Inizio il mio "commentario" dell'"Abhidhamma-Sariputra"
PRIMA PARTE
SARIPUTRA
Per il Buddhismo questo processo gestisce l'evoluzione della materia, dei suoi fenomeni ma anche l'evoluzione della mente stessa, con tutti i suoi attributi e proprietà.
Tutti gli eventi che la coscienza può seguire sono contenuti in questo processo. Di più, direi, la coscienza stessa ne è contenuta. La "legge fondamentale", iniziale, che si manifesta nel processo è "anatta ( anatman)". Secondo il Buddhismo delle origini la coscienza è suddivisa in unità elementari , così come la materia, per es., è composta da atomi e questi si raccolgono in molecole e poi in cellula, in organo, ecc. così le unità elementari di coscienza hanno una durata di vita infinitesimale (un miliardesimo di secondo? Boh!...
).
APEIRON
Interessante... questo più o meno è come l'ho sempre capita io. La PAT regola sia l'esistenza materiale che mentale. Nel caso dell'esistenza materiale ci è molto visibile perchè noi percepiamo "il mondo esterno": vediamo che perfino le montagne sono contingenti. Ben più difficile è vedere questo nell'aspetto "puramente mentale" della nostra esperienza - in particolare il "discernimento/coscienza/vi-jnana". Farei notare la particella "vi" che suggerisce la "discriminazione" - il creare distinzioni, dualità, la separazione. "Discernimento" appunto. Riprendendo una metafora che ho letto da Nanananda Thera ("Nibbana Sermons 21,22" - in inglese: https://www.dhammatalks.net/Books8/Bhikkhu_Nanananda_Nibbana_Sermon_22.htm): "Nello sconfinato oceano possiamo vedere un "qui" e un "là" solo in presenza di un vortice"(21) [Solo in presenza del "vortice" la nostra mente vede un interno ed un esterno]...finché c'è c'è un "qui" e un "là", sé stesso ed altro. Il vortice riflette il conflitto tra l'interno e l'esterno."(22)... La PAT però non è nient'altro che in ultima analisi la legge di causa-effetto, nell'accezione più generale possibile: se ogni stato mentale non esiste in modo indipendente esso è come un'onda nell'oceano. Non-differente ma non-ugule, non-uno e non-due.
SARIPUTRA
Proviamo a pensare una situazione concreta: Un tizio che ci pesta un piede in metropolitana o sull'autobus, inavvertitamente. Cosa proviamo? Un dolore violento al piedone. Che succede? Per la maggior parte di noi questo dolore fisico si accompagna ad un impeto di collera
. E' molto raro che compaia immediatamente uno stato di compassione, d'amore per il calpestatore, uno spirito bello tranquillo e accomodante. Quasi sempre sorge invece un senso di avversione, di irritazione e , a volte, pure di odio. Così prorompiamo in una parola dura o in un gestaccio . Qui osserviamo in azione paticcasamuppada , come avviene, schematizzando e semplificando il 'processo'. C'è una consapevolezza dolorosa e, immediatamente, sorge una sensazione spiacevolissima che l'accompagna. Non sappiamo perché, né come, ma probabilmente tutti ne abbiamo fatto l'esperienza. Sembra una cosa del tutto automatica. A seguito poi di questa collera nasce un'intenzione poco edificante ( che a volte, per fortuna , si ferma lì...), spesso malvagia: "Stai attento, scemo!", oppure:"Pezzo di imbecille!" o altro di poetico...
La situazione può andare avanti e arrivare alla 'vendetta', così affibiamo un bel calcione nella tibia al malcapitato, anche se non l'ha fatto apposta.
APEIRON
E dunque compreso il fatto che la nostra contingenza è la nostra realtà ci rendiamo conto che nella situazione che descrivi qui tutta la sofferenza pare nascere proprio dal non accettare che la Legge/PAT funziona proprio come dici tu... La PAT ci espone all'avversione: il nostro "vortice" si scontra con un altro "vortice" e inizia il conflitto. Ma anche se la metafora è molto forte, il suo limite lo si vede proprio qui! In fin dei conti il mulinello marino non soffre. Noi sì. E se per il mondo animale è impossibile riuscire a ragionare in abstracto in quanto nel mondo animale domina il solo intelletto che valuta l'azione concreta e immediata, nell'uomo c'è anche il logos, la ragione concettuale - che ci permette di ragionare in abstracto. E anche se per il buddhismo - a differenza del platonismo - l'astrazione è sempre astrazione non possiamo non notare come in realtà essa sia di fondamentale importanza nel buddhismo. Solo l'astrazione infatti ci permette di paragonare noi stessi con gli altri esseri umani e vedere come il "colpevole" di averci pestato il piede in realtà ha semplicemente fatto un errore, di cui noi non siamo immuni. Questo avviene anche senza l'esperienza diretta, grazie appunto al ragionamento in abstracto. Vediamo il principio generale della PAT in azione: o più precisamente ne "comprendiamo" in abstracto il funzionamento. Ma anche se alcuni individui riescono ad essere buoni per istinto, ad essere compassionevoli per istinto, ad immedesimarsi nell'altro senza mediazione concettuale - per chi non possiede questa "facoltà" la ragione è la via. Non appena ci si accorge che quello che ci ha pestato il piede pur non essendo uguale a noi, in realtà è molto simile - problematizziamo la collera. Se dunque comprendiamo la nostra sofferenza e riusciamo tramite la ragione concettuale a "comprendere" che gli altri sono simili a noi, vediamo che l'altrui sofferenza è molto simile alla nostra: in sostanza l'analisi della propria mente unita alla capacità di astrarre non solo ci fanno comprendere la nostra sofferenza e il nostro dolore ma anche l'altrui. Da qui si capisce come "prajna" (saggezza) e "karuna" (compassione) in realtà non sono così "lontane" come pensiamo. Tuttavia la bontà non può essere ridotta al ragionamento astratto: in fin dei conti il sadico usa la propria conoscenza astratta per un obbiettivo contrario. Senza tirare in ballo il sadico (ovvero il "malvagio") in realtà anche quando geniunamente abbiamo le migliori intenzioni, falliamo. E nemmeno la "buona volontà" in realtà ci "salva" dal cattivo comportamento, anche se è condizione direi necessaria per essere buoni: la volontà anche buona, è "debole" molto spesso! Questo è un interessante dilemma che interessa tutte le etiche per cui la conoscenza è virtù. Se infatti è grazie all'astrazione che io comprendo che l'altro soffre in certi modi, questo però automaticamente non mi rende "buono": nel cristianesimo c'è una interessante riflessione sull'"akrasia" - la "debolezza della volontà" - che non sono riuscito a trovare in altre filosofie così ben trattata e sviluppata. Nemmeno appunto nel buddhismo, dove però questa importante riflessione sembra essere a suo modo "implicita" nel principio per cui il "sentiero" non è solo conoscitivo e di saggezza ma è ottuplice. E la coltivazione sia della morale che della presenza mentale secondo il buddhismo aiutano a superare questo scoglio dell'akrasia. Perchè tra il capire in abstracto la PAT (o qualsiasi altro "dogma" buddhista e non solo) e arrivare a vivere in concreto la pratica - ovvero a rispondere con "buona volontà" (metta) anche a chi ci pesta il piede - c'è di mezzo il mare, come direbbe un noto proverbio...
CONTINUA...

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SARIPUTRA
Per il Buddhismo questo processo gestisce l'evoluzione della materia, dei suoi fenomeni ma anche l'evoluzione della mente stessa, con tutti i suoi attributi e proprietà.
Tutti gli eventi che la coscienza può seguire sono contenuti in questo processo. Di più, direi, la coscienza stessa ne è contenuta. La "legge fondamentale", iniziale, che si manifesta nel processo è "anatta ( anatman)". Secondo il Buddhismo delle origini la coscienza è suddivisa in unità elementari , così come la materia, per es., è composta da atomi e questi si raccolgono in molecole e poi in cellula, in organo, ecc. così le unità elementari di coscienza hanno una durata di vita infinitesimale (un miliardesimo di secondo? Boh!...

APEIRON
Interessante... questo più o meno è come l'ho sempre capita io. La PAT regola sia l'esistenza materiale che mentale. Nel caso dell'esistenza materiale ci è molto visibile perchè noi percepiamo "il mondo esterno": vediamo che perfino le montagne sono contingenti. Ben più difficile è vedere questo nell'aspetto "puramente mentale" della nostra esperienza - in particolare il "discernimento/coscienza/vi-jnana". Farei notare la particella "vi" che suggerisce la "discriminazione" - il creare distinzioni, dualità, la separazione. "Discernimento" appunto. Riprendendo una metafora che ho letto da Nanananda Thera ("Nibbana Sermons 21,22" - in inglese: https://www.dhammatalks.net/Books8/Bhikkhu_Nanananda_Nibbana_Sermon_22.htm): "Nello sconfinato oceano possiamo vedere un "qui" e un "là" solo in presenza di un vortice"(21) [Solo in presenza del "vortice" la nostra mente vede un interno ed un esterno]...finché c'è c'è un "qui" e un "là", sé stesso ed altro. Il vortice riflette il conflitto tra l'interno e l'esterno."(22)... La PAT però non è nient'altro che in ultima analisi la legge di causa-effetto, nell'accezione più generale possibile: se ogni stato mentale non esiste in modo indipendente esso è come un'onda nell'oceano. Non-differente ma non-ugule, non-uno e non-due.
SARIPUTRA
Proviamo a pensare una situazione concreta: Un tizio che ci pesta un piede in metropolitana o sull'autobus, inavvertitamente. Cosa proviamo? Un dolore violento al piedone. Che succede? Per la maggior parte di noi questo dolore fisico si accompagna ad un impeto di collera

La situazione può andare avanti e arrivare alla 'vendetta', così affibiamo un bel calcione nella tibia al malcapitato, anche se non l'ha fatto apposta.
APEIRON
E dunque compreso il fatto che la nostra contingenza è la nostra realtà ci rendiamo conto che nella situazione che descrivi qui tutta la sofferenza pare nascere proprio dal non accettare che la Legge/PAT funziona proprio come dici tu... La PAT ci espone all'avversione: il nostro "vortice" si scontra con un altro "vortice" e inizia il conflitto. Ma anche se la metafora è molto forte, il suo limite lo si vede proprio qui! In fin dei conti il mulinello marino non soffre. Noi sì. E se per il mondo animale è impossibile riuscire a ragionare in abstracto in quanto nel mondo animale domina il solo intelletto che valuta l'azione concreta e immediata, nell'uomo c'è anche il logos, la ragione concettuale - che ci permette di ragionare in abstracto. E anche se per il buddhismo - a differenza del platonismo - l'astrazione è sempre astrazione non possiamo non notare come in realtà essa sia di fondamentale importanza nel buddhismo. Solo l'astrazione infatti ci permette di paragonare noi stessi con gli altri esseri umani e vedere come il "colpevole" di averci pestato il piede in realtà ha semplicemente fatto un errore, di cui noi non siamo immuni. Questo avviene anche senza l'esperienza diretta, grazie appunto al ragionamento in abstracto. Vediamo il principio generale della PAT in azione: o più precisamente ne "comprendiamo" in abstracto il funzionamento. Ma anche se alcuni individui riescono ad essere buoni per istinto, ad essere compassionevoli per istinto, ad immedesimarsi nell'altro senza mediazione concettuale - per chi non possiede questa "facoltà" la ragione è la via. Non appena ci si accorge che quello che ci ha pestato il piede pur non essendo uguale a noi, in realtà è molto simile - problematizziamo la collera. Se dunque comprendiamo la nostra sofferenza e riusciamo tramite la ragione concettuale a "comprendere" che gli altri sono simili a noi, vediamo che l'altrui sofferenza è molto simile alla nostra: in sostanza l'analisi della propria mente unita alla capacità di astrarre non solo ci fanno comprendere la nostra sofferenza e il nostro dolore ma anche l'altrui. Da qui si capisce come "prajna" (saggezza) e "karuna" (compassione) in realtà non sono così "lontane" come pensiamo. Tuttavia la bontà non può essere ridotta al ragionamento astratto: in fin dei conti il sadico usa la propria conoscenza astratta per un obbiettivo contrario. Senza tirare in ballo il sadico (ovvero il "malvagio") in realtà anche quando geniunamente abbiamo le migliori intenzioni, falliamo. E nemmeno la "buona volontà" in realtà ci "salva" dal cattivo comportamento, anche se è condizione direi necessaria per essere buoni: la volontà anche buona, è "debole" molto spesso! Questo è un interessante dilemma che interessa tutte le etiche per cui la conoscenza è virtù. Se infatti è grazie all'astrazione che io comprendo che l'altro soffre in certi modi, questo però automaticamente non mi rende "buono": nel cristianesimo c'è una interessante riflessione sull'"akrasia" - la "debolezza della volontà" - che non sono riuscito a trovare in altre filosofie così ben trattata e sviluppata. Nemmeno appunto nel buddhismo, dove però questa importante riflessione sembra essere a suo modo "implicita" nel principio per cui il "sentiero" non è solo conoscitivo e di saggezza ma è ottuplice. E la coltivazione sia della morale che della presenza mentale secondo il buddhismo aiutano a superare questo scoglio dell'akrasia. Perchè tra il capire in abstracto la PAT (o qualsiasi altro "dogma" buddhista e non solo) e arrivare a vivere in concreto la pratica - ovvero a rispondere con "buona volontà" (metta) anche a chi ci pesta il piede - c'è di mezzo il mare, come direbbe un noto proverbio...
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