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Messaggi - maral

#376
E' che il trasformarsi implica sempre qualcosa che per trasformarsi deve finire nel nulla da cui qualcos'altro sorge. E se questo qualcosa è tutto il problema di Leibniz e di Heidegger resta.
#377
Citazione di: acquario69 il 04 Febbraio 2017, 12:47:23 PM
La mia impressione e' che se e' vero (e lo e') che quello specchio e' il riflesso della natura sull'uomo e viceversa,credo sia altrettanto vero che tutte le civiltà pre-moderne ne avessero al contrario infinito e sacro rispetto e che appunto solo dopo non si riconoscesse più in quel riflesso, tanto da volerlo in seguito mandare in frantumi, come poi credo sia accaduto...evidentemente perché cio che siamo (ora e non prima) non consente quel riflesso che a loro invece veniva "naturale" e proprio per quella sintonia che li faceva percepire di non esserne separati
Non so se quel "rispetto" ci sia in genere mai effettivamente stato. In genere, quando ci riferiamo alla natura, ci riferiamo al mondo agricolo pre industriale, ma questo mondo non è certo "naturale", in esso già si esprime un enorme impatto antropico che induce grandi mutamenti ecologici, tutt'altro che rispettosi e a tutto vantaggio umano. Gli antichi popoli agricoltori non erano certo "ecologisti", per non parlare dei popoli costruttori di città e di imperi, in realtà solo oggi lo siamo diventati. Ma anche prima, quando tribù di cacciatori raccoglitori nomadi di solo alcune migliaia di unità si spostarono nelle Americhe e in Australia fu un'ecatombe faunistica, soprattutto per gli animali di grande taglia: cavalli, tigri, uccelli... sono diverse le estinzioni di massa faunistica che provocarono le preistoriche migrazioni umane e anche difficilmente comprensibili rapportate ai livelli tecnologici dei tempi.
L'uomo sente la natura come ciò che ha da piegare e sconfiggere, ne sente tutta la minaccia terrificante e insieme la possibilità che essa ha di nutrirlo. Solo dopo che l'ha piegata e sconfitta per costruirci un luogo in cui sentirsi al riparo la rimpiange con nostalgia e parte per cercare altri luoghi in cui piegare e sconfiggere (o per illudersi di farlo).
#378
Certo Sgiombo, il nulla non accade, ma si può sempre dire che il nulla accade proprio in quanto non accade, proprio in quanto è tautologicamente per definizione nulla, E' per questo che il nulla è positivamente proprio quello che è, nulla. Nell'essere del nulla c'è una contraddizione che si presenta come tautologia assolutamente non contraddittoria.  Il nulla è veramente e tautologicamente ciò che non è.
Sugli enti reali abbiamo già ampiamente discusso in passato, resta probabilmente inconciliabile il nostro modo di definire il reale. Tutto ciò che accade è reale, poiché accade. Poi possiamo vedere in che modo accade (in un sogno, in una speculazione razionale, in un paradosso, accade come pura sensazione, come emozione e via dicendo). Per me non è essenziale il modo di accadere per stabilirne la realtà, è invece essenziale per poterci convivere.
Il divenire è un provenire assoluto di qualcosa dal nulla per finire nel nulla, ma se il nulla assolutamente e tautologicamente non è, come può esserci qualcosa che viene da quel nulla e ci torna? Come potrà mai esserci un inizio e una fine di quel qualcosa? Certo si potrebbe dire che il nulla qui è inteso solo in senso relativo a quel qualcosa, non vale per tutti gli altri essenti, anche se alla fine vale, vale proprio per tutti, in generale ogni essente va dal nulla al nulla. Tutto quindi va dal nulla al nulla ed è questo che non si riesce proprio a spiegare: perché mai dunque un qualsiasi ente dovrebbe esserci se il fondamento e destino del suo esserci è proprio essere nulla? 
#379
A parte l'assurdità di riportare le diversità culturali e i problemi che esse generano a differenze razziali biologiche (non occorre essere intellettuali sinistroidi per sapere che un norvegese può differenziare geneticamente da un ottentotto ben di più di quanto non si differenzi dal suo vicino di casa, norvegese pure lui da generazioni, basta informarsi un minimo sui risultati delle ricerche genetiche ormai ampiamente diffuse e accessibili a chiunque non voglia mantenersi analfabeta in biologia per tutelare i propri preconcetti), non capisco proprio il motivo di tutto questo dovere assoluto a preservarsi nella purezza delle proprie radici. Non capisco come non ci si renda conto del fatto che questa purezza è del tutto immaginaria, frutto magari di necessità esistenziali che vanno comprese, ma che resta sempre immaginaria, quindi è una pretesa che cerca fondamento nell'immaginazione. E' immaginaria nella storia di qualsiasi cultura che è sempre il risultato di incontri tra modi di vivere e di praticare il mondo diversamente: la cultura occidentale è il risultato dell'incontro di popolazioni recanti tradizioni estremamente diverse, pur nel comune modo di sentire umano, di antropologie diverse. Gli antichi popoli mediterranei non erano gli Achei che venivano, come tutti i popoli indoeuropei, dagli altopiani iranici e dal cui incontro nacque quella cultura greca che poniamo all'inizio della storia culturale europea e che fu preservata nei regni islamici che si stabilirono in Spagna, mentre l'Europa tutta veniva distrutta da altri popoli di diversa cultura: i Germanici, provenienti dalle propaggini nord orientali del continente. Il cristianesimo, altro grande contrassegno della cultura europea, è anch'esso il risultato di una contaminazione culturale, proveniente dal Medio Oriente che si fuse con la tradizione greca e raccolse poi in sé le tradizioni di quegli stessi selvaggi germanici che ridiedero vigore al percorso culturale europeo, lo trasformarono nel corso di secoli di storia.
Anche la cultura vedica è il frutto di un'ibridazione e così ogni cultura, perché ogni cultura che si isola per mantenersi pura è da sempre una cultura che si autodistrugge, inevitabilmente.

I punti che Donquixote assume come inizio della disgregazione dell'Occidente sono certo accadimenti che mutarono la visione del mondo e delle cose, ma non hanno nulla di radicalmente o ontologicamente sbagliato di per sé, sono invece conseguenze inevitabili di una storia, di un'archeologia i cui effetti si riflettono continuamente nei significati vissuti producendo degli spostamenti, per cui il mondo cambia e non può più essere come prima. E certo ci si potrà trovare spaesati e angosciati quando questo accade, ma non accade per errore o follia di esseri malvagi, accade per necessità, ove la necessità sta in quello che si fa e si riconosce fattibile. Non è che il passaggio dall'armonia del tempo ciclico del greco all'hybris del tempo progressivo e salvifico del cristiano contaminato da testi semitici, all'umanesimo rinascimentale fino (scandalo di ogni scandalo) al pensiero illuministico della ragione sufficiente sia il percorso di una follia crescente a cui si può pensare di porre rimedio ripercorrendo la storia a ritroso in nome del sogno di una purezza originaria e arcaica, tanto rassicurante, ma mai esistita e men che meno si può dire "ognuno a casa propria" a crepare con la porta ben chiusa e il muro alto attorno all'orto, perché nessun uomo dall'inizio dell'antropocene, è mai stato a casa propria, ogni uomo si è sempre sentito chiamato dall'altrove e proprio e solo per questo il genere umano, nel bene e nel male fino a oggi non si è estinto.
Poi è chiaro che l'incontro culturale è sempre rischioso, è sempre anche scontro come ogni incontro, che il cambiamento è angosciante, perché ogni volta siamo chiamati a ritrovarci e riconoscerci daccapo e può essere quanto mai faticoso e doloroso. Ma questo significa solo cercare di attuarlo gestendolo, per quanto ci è consentito, nel modo meno impattante possibile, non nell'evitarlo a tutti i costi, perché di là dal riparo dell'illusione dei muri fisici e mentali la forza dell'impatto cresce e crescendo finirà per travolgerci tutti, quando l'illusione del riparo all'improvviso svanirà e noi non saremo per nulla pronti.
Lo impararono già i Cinesi quasi 2 millenni or sono quando si illusero di ripararsi dai Mongoli con la Grande Muraglia per ritrovarsi con l'essere governati da sovrani Mongoli e i Romani con i loro valli il cui risultato fu finire sotto imperatori Germanici: i muri fisici o mentali che siano non servono assolutamente a nulla, si aggirano, si demoliscono e si disgregano sempre.
Il problema non è la liquidità, il problema è come ritrovarsi nella liquidità inevitabile delle cose, senza sognare di mantenersi ben fissi su solidità imperturbabili ed eterne.
#380
Eppure anche quelle leggi universali sono il risultato delle visioni umane sul mondo in cui vive, la natura di per sé non conosce legge, solo l'uomo dà significato a ciò che accade e può intenderlo in forma di "legge di natura". Ma quest'uomo non è fuori dalla natura, ne è parte pur vedendosi separato e qui sta tutto il dolore e la pena della condizione umana, perché l'uomo non è mai stato in perfetta armonia con la natura, non ci sono mai stati passati idilliaci se non nei rimpianti immaginifici del presente. L'uomo ha sempre visto la natura come madre che lo genera gli dà sostentamento e matrigna che glielo nega nel patimento e nella morte, perfettamente indifferente all'uomo stesso.
In realtà la natura è sempre stata specchio per l'essere umano e a volte nell'immagine dello specchio è dato un po' di riconoscersi e altre no e allora capita di volerlo mandare in frantumi, illudendosi di fabbricare poi specchi migliori, ma ogni specchio continua sempre a rifletterci per quello che siamo.
#381
Come sappiamo la domanda "perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?" fu formulata da Leibniz, Heidegger la riprende nella forma modificata (e quindi a ben vedere di senso diverso) "Perché in generale l'ente piuttosto che niente?" e la indica come la domanda fondamentale e più radicale della metafisica, da cui si sviluppa il e in cui si conclude, senza che sia dato risolverla, tutto il pensiero metafisico ontologico, giacché il pensiero metafisico in Occidente non nasce dal pensare l'ente, ma dal pensare il niente (proprio nel senso di nulla assoluto) che costituisce il presupposto generale per il venire a essere di ogni ente.
Il nulla assoluto da un punto di vista logico formale è evidentemente una contraddizione assoluta, poiché è in quanto non è e non è in quanto è, ma è al contempo una tautologia la cui verità è del tutto corretta; il nulla dice infatti di se stesso proprio di essere nulla, ossia di essere proprio ciò che è e ciò che è è un assoluto non essere, in perfetta coerenza autoreferente. Quindi il nulla significa positivamente e si presenta come la negazione più radicale e primigenia del principium firmissimum aristotelico su cui si basa la logica formale, quindi non c'è logica formale che possa porre il nulla in discussione. Il punto che andrebbe invece considerato è invece da dove viene questo poter concepire il nulla assoluto e primigenio nella storia del pensiero dell'Occidente. C'è qualcosa di ancor più originario? Il sospetto è che questo qualcosa stia nell'assunzione a evidenza incontestabile del divenire (nel senso di venire da e venire a) nulla di ogni ente, quindi fondamentalmente ogni ente (in generale appunto) è niente e lo è da sempre e per sempre. Dunque, dato che tutto è fondamentalmente niente (per origine e destino), perché c'è l'ente? Come fa a esserci qualsiasi ente e la totalità degli enti?
Risulta chiaro allora che nella matrice fondamentalmente nichilista di tutto il pensiero dell'Occidente il problema non è il nulla, essendo il nulla ciò che vi è di originariamente evidente, ma è proprio l'essente, l'essente si presenta in tutta la sua irrisolvibile problematicità a fronte della quale continuamente torna a ripetersi che l'essente in generale è niente, nell'eternità del provenire e del finire.
In tal senso dire che il nulla non è sulla base della logica formale non risolve la questione, poiché tutto, logica formale formale compresa in quanto ente, ha origine e termine nel nulla primigenio, banale ed elementare che sta in principio a tutto e a cui tutto torna senza che sia dato in alcun modo capire perché, senza che vi sia alcun perché.
#382
Citazione di: Socrate78 il 18 Settembre 2016, 13:49:30 PM
Infatti filosofi come Schopenhauer e poeti come Leopardi (che riprende in parte Schopenhauer) hanno appunto notato il carattere profondamente inumano del sistema-mondo,
Eppure il sistema mondo genera e sostenta l'uomo e non il contrario, giacché l'uomo tenta continuamente e dolorosamente di piegarlo e sottometterlo ai suoi progetti. Il problema sta nella parziale coscienza dell'uomo che vorrebbe poter essere totale o anche non essere per nulla, ma entrambe le cose gli sono impossibili, dunque si illude e vivendo ne sconta la pena, come uno scherzo di natura. 
#383
Citazione di: Angelo Cannata il 28 Gennaio 2017, 18:58:51 PM
Mi pare che un sacco di filosofie siano andate e vadano in direzione opposta, nel tentativo di criticare il concetto stesso di verità.
La critica sulla verità è sempre stata presente nella storia della filosofia, ma non per distruggere il concetto di verità, ma almeno fino alla metà del XIX secolo (ed Hegel rappresenta il culmine di questo percorso) nel tentativo di dare un fondamento sicuro alla verità, che ovviamente non poteva essere quella del mito. La critica distrugge, ma fino a quel momento si distruggeva con l'intento di fondare l'indistruttibile, mentre è proprio questo intento che si scopre (e non è una scoperta da poco, ma è sconvolgente) che quell'intento stesso è di fatto distruttibile, che è già andato distrutto. Questo significa la morte di Dio in Nietzsche (che lo annuncia con queste parole estremamente significative che meritano di essere rilette e meditate: http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaN/NIETZSCHE_%20DIO%20E%20MORTO.htm. Non è certo della morte del Dio della religione ciò di cui qui si parla, è la morte radicale e definitiva di ogni possibilità di pensare la metafisica. Husserl e poi Heidegger tenteranno nel secolo successivo di ridare vita alla metafisica rileggendola in forma fenomenologica trascendentale, ontologica esistenziale, infine proprio a partire dal linguaggio poetico, ma entrambi falliranno: il primo morendo prime di aver portato a termine il lavoro che doveva essere fondamentale "La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale", il secondo abbandonando definitivamente ogni progetto filosofico in merito, rendendosi conto della totale impossibilità della stessa ontologia.   
CitazioneLa spiritualità potrebbe anche essere considerata proprio una via che, a differenza della filosofia, tenta di far esistere un dialogo fruttuoso, costruttivo, proprio tra ragione e cuore. La critica è distruttiva, ma non è detto che, se ben gestita, non possa essere utilizzata al servizio di costruzioni più solide e anche belle.
Mi riesce difficile però qui capire cosa intendi per spiritualità. In che cosa consiste per te la spiritualità.
#384
Citazione di: Duc in altum! il 26 Gennaio 2017, 19:31:26 PM
Mi entusiasma questa tua riflessione e maniera di filosofare, però, dunque, mi chiedo: sarà quindi fortuito, accidentale, visto che non ci è negata "a priori", che la Verità non si da tutta intera, presentandosi invece parzialmente?
Mp. non penso che sia fortuito, ma piuttosto è il solo modo in cui la verità può mostrarsi; nella parzialità che muove il cammino dell'esistenza e non nell'assoluto dell'essenza. Riconoscere questa parzialità come parzialità e non come tutto è il solo modo per aderire al tutto della Verità.


CitazioneBello, molto bella questa riflessione, soprattutto per quel che riguarda "...i nostri tentativi di risposta.. alla Verità ..che nessuna risposta può definire...". Però secondo me, siccome i tentativi di risposta sono differenti, da persona a persona, o la Verità include tutto, quindi la differenza è solo un'illusione (nel senso ci ritroveremo tutti al Roxi bar), o essa non accade in ogni momento della nostra esistenza (nel senso che non permettiamo, noi, il suo dipanarsi totale).
Non possiamo non permetterlo noi, perché ne siamo parte e la parte non può opporsi al tutto, è sempre in ogni caso nel tutto dato che ne è parte insieme a ogni altra parte.  La differenza da persona a persona è ancora parte della Verità che proprio in questa differenza via via si rivela, una Verità che nulla esclude di ciò che in essa è parte, proprio perché non è verità di parte e solo la verità di parte, quando si pretende verità di tutto, solo escludendo ciò che per essa è altro, può illudersi di esserlo.
#385
Tematiche Filosofiche / Re:l'uno inteso letteralmente.
28 Gennaio 2017, 22:16:18 PM
Citazione di: pepe98 il 28 Gennaio 2017, 16:34:15 PM
Espongo ora tre principi che mi sembrano in grado di creare un'unità perfetta con il tutto: 1)IL MUTAMENTO NON ESISTE. 2)L'UNICA PERSONA SONO IO. 3)L'ESSERE È SOLO IO.
Essi non sono altro che proposizioni che analizzano intuitivamente l'unico principio di questa filosofia: ESISTE SOLO L'UNO.
Ponendo questi principi, ed adattando il nostro pensiero ad essi (giustificarli intuitivamente senza andare contro principi logici), può nascere la filosofia più perfetta.
A chi li esponi questi tre principi? Perché li esponi?
#386
Citazione di: Angelo Cannata il 26 Gennaio 2017, 15:50:49 PM
Un orientamento per il particolare mi sembra essere caratteristico della filosofia di oggi, considerando quello che a me sembra ormai fallimento dello stile universalistico, assolutistico del filosofare greco. A partire da ciò mi sembra che la filosofia oggi propenda per orientarsi al concreto, alla politica, al sociale, proprio perché sono modi ottimi di andare al particolare.

In questo senso anche la dialettica cuore-mente potrebbe essere interpretata come dialettica universale-particolare: la mente infatti esercita la critica in nome di criteri universali, mentre il cuore contrappone ad essa intuizioni che sfuggono ai tentivi della mente di irretire ogni cosa in qualche critica razionale.

A questo punto potremmo sospettare che anche la dialettica critica-spiritualità, esprimibile anche come filosofia-spiritualità, si potrebbe considerare come dialettica universale-particolare: la spiritualità, cioè, non sarebbe che uno sbocco inevitabile di una filosofia che vede crollare le sue pretese generaliste. Potremmo considerare la spiritualità un soffermarsi col cuore su particolari filosofie che la filosofia universalista classica deve ammettere di non saper più gestire. Ciò non significa che la critica filosofica, razionale, abbia fatto il suo tempo; basta solo aggiungere che la critica in sé non è solo filosofica, razionale, ma anche artistica e spirituale.
La filosofia nasce dall'esigenza umana di stabilire un verità per tutti su cui tutti nella polis possano concordare nel logos. ossia nel ragionamento e nel discorso logico. In questo intento la filosofia fallisce e certo non perché non si era impegnata a sufficienza, ma perché ogni modello filosofico inevitabilmente, prima o poi mostra il suo limite e la sua parzialità. A fronte di questo fallimento radicale la filosofia da una parte diventa pura forma di indagine analitica sul discorso, dall'altra si rassegna e lascia alla tecnica che si rende ignara del suo passato, il compito di esplorare l'assoluto, una tecnica intesa sia come volontà di potenza che come pura prassi, priva di qualsiasi fine.
Resta non facile stabilire una dialettica tra ragione e cuore, perché a ogni passo si barcolla, come a camminare sul filo, in bilico sul nichilismo di uno sprofondo senza fine, da cui si è sempre in qualche modo attratti, come l'unico assoluto ancora possibile.
#387
Citazione di: Duc in altum! il 25 Gennaio 2017, 20:14:17 PM
Forse, se mi è consentito, sarebbe più opportuno sostituire il "che non c'è" con il "che non conosciamo" o "che non ci è concesso conoscere".
Forse si potrebbe dire che non ci è concesso conoscere nella sua totalità, ma non perché questa conoscenza è negata a priori, ma proprio perché solo nella immanenza di parzialità che si danno in atto la si conosce. Ossia non conosciamo la Verità in essenza, ma conosciamo, perché lo percorriamo vivendolo, il percorso in cui tale Verità si manifesta sempre parzialmente e dunque in modo dubitabile, ossia in forma di domanda continua in cui i nostri tentativi di risposta tracciano quel percorso in cui sentiamo esserci comunque la Verità che nessuna risposta può definire. Una Verità la cui essenza totale è proprio il dipanarsi della nostra stessa esistenza proprio per come essa in ogni momento accade.

Citazione di: Angelo Cannata il 25 Gennaio 2017, 23:08:21 PM
In altre parole, a volte sembra che certi "spirituali" dicano: "Se mi disapprovi, vuol dire che stai giudicando con la mente; se mi approvi, stai giudicando col cuore", trascurando che un critico è in grado di servirsi anche del proprio cuore e che un cuore sincero, serio e aperto è in grado anche di disapprovare certe spiritualità.
Appunto per questo Parmenide (paradossalmente proprio il filosofo dell'Essere assoluto) fa dire alla dea "giudica con il logos quanto ti vengo dicendo", ossia con la tua mente raziocinante che deve dubitare di quello che ti dico, non prenderlo come rivelazione (ed è chiaro che la rivelazione non può fare appello che al cuore al "è così perché sento che è così"). In fondo la Dea è quello stesso cuore che chiede di essere giudicato dalla mente esponendosi così alle ragioni del dubbio. E' da questo atto nasce la filosofia e dalla filosofia la scienza occidentale. Ma per completare il discorso, la ragione della mente deve a sua volta accettare di sottomettersi al cuore, che non esprime verità in termini di risposte logiche, ma che vive nel darsi quotidiano dell'esistenza stessa, senza che il ciclo che così viene a istaurarsi abbia mai termine in nome di una trascendenza (esistenziale, razionale o religiosa) che si eleva al di sopra di esso per intenderlo come una sorta di circolo vizioso a cui occorre porre termine. Così "il cuore" e "la ragione" non sono che le polarità di un'unità circolare sempre in atto che si divide affinché tra esse possa davvero nascere un circolo virtuoso che non necessita di un assoluto, giacché semplicemente sa di viverlo proprio mentre lo mette in dubbio relativizzandolo.
#388
Citazione di: Angelo Cannata il 24 Gennaio 2017, 13:05:07 PM
Ogni spiritualità richiede un minimo di senso critico, altrimenti ogni impostore potrebbe fregiarsi del titolo di maestro...

E' un discorso senz'altro interessante, ma secondo me occorrerebbe distinguere due aspetti della critica. Se il problema è quello di garantire un'ortodossia del discorso secondo un principio di correttezza, il problema si risolve piuttosto facilmente con un metodo o una regola, un po' come quando si correggono in uno scritto gli errori di ortografia o di grammatica (e naturalmente ci vorranno dei "grammatici" che ben conoscono le regole stabilite e quindi abbiano la competenza necessaria per applicarle correttamente per esprimere giudizi conformi a regola). Diverso è invece se la critica si applica al valore del contenuto semantico rappresentativo del discorso o alle ragioni "meta- metodologiche" per cui si stabilisce quel metodo di giudizio. In questo senso nessun discorso impostato su una trascendenza della verità (trascendenza che può essere non solo di tipo religioso, ma anche ateo, comunque metafisico) non può tollerare alcuna critica, ma non per ragioni di superbia, semplicemente perché nessuna idea di trascendenza può coesistere con il dubbio, che è come il tarlo che divora il legno.
Ogni sistema trascendente in realtà ha già in sé il proprio dubbio (quindi il proprio tarlo), ma resiste fintantoché riesce a reprimerlo o rimuoverlo, se cede allora il crollo (che può cominciare da una lieve incrinatura) finirà con l'essere inevitabile e non si può reprimere e rimuovere all'infinito.
Per questo non credo possa esservi alcuna forma religiosa, basata su una concezione trascendente della Verità, che possa tollerare la critica ai suoi principi, se mostra di farlo (magari anche per rendersi più accettabile) è perché ha già ha ceduto, già non è più religione.
Da un punto di vista filosofico, quando Parmenide all'inizio del suo poema sull'Essere, fa pronunciare alla Dea la raccomandazione di giudicare le sue parole secondo il logos e non perché è lei, la Dea, a dirgliele, lui, Parmenide ha già ucciso la Dea in nome del Logos, della coerenza logica del discorso e ha avviato una serie di catastrofi divine e filosofiche senza fine, ha avviato la storia della filosofia dell'Occidente (Terra del Tramonto).
Questo, appunto perché la critica, si può certo rivolgere alla critica stessa (come inizierà a fare formalmente Cartesio), tentando così ogni volta di stabilire la giusta ragione di quel criticare, ma ripetendo così all'infinito la domanda sulla domanda, sulla domanda ...
E' il punto in cui è arrivata la filosofia oggi, perfettamente spiegato all'inizio di questa lunga lezione da Ronchi https://www.youtube.com/watch?v=r1ZyZBT9mfM: uno sprofondare infinito alla ricerca del significato che sempre si nega, perché sempre si interroga criticamente sulla sua ragione. Ronchi suggerisce una soluzione a questo increscioso problema (istituire una differenza qualitativa nel pensiero che peraltro lui trova già istituita nella filosofia di Bergson), che però a mio avviso non fa che spostare il problema, ripetendolo identico in altro luogo filosofico. A mio avviso si tratta invece di accettare l'assoluta inconoscibilità dell'assoluto totale che si rivela conoscibile solo parzialmente, nel relativo. Come dice Sini si tratta di rendersi conto che la totalizzazione (che l'assoluto sempre pretende per essere tale), è sempre un percorso di parzialità in atto. Dunque che non c' la Verità (l'episteme), ma solo le verità (le opinioni, la doxa) che via via la percorrono senza mai poterla esprimere come Verità, se non proprio nel loro percorrerla, sorgendo e tramontando.
#389
Varie / Re:Un sontuoso banchetto
22 Gennaio 2017, 20:17:21 PM
Ehm... scusate il ritardo, ero partito per tempo, ma poi con tutta quella nebbia ci si perde e i fili logici non servono a trovare le strade, si ingarbugliano e ci si perde ancora di più.
Poi è scesa la sera, d'inverno fa buio presto e il freddo si è fatto più intenso. Tranquillo Maral, pensavo, segui i tuoi passi, piano piano da qualche parte arrivi sempre, segui i tuoi passi. E' stato in quel momento, mentre mi rimettevo in cammino, che mi è parso di sentire il mio nome, che non è il mio nome, ma non stiamo a sottilizzare, l'impressione era quella, quel nome mi chiamava perché io non c'ero, ma da dove mi si chiamava? Dovevo seguire il richiamo, solo questo, ma il richiamo da dove mi chiama, perdiana?
E' stato in quel momento che ho sentito passarmi accanto, nel buio e nella nebbia, una moto, direi una Laverda o una Guzzi, ma non so, non mi intendo di moto, e poi subito ho sentito nell'aria, come un profumo di zuppa di cipolle, adoro la zuppa di cipolle e sono andato avanti, a naso, stando attento a non inciampare. E' stato così che sono arrivato davanti alla Villa ... ho visto le luci accese e la moto lì fuori, era di un bel colore rosso amaranto e ho capito di essere arrivato dove mi si aspettava.
Devo essere terribilmente in ritardo, ho pensato, chissà se è rimasto una cipolla per me, anche solo un gambo di cipolla a cui aggrapparmi, come nella favola di Grùscegnka, già ... forse potrò sedermi, vicino al camino va bene, un po' in disparte, così da poter osservare la scena, mi piace osservare, anche se non è gentile per chi si sente osservato, ma chi mi aspetta capirà ... forse.
L'importante è arrivare e prima o poi si arriva ... chiederò se è rimasta una cipolla e resterò con chi mi aspetta e berrò con tutti alla salute se ci sarà del vino.
Posso entrare? Scusate il ritardo... Ah anche la polenta arrostita con sopra la soppressata va bene e anche quella con sopra il formaggio se c'è, le adoro entrambe, ma prima ci vuole un gambo di cipolla per uscire dal buio.
#390
Hai ragione Sari, dire che l'ente è l'essente non dice cosa è l'ente, è solo una tautologia che proprio in quanto tale è sempre vera, dato che ogni ente a suo modo è, ma il modo che lo fa essere un albero, un pezzo di legno che brucia nel camino, un ippogrifo, un sogno, la legge di conservazione di massa ed energia e così via all'infinito resta un mistero che appartiene alla generalissima tautologia, ma non ce ne dà la specifica ragione. Però non mi pare che l'Oriente sia più chiaro dell'Occidente in materia, alla domanda cos'è un albero, cos'è un uomo, cos'è una pietra e via dicendo cosa può rispondere l'Oriente? Il vuoto?
Un saggio forse potrebbe limitarsi, lasciando stare enti e vuoto, a indicare quell'albero, quell'uomo, quella pietra, e magari comprendendo con un gesto più ampio tutto il resto (altro) che lo fa apparire così com'è. Ma a quel saggio qualcuno potrebbe ancora domandare; cos'è quel gesto? cosa indica un gesto e da cosa è indicato affinché lo si possa intendere?
Purtroppo è difficile dire cosa sono le cose, quando si pensa di averle afferrate per poterle dire, quelle cose sono già passate, non sono più le cose che si pensava di dire.