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Messaggi - davintro

#361
Tematiche Filosofiche / Re:Esistenza dell'eternità
25 Aprile 2018, 23:11:37 PM
Considero il concetto di "eternità" come attinente a quella serie di concetti la cui presenza all'interno della pensabilità della nostra mente è una prova della sua esistenza. I nostri concetti delle cose possono ricavati dall'esperienza di cose realmente esistenti, oppure da un'attività sintetica dell'immaginazione, che arbitrariamente unifica una molteplicità di dati appresi dall'esperienza di cose reali, in forme fittizie. Noi possiamo riflettere sul concetto di eternità perché lo possediamo, e la questione dell'esistenza mi pare sia legata a quella dell'origine della sua presenza alla nostra mente. Se questo concetto corrispondesse una non-esistenza, una realtà fittizia, il suo contenuto dovrebbe riferirsi a una complessità, frutto della sintesi immaginativa dell'Io, quindi una realtà divisibile in parti, che questa sintesi riporterebbe poi a una unità fittizia. Non mi pare il caso dell'eternità, il cui significato indica la durata infinita degli istanti temporali. Nessuna sintesi potrebbe mai intuire tale significato. Una sintesi unificante il concetto di vari istanti temporali potrebbe solo considerare una durata finita, in quanto se i numeri sono infiniti, ogni addizione aritmetica tesa a comprendere diversi istanti temporali non può che restare parziale, impossibilitata a comprendere l'infinita potenzialità di istanti uniti nell'idea di "eternità". Resterebbe sempre costante la possibilità di immaginare una durata delle cose più lunga di quelle immaginate dalla mente che sinteticamente unisce via via le idee di singoli istanti temporali ricavati dall'esperienza. Quindi per l'idea dell'eternità nella sua semplicità, nel sua irriducibilità all'idea di un mero assemblaggio di parti individuabili dall'esperienza e unificabili per immaginazione, resta in piedi solo l'ipotesi di essere oggetto di un'intuizione originaria, diretta, riconducibile alla serie degli atti non prodotti dall'immaginazione, ma che si riferisce a una realtà davvero esistente, una realtà adeguata a rispecchiare il significato del concetto a cui si riferisce. Poi, atterrà a un piano diverso della questione considerare se quest'esistenza dell'eternità sia identificabile con un ente trascendente, come nelle metafisiche di ispirazione religiosa, oppure immanente al mondo, in una visione in cui l'universo fisico nella sua totalità, non avrà mai fine, pur attraversando diversi fasi nel suo divenire (come nelle cosmologie non-creazioniste della filosofia greca, e in generale nelle varie metafisiche dell'immanenza, siano esse panteiste, idealiste-dialettiche o materialiste). Ma questo, credo, si potrebbe considerato forse in una discussione distinta da questa, almeno per ora.
#362
l'aspetto della rivelazione divina che si manifesterebbe storicamente all'uomo è un tratto basilare del cristianesimo che né la teologia  né quella negativa sono interessate a contestare. Ma per quanto riguarda il contesto qua specificatamente in questione, il cristianesimo, mi pare che esso abbia sempre identificato la relazione uomo-Dio, esistenziale o conoscitiva che sia, come "incontro". L'incontro è la conseguenza di due cammini di due persone che accorciano progressivamente la distanza che li separa, pur senza annullarla, e non l'invasione di uno dei due della sfera vitale dell'altro, annullando la sua libertà. Ciò in virtù di un altro dei capisaldi della teologia e antropologia cristiana, vale a dire il "libero arbitrio", per il quale l'uomo non è spettatore passivo, mero terminale dell'infusione dei contenuti religiosi rivelati dall'altro, ma persona libera e razionale, capace di rielaborare e interpretare questi contenuti sulla base dei propri parametri soggettivi di giudizio, nonché del contesto storico in cui vive, per poi poter viverli con maggiore concretezza nella propria personale situazione esistenziale (del resto se così non fosse, dovremmo vedere come del tutto insensata la polemica del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov, diretta ad accusare Gesù di aver preteso dagli uomini di essere seguito liberamente e responsabilmente, anziché far leva su un'autorità tirannica e sovrastante come la Chiesa dell'Inquisizione spagnola...). Credo che anche il più ultrafideista dei cristiani ritenga che una fede autentica non possa limitarsi a richiedere al credente un puro sentimento prodotto dalla passiva adesione a un contenuto dottrinario, ma che debba sempre implicare un atteggiamento attivo e responsabile che porta il credente ad agire in modo coerente, cercando di essere in qualche modo di farsi degno della grazia divina, in modo libero appunto.  Tutto questo mostra come l'aspetto "discensivo" della rivelazione non esclude affatto un momento "ascensivo", nel quale l'uomo mira ad accorciare la distanza che lo separa da Dio, sono due momenti che nel cristianesimo non sono contradditori, ma complementari, cioè atti a determinare l'evento dell' "incontro", indipendentemente dal fatto che tale ascensività sia guidata dalla razionalità concettuale o dalla fede come esperienza vitale-sentimentale. L' uomo può cercare di avvicinarsi a Dio sia dal punto di vista della fede che della ragione e per questo nel contesto cristiano sia la teologia negativa che quella positiva, entrambi accoglienti la rivelazione, possono riconoscere anche la possibilità di una dinamica libera che vede l'uomo attivo e non passivo nella ricerca di un'esistenza in armonia con Dio. Da un lato, anche nell'esperienza di fede, a cui la teologia negativa attribuisce centralità, il credente sviluppa un'idea di Dio costituita da categorie in fondo "positive", che hanno un senso anche per l'uomo, e d'altra parte la teologia positiva, come nel tomismo, è attenta a distinguere all'interno della scienza divina un sapere a cui può pervenire la ragione umana autonomomamente (i preambula fidei), e una componente inattingibile alla razionalità, che si può accettare solo per fede nella rivelazione, rivelazione che resta così evento fondamentale anche per essa. Quindi mi pare che il riferimento alla rivelazione non tocchi la ragion d'essere della diatriba tra teologia positiva e negativa, che resta invece una diatriba riguardante la sfera epistemologica e filosofica (non dottrinaria-dogmatica, dunque) sulla legittimità di utilizzare dei concetti come mediazioni tra immanenza e trascendenza, lasciando inalterati gli specifici significati). Quindi il richiamo a tener conto della rivelazione, pur fecondo di tante implicazioni attigue alla discussione, non sposta a mio avviso più di tanto i termini del problema come mi interessava impostarlo qua
#363
La teologia negativa nel contesto del cristianesimo occidentale (da intendersi ora nei suoi aspetti generici, al di là delle differenti sfumature in cui è stata storicamente concepita) si base sulla contestazione alla positiva, accusata di ridurre Dio alla limitatezza della mente umana, pretendendo di applicare a Dio dei concetti tipicamente umani come "sapienza, "bontà" ecc. Di fatto la accusa di una mentalità antropocentrica che pretenderebbe di innalzare l'uomo al livello divino, annullando l'infinita distanza che li separa. Ma a mio avviso, nel considerare questi concetti come solo "tipicamente umani", la teologia negativa non si accorge di cadere nello stesso errore che imputa a quella positiva: l'antropocentrismo. Perché se i concetti con cui quest'ultima cerca di descrivere Dio fossero inappropriati perché "tipicamente umani" allora vorrebbe dire che l'uomo è in fondo il criterio assoluto di senso dei concetti che utilizza, cioè questi concetti al di là della sfera dell'esperienza umana non avrebbero senso, e quest'esperienza umana verrebbe assolutizzata, posta come unico ambito possibile entro cui questi concetti manterrebbero il loro significato. Ecco cancellata la distanza ontologica Dio-uomo, proprio sulla base delle premesse della teologia negativa! Se invece, contrariamente a tali premesse, i concetti con cui l'uomo parla di Dio avessero un significato che resta tale al di là della differenza tra sfera umana e divina, ecco che le cose cambiano. Dire che "Dio è buono" non sarebbe più un assoggettare l'idea di Dio a un concetto "tipicamente umano", ma una possibilità legittima, data dall'universalità del significato della "bontà" che resta qualitativamente lo stesso, che si parli di Dio o dell'uomo, anche se cambiano le proporzioni quantitative in cui la bontà è più o meno presente. Nell'utilizzare i concetti con cui descrivere Dio, la mente umana non pretenderebbe di esserne l'origine, assolutizzandosi, ma esprimerebbe la partecipazione all'ordine divino da cui deriverebbe la possibilità di usare concetti riferiti a qualità comuni a Dio e all'uomo. Ciò in quanto i concetti che utilizza non avrebbero la loro ragion d'essere da un' indipendente attività concettualizzatrice che si realizza storicamente,  ma da un legame di dipendenza con cui la mente e i concetti umani parteciperebbero in qualche misura con la mente divina, causa ultima della possibilità del pensare umane (poi le varie correnti interne alla teologia cristiana "positiva" si sbizzarriscono nel descrivere tale rapporto di dipendenza, dall'illuminazione interiore agostiniana, all'azione dell'Intelletto agente divino tomista, all'intermediazione dell'Idea dell'Essere rosminiana tra mente umana e Dio ecc.) E da tale partecipazione deriverebbe quel rapporto di proporzione e analogia (analogia, non identità), che rende possibile un discorso teologico POSITIVO, seppur limitato e imperfetto, dunque rispettante lo scarto Dio-uomo. Insomma, la teologia negativa sembra in un certo senso fondarsi su una polemica che, fosse seguita rigorosamente e coerentemente, dovrebbe anzitutto rivolgere contro se stessa, da qui il rilievo di una sua certa paradossalità. Concluderei per ora precisando che in questo contesto non mi interessa tanto considerare le eventuali ragioni o torti della teologia positiva nell'elaborazione delle soluzioni con cui intuisce il legame tra mente umana e Dio, ma più che altro la ragion d'essere di questa autocontraddizione che rilevo all'interno della critica che queste soluzioni subiscono da parte della teologia negativa.
#364
Citazione di: sgiombo il 04 Aprile 2018, 10:19:40 AMX Davintro (e chiunque altro sia interessato, ovviamente)  Malgrado l' impiego da parte tua di termini e concetti che trovo un po' "ostici", a me poco familiari (sono forse termini "tecnici", stabiliti per significare concetti precisamente definiti nell' ambito della filosofia fenomenologica?), mi sembra di convenire per lo meno con gran parte con quanto scrivi.  Al fine di un' auspicabile chiarimento delle rispettive convinzioni e reciproco aiuto a capire, cerco di considerare criticamente i punti del tuo pensiero che non mi convincono.   "Ogni determinazione di relazione coscienziale soggetto-oggetto, ogni datità fenomenica del mondo alla nostra coscienza si presenta ordinariamente come "sintesi" (la stessa "percezione", nella sua solo apparente immediatezza e semplicità, è a tutti gli effetti un atto sintetico e complesso, l'effetto di un'unità elaborata dall'Io che si viene a formare sintetizzando la molteplicità dei lati con cui l'oggetto si presenta di diversi momenti temporali), e dunque in ogni punto di vista sul mondo, nella sua inadeguatezza dovuta alla finitezza dei nostri strumenti conoscitivi, è sempre una sintesi, un complesso di elementi che solo parzialmente rispecchiano l'esistenza delle cose". Qui a me sembra che si tocchino due diverse questioni. Una é quella della relatività, limitatezza o parzialità di ogni conoscenza (umanamente) possibile: gli "oggetti" (cose, enti e/o eventi) che conosciamo (inevitabilmente fenomenici) sono frutto di una sintesi* fra "frammenti" incompleti di insiemi e/o successioni d sensazioni fenomeniche cui abbiamo accesso cosciente inevitabilmente limitato, parziale. E su questo concordo pienamente. L' altro é quello del carattere non assolutamente, non integralmente oggettivo, ma in parte inevitabilmente soggettivo di ogni possibile conoscenza della realtà (e non, come qualche altro interlocutore ha affermato in questa stessa discussione, di ogni possibile aspetto della realtà): conosciamo fenomeni o insiemi e successioni di sensazioni, le quali a tutti gli effetti fanno parte unicamente dell' esperienza cosciente ciascun soggetto di sensazioni (di ciascuno di noi) e non sono "cose in sé" reali anche indipendentemente dall' eventuale accadere delle sensazioni fenomeniche coscienti stesse: quando chiudo gli occhi lo schermo e la tastiera qui davanti, che non sono altro che insiemi e successioni di sensazioni nell' ambito della mia coscienza, ovviamente non esistono (sarebbe una plateale contraddizione pretenderlo!); e se (come non può essere dimostrato né tantomeno -per definizione!- mostrato, constatato empiricamente, ma solo ipotizzato ed eventualmente creduto arbitrariamente per fede) anche quando ho gli occhi chiusi continua ad esistere qualcosa che spieghi come mai nonappena li riapro riappaiono (= ricominciano ad esistere, ad essere reali come fenomeni) schermo e tastiera, allora tale "qualcosa" non é un insieme o successione di sensazioni, non é qualcosa di apparente alla coscienza (fenomeno) ma invece é qualcosa di meramente congetturabile (noumeno). Dunque tutto ciò che é conoscibile come fenomeno (nell' ambito dell' esperienza cosciente di un "soggetto") non é oggetto in sé (noumeno) ma una sorta di sintesi** fra soggetto ed oggetto (entrambi in sé o noumeno; ovviamente nel caso indimostrabile né mostrabile cose in sé o noumeno esistano realmente; caso nel quale, a proposito di essi, si avrebbe una conoscenza "eccezionalmente" eccedente i fenomeni: la conoscenza, della realtà -sia pure del tutto "oscura", non immaginabile, non sensibile- del noumeno stesso, e in particolare nel suo ambito del soggetto e degli oggetti di sensazione fenomenica). Qui andrebbe affrontato il caso della sensazione fenomenica cosciente "riflessiva" del soggetto in quanto -anche- oggetto da parte di se stesso in quanto -anche- soggetto; ma me ne astengo avendone già parlato in precedenti interventi, anche recentissimi.   Sulla psicoanalisi il mio dissenso é totale e starei per dire "assoluto", dato ciò che ne penso, e dunque tralascio completamente la questione (che peraltro mi pare marginale rispetto all' argomento in discussione). Credo che nell' ambito di ciascuna esperienza fenomenica cosciente si possano distinguere due componenti (due diversi "tipi" di insiemi-successioni di sensazioni), comunque entrambe parimenti reali: una intersoggettiva (cioè che é possibile ipotizzare -ed eventualmente credere- che possa accadere-apparire in qualsiasi esperienza cosciente purché il suo soggetto compia "le opportune osservazioni", "si comporti nelle dovute maniere"), e l' altra meramente soggettiva (cioè accessibile-apparente-reale unicamente in ciascuna esperienza cosciente in cui accada e in nessun altra). La prima é costituita dalle sensazioni materiali "corrette" o "autentiche" (non allucinatorie od oniriche: l' autentica "res extensa"), reali nell' ambito di qualsiasi esperienza cosciente in cui accadano, alle quali si può ipotizzare (ed eventualmente credere) biunivocamente corrispondano-coesistano-coaccadano nella realtà in sé o noumeno gli stessi -i medesimi per ciascuna esperienza cosciente- "enti e/o eventi" non sensibili ma congetturabili, "in sé". La seconda é costituita dalle sensazioni materiali "inautentiche" (oniriche o allucinatorie) e dalle sensazioni mentali o di pensiero (compresi sentimenti, ricordi, ecc: la res cogitans), del tutto ugualmente reali in ciascuna esperienza fenomenica in cui accadano, ma senza che sia pensabile che ad esse biunivocamente corrispondano-coesistano-coaccadano nella realtà in sé o noumeno gli stessi -i medesimi per ciascuna di esse- "enti e/o eventi" non sensibili ma congetturabili, "in sé"; ma invece "enti e/o eventi in sé" reciprocamente diversi, altri fra l' una e l' altra esperienza fenomenica cosciente considerata. Al sogno dell' esplosione in casa tua (nella tua esperienza cosciente) corrisponde biunivocamente nella realtà in sé qualcosa di meramente soggettivo (qualche determinato evento nell' ambito di "te", del soggetto in sé della tua esperienza cosciente), che non corrisponde biunivocamente anche ad alcunché in alcun altra esperienza cosciente***, esattamente come ai tuoi pensieri, ricordi, immaginazioni, sentimenti, ecc.; mentre invece alle percezioni sensibili della tua casa realmente indenne da incendi si può ammettere corrispondano biunivocamente i medesimi "enti e/o eventi in sé" che parimenti corrisponderebbero (e di fatto corrispondono, se e quando si danno le circostanze "appropriate") ad analoghe sensazioni coscienti in qualsiasi altra esperienza fenomenica purché il soggetto di essa si venga a trovare con tali "cose in sé o noumeniche" "in rapporti analoghi a-" -i tuoi. Dunque può essere e per lo meno talora di fatto é problematico differenziare all'interno delle sintesi fenomeniche che costituiscono le diverse modalità di coscienza del mondo gli elementi rispecchianti l'esistenza oggettiva [l' intersoggettiva percezione fenomenica dei medesimi oggetti in sé] da quelli che restano puramente interni all'apparire soggettivo [riflessivamente soggetto-oggetto di esse in questi casi]. Ma credo che, se quanto (apparentemente per lo meno) ci dicono gli altri uomini con cui parliamo é realmente discorso significante e non casuale sequenza di sensazioni fenomeniche solo casualmente simulanti, per una stranissima coincidenza fortuita, le sequenze sensate di simboli verbali significanti che noi stessi usiamo (cosa a rigore indimostrabile, come d' altra parte la stessa veridicità della memoria), e se inoltre gli altri parlanti (comunemente) non ci ingannano (e comunque quandanche lo facessero sarebbe in linea di principio possibile smascherarli), allora lo si possa fare attraverso il confronto dialogico fra le descrizioni delle sensazioni materiali di ciascuno. Concordo dunque che "non [ne] deriva la non validità della categoria di "esistenza" utilizzato per comprendere una determinata specie di enti. E non ne deriva, ad esempio la non-validità di una possibile distinzione semantica con l' "essere": perché se possiamo definire "esistenza" tutto ciò che è tale al di là della sua pensabilità o meno, l' "essere" può considerarsi come categoria più ampia, in quanto è quell'idea universale che necessariamente utilizziamo per giudicare qualunque cosa, anche non reale, a cui però attribuiamo un determinato senso, in base a cui quell'ente diviene soggetto a cui attribuire predicati, cioè oggetto, appunto, di giudizio", e che "L'essere è la forma trascendentale [?] che consente ogni concettualizzazione e definizione delle cose, di fatto ogni pensabilità, in quanto per pensare qualcosa, occorre attribuire a quel qualcosa, una qualunque qualità, che la renda distinta da un "nulla", un puro non-essere, di fatto l'impensabile Concordo anche sugli esempi di Babbo Natale e di del preteso cerchio-quadrato. Non su quello del "nulla", che a mio parere, contrariamente al cerchio quadrato, ha un senso logicamente corretto, non contraddittorio, anche se (analogamente al noumeno) non possiamo immaginarlo (raffigurarcelo fenomenicamente nella mente, con la fantasia); ma lo possiamo comunque pensare e ne possiamo comunque parlare sensatamente.   Non ho capito le considerazioni finali sulla "polarità fra essere (concettuale) e non essere". Che comunque mi sembra siano pertinenti l' "essere (concettuale)" e non la realtà (l' "essere reale"); mentre questa mi pare -per quel poco che ne so per sentito dire- sia invece ciò cui attribuisce diverse gradazioni di "essere (reale: dunque di realtà)" Tommaso d' Aquino.   *** Per la verità credo (indimostrabilmente come al solito) che almeno potenzialmente e indirettamente vi corrispondano biunivocamente certi determinati eventi neurofisiologici nell' ambito del tuo cervello.



il punto che mi lascia maggiormente perplesso è quello che mi porta a notare il rischio di un'eccessiva sovrapposizione tra l'idea di oggettività e quello di intersoggettività, come se il superamento della condizione di limitatezza e imperfezione della conoscenza della realtà fosse via via attuabile a partire da conferme dei contenuti di esperienza condivisi con altre coscienze. La distinzione soggetto-oggetto è una distinzione qualitativa, e dunque è solo da un punto di vista qualitativo, che un soggetto può razionalmente parlando avvicinarsi alla verità sull'oggetto, tramite un processo autocritico di sospensione dei pregiudizi interni che filtrano la datità evidente fenomenica dell'Oggetto. In un certo senso si può dire che il soggetto dovrebbe negarsi in quanto tale aprendo la sua coscienza al disvelarsi della cosa oggettiva nella sua autenticità. L'intersoggettività sarebbe un'estensione quantitativa dell'idea di soggetto inteso come singolarità, e in quanto tale, estensione insufficiente a garantire razionalmente la corrispondenza fra fenomeno coscienziale soggettivo e "cosa stessa" oggettiva, corrispondenza garantibile solo dal punto di vista qualitativo, cioè nell'adeguatezza (qualità) degli strumenti gnoseologici nel rappresentare la realtà. Non sufficiente ma nemmeno non necessario: posso formulare un giudizio di verità in solitario sulla realtà, in contrasto con le opinioni intersoggettive degli altri che invece sbagliano. Questo del resto è sempre stato il caso di ogni svolta o progresso scientifico, nel quale le scoperte di singoli o di minoranze si sono via via rivelate più vere rispetto alle tesi che inizialmente dominavano dal punto di vista dell'intersoggettività della comunità scientifica nelle varie epoche. Il che non implica che l'intersoggettività non debba avere alcun significato o incidenza nella ricerca della verità: la corrispondenza fra la mia personale visione delle cose e quella di altre coscienze, che si rivolgono ad un mondo di oggetti comune, offre delle conferme che aumentano le possibilità di validità della visione in questione. Infatti è ipotizzabile che quanto sia più ampia la condivisione intersoggettiva dei fenomeni, tanto più diminuiscono le possibilità dell'errore, in quanto la visione del singolo trova conferma nelle visioni altrui, mentre diviene sempre più improbabile la frequenza degli errori negli strumenti di giudizio delle varie coscienze. Però al massimo possiamo pensare a una sorta di "prova indiziale" con cui l'intersoggettività contribuirebbe alla legittimazione della verità, ma non si arriva mai ad una certezza, ad un'autentica fondazione razionale della pretesa di verità, esigenza che può essere assolta solo qualitativamente, cioè nel riconoscimento dell'efficienza degli strumenti di conoscenza nel saper rispecchiare le cose in se stesse.

Per quanto il discorso sulla polarità tra "essere" e "nulla" , intendevo l'idea secondo cui ente può appartenere in misura maggiore o minore al piano dell' "essere" o del "nulla", dal punto di vista per cui la qualifica di "essere" implica la sua intelligibilità: cioè se il presupposto per poter conoscere (cioè giudicare) qualcosa presuppone il riconoscere ad esso quantomeno una certa determinatezza, seppur generica (perché attribuire un predicato a un soggetto presuppone che il soggetto abbia un suo senso, cioè sia un "qualcosa", un non-nulla), vale a dire un certo "essere", allora quanto più qualcosa è intelligibile, pensabile, tanto più partecipa dell' "essere" e si distacca dal "nulla", cioè dal non-senso di un concetto che si definisce  come negazione della "conditio sine qua non " dell'affermabilità delle cose, cioè l'idea di Essere (il Nulla si definisce come non-essere). Ecco perché il cerchio quadrato sembra avere più a che fare col Nulla che con l'Essere: è un concetto assurdo, senza senso, ingiudicabile, eppure in qualche modo riusciamo a pensarlo, a formalizzarlo linguisticamente, anche solo per dire che è qualcosa di assurdo... Ecco perché lo vedo come un concetto "border-line", ambiguo, sulla soglia tra Essere e Nulla, in qualche modo pensabile e dicibile e per altro aspetto assurdo e inconcepibile. Ed è proprio un caso come questo che mostra come Essere e Nulla debbano essere visti non tanto come ambiti nitidamente separati, ma come "polarità", tendenze, fattori in opposizione che però convivono in ogni cosa, in misura diversa sulla base del grado di intelligibilità e sensatezza della cosa. Comunque capisco che, a complicare il tutto, ci si mette la sintassi grammaticale della lingua italiana per la quale non ha alcun senso dire che qualcosa "è più Essere di qualcos'altro". Diciamo che potremmo trovarci in uno di quei casi in cui la radicalità del pensare filosofico si trova a dovere fare violenza sulle regole grammaticali, cioè il linguaggio mostra la sua inadeguatezza rispetto al pensiero.
#365
Essendo il linguaggio una convenzione, non esistono definizioni in assoluto "appropriate" o "inappropriate", quindi, ammettendo come lecita l'accezione del concetto di "esistenza" come definente quella sfera di enti che sono reali indipendentemente dalla volontà e dal pensiero di un Io, allora abbiamo a disposizione un criterio  per distinguere semanticamente il concetto di "esistenza" da quello di diverse categorie ontologiche, come ad esempio quello di "essere", per il fatto che distinte categorie convivono all'interno dei singoli vissuti di coscienza. Ogni determinazione di relazione coscienziale soggetto-oggetto, ogni datità fenomenica del mondo alla nostra coscienza si presenta ordinariamente come "sintesi" (la stessa "percezione", nella sua solo apparente immediatezza e semplicità, è a tutti gli effetti un atto sintetico e complesso, l'effetto di un'unità elaborata dall'Io che si viene a formare sintetizzando la molteplicità dei lati con cui l'oggetto si presenta di diversi momenti temporali), e dunque in ogni punto di vista sul mondo, nella sua inadeguatezza dovuta alla finitezza dei nostri strumenti conoscitivi, è sempre una sintesi, un complesso di elementi che solo parzialmente rispecchiano l'esistenza delle cose. Ad esempio il sogno, quantomeno nel modo in cui viene tematizzato nella psicoanalisi, è il prodotto di una elaborata sintesi unificatrice di molteplici elementi psichici (Freud parlava di "condensazione" a quanto ricordo), che però rivela in uno sguardo analitico, le distinzioni tra dei momenti di verità, cioè di rappresentazione dell' "esistente", ed altri di illusioni, di fenomeno meramente coscienziale senza alcuna attinenza con la sfera dell'esistente. Riconosco che l'esplosione in casa mia sognata qualche notte fa è solo (fortunatamente) è solo un'apparenza non corrispondente ad un evento esistente, ma esistenti sono le tendenze psichiche inconsce, che hanno generato quelle immagini oniriche. Nella misura in cui avvertiamo che quelle tendenze sono eventi reali della nostra psiche, indipendentemente dalle opinioni che sulla psiche si può avere, è possibile in sede di analisi, cioè di scomposizione della sintesi utilizzare legittimamente il criterio di esistenza differenziando ciò che esiste da ciò che non esiste. Dunque, dal riconoscere la problematicità di differenziare all'interno delle sintesi fenomeniche che costituiscono le diverse modalità di coscienza del mondo gli elementi rispecchianti l'esistenza oggettiva da quelli restano puramente interni all'apparire soggettivo, problematicità che è un carattere costante di ogni nostra conoscenza, non deriva la non validità della categoria di "esistenza" utilizzato per comprendere una determinata specie di enti. E non ne deriva, ad esempio la non-validità di una possibile distinzione semantica con l' "essere": perché se possiamo definire "esistenza" tutto ciò che è tale al di là della sua pensabilità o meno, l' "essere" può considerarsi come categoria più ampia, in quanto è quell'idea universale che necessariamente utilizziamo per giudicare qualunque cosa, anche non reale, a cui però attribuiamo un determinato senso, in base a cui quell'ente diviene soggetto a cui attribuire predicati, cioè oggetto, appunto, di giudizio. L'essere è la forma trascendentale che consente ogni concettualizzazione e definizione delle cose, di fatto ogni pensabilità, in quanto per pensare qualcosa, occorre attribuire a quel qualcosa, una qualunque qualità, che la renda distinta da un "nulla", un puro non-essere, di fatto l'impensabile. Babbo Natale non esiste fattualmente, ma nella misura in cui è oggetto di pensiero, immaginazione, giudizio, è un "non-nulla", dunque rientra nell' Essere. Per quanto riguarda il cerchio quadrato le cose si complicano, qui saremmo di fronte non a una semplice mancanza di esistenza fattuale, ma di una interna contraddittorietà, che rende il suo concetto assurdo, impensabile, al di là di ogni intuizione. La sua mancanza di senso lo avvicina alla condizione del concetto di "nulla", il cui significato è respingente quello di "essere", che lo renderebbe intuibile. Ecco perché i concetti autocontradditori hanno forse a più spartire con l' ambito del nulla" che con l' "essere", ed ecco perché forse è limitante concepire "essere" e "nulla" come dimensioni nitidamente distinti da un ben definito e discreto confine in base a cui collocare chiaramente i diversi concetti in una sfera o nell'altra, ma è più valido piuttosto vederli come delle "polarità" opposte che delineano una tensione che contraddistingue ogni ente, che partecipa a una delle due sfere in modo maggiore o inferiore, ed allora avrebbe senso dire che qualcosa "è" più di un altra che ci sono diversi gradi di partecipazione delle cose all' Essere, rivalutando un certo modo di intendere l'ontologia, come ad esempio quello tomista, che prevede appunto diversi livelli, superiori e inferiori, di adesione degli enti all'essere.
#366
Individuare criteri oggettivi per valutare una presunta superiorità morale del "pensare" o del "sentire" avrebbe un senso solo a condizione di vedere i due concetti come diverse funzioni indirizzate però allo stesso obiettivo, per valutare quale dei due sia più efficace al suo raggiungimento. Ma non è questo il caso, in quanto "sentire" (da intendersi nella sua generalità semantica come il genere di tutti gli atti con cui un soggetto apprende IMMEDIATAMENTE i contenuti dei propri atti esperienziali) e "pensare", inteso come attività mediata e rielaboratrice dei contenuti, sono due ambiti non sovrapponibili, intenzionati vero mete differenti e complementari. Il sentire nella sua immediatezza ci fa apprendere i contenuti della nostra esperienza (intendendo "sentire" come comprendente le sensazioni che sono fase basica del processo di conoscenza, il sentire assiologico con cui intenzioniamo valori morali, l'intuizione intellettuale con cui cogliamo i significati intelligibili delle cose, specie di atti molto diversi fra loro, ma accomunati dal carattere di immediatezza, che va con un atto semplice a riempirsi dei propri contenuti), mentre con il pensare questi contenuti vengono analizzati, sintetizzanti, ricondotti a concetti e categorie generali, che sono poi i termini dei giudizi componenti le nostre conoscenze. Parafrasando Kant, il pensare senza sentire e vuoto, il sentire senza pensiero è cieco, caotico, insensato. Inoltre, come ricordato da bobmax, queste due dimensioni non sono solo complementari ma anche interrelate: quanto più intensamente sento una realtà, un valore, tanto più avvertirò l'esigenza di non lasciare la visione ad esso riferita allo "stato brado", ad una condizione di confusione o dispersione, bensì a tematizzare riflessivamente, individuando le proprietà specifiche dell'oggetto, le sue cause, le implicazioni concettuali ecc. , e d'altra parte il pensare porta a il contenuto sentito ad essere interrogato riguardo il livello di corrispondenza con la verità oggettiva delle cose, mentre un sentire lasciato a se stesso sarebbe condannato a fermarsi al piano della pura apparenza soggettiva impossibilita a riconoscersi come qualcosa d'altro da essa. Stabilire "cosa è meglio" resta così demandabile a un arbitrio soggettivo: ciascuno di noi come individuo comprende entrambe le dimensioni e le reciproche connessioni, ma sulla base delle proprie attività e interessi più abituali, professionali e non, ciascuno tende a sviluppare a livello consapevole primariamente una rispetto all'altra, continuando a utilizzare la non-privilegiata ad livello più inconsapevole, ma al tempo stesso forse più profondo (su quanto le dicotomie che contraddistinguono la nostra vita psichica agiscano in modo differenziato in relazione a diversi tipi di personalità andando a situarsi a diversi livelli di profondità psichica,  con aspetti dominanti presenti nel conscio e aspetti inferiori ma comunque presenti e in atto inconsciamente, potrebbero  fornirci alcuni spunti le analisi di Jung o della sua allieva Von Franz, nei loro studi sui diversi tipi psicologici e sulle funzioni cognitive). Ad esempio immagino che un artista si affidi prevalentemente al sentire, alla capacità di raccogliere interiormente sentimenti, immagini sensibili da poter poi esprimere in un linguaggio figurativo, mentre un filosofo, un logico, un matematico sarà orientato a privilegiare l'aspetto di riflessione e di analisi nel suo lavoro, fermo restando che anche l'artista necessita di pensiero, nell'elaborare valide tecniche di creazione artistica efficaci nell'espressione dei contenuti sentiti, così come il filosofo, il logico, il matematico necessitano di una dimensione di immediatezza, in particolare di intuizione intellettuale alla luce dell'intelligibilità dei loro oggetti di indagine, che offre loro i contenuti su cui la riflessione si applica. Ciò che cambia è la costanza e l'intensità con cui la consapevolezza dell'Io si orienta su l'una e l'altra dimensione, nei diversi casi.
#367
Attualità / Re:Il dilemma del PD!
25 Marzo 2018, 23:21:53 PM
certamente l'essere ormai da molto tempo lo stabile perno delle maggioranze governative ha condotto il Pd ha essere percepito dall'opinione pubblica come la forza politica maggiormente identificabile con un sistema di potere, facile oggetto degli strali e della propaganda polemica delle opposizioni, e un periodo di opposizione potrebbe aiutare il partito a scrollarsi di dosso questa immagine e a tornare a presentarsi come più vicino al disagio di molte fasce sociali. E tuttavia non è corretto interpretare le cause dei problemi e delle sfortune elettorali del Pd solo alla luce delle dinamiche "forza di governo-impopolare vs opposizione-popolare". La crisi elettorale delle forze che si richiamano ai princìpi socialdemocratici o più in generale di centrosinistra è un fenomeno non italiano ma europeo (lo stesso Labour di Corbyn che alcuni additerebbero come felice eccezione in controtendenza è lontanissimo dai consensi dei tempi di Blair). Cioè l' identificare le ragioni della disastrosa sconfitta solo con la partecipazione al governo, e il periodo dell'opposizione come la panacea di tutti i mali è una visione semplicistica. Esiste la possibilità che queste elezioni abbiano segnato una netta svolta nel processo di presa di coscienza da parte dei cittadini del superamento, o quantomeno indebolimento, della dicotomia destra-sinistra come perno dialettico ideologico tra forze politiche, in favore di uno schema a mio avviso più rappresentativo, quello che contrappone le forze contestatrici verso la globalizzazione e l'espansione a livello internazionale dei commerci e delle rapporti economici, e chi vede invece la globalizzazione come coerente sviluppo del sistema economico del libero mercato, considerato unico modello possibile di crescita in termini di benessere. Possiamo individuare nel primo "polo" quelle forze considerate come le ali estreme della destra e della sinistra, per le quali l'opposizione alla globalizzazione è coerente con l'ideologia antiliberale e con un'idea dello stato interventista, seppur declinate in forme radicalmente diverse sulla base delle varie scuole di dottrina politica, nel "secondo polo" le componenti moderate dello schieramento, sostenitrici del libero mercato e di uno "stato "leggero", rispettoso dell'iniziativa privata in economia e della libertà individuale nelle questione inerenti la morale personali (liberismo e libertarismo). A riprova di tutto ciò basterebbe considerare l'impressionante somiglianza di pensieri tra esponenti politici e intellettuali, che in una concezione dello spettro delle dottrine politiche "rettilinea" dovrebbero essere in antitesi, ma che in una "sferica", ove gli estremi si toccano, mostrano la loro contiguità. Possiamo considerare un Diego Fusaro, che si presenta come un filosofo marxiano esprimere tesi sul tema dell'immigrazione o del rapporto stato-diritti individuali molto più simili a quelle espresse da Casa Pound rispetto a politici di sinistra liberale come i radicali di Emma Bonino, o, dall'altra parte, esponenti di forze che si richiamano al neofascismo presentare programmi politici di impronta statalista e assistenziale che in gran parte un socialista condividerebbe.

Un governo 5Stelle-Lega potrebbe determinare nel complesso della dialettica delle forze politiche uno schema più inerente a questa dicotomia ideologica. Immagino che un governo Lega-5 Stelle, spingerebbe Forza Italia ad allontanarsi dall'alleato ed a convergere, spezzando l'unità del centrodestra, verso posizioni di centrismo liberaldemocratico. E su questa posizione potrebbe convergere l'altra grande forza d'opposizione, il Pd, una volta preso atto della crisi del modello socialdemocratico in Europa (una svolta a sinistra dopo la fine della leadership di Renzi sarebbe una opzione sterile, considerando il disastroso risultato delle forze che si aspettavano di raccogliere voti in uscita dal Pd da sinistra, vedi Liberi e Uguali). Il Pd potrebbe comunque mantenere, pur in approdo più forte al liberalismo in campo economico, un'identità "di sinistra" dal punto di vista dei temi etico-sociali, promuovendo una politica progressista a favore dell'avanzamento dei diritti civili e umani (eutanasia, riforma della giustizia in senso garantista e rispettosa dei diritti dei detenuti, opposizione a derive autoritarie sotto il pretesto di una presunta "emergenza sicurezza" ecc.). Cioè si formerebbe un nuovo bipolarismo: non più imperniato sull'asse centrodestra-centrosinistra, ma più su un asse nazionalismo critico dei processi di globalizzazione (Lega, 5 Stelle, movimenti di estrema destra e sinistra extraparlamentari) e uno coerente con i valori liberaldemocratici (Forza Italia- Pd, Radicali). Capisco che forse ho volato troppo in alto con l'immaginazione, e probabilmente la mia risulterà una visione troppo schematica e semplicista, tuttavia il contesto in cui siamo a discutere e il tentativo di offrire una panoramica complessiva della situazione, rende più necessario forse un approccio sintetico, "a volo d'uccello", che eccessivamente minuzioso (quest'ultimo certamente necessario in contesti diversi da questo)
#368
ringrazio tutti per l'attenzione e le delucidazioni.

 

Ciò che mi verrebbe ora da osservare è la possibilità di considerare come un interessante fattore, l'idea di come l'assunzione di un'accezione rigidamente materialista del marxismo, nella quale la struttura (economia) pare presentarsi come principio assoluto e autosufficiente degli eventi storici, vada contestualizzata nell'epoca in cui Marx ed Engles vissero, l'ottocento culturalmente dominato dall'egemonia filosofia del positivismo, con la sua visione della storia per la quale i fattori naturalistici, studiabili dulla base delle scienze utilizzanti il linguaggio quantitativo e matematizzante  finiscono col determinare l'esistenza della dimensione qualitativa-spirituale, privata così di una effettiva autonomia. Sarebbe cioè possibile che alcune sfumature o modalità interpretative insite nel marxismo possano essere state motivate dal clima ideologico dell'epoca in cui sorse. Controprova di ciò potrebbe essere identificata nel fatto che nel secolo successivo, con la crisi del paradigma positivistico(anche sulla base dei nuovi indirizzi epistemologici, penso in particolare al falsificazionismo popperiano), sorsero letture del marxismo nelle quali, al di là delle varie differenze, tratto comune era il presentare la teoria come sempre più svincolata dall'appiattimento verso un rigido determinismo economicistico avente pretese di scientificità, e sempre maggiore ambiti di autonomia alla coscienza soggettiva e individuale venivano riconosciuti nell'opera di costruzione della dinamica storica (penso all'esistenzialismo sartriano, o alla scuola di Francoforte o a Gramsci che si rifacevano in larga misura a correnti filosofiche dalle premesse teoriche per certi aspetti antitetici al positivismo, come l'idealismo hegeliano o il neoidealismo gentiliano): insomma, un marxismo umanistico, che effettivamente sembra molto più in linea, con i chiarimenti, che qua in particolare Sgiombo ha portato. In questo senso si renderebbe ben maggiormente ragione di questa visione della storia nella quale gli interessi economici non determinano in modo meccanicistico la "sovrastruttura", ma dove lo "spirito", comprendente anche il senso morale individuale e l'idea di giustizia di ciascuno interagiscono attivamente con le dinamiche economiche, senza ridursi a effetto passivo di queste ultime.

Connesso a tutto ciò sarebbe interessante lasciar emergere un'altra questione, cioè se l'impianto materialistico anche nel senso ontologico (ateismo e definizione della religione come "oppio dei popoli) possa cessare di essere visto come elemento necessario del marxismo, ma solo sua possibilità accidentale, mentre la sua necessità, sarebbe solo un'apparenza effetto del clima materialistico tipico dell'ottocento positivista (considerando per "religione" non necessariamente aderenza a una determinata confessione storica organizzata, ma anche un generico senso della trascendenza spirituale).
#369
Tematiche Filosofiche / materialismo storico e morale
23 Febbraio 2018, 18:42:42 PM
Volevo sottoporre un quesito riguardo ad un'eventuale argomento che mi pare possa essere visto in opposizione all'idea di un materialismo storico rigidamente inteso, base teorica del marxismo. Premetto che l'argomento è, quantomeno apparentemente, banale e semplicista, e personalmente sono anche ostacolato dal fatto di avere una conoscenza ancora abbastanza vaga dal marxismo. Tuttavia non sempre la semplicità è fattore invalidante a livello teoretico un'argomentazione, e una tesi, proprio in quanto affrancata da condizionamenti legati al timore reverenziale, che ci spinge a "non credere ai nostri occhi" di fronte alla possibilità che anche giganti della storia del pensiero possano aver compiuti errori evidenti e grossolani, può essere in grado di cogliere tali errori. Il bambino che nel suo candore e nella sua semplicità ha avuto nella favola il coraggio di gridare "il re è nudo" in fondo diceva la verità.

 

Il fatto che Marx, e molti altri seguaci (come anche ai giorni nostri) provenissero da ceti sociali benestanti e borghesi, non potrebbe essere sintomo dell'errore di impostazione della dialettica materialistica per la quale la struttura (interesse economico) determina la sovrastruttura (tutto ciò che a che fare con lo "spirito", morale, religione, diritto ecc.)? Nel caso di Marx e dei tanti marxisti borghesi di origine appare del tutto evidente come questo schema dialettico appaia invalidato: la "sovrastruttura", la loro coscienza morale, la loro concezione (condivisibile o meno) di giustizia, di anelito verso una società senza più sfruttati e sfruttatori, li ha spinti a elaborare e diffondere una filosofia chiaramente sovversiva finalizzata alla promozione di una coscienza di classe proletaria, che avrebbe nel tempo condotto all'estinzione del dominio sociale della borghesia, vale a dire del loro ceto di origine. Dunque agendo contro gli interessi della loro classe di appartenenza, i marxisti borghesi mostrano di aver anteposto i loro ideali etici-politici (sovrastruttura) rispetto al loro interesse di classe, che avrebbe dovuto mirare a non fare nulla che potesse incrinare l'egemonia borghese nella società (struttura). Come appare evidente, tutto ciò dovrebbe essere impossibile tenendo per valido lo schema materialistico della sovrastruttura del tutto vincolata alla struttura, in quanto la possibilità di individui pensanti ed agenti in contrapposizione agli interessi economici della loro classe, mostra un margine di autonomia della "sovrastruttura", la coscienza morale capace di condurre l'individuo a contrapporsi ai propri interessi economici particolari in nome di valori universali, rispetto alla "struttura", consistente nella figura del borghese che difende i suoi interessi, e così chiama in causa un'antropologia non schiacciata sul materialismo, un'idea di coscienza umana che, alla luce di una dimensione spirituale, seppur immanente quanto si voglia, sappia porre come valore assoluto un'ideale di giustizia, al di là degli interessi di parte, che la porta a svincolarsi dal condizionamento classista ed economicista. La coscienza di un borghese che pensa ed agisce nella storia sulla base di un ideale che contrasta gli interessi della borghesia, non può più essere definita "coscienza borghese", ma solo "coscienza umana". Ne discenderebbe una visione della storia, dove il motore degli eventi non può più identificarsi unilateralmente con gli interessi economici, le lotte fra classi, la "coscienza di classe", ma dove i fattori economici (ovviamente sempre fondamentali) agiscono nell'interazione con fattori non economici come un'intenzionalità morale, che porta gli individui a perseguire dei concetti di "bene" e "giustizia", anche quando questo implica il sacrificio degli interessi economici della classe sociale a cui appartengono. Si può dire che l'esempio di marxisti non proletari da un lato nobilitano una visione della storia a cui viene restituito quel carattere di complessità che rischiava di venir perso in un eccessiva rigidità materialistica determinista, per la quale ogni espressione dello spirito umano andava interpretata sulla base della "classe", ma dall'altro sembrerebbe porli di fronte ad una contraddizione, o almeno ad un paradosso teoretico, meritevole di riflessione e autocritica.

Sarebbe interessante invitare chi conosce molto meglio di me il marxismo, le sue evoluzioni storico-filosofiche, a chiarire questo punto, chiedendo scusa per le inevitabili cantonate a cui in virtù delle mie superficiali conoscenze di questo tema, sarò andato incontro nell'esposizione della questione.
#370
a me pare che un rifiuto davvero coerente con l'antropocentrismo (nella misura in cui lo intendiamo come idea di una superiorità morale della vita umana rispetto alle altre forme di vita, o più in generale verso ogni forma di esistenza nel mondo), dovrebbe condurre a una conseguenza che molti critici stessi dell'antropocentrismo avrebbero probabilmente timore di riconoscere e ammettere. La conseguenza sarebbe la totale indifferenza verso ogni forma di cultura, verso la filosofia, l'arte, la letteratura, la scienza, la morale stessa, tutti prodotti del pensiero astratto che contraddistingue la vita umana rispetto ad ogni altra forma di vita. Perché, se il fatto che solo un essere umano potrebbe scrivere un'opera filosofica, elaborare una teoria scientifica, comporre una sinfonia musicale, dipingere un quadro, proporre un modello riforme economiche e sociali che aumentano il benessere e la libertà delle persone, non è considerato come parametro sufficiente per legittimare una superiorità morale rispetto a chi tutte queste cose non ha gli strumenti intellettuali per produrre, allora implicitamente significa che ad esse non viene riconosciuto alcun valore. Come si può riconoscere il valore di qualcosa senza al contempo condividere l'attribuzione di valore con il soggetto che ha reso possibile quel qualcosa, senza il quale quel qualcosa non sarebbe mai potuto essere creato? Come posso amare la musica senza al contempo far sì che un grande cantante o musicista possano essere ammirati in quanto tali, come creatori di qualcosa che amo, come depositari di una stima che contribuisce ad innalzarli rispetto agli altri? (ovviamente l'amore per la musica è solo un esempio in particolare, non è l'amore per la musica sia di per sé sufficiente a far stimare nel complesso i musicisti rispetto ai non-musicisti IN ASSOLUTO, in quanto la musica è solo uno dei tanti, non necessariamente tra i più importanti, fattori che contribuiscono a formare un giudizio sulla personalità complessiva della persona, ma, nel suo piccolo, contribuisce ad orientare la simpatia od antipatia, cioè il giudizio di valore, assieme a tutti gli altri).

preciso che ciò non vuol dire che ritenga l'antropocentrismo una posizione più (o meno) razionale dell'anti-antropocentrismo, in quanto considero che le preferenze di valore non siano legittimabili sulla base di una razionalità che abbia di mira la corrispondenza fra discorso e realtà oggettiva, dato che i valori non sono fatti, ma idee che ciascuno di noi elegge a criteri soggettivi di valutazione delle cose o degli eventi. La razionalità entra in gioco, però nel rilevare la coerenza interna sussistente fra determinate premesse e le implicazioni, e in questo senso la svalutazione dei prodotto della peculiarità dell'uomo, vale a dire la cultura, mi pare conseguenza inevitabile dalla premessa della svalutazione dell'uomo, e la sua rimozione da un livello si superiorità rispetto alla natura (superiorità che tra l'altro non toglie affatto necessariamente una certa misura di rispetto a ciò che collochiamo nei piani inferiori, essendo l' "inferiore" un concetto che rimanda ad una negatività non assoluta, ma solo comparativa, è cioè una forzatura pensare che un giudizio di valore sulla superiorità dell'uomo implichi necessariamente il disprezzo per tutto il resto delle cose, per gli animali, le piante, le bellezze della natura ecc, semmai richiama piuttosto l'appello ad una maggiore responsabilità dell'uomo stesso nei confronti della relazione con tutto ciò).
#371
Tematiche Filosofiche / Re:oggetto e soggetto
04 Febbraio 2018, 23:50:01 PM
Citazione di: Socrate78 il 03 Febbraio 2018, 10:24:16 AMIn realtà etimologicamente e anche dal punto di vista grammaticale "soggetto" significa qualcosa di assai diverso rispetto al significato universalmente e comunemente impiegato, che denota di fatto ignoranza dell'etimologia e del vero significato. In realtà "SOGGETTO" deriva da "sub-iectum", che significa " essere gettato sotto, essere posto in posizione subordinata". In posizione subordinata rispetto a che cosa? Rispetto al verbo! Infatti è il verbo il centro vero della frase a cui tutto è subordinato e attorno a cui tutto ruota. La definizione di soggetto come "colui che compie l'azione" è falsa anche perché il soggetto nella forma passiva del verbo è "colui che subisce l'azione", quindi come puoi vedere la definizione comune non rispecchia la vera realtà del soggetto nella grammatica. In filosofia, invece, le cose stanno diversamente e quindi in quel caso il soggetto è veramente ATTIVO: la parola soggetto indica la persona che conosce e sperimenta la realtà, mentre l'oggetto è ciò che viene conosciuto: la passività del soggetto della grammatica viene capovolta quindi in un soggetto attivo, che conosce, vede, tocca e sperimenta. Nella storia del pensiero vi furono poi interessanti evoluzioni nel concepire il rapporto tra soggetto ed oggetto: nella filosofia medievale la conoscenza non è altro se non "adeguatio intellectus rei" (adattamento della ragione alla realtà), il che vuol dire che esisterebbe un mondo oggettivo, autentico, esterno al soggetto che conosce e la ragione deve quindi adattarsi a tale verità esterna. Poi, da Cartesio in avanti passando per Kant e per finire con Husserl, ecco che il soggetto non si limiterebbe a conoscere, ma anche a costruire la realtà in base a criteri interni, come sono le forme a piori kantiane: la realtà esterna non sarebbe altro che una costruzione del soggetto e quindi la stessa conoscenza sarebbe costruita. Si parla per questo di rivoluzione copernicana kantiana della filosofia, poiché il centro della conoscenza non è più l'oggetto, ma il soggetto che conosce.


Condivido l'opportuno richiamo alla distinzione fra le due accezioni semantiche dell' idea di "soggetto". Al contempo, messe le cose in un certo modo, le due accezioni non sarebbero di per sé necessariamente in reciproca contraddizione: l'idea di "ciò che soggiace" sembra rimandare ad un carattere di passività, ma può anche specificarsi come concetto di "substrato", ciò che definisce l'ente in quanto sostanza. Sulla falsariga dello schema aristotelico delle categorie (per quel che poco per cui mi pare di averlo compreso...), l'idea di "substrato" definisce la categoria principale, quella di "sostanza", nella quale l'ente viene posto come un "per sé", come l'invariante unitaria a cui si riferiscono le varie categorie accidentali, che invece costituiscono dei predicati che non hanno esistenza autonoma e che sono reali solo se riferite all'ente inteso come "sostanza", cioè substrato e soggetto. In questo contesto cade la contrapposizione semantica tra soggetto come "attivo" e soggetto come "substrato", in quanto anche nella seconda accezione lo "stare sotto" avrebbe un senso più che altro metaforico e figurato, lo "stare sotto" gli accidenti, ma non nel senso di un subirli passivamente, bensì di esserne la base necessaria. Invece, costituendo il carattere di sostanzialità e dunque di autonomia, il soggetto come "substrato" sarebbe ciò che definirebbe l'ente come esistenza autonoma, e dunque capace di entrare in connessioni causali reali col mondo, cioè l'essere attivo: le due accezioni finirebbero così non più nell'escludersi ma nell'implicarsi.

Per quanto riguarda il discorso più storico... l'idea della conoscenza come costruzione soggettiva la vedrei come propria dell'idealismo immediatamente postkantiano (Fichte, Hegel), ma non lo vedo come un risultato necessario dalle premesse della critica kantiana, che invece (anche se per me in modo che mi lascia delle perplessità) mantiene comunque una distinzione tipicamente realista tra "fenomeno" e "noumeno", e pone come momento originario della conoscenza l'esperienza sensibile, precedente l'attivazione delle categorie soggettive (per quanto cieca e incomprensibile senza esse). La fenomenologia husserliana, anzi, la trovo come rafforzativa dell'aspetto realista di autonomia dell'oggetto... fino dal considerare come fattore trascendentale e costitutivo della coscienza l'intenzionalità, per la quale essendo la coscienza sempre coscienza "di qualcosa", l'oggetto più che produzione secondaria del soggetto diviene un "contropolo" necessario al costituirsi stesso del soggetto, oppure dagli studi sulla "sintesi passiva" per la quale l'Io non crea arbitrariamente ma forma i suoi schemi percettivi sulla base degli stimoli esterni di oggetti che "colpiscono" l'attenzione dell'Io orientandola a evidenziare un senso delle cose che è preesistente agli schemi percettivi soggettivi. Al di là del discorso specifico sulle singole correnti, penso che il grande merito critico della modernità, quello di far precedere ogni ontologia dall'analisi critica delle strutture conoscitive del soggetto pensante, non necessariamente determina la riduzione dell'oggetto di conoscenza all'attività mentale del soggetto, bensì è aperto anche ad ammettere un livello di autonomia della realtà oggettiva, fintanto però che tale autonomia non viene posta dogmaticamente (realismo ingenuo), ma viene riconosciuto come fattore necessario per possibilità di una conoscenza e di un pensiero soggettivo stessi, cioè ciò da cui l'indagine ha preso piede, e questo ciò che andrebbe definito "realismo critico", riconoscimento della realtà dopo però essere passato per il filtro metodologico dell'autocoscienza
#372
Tematiche Filosofiche / Re:Anima, Spirito, Mente
03 Febbraio 2018, 19:42:33 PM
Phil scrive:

"Qui inizia il conflitto-competizione con la scienza: la scienza non bada solo a problemi tecnico-operativi, ma ricerca anche quegli stessi principi fondativi e universali che la metafisica rincorre (e volerli fondare sull'esperienza sensibile non mi sembra un difetto   ). Quando si parla di principi universali e fondanti, la postilla di metterli a fuoco con due approcci differenti, diventa inaffidabile: secondo me, un principio universale e fondante non può essere "bilingue" e parlare sia il linguaggio della metafisica che quello della scienza."



l'esperienza sensibile ci porta a contatto con gli oggetti individuali che in un determinato e delimitato spazio e tempo colpiscono gli apparati percettivi del nostro corpo, e proprio la limitatezza spazio-temporale le impedisce di elevarsi a quella visione globale della realtà, nella quale questa si mostrerebbe fondata sui princìpi universali e fondanti, cosicché tali princìpi restano appannaggio di un sapere sovrasensibile. Dunque non trovo alcun "bilinguismo". Il che non toglie dignità teoretica alle scienze naturali, le quali, come giustamente sostenuto,non si riduce ai problemi tecnico-operativi, ma delimita le loro potenzialità conoscitive alle cause della realtà non universali e primarie, ma secondarie e successive. Tutto ciò porta a pensare che il fatto che l'individuazione dei princìpi primi non easurisce in sé la totalità delle possibili questioni circa il complesso degli aspetti delle cose faccia sì che la metafisica possa essere considerata  come una prospettiva, un punto di vista che non pretende di risolvere ogni questione, ma che non per questo va invalidata all'interno del suo campo epistemico di pertinenza. Cioè, la possibilità di avanzare domande sul "come" materiale ed immateriale interagiscono all'interno dell'unità della sostanza e il fatto che siano le scienze naturali le più indicate a rispondere non sono argomenti che escludono la validità di un sapere distinto da esse, che si ferma nel riconoscimento di "materiale" ed "immateriale" come componenti necessarie e costitutive dell'unità del sinolo. Basta solo ammettere che la realtà può essere investigata per aspetti diversi da prospettive diverse senza che le risposte vigenti in una escludano le altre. Se osservo un tavolo da una certa angolatura otterrò una visione che non esaurisce il complesso della sua realtà, lascia adombrati lati che posso scoprire solo cambiando prospettiva, ma non per questo la visione è illusoria o errata: parzialità non vuol dire errore se viene riconosciuta come tale.



Dunque l'idea che la metafisica possa solo limitarsi a "fornire ipotesi di spiegazioni per ciò che non ha ancora una spiegazione scientifica" presuppone erroneamente che essa non abbia un proprio spazio autonomo, cioè distinte questioni da risolvere rispetto ai saperi fondati sull'esperienza sensibile. Ma l'esperienza sensibile è impossibilitata a fondare una conoscenza dei princìpi primi e universali del sapere, in quanto è delimitata dalla particolarità spazio-temporale degli oggetti fisici con cui entra in contatto, mentre il sapere dei princìpi presupporrebbe una visione totalizzante dell'essere, è l'idea di totalità ha un significato intelligibile, quindi irrimediabilmente al di fuori della portata dei sensi. Negare ciò vorrebbe dire ammettere che la totalità della realtà coincide con la totalità degli oggetti dell'esperienza sensibile, cioè gli oggetti materiali, ma questo, essendo a tutti gli effetti un discorso sulla "totalità" è un discorso metafisico, un modello metafisico materialista che si oppone ad altri modelli, indipendentemente dal riconoscersi esplicitamente come tale. Ricordiamo sempre che il positivismo era una corrente filosofica, non scientifica (nel senso dell'accezione di "scienza" naturalistica).
#373
Tematiche Filosofiche / Re:Anima, Spirito, Mente
28 Gennaio 2018, 19:04:07 PM
per Phil

 

forse mi accorgo che sono stato impreciso nei miei post per spiegare la mia posizione riguardo il rapporto fra dualità epistemologica metafisico-fisico e quella ontologica forma-materia, e che dunque poteva dare adito a fraintendimenti. In realtà non vedo una coincidenza fra le due polarità, per la quale la metafisica si occuperebbe solo della forma e non della materia, e la fisica solo della materia e non della forma. In realtà penso che la distinzione fisico-metafisico non vada intesa come una sorta di spartizione fra sostanze, del cui studio alcune dovrebbero essere appannaggio della fisica, altre della metafisica, bensì come distinzioni fra questioni, che però possono anche riguardare enti in comune. Cioè fisica e metafisica dovrebbero distinguersi non per gli oggetti di indagine nella loro "inseità", ma per le differenti (e non contrapposte o sovrapponibili) prospettive. La metafisica si occupa di individuare un complesso di princìpi e relazioni fondative, aventi valenza universale, riconoscibili su base speculativa, e non sulla base dell'esperienza sensibile, limitabile solo agli aspetti empirici e contingenti delle cose, e in questo senso, anche la materia, pur riferendosi a una realtà fisica, nella misura in cui è riconosciuta come una delle componenti costitutive della sostanza, necessariamente e non contingentemente, diviene oggetto della metafisica, che però non si occupa delle modalità di strutturazione particolari di essa, riconoscibili per via empirica. Quindi la metafisica può autonomamente riconoscere la presenza in ogni sinolo di un aspetto materiale, nella misura in cui individua il carattere di potenza e indeterminazione presente in ogni cosa soggetta al divenire, mentre lascia alle scienze naturali il compito di approfondire e indagare le leggi insite nella materia ricavabili sulla base dell'esperienza sensibile. Stando così le cose la metafisica si presenta come un sapere compiuto in sé, anche se non esaustivo degli aspetti della realtà, sia forma che materia sono componenti ontologiche entrambe riconoscibili in quanto rendono ragione di differenti aspetti e questioni della cosa, senza alcuna necessità di introdurre anelli di congiunzione terzi tra le due cause. Il problema dell'anello di congiunzione è un problema unicamente insito nel modello dualista-sostanzialista cartesiano: una volta poste anima e corpo come sostanze separate, sorge necessariamente la questione di come giustificare la coscienza della propria unità individuale e delle costanti interazioni tra pensiero, volontà e corpo caratterizzanti la nostra vita, e a quel punto si sarà costretti ad ammettere soluzioni più o meno improbabili come "ghiandole pineali" ecc. (senza contare che nel momento in cui questo anello di congiunzione viene identificato o con qualcosa di fisico come nel la ghiandola pineale, o con qualcosa di immateriale, il problema non è affatto risolto, dato che questo andrebbe a essere compreso in una delle due dimensioni e il problema di come collegarle resterebbe del tutto insoluto, dato che lo stesso anello di congiunzione sarebbe a tutti gli effetti una parte di una di esse, e dunque anch'essa seguirebbe il resto della sua dimensione di appartenenza nel richiamo alla questione di partenza su come collegarsi all'altra). Nel momento in cui invece forma e materia vengono considerante come componenti entrambe necessarie nella loro complementarietà alla costituzione dell'ente, allora è sufficiente il loro considerarsi all'interno dell'unità della sostanza per rendere ragione delle loro interazioni, e del loro contribuire all'autocoscienza individuale, senza bisogno di immaginare fantasiosi ponti di collegamenti terzi.


"Sulle questioni inconfutabili, in quanto tali, la scienza non ha molto da dire e non ci resta che affidarci a quella metafisica che sentiamo più affine alla nostra visione del mondo (sia essa aristotelica, induista o altro...)."


questo discorso mi pare presupponga la premessa, a mio avviso errata, per cui ogni tesi metafisica sarebbe riducibile ad un fideismo volontarista per cui si sostengono delle idee sulla base della loro attinenza con i nostri valori soggettivi sentimentali, in contrapposizione con il rigore razionale delle scienze naturali. In realtà la metafisica è sempre un discorso razionale, indipendentemente dal fatto che nella storia il rigore razionale dei discorsi possa essere stato più o meno seguito, o dal fatto che condizionamenti di natura non teoretica abbiano inficiato il valore veritativo delle riflessioni. Ovviamente ogni sistema metafisico sorto storicamente comprende elementi di irrazionalità, ma ciò dipende dalle doti, dalle capacità intellettive personali di chi teorizza, non da un limite costitutivo epistemico della disciplina, allo stesso modo con cui può fare errori uno scienziato naturalista. Si può fare buona o cattiva metafisica, così come buona o cattiva scienza, ma è sufficiente l'intenzionalità di operare un discorso metafisico su base razionale, a permettere a questi discorsi di poter essere eventualmente discussi e confutati: possono esserlo sulla base di una razionalità più rigorosa che valuta le contraddizioni e le imprecisioni di un'altra razionalità, e che dunque nella verifica resta nel suo terreno, basta solo riconoscere che la "verifica" delle tesi metafisiche abbia qualità peculiari che la differenzino dal modello di verificazione delle scienze naturali, sulla base della distinzioni della natura delle questioni che le diverse discipline mirano a risolvere.
#374
Tematiche Filosofiche / Re:Anima, Spirito, Mente
10 Gennaio 2018, 15:37:15 PM
Citazione di: sgiombo il 10 Gennaio 2018, 13:31:55 PM
Citazione di: davintro il 10 Gennaio 2018, 00:23:00 AM
Citazione di: sgiombo il 09 Gennaio 2018, 08:58:05 AM
Citazione di: davintro il 08 Gennaio 2018, 00:22:09 AMl'anima la vedo come una particolare determinazione della forma, la forma costituente l'essenza degli esseri viventi, dunque una forma interiore che spinge l'ente a svilupparsi in una certa direzione, ma non tutte le forme sono anime, la pietra ha una forma, ma non ha un'anima, in quando non vi è in essa una spinta a un dinamismo autonomo, cioè proveniente da dentro e finalizzato ad uno sviluppo prestabilito. Concordando con la classificazione aristotelica, non riduco l'anima alla vita "senziente" che comunemente si attribuisce esclusivamente agli animali, ma ogni ad ogni forma di vita, di essere che cresce e si sviluppa sulla base di un "progetto", di un fine insito sin dal punto di origine dell'autodispiegamento, quindi anche allo stadio "vegetativo" a cui vengono ricondotte le piante. la forma delle cose è ciò per la quale assumono una essenza necessaria, un tratto caratteristico sulla base della quale poterle qualitativamente distinguere dal resto, e al tempo steso, fissa un limite alle potenzialità indeterminate per cui le cose sarebbero tutto e il contrario di tutto, e questo limite, pur rispettando la molteplicità di varianti, nonché di fasi temporali dello sviluppo, impone al divenire delle cose una logica, un senso, per il quale esso tende a realizzarsi in un determinato modo anziché in un altro. E questa logica fissa immanente allo sviluppo ne costituisce anche il fattore individualizzante, perché unificante, l'essenza che resta tale indipendentemente dalla molteplicità degli stadi in cui lo sviluppo si attua, e che dunque "unisce" nel senso di essere l'elemento presente in tutte le fasi
Oggi é scientificamente dimostrato che il ruolo qui (seguendo Aristotele) attribuito al' "anima" intesa come "una forma interiore che spinge l'ente a svilupparsi in una certa direzione", "una spinta a un dinamismo autonomo, cioè proveniente da dentro e finalizzato ad uno sviluppo prestabilito", propria di "ogni forma di vita, di essere che cresce e si sviluppa sulla base di un "progetto", di un fine insito sin dal punto di origine dell'autodispiegamento, quindi anche allo stadio "vegetativo" a cui vengono ricondotte le piante", "ciò per la quale assumono una essenza necessaria, un tratto caratteristico sulla base della quale poterle qualitativamente distinguere dal resto, e al tempo steso, fissa un limite alle potenzialità indeterminate per cui le cose sarebbero tutto e il contrario di tutto, e questo limite, pur rispettando la molteplicità di varianti, nonché di fasi temporali dello sviluppo, impone al divenire delle cose una logica, un senso, per il quale esso tende a realizzarsi in un determinato modo anziché in un altro" é di fatto svolo dal genoma, ma del tutto meccanicisticamente, in termini di interazioni fra "cause efficienti" e "non finali", implicanti anche l' ambiente (nucleare, citoplasmatico ed extracellulare) con cui esso interagisce chimicamente-fisicamente. Dal che a mio parere risultano del tutto evidenti sia la grandezza e la genialità (per certi versi anticipatrice) di Aristotele, sia i suoi limiti e gli inesorabili condizionamenti del tempo in cui visse.
La forma, essendo immateriale (altrimenti non avrebbe senso pensare ad un'unità sostanziale tra forma e materia, ma ad una causa materiale autosufficiente), non ha senso che venga identificata con qualsivoglia realtà materiale, piuttosto resta il fattore che specifica il senso determinato di un ente materiale dandogli una struttura peculiare e determinata. Intesi i concetti in quest'accezione qualunque scoperta operata dalle scienze naturali, nel cui alveo rientra la biologia, sarà sempre una scoperta tesa ad approfondire la struttura delle cose inerente la loro materialità, ma i limiti epistemici di tali saperi impediranno che le loro scoperte possano mettere in discussione il principio ontologico-metafisico che ogni ente materiale per esistere ha bisogno di una causa immateriale come la forma. Quindi parlare di genoma o di interazioni tra genoma e ambiente non sposta i termini della questione: qualunque siano le scoperte dei modi determinati e particolari con cui la materia è organizzata non può venir meno il principio ontologico che ogni materia per esistere, deve possedere un proprio delimitato senso, e che la delimitazione del proprio senso accade nella misura in cui la materia non è materia pura ma materia formata, e tale princìpio resta valido sia per quanto riguarda l'immagine scientifica della materia che si poteva avere ai tempi di Platone e Aristotele che per quanto riguarda la concezione scientifica della materia dei giorni nostri. Qui sta l'autonomia e l'irriducibilità della metafisica (e della filosofia, non certamente solo artistoletica) rispetto alle scienze naturali: nell'indipendenza dell'ambito dei rapporti fra materia e forme inteso nella sua generalità, rispetto alla specificità dei modi in cui può venir riconosciuta l'organizzazione della materia: basta ammettere un'organizzazione in generale per ammettere l'esigenza di individuare come presupposto necessario dell'attualità della materia la presenza di un fattore immateriale come la forma, causa strutturante, anima quando è forma degli esseri viventi. Sono due piani della realtà distinti e dunque non contrapposti, ma compresenti.
CitazioneNon vedo come queste considerazioni (peraltro per me alquanto scure) possano obiettare alle mie affermazioni. Se la forma non é identificabile col genoma non so che farci: la biologia spiega scientificamente la vita (e non la coscienza) col genoma e le sue interazioni fisico - chimiche con l' ambiente. Perfettamente d' accordo con l' ovvia considerazione che "qualunque scoperta operata dalle scienze naturali, nel cui alveo rientra la biologia, sarà sempre una scoperta tesa ad approfondire la struttura delle cose inerente la loro materialità, nonché circa "l'autonomia e l'irriducibilità della metafisica (e della filosofia, non certamente solo artistoletica) rispetto alle scienze naturali". Non invece con le altre considerazioni ontologiche ed epistemologiche, per me assi oscure (e comunque asserite ma non dimostrate).


il punto che provavo a sottolineare è che qualunque entità materiale il naturalista scoprirà, nessuna scoperta potrebbe invalidare il principio ontologico per cui la materia esiste in quanto materia formata: se il metafisico si limita ad affermare che ogni materia per esistere ha bisogno di una forma che ne specifichi il senso, e negli esseri viventi questa forma si dà come forma che produce uno sviluppo "dall'interno", cioè una forma vivente, l'anima, allora di fronte alla scoperta del genoma o di qualunque altra realtà fisica da parte del biologo, esso potrà continuare ad affermare che queste realtà materiali esistono in quanto formate, e la forma complessiva che imprime allo sviluppo della materia un certo andamento, cioè un dinamismo teso a realizzarsi come materia vivente resterebbe l'anima. Quindi il genoma non sostituisce l'anima nel suo "ruolo" di causa formale dell'essere vivente: l'anima resterebbe forma del corpo, i cui meccanismi insiti nella sua materialità si prestano ad essere via via meglio compresi dalle scienze naturali, ma senza che ciò che porta a capire meglio l'aspetto materiale delle cose arrivi al punto di sostituire ciò che si riferisce a quello formale: nessuna incompatibilità o necessità di sostituzione tra anima e genoma: una spiega la vita per un senso (l'aspetto formale), l'altra per un altro (quello materiale), questa è la distinzione dei piani fra fisica e metafisica. Nemmeno le interazioni con l'ambiente esterno esauriscono la spiegazione del "perché" della vita, almeno non al punto di poter fare a meno del concetto di anima come "forma interiore". Ovviamente nessuno nega la necessità di un'interazione delle condizioni causali esterni per lo sviluppo di un essere vivente: senza essere innaffiato un seme non feconda la pianta, senza acqua e cibo un bambino muore, ma queste condizioni pur necessarie, non sono sufficiente, ma entrano in relazione con uno sviluppo del soggetto vivente che muove dall'interno: se non la innaffio la pianta non cresce, ma non crescerebbe nemmeno gettando acqua su una pietra nuda. Le interazioni organismo-ambiente di per se non spiegano l'origine della  vita, ma sono il complesso necessario di relazione fra un soggetto già di per sé dotato di un dinamismo interno e condizioni esterne che ne supportano la crescita, e l'anima andrebbe considerata come ciò che costituisce tale dinamismo interno, il "progetto", la forma che si autodispiega, origine della vita, anche se non sufficiente a garantirne la conservazione e il proseguio della crescita, e del resto lo stesso Aristotele, con l'eccezione dell'Atto puro, il Motore immobile, concepiva forma e materia (quest'ultima passivamente ricettiva degli stimoli esteriori) come cause e componenti entrambe necessarie. Pensare che le condizioni ambientali siano in grado di rendere ragione della vita eliminando il bisogno di individuare un principio dinamico interiore come l'anima avrebbe senso solo allargando il significato della "vita" a qualunque forma di movimento, anche non organico, attribuendo "vita" anche ad un piuma sbattuta dal vento, il cui movimento non è determinato da alcunché di interiore alla piuma, ma solo ad un fattore esterno come la forza del vento, ma se ci rifacciamo al significato comune del termine (nel quale certamente il volo della piuma non sarebbe compresa) allora l'anima dovrebbe restare principio fondamentale dal punto di vista della forma, sempre però collegata ad una struttura materiale ed alle condizioni ambientali esterne, che costituiscono l'ambito a cui le scienze naturali riferiscono le loro scoperte.

Se hai compreso e condiviso la mia affermazione precedente per la quale:

"qualunque scoperta operata dalle scienze naturali, nel cui alveo rientra la biologia, sarà sempre una scoperta tesa ad approfondire la struttura delle cose inerente la loro materialità, nonché circa "l'autonomia e l'irriducibilità della metafisica (e della filosofia, non certamente solo artistoletica) rispetto alle scienze naturali"

credo che tutto il resto del discorso venga da sé...  una volta ammessa l'autonomia e l'irriducibilità di un piano metafisico a quello fisico, non ha senso pensare a una sovrapposizione o contrapposizione di visioni, dunque ciò che metafisica e ontologia individuano nel nesso fra forma e materia e nella trattazione del concetto di "anima" non viene toccato da ciò che le scienze naturali, su un altro livello della realtà scoprono, dunque non ha senso pensare che le scoperte della biologia possano rendere inattuale un discorso metafisico, che vige per un piano diverso, e risponde a diverse questioni. Solo una metafisica può sostituirsi a un'altra metafisica.
#375
Tematiche Filosofiche / Re:Anima, Spirito, Mente
10 Gennaio 2018, 00:23:00 AM
Citazione di: sgiombo il 09 Gennaio 2018, 08:58:05 AM
Citazione di: davintro il 08 Gennaio 2018, 00:22:09 AMl'anima la vedo come una particolare determinazione della forma, la forma costituente l'essenza degli esseri viventi, dunque una forma interiore che spinge l'ente a svilupparsi in una certa direzione, ma non tutte le forme sono anime, la pietra ha una forma, ma non ha un'anima, in quando non vi è in essa una spinta a un dinamismo autonomo, cioè proveniente da dentro e finalizzato ad uno sviluppo prestabilito. Concordando con la classificazione aristotelica, non riduco l'anima alla vita "senziente" che comunemente si attribuisce esclusivamente agli animali, ma ogni ad ogni forma di vita, di essere che cresce e si sviluppa sulla base di un "progetto", di un fine insito sin dal punto di origine dell'autodispiegamento, quindi anche allo stadio "vegetativo" a cui vengono ricondotte le piante. la forma delle cose è ciò per la quale assumono una essenza necessaria, un tratto caratteristico sulla base della quale poterle qualitativamente distinguere dal resto, e al tempo steso, fissa un limite alle potenzialità indeterminate per cui le cose sarebbero tutto e il contrario di tutto, e questo limite, pur rispettando la molteplicità di varianti, nonché di fasi temporali dello sviluppo, impone al divenire delle cose una logica, un senso, per il quale esso tende a realizzarsi in un determinato modo anziché in un altro. E questa logica fissa immanente allo sviluppo ne costituisce anche il fattore individualizzante, perché unificante, l'essenza che resta tale indipendentemente dalla molteplicità degli stadi in cui lo sviluppo si attua, e che dunque "unisce" nel senso di essere l'elemento presente in tutte le fasi
Oggi é scientificamente dimostrato che il ruolo qui (seguendo Aristotele) attribuito al' "anima" intesa come "una forma interiore che spinge l'ente a svilupparsi in una certa direzione", "una spinta a un dinamismo autonomo, cioè proveniente da dentro e finalizzato ad uno sviluppo prestabilito", propria di "ogni forma di vita, di essere che cresce e si sviluppa sulla base di un "progetto", di un fine insito sin dal punto di origine dell'autodispiegamento, quindi anche allo stadio "vegetativo" a cui vengono ricondotte le piante", "ciò per la quale assumono una essenza necessaria, un tratto caratteristico sulla base della quale poterle qualitativamente distinguere dal resto, e al tempo steso, fissa un limite alle potenzialità indeterminate per cui le cose sarebbero tutto e il contrario di tutto, e questo limite, pur rispettando la molteplicità di varianti, nonché di fasi temporali dello sviluppo, impone al divenire delle cose una logica, un senso, per il quale esso tende a realizzarsi in un determinato modo anziché in un altro" é di fatto svolo dal genoma, ma del tutto meccanicisticamente, in termini di interazioni fra "cause efficienti" e "non finali", implicanti anche l' ambiente (nucleare, citoplasmatico ed extracellulare) con cui esso interagisce chimicamente-fisicamente. Dal che a mio parere risultano del tutto evidenti sia la grandezza e la genialità (per certi versi anticipatrice) di Aristotele, sia i suoi limiti e gli inesorabili condizionamenti del tempo in cui visse.


La forma, essendo immateriale (altrimenti non avrebbe senso pensare ad un'unità sostanziale tra forma e materia, ma ad una causa materiale autosufficiente), non ha senso che venga identificata con qualsivoglia realtà materiale, piuttosto resta il fattore che specifica il senso determinato di un ente materiale dandogli una struttura peculiare e determinata. Intesi i concetti in quest'accezione qualunque scoperta operata dalle scienze naturali, nel cui alveo rientra la biologia, sarà sempre una scoperta tesa ad approfondire la struttura delle cose inerente la loro materialità, ma i limiti epistemici di tali saperi impediranno che le loro scoperte possano mettere in discussione il principio ontologico-metafisico che ogni ente materiale per esistere ha bisogno di una causa immateriale come la forma. Quindi parlare di genoma  o di interazioni tra genoma e ambiente non sposta i termini della questione: qualunque siano le scoperte dei modi determinati e particolari con cui la materia è organizzata non può venir meno il principio ontologico che ogni materia per esistere, deve possedere un proprio delimitato senso, e che la delimitazione del proprio senso accade nella misura in cui la materia non è materia pura ma materia formata, e tale princìpio resta valido sia per quanto riguarda l'immagine scientifica della materia che si poteva avere ai tempi di Platone e Aristotele che per quanto riguarda la concezione scientifica della materia dei giorni nostri. Qui sta l'autonomia e l'irriducibilità della metafisica (e della filosofia, non certamente solo artistoletica) rispetto alle scienze naturali: nell'indipendenza dell'ambito dei rapporti fra materia e forme inteso nella sua generalità, rispetto alla specificità dei modi in cui può venir riconosciuta l'organizzazione della materia: basta ammettere un'organizzazione in generale per ammettere l'esigenza di individuare come presupposto necessario dell'attualità della materia la presenza di un fattore immateriale come la forma, causa strutturante, anima quando è forma degli esseri viventi. Sono due piani della realtà distinti e dunque non contrapposti, ma compresenti.