficiente possibile per i bisogni degli individui. Questa è la meritocrazia che interessa al liberale, una meritocrazia che resta su un piano di necessità strumentale, non moralistica. Un conto è la meritocrazia nella selezione dei ruoli lavorativi, un'altra quella come selezione della redistribuzione del benessere economico. Cioè un conto è il riconoscimento della necessità che siano i più meritevoli a svolgere un'occupazione di un certo tipo, perché possa essere svolta al meglio, un altro l'idea che anche il benessere debba essere appannaggio dei meritevoli. Qui si entra nel campo dei giudizi morali soggettivi, che un vero liberale dovrebbe tenere ben separato da quello politico. L'idea di uno stato che si arroga la pretesa di imporre dei criteri meritocratici presunti oggettivi, in base a cui redistribuire il benessere (operando anche tramite tasse sulle eredità), è a mio avviso quanto di più lontano possibile dall'idea di stato liberale, ha a che fare piuttosto con l'idea di uno stato paternalistico che vuole "educare" gli individui, una figura quasi assimilabile a un Dio biblico Giudice supremo che distribuisce premi e punizioni, anziché limitarsi alla massimizzazione del benessere tra tutti i suoi cittadini, senza imporre giudizi moralistici soggettivi e arbitrari sul "merito". "Chi non lavora non mangia" è un assunto morale, soggettivo, condivisibile o meno, ma che un vero liberale non dovrebbe mai utilizzare come principio politico in base a cui limitare la libertà delle persone, compresa quella di lasciare in eredità ricchezze ai propri cari, anche se questi ultimi non se lo sono "meritate". Cioè il liberalismo si basa sulla distinzione fra giudizio morale personale e azione pubblica mirante all'incremento oggettivo del benessere e della libertà tra tutti i cittadini Concluderei con un'ovvietà, anche se ribadirla può sempre essere utile... un conto sono le ideologie, un altro la coerenza delle persone, le prime non si misurano in base alle seconde, quindi il fatto come teorici etichettati come "liberali" come Einaudi o Mill possano essersi espressi favorevolmente sulla tassa di successione, non implica affatto che tutto ciò che hanno effettivamente sostenuto debba ricondursi al quel determinato filone ideologico, e che dunque sia lecito considerare quella tassa come "liberale". Appare inevitabile come la totale coerenza tra le idee di persone concrete e filoni ideologici a cui quelle persone dicono di richiamarsi non sia mai realizzabile tout court, e che solo un'analisi strettamente concettuale, e non riferimenti citazionisti, sia uno strumento valido di giudizio della coerenza fra una singola opinione e l'ideologia complessiva di riferimento
Ciao davintro, quando nel XIX secolo il pensiero liberale si sviluppa in opposizione a visioni tradizionalistiche che vedevano alcuni individui detenere il potere nella società per ragioni dinastiche, e quindi di nascita, il principio base che veniva sostenuto era quello delle pari opportunità, di rendere eguali i punti di partenza per tutti i cittadini, e di avere così il massimo riconoscimento al merito individuale. Per cui mi spiace dirlo ma le tue idee, al di là della condivisibilità non sono liberali, e non lo sono proprio perché tu metti in discussione il principio del merito. Naturalmente questo non vuol dire che l'imposta di successione è un'imposta liberale, le imposte sono necessarie e questo lo ammettiamo anche noi liberali (Lo ammetto sono liberale), la discussione poi sull'opportunità di una o dell'altra imposta è forse un po' più complessa. Certamente una logica come quella utilizzata in Italia, per la quale l'imposta si paga solo se non sei parente stretto, da l'impressione di essere poco liberale perché "premia" la nascita e non la scelta individuale. Un saluto.


io direi che l'ottocento è il secolo nel quale le idee liberali hanno cominciato a imporsi come vincenti sul piano della realtà politica di molti stati d'Europa, ma dal punto di vista dell'elaborazione teorica bisogna riandare a molto prima, penso intorno al '600, con la riflessione politica di Locke e del giusnaturalismo, con la loro critica dell'idea di Stato totalitario legittimato ad avere potere di vita e di morte sui cittadini, in nome dell'esistenza di diritti naturali (vita e proprietà) inerenti ogni singola persona indipendentemente dal rapporto con lo stato, che viene visto non più come autorità legittimata in senso universale o assoluto, ma meramente strumentale alle esigenze degli individui. Trovo abbastanza forzata la riconduzione dell'istituto dell'eredità al complesso dei residui sociali dell'Ancieme Regime feudale, che certamente e giustamente i liberali hanno combattuto nell'era moderna. Un conto sono i privilegi politici di un ceto nobiliare e clericale, un altro una condizione di fortuna dal punto di vista economico, in cui si può stare rispettando pienamente il principio dell'uguaglianza di fronte alla legge. L'assioma fondamentale di ogni liberalismo è che la libertà vale più dell'eguaglianza, e in nome di ciò è stato coerente nel combattere contro la società feudale dove il potere politico era concentrato nella monarchia e nei nobili, che così potevano utilizzare i loro privilegi per legittimare i continui abusi di potere contro tutti gli altri cittadini (il "terzo stato") ed ecco perché il progressivo avvento delle società liberali è stato costituito dalla promulgazione di costituzioni che, in forme più o meno coerenti, hanno sancito l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, la separazione tra stato e chiesa, il riconoscimento di diritti civili che nessun governo può calpestare, la separazione dei poteri (penso allo statuto albertino). Ma l'uguaglianza formale contro la società dei privilegi feudali era finalizzata alla difesa delle libertà individuali, non al raggiungimento dell "eguaglianza dei punti di partenza" per quanto riguarda la corsa al successo economico. Le istanze di eguaglianza dal punto di vista della retribuzione economica erano all'epoca non portate avanti dai liberali, ma dai movimenti sindacali, e dai primi movimenti socialisti e marxisti. Al liberale l'uguaglianza interessa solo nella misura in cui è funzionale a tutelare la libertà individuale, ma quando l'uguaglianza può essere attuata limitando le libertà fondamentali delle persone, compresa quella di poter destinare i propri beni a chi si vuole, allora è l'istanza egualitaria che va abbandonata. Per il liberale il valore assoluto, come dovrebbe indicare lo stesso termine è la "libertà", che va limitata solo nella misura in cui la mia libertà calpesta la libertà di qualcun altro (per nessun liberale esiste la libertà di rubare o uccidere), ma non mi pare che le transazioni ereditarie limitino la libertà e i fondamentali diritti di qualcun altro, fintanto che si parla di soldi ottenuti onestamente

Più che "mettere in discussione" il principio meritocratico direi che lo relativizzo... come scritto nel primo messaggio, esiste un piano di strumentalità in cui la meritocrazia diviene un criterio indispensabile a cui attenersi, quello della selezione dei ruoli lavorativi nella società. Esistono dei parametri  sufficentemente oggettivi e condivisibili  per valutare l'adeguatezza di qualcuno per un determinato lavoro. Ad esempio, sarebbe piuttosto evidente che un medico laureato col massimo dei voti, che ha frequentato svariati corsi di perfezionamento, tirocini, ed esperienze pregresse "meriti" di più un posto in un ospedale rispetto a un collega che si è laureato con la votazione minima e dopo la laurea per anni non ha svolto alcuna significativa esperienza formativa. Ma il fine non è una volontà moralistica di premiare o punire, ma quello di assicurare i migliori servizi ai pazienti: meritocrazia al servizio della salute dei cittadini. Ecco la meritocrazia che interessa a un liberale: come l'uguaglianza, anche il merito non è un valore assoluto, ma relativo alla tutela dei diritti fondamentali, compreso quello alla salute. Ma quando si parla di meritocrazia come criterio di redistribuzione del benessere allora si cade inevitabilmente in discorsi inevitabilmente moralisti che non spetta alla politica fare, in quanto per stabilire chi "meriti" più di altri il benessere ci sono parametri soggettivi e arbitrari che possono solo essere appannaggio degli individui, mentre il liberalismo scinde etica e politica. Mentre il giudizio sull'adeguatezza per un certo tipo di lavoro è una questione fortemente tecnica, cioè legata alle competenze, quella sul merito del benessere economico resta una questione soggettiva e etica. L'idea che il "merito" debba consistere necessariamente nella capacità di conseguire il successo economico tramite la carriera lavorativa è un presupposto non necessariamente vero, ma arbitrario, è una distorsione in chiave materialistica e mercantilistica del "merito". Prendiamo l'esempio della letteratura... non c'è dubbio che un Federico Moccia,  che scrive romanzi che diventano bestsellers, perché rivolti a un pubblico di teenagers molto ampio, venda e guadagni con i suoi libri infintamente più che uno studioso o ricercatore universitario che pubblica opere e saggi di tipo scientifico o filosofico, che si rivolge a un pubblico potenziale molti specialistico e di nicchia... dovremmo forse dire che solo per questo la scrittura di Moccia meriti più di quella dello sconosciuto studioso, solo perché sulla base del genere che tratta attira molti più lettori? Il valore della cultura coincide sempre con la popolarità commerciale? Occorre sfatare il pregiudizio che l'unica forma di autorealizzazione sia ciò che è misurabile sulla base dei soldi guadagnati tramite il lavoro, che il lavoro retribuito sia l'unica forma in cui un individuo può contribuire nel suo piccolo al progresso sociale, dove sta scritto che una persona che vive di rendita avendo ereditato beni cospicui, non possa, a suo modo dimostrare le sue qualità e i suoi "meriti", svolgendo delle attività indipendentemente dall'ansia di dover guadagnare per vivere? Può fare volontariato, può dedicarsi ad attività artistiche, culturali, come lo studioso del mio esempio di prima, che potrà impegnarsi spinto dalla passione per lo studio anche consapevole che economicamente ci guadagnerà poco e nulla... chi l'ha detto che tutto ciò in cui l'uomo si impegna e da il meglio di sé possa tirarlo fuori solo tramite la spinta del guadagno, costringendolo "a partire da zero", costringendolo cioè a sacrificare in molti casi le sue passioni sulla base della necessità di mantenersi economicamente (come si dice, le lettere non danno pane, ma non per questo andrebbe colpevolizzato o ostacolato chi avendo la fortuna di poterselo permettere, incentra la sua vita su di quelle). Insomma, in gran parte dei casi l'applicazione dei parametri meritocratici si rivela un'assolutizzazione morale arbitraria di cui un liberale dovrebbe diffidare, come di tutte le assolutizzazioni morali che pretendono di orientare una linea politica



Condivido l'idea che il riconoscimento delle tasse sia una necessità che ogni persona di buon senso dovrebbe ammettere indipendentemente dalle ideologie di riferimento, ideologie che però rientrano in gioco quando si parla delle motivazioni che sorreggono le necessità fiscali: dire che le tasse dovrebbero limitarsi a finanziare i servizi pubblici, necessari a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini (sicurezza, istruzione, salute) lo trovo un principio molto più liberale rispetto a quello di vederle come finalizzate a una sorta di egualitarismo forzato sulla base di un'accezione meramente moralistica a arbitraria della meritocrazia, proprio questo sottofondo moralistico rende, al contrario di quello che molti pensano, l'imposta di successione come in un certo senso la più "illiberale". Condivido pienamente anche il passo riguardo la logica illiberale nel caso specifico in cui tale imposta viene applicato in Italia, in quanto limitativo della libertà di scelta di colui che destina l'eredità
#357
è diventato un luogo comune considerare la tassa di successione sulle eredità come "tassa liberale", anche facendo leva sul pensiero di alcuni teorici, comunemente ascrivibili alla corrente del liberalismo economico, che si sono favorevolmente espressi sulla legittimità di tale imposta. A me pare che ciò offra lo stimolo per rivedere e chiarire in modo decisamente più puntuale il significato che si dovrebbe attribuire a tale categoria politica. Di quale "liberalismo" staremmo parlando? A me pare che qualunque idea di "tassa liberale" non possa che essere un ossimoro. Qualunque tassa, senza eccezioni. Il liberalismo, almeno come da me inteso, consiste nel difendere le libertà individuali dal potere arbitrario del governo, e la tassa di successione, nella misura in cui impedisce a un individuo di destinare i propri averi post-mortem a chi desidera, non può che essere una contravvenzione ai principi ideologici di un liberalismo coerente, che dovrebbe identificarsi con l'idea di uno stato che interferisce con le scelte individuali dei singoli, solo nella misura in cui tale intervento è funzionale alla tutela dei diritti fondamentali, vita e proprietà privata, cioè una limitazione della libertà è lecita solo nella misura in cui è tutela di una libertà più importante ed urgente rispetto a quella che verrebbe limitata (che poi in certe situazioni di emergenza una tassa di questo tipo possa divenire necessaria è un altro discorso che ora non mi interessa toccare, una questione pragmatica-economica, che non tocca il tema della valutazione circa la coerenza delle implicazioni rispetto a una base valoriale-ideologica). I sostenitori della tassa di successione come "tassa liberale" fanno leva sul fatto che tale tassa, minimizzando la rilevanza della provenienza familiare sul destino economico delle persone, favorisca "l'uguaglianza dei punti di partenza", come se il compito della politica fosse quello di determinare un'idea di vita come una competizione sportiva dove "vinca il migliore", e la tassa di successione dovrebbe far sì che ciascuno scatti da dei blocchi di partenza posti nella stessa linea orizzontale. Ora, a mio avviso, questa concezione ideologica col liberalismo non ha nulla a che fare. Non è "liberalismo", ma "darwinismo sociale", una sua deviazione e (giudizio di valore personale soggettivo) degradazione in senso materialistico e calvinista, una mentalità che vede il successo economico come l'unica possibile dimostrazione della propria autorealizzazione personale, e come unica forma di contributo al progresso della società. Il vero liberalismo, un liberalismo coerente con l'idea di considerare la libertà individuale come valore centrale assoluto, dovrebbe invece avere una base spirituale, giusnaturalista, l'idea che ogni individuo abbia una dignità e diritti indipendentemente da ciò che combina nella società tramite il lavoro, perché sono la società e il lavoro che esistono in funzione del benessere e della libertà degli individui, non viceversa. Al liberale coerente non interessa l'uguaglianza dei punti di partenza nella competizione economica della vita, (solo quella formale di fronte alla legge, che impedisce che singoli o gruppi di persone possano assumere un potere politico superiore agli altri, che consentirebbe di essere legittimati a calpestare i diritti fondamentali degli altri), ma la libertà di ciascuno di vivere come meglio desidera, dunque anche di non partecipare alla corsa per il profitto, di non sentirsi costretti a imbarcarsi in lavori che non piacciono e che non corrispondono ai nostri reali interessi e capacità, quando si ha la fortuna di poter vivere bene anche con ciò che si ha sulla base della propria situazione familiare, godersi la vita, le proprietà in santa pace, lasciarle in eredità a chi vuole, avere tempo per dedicarsi, anche con impegno alle proprie passioni, indipendentemente dalla retribuzione economica, senza essere criminalizzati ed etichettati come "parassiti nullafacenti", come se il valore di ciò che si realizza dipendesse solo dal guadagno economico, e non dalla passione che ci si mette per l'azione in sé. A questo punto sembrerebbero profilarsi due antitetici modelli etico-ideologici del liberalismo, con il modello che incentra il liberalismo sul rispetto dei diritti naturali, compreso il rispetto del sentimento naturale familiare di voler permettere ai propri discendenti di poter godere, tramite l'eredità, una serenità economica, che rimanda ai valori umanistici della classicità, che vedono come fine più nobile per l'uomo la vita contemplativa e considera il denaro come semplice strumento per ottenere ciò di cui si ha bisogno, e non come traguardo, dimostrazione del proprio valore sulla base di ciò che tramite il lavoro si è riuscito a guadagnare (vedi Aristotele che poneva la vita contemplativa come ben  più elevata e nobile, rispetto alle attività pratiche, mercantili finalizzate al guadagno), contrapposto a un modello tipicamente anglosassone, pragmatico e materialista, per cui il denaro non è mezzo, ma fine, traguardo della realizzazione personale in base a cui misurare le proprie capacità, mentre ogni attività non remunerativa economicamente è relegata all'idea di vizio e parassitismo. Una visione del denaro quasi feticista. Due figure ben simboleggianti questa deriva sono il personaggio di Zio Paperone, ispirato al dickensiano Scrooge, che ama il denaro non perché gli consenta di spenderlo per cose piacevoli, ma come valore in sé, in cui fare il bagno nel deposito, godendoselo come frutto delle sue fatiche, e Bill Gates, non solo favorevolissimo alla tassa di successione, ma che ha annunciato addirittura di non voler lasciar nulla in eredità ai suoi figli, perché "devono mostrare di meritarsi la ricchezza partendo da zero". In nome di questa mentalità, che vede solo nell'attività finalizzata al successo economico l'unico impegno degno di questo nome, si dovrebbero disprezzare, e tacciare di ozio parassitario un Platone, o la quasi totalità dei letterati della classicità, che con le loro opere, hanno gettato le basi della nostra identità culturale occidentale, quasi tutti provenienti da famiglie nobili e possidenti, che non avendo bisogno di lavorare per vivere, vivevano di rendita, ma che proprio per questo avevano la possibilità di dedicare il loro tempo non certo alla nullafacenza, ma allo studio e alla creazione di cultura, non per guadagno, ma per amore del sapere come virtù fine a se stessa (meno male che Platone non era figlio di Bill Gates verrebbe da dire...)





Inoltre i fautori della tassa di successione come "tassa liberale" utilizzano l'argomento della meritocrazia, che tale tassa dovrebbe favorire, sulla base dell'idea che la ricchezza che si eredita non è il prodotto del merito, dell'impegno della persona, ma dalla fortuna di essere nato in una certa famiglia. Che non ci sia alcun merito nella ricchezza ereditata è certamente un'ovvietà, ma il punto è... in che misura il valore della meritocrazia deve essere centrale in un'ottica di liberalismo coerente? A me pare che spesso la rilevanza del "merito" come fondamento di una visione liberale, sia un po' sopravvalutata. Il liberale vede lo stato come funzione, non come valore etico in sé, un servizio per garantire le esigenze degli individui, e che dunque ha il dovere di assicurare servizi il più possibili efficienti. E quindi la meritocrazia diviene ovviamente necessaria, e consisterà nel attuare criteri di selezione dei ruoli lavorativi per persone che sono per quei ruoli le più adatte, in modo che i servizi possa funzionare in modo più efficiente possibile per i bisogni degli individui. Questa è la meritocrazia che interessa al liberale, una meritocrazia che resta su un piano di necessità strumentale, non moralistica. Un conto è la meritocrazia nella selezione dei ruoli lavorativi, un'altra quella come selezione della redistribuzione del benessere economico. Cioè un conto è il riconoscimento della necessità che siano i più meritevoli a svolgere un'occupazione di un certo tipo, perché possa essere svolta al meglio, un altro l'idea che anche il benessere debba essere appannaggio dei meritevoli. Qui si entra nel campo dei giudizi morali soggettivi, che un vero liberale dovrebbe tenere ben separato da quello politico. L'idea di uno stato che si arroga la pretesa di imporre dei criteri meritocratici presunti oggettivi, in base a cui redistribuire il benessere (operando anche tramite tasse sulle eredità), è a mio avviso quanto di più lontano possibile dall'idea di stato liberale, ha a che fare piuttosto con l'idea di uno stato paternalistico che vuole "educare" gli individui, una figura quasi assimilabile a un Dio biblico Giudice supremo che distribuisce premi e punizioni, anziché limitarsi alla massimizzazione del benessere tra tutti i suoi cittadini, senza imporre giudizi moralistici soggettivi e arbitrari sul "merito". "Chi non lavora non mangia" è un assunto morale, soggettivo, condivisibile o meno, ma che un vero liberale non dovrebbe mai utilizzare come principio politico in base a cui limitare la libertà delle persone, compresa quella di lasciare in eredità ricchezze ai propri cari, anche se questi ultimi non se lo sono "meritate". Cioè il liberalismo si basa sulla distinzione fra giudizio morale personale e azione pubblica mirante all'incremento oggettivo del benessere e della libertà tra tutti i cittadini



Concluderei con un'ovvietà, anche se ribadirla può sempre essere utile... un conto sono le ideologie, un altro la coerenza delle persone, le prime non si misurano in base alle seconde, quindi il fatto come teorici etichettati come "liberali" come Einaudi o Mill possano essersi espressi favorevolmente sulla tassa di successione, non implica affatto che tutto ciò che hanno effettivamente sostenuto debba ricondursi  al quel determinato filone ideologico, e che dunque sia lecito considerare quella tassa come "liberale". Appare inevitabile come la totale coerenza tra le idee di persone concrete e filoni ideologici a cui quelle persone dicono di richiamarsi non sia mai realizzabile tout court, e che solo un'analisi strettamente concettuale, e non riferimenti citazionisti, sia uno strumento valido di giudizio della coerenza fra una singola opinione e l'ideologia complessiva di riferimento
#358
bisogna stare attenti a non confondere "contraddittorietà" e "complessità". Il principio di non contraddizione è un'assioma della logica che non ha la pretesa (quantomeno direttamente e quantomeno a livello di esplicazione totale) di spiegare la realtà nella sua concretezza e nel suo divenire, ma fissa dei limiti entro cui le cose hanno un senso, una possibilità almeno teorica di essere, ed oltre i quali c'è l'assurdo, e senza di esso il pensiero non sarebbe possibile. Il compito del pensiero è infatti quello di rispecchiare il più possibile le cose nella loro oggettività, e se non si fondasse su delle norme impossibili da confutare, qualunque nostro discorso cadrebbe nella pura e totale arbitrarietà, nell'indeterminazione dell'impossibilità di discernere il vero dal falso. La realtà non è contradditoria, altrimenti sarebbe assurda, ma questo non ne determina affatto la semplicità, la banalità, la monotonia qualitativa. Il principio di non-contraddizione non ha assolutamente nulla da obiettare alla possibilità che io di fronte a un bivio OVEST-EST possa optare per l'EST inizialmente per poi ritrovarmi ad OVEST, nella direzione prima rigettata. La contraddizione viene esclusa nella considerazione delle cose in un piano di logica formale, sovratemporale, se si vuole "astratto", una cosa non può essere essa stessa e il suo contrario nello stesso istante, ma non riguarda le possibilità inerenti il divenire, e dunque non esclude che una strada che procede fino a un certo punto in una direzione possa curvare e indirizzarsi verso una direzione da cui inizialmente tendeva divergere. Questa non è "contraddizione", ma "complessità", la complessità andrebbe intesa proprio come quella proprietà del reale che lo porta a mostrarsi in dei lati inizialmente imprevisti, sulla base dei presupposti di partenza (a loro volta empirici, dunque mutevoli e perfettibili) di una mente che cerca di comprenderlo, ma proprio perché questa varietà, questa molteplicità degli aspetti si svela diacronicamente, allora riguarda la realtà nella sua concretezza diveniente, ed è dunque riferita a un piano distinto rispetto a quello "sincronico", in cui gli assiomi della logica formale, compreso il principio di non-contraddizione, mira a "regolamentare", e che proprio perché distinto, non è in conflitto con l'altro. Concluderei dicendo che certamente la complessità è ciò che produce l'interesse e lo stimolo a esplorare la realtà, a meravigliarci della sua ricchezza qualitativa, consapevoli che in ogni momento possiamo avere esperienza e conoscenza di aspetti, dati, implicazioni che superficialmente sembravano dover essere esclusi, ma al tempo stesso proprio questo interesse dovrebbe responsabilizzarci ad organizzare una linea di razionalità adeguata a supportare l'investigazione, e dunque a individuare dei punti fermi, delle evidenze originarie verso cui restare coerenti, perché il pensiero sia il più possibile efficace a cogliere la ricchezza oggettiva e non arbitraria della realtà.... in sintesi, il rigetto della contraddizione è strumentale ad un'autentica esperienza della complessità
#359
Tematiche Filosofiche / Re:Esistenza dell'eternità
05 Maggio 2018, 18:11:49 PM
Citazione di: sgiombo il 26 Aprile 2018, 09:44:16 AMA Davintro: Penso che sia per lo meno dubbio che possano esistere concetti nella nostra mente la cui presenza (di concetti dotati di una connotazione o intensione mentale e in quanto tali) possa essere prova dell' esistenza anche di denotati reali di tali concetti, in quanto concetti non costituiti attraverso la composizione arbitraria (fantastica) di concetti più elementari di cose reali, e dunque significanti cose reali e non fantasticamente sintetizzate (questo evidentemente in base alla concezione empiristica della mente umana come "tabula rasa" alla nascita).  Infatti possiamo sognare (oltre che percepire alucinatoriamente) tante cose inesistenti in realtà e (immediatamente o più verosimilmente, più realisticamente dopo, da svegli) farcene concetti mentali sensati, caratterizzati da connotazioni o intensioni, ma privi di denotazioni o estensioni reali (oltre che impiegarle per comporre o sintetizzare concetti mentali più complessi, che potrebbero essere a maggior ragione privi di denotazioni o estensioni reali). E non sarei sicuro che nei sogni accada necessariamente un "rimescolamento", una rielaborazione e composizione arbitraria unicamente di dati empirici "propri del mondo reale" precedentemente percepiti e memorizzati (come accade nel pensiero fantastico) e non anche la percezione "originaria" di taluni dati empirici non appartenenti al mondo reale.   Ma l' obiezione più seria alla tua tesi dell' esistenza reale dell' eternità riguarda la possibilità di ricavare molto facilmente concetti di grandezze infinite da concetti di grandezze finite (in generale; e in particolare da concetti di durate temporali finite) semplicemente immaginando il prolungamento e la reiterazione senza fine dell' operazione di somma di concetti di grandezza finita: la presenza all' interno della nostra mente di tali concetti di grandezza infinita, così ricavati per sintesi arbitraria (fantastica) di concetti di grandezza finita a loro volta ottenuti dalla constatazione empirica di enti o eventi finiti -quelli sì, reali- non é una prova dell' esistenza reale degli enti o eventi di grandezza infinita da essi denotati.  Esiste in matematica il concetto di "numero infinito" (il cui simbolo, che non ho sulla tastiera del computer, notoriamente é una specie di "8" girato di 90° e messo "in orizzontale"), ricavato per l' appunto attraverso la (fantastica, arbitraria) reiterazione senza fine della somma di numeri finiti, o anche solo attraverso il "successivo passare in rassegna", immaginata senza fine, di numeri finiti crescenti di un' unità (il contare numeri finiti) i cui concetti sono ottenuti per astrazione da esperienze concrete di oggetti simili in gruppi costituiti da numeri uguali di essi. Ma questo concetto infinito ce l' abbiamo nella nostra coscienza solo noi moderni e non gli uomini primitivi (non é innato), ed é ottenuto dalla sintesi, immaginata senza fine, di numeri finiti,  Il concetto di qualsiasi quantità infinita (compresa la quantità "durata temporale"; ovvero il concetto dell' "eternità") si ottiene immaginando l' iterazione senza fine di somme delle rispettive quantità finite, cioè, come dici tu, "per sintesi", operata arbitrariamente dalla fantasia, e che quindi potrebbe benissimo essere del tutto fittizia e condurre a concetti privi di denotazione o intensione reale: l' eternità potrebbe non esistere, non é un concetto la cui presenza all'interno della pensabilità della nostra mente sia una prova della sua esistenza reale.


se si mette in discussione o si contesta l'idea del sogno che sia un riassemblaggio fantastico di dati reali di esperienza, allora sarebbe legittimo contestare anche l'idea di distinguere i contenuti semplici appresi per intuizione diretta di cose reali, e quelli prodotti dall'immaginazione sintetica, dato che il contenuto dei sogni rientrerebbe nella prima categoria, ma riguarderebbero fenomeni originari. Ma a me pare che non sia così, che nei sogni si manifestino dei fenomeni complessi, non solo singoli oggetti, ma situazioni, intrecci di eventi che pur non essendo reali, presentano una complessità fenomenica che una volta scomposta analiticamente, mostra come ciascun singolo elemento sia un'immagine corrispondente ad oggetti di cui ho avuto una reale ed effettiva esperienza. Se sogno un drago che sputa fuoco non per questo è reale, ma ricavabili dall'esperienza della realtà sarebbero le singole componenti che lo costituirebbero... il colore verde, le squame, gli occhi, il fuoco ecc. E questo mi pare possa essere la conseguenza di una semplice e rozza descrizione fenomenologica del vissuto onirico, senza scomodare modelli teorici psicoanalitici, sui cui si può legittimamente convenire o meno.

La reiterazione "senza fine" del calcolo di quantità infinite non mi pare possa essere visto come la genesi sufficiente per elaborare a posteriori l'idea di "infinito" (e dunque dell' "eternità", che sarebbe l'applicazione di tale idea al piano della temporalità), per la semplice ragione che il concetto di "senza fine" altro non mi sembrerebbe che un'altra espressione per designare il significato dell'infinito, che dunque non potrebbe essere il risultato a posteriori di un processo di sintesi, ma uno dei presupposti del processo stesso, dunque non da questo determinabile. Ciò conferma il suo carattere di originarietà, che lo rende irriducibile a ogni sintesi immaginativa tesa a elaborare concetti fittizi. Nessuna somma infatti potrebbe contenere e costituire una durata infinita, dato che in ogni momento è sempre possibile aggiungere una quantità a prolungarla, senza mai arrivare al  punto di concepire una somma, cioè una sintesi assolutamente esaustiva. Per quanto riguarda il fatto che gli uomini primitivi non avessero il concetto di infinito, andrebbe chiarito quale sarebbe la prospettiva da cui si affermerebbe ciò. Se ci si riferisse al linguaggio, al fatto che essi non avessero una parola corrispondente al significato che noi attribuiremmo all' "infinito", questo sarebbe un argomento valido contro l'idea dell'originarietà dell'infinito, solo presupponendo, a mio avviso erroneamente, la piena coincidenza fra pensiero e linguaggio, idee e parole. Se invece si ritiene che le due dimensioni, seppur fortemente legate, non  coincidano, in quanto non tutti i nostri pensieri, tramite cui rispecchiamo gli aspetti delle cose stesse, sono verbalizzati, ma solo quelli funzionali a delle esigenze e schemi comunicativi, che variano sulla base di vari contesti storici-culturali, allora resterebbe sempre la possibilità che anche nella mente di quegli uomini l'idea dell'infinito, e dell'eternità, resti come oggetto di un'intuizione interiore, di cui non si era effettivamente autoconsapevoli al punto di individuare un segno sensibile per rappresentarla, ma che comunque dal profondo opererebbe nei loro processi mentale in forma ancora latente.
#360
Citazione di: green demetr il 28 Aprile 2018, 15:13:41 PM
Citazione di: davintro il 22 Aprile 2018, 23:37:58 PMl'aspetto della rivelazione divina che si manifesterebbe storicamente all'uomo è un tratto basilare del cristianesimo che né la teologia né quella negativa sono interessate a contestare. Ma per quanto riguarda il contesto qua specificatamente in questione, il cristianesimo, mi pare che esso abbia sempre identificato la relazione uomo-Dio, esistenziale o conoscitiva che sia, come "incontro". L'incontro è la conseguenza di due cammini di due persone che accorciano progressivamente la distanza che li separa, pur senza annullarla, e non l'invasione di uno dei due della sfera vitale dell'altro, annullando la sua libertà. Ciò in virtù di un altro dei capisaldi della teologia e antropologia cristiana, vale a dire il "libero arbitrio", per il quale l'uomo non è spettatore passivo, mero terminale dell'infusione dei contenuti religiosi rivelati dall'altro, ma persona libera e razionale, capace di rielaborare e interpretare questi contenuti sulla base dei propri parametri soggettivi di giudizio, nonché del contesto storico in cui vive, per poi poter viverli con maggiore concretezza nella propria personale situazione esistenziale (del resto se così non fosse, dovremmo vedere come del tutto insensata la polemica del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov, diretta ad accusare Gesù di aver preteso dagli uomini di essere seguito liberamente e responsabilmente, anziché far leva su un'autorità tirannica e sovrastante come la Chiesa dell'Inquisizione spagnola...). Credo che anche il più ultrafideista dei cristiani ritenga che una fede autentica non possa limitarsi a richiedere al credente un puro sentimento prodotto dalla passiva adesione a un contenuto dottrinario, ma che debba sempre implicare un atteggiamento attivo e responsabile che porta il credente ad agire in modo coerente, cercando di essere in qualche modo di farsi degno della grazia divina, in modo libero appunto. Tutto questo mostra come l'aspetto "discensivo" della rivelazione non esclude affatto un momento "ascensivo", nel quale l'uomo mira ad accorciare la distanza che lo separa da Dio, sono due momenti che nel cristianesimo non sono contradditori, ma complementari, cioè atti a determinare l'evento dell' "incontro", indipendentemente dal fatto che tale ascensività sia guidata dalla razionalità concettuale o dalla fede come esperienza vitale-sentimentale. L' uomo può cercare di avvicinarsi a Dio sia dal punto di vista della fede che della ragione e per questo nel contesto cristiano sia la teologia negativa che quella positiva, entrambi accoglienti la rivelazione, possono riconoscere anche la possibilità di una dinamica libera che vede l'uomo attivo e non passivo nella ricerca di un'esistenza in armonia con Dio. Da un lato, anche nell'esperienza di fede, a cui la teologia negativa attribuisce centralità, il credente sviluppa un'idea di Dio costituita da categorie in fondo "positive", che hanno un senso anche per l'uomo, e d'altra parte la teologia positiva, come nel tomismo, è attenta a distinguere all'interno della scienza divina un sapere a cui può pervenire la ragione umana autonomomamente (i preambula fidei), e una componente inattingibile alla razionalità, che si può accettare solo per fede nella rivelazione, rivelazione che resta così evento fondamentale anche per essa. Quindi mi pare che il riferimento alla rivelazione non tocchi la ragion d'essere della diatriba tra teologia positiva e negativa, che resta invece una diatriba riguardante la sfera epistemologica e filosofica (non dottrinaria-dogmatica, dunque) sulla legittimità di utilizzare dei concetti come mediazioni tra immanenza e trascendenza, lasciando inalterati gli specifici significati). Quindi il richiamo a tener conto della rivelazione, pur fecondo di tante implicazioni attigue alla discussione, non sposta a mio avviso più di tanto i termini del problema come mi interessava impostarlo qua
Quella che descrivi è una teologia positiva. Ma la teologia negativa invece NEGA qualsiasi possibilità di avvicinarsi a DIO. Per questo nel novecento la DOGMATICA acquista un peso rilevante. Ma la DOGMATICA non ti dà alcuna certezza di Salvezza. Credere nel dogma come salvezza, è il motivo per cui la chiesa sta perdendo potere. (karl Barth)


A questo punto la domanda che verrebbe da chiedermi sarebbe: cosa resta dell'idea, fondamentale per tutto il pensiero cristiano (al di là delle spinose diatribe su quanto tale idea sia compatibile con altri assunti dogmatici come l'onnipotenza o l'onniscienza divina, che forse ora ci porterebbero troppo lontano nell'essere seguite), del libero arbitrio? L'impossibilità per l'uomo di avvicinarsi a Dio, lo ridurrebbe a passivo contenitore della rivelazione divina senza nessun libero assenso. Ma la fede stessa senza alcun aspetto di libertà e attività del credente non potrebbe avere alcun senso, la fede, anche riferita all'esistenza di un trascendente, resta pur sempre un atto intenzionale, con cui l'io del credente si rivolge a un oggetto, che può rivelarsi alla sua coscienza a condizione di ricevere da essa dei significati, che nel loro essere attributi all'oggetto, svelano il carattere di attività libera del soggetto intenzionante. Per definizione, credere non è dimostrare, ma non vedo come possa non implicare un certo livello di conoscenza di ciò a cui si crede. Si crede in qualcosa perché quel "qualcosa" a cui  si crede è costituito da proprietà che ne rendono credibile l'esistenza, e per riconoscerne le proprietà, devo averne una rappresentazione, e per elaborarne la rappresentazione l'intelletto deve avere la possibilità di dirigersi verso l'oggetto, formandosi un'idea di esso che sia credibile. Tutto questo implica un moto ascensivo di un uomo che cerca di avvicinarsi a Dio, pur nella consapevolezza dell'infinita irriducibilità della distanza che separa la rappresentazione umana di Dio dalla realtà in sé di Dio. Rifiutando tutto ciò la teologia negativa, non solo si contrapporrebbe alla teologia negativa, ma si preclude anche la possibilità di legittimare una rappresentazione di Dio minimamente sufficiente a porla come idea di un ente trascendente ed irriducibile alle pretese di comprensione della ragione umana. In fondo la stessa posizione del trascendente, sulla base del quale la teologia negativa fa derivare la distanza infinita e incolmabile uomo-Dio, presuppone pur sempre che l'uomo maturi un'idea di Dio coerente con tale trascendenza, cioè un Dio determinato in un modo anziché in altri, e dunque soggetto a cui attribuire delle proprietà in fondo positive, cioè che affermano qualcosa di Dio per escluderne concezioni improprie, ed elaborate dall'intelletto, che offre alla fede un contenuto che poi tramite questa si ritiene credibile. Quindi, nella misura in cui anche la teologia negativa, seppur in modo concorrenziale rispetto a quella positiva, elabora una certa idea di Dio, necessita per determinarla di una certa positività, inevitabilmente