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Messaggi - davintro

#376
Tematiche Filosofiche / Re:Anima, Spirito, Mente
09 Gennaio 2018, 00:53:58 AM
Citazione di: Phil il 08 Gennaio 2018, 23:08:45 PMSi parla di metafisica classica, di forma immanente, etc., e per ironia del destino, oggi è stato pubblicato questo fumetto: http://existentialcomics.com/comic/219 ;D

molto divertente!
#377
Tematiche Filosofiche / Re:Anima, Spirito, Mente
08 Gennaio 2018, 00:22:09 AM
Apeiron scrive: 

"personalmente la mia opinione non è molto distante dalla tua (e quindi anche dall'opinione di viator). Ovvero che ci sia qualcosa che renda il gatto "gatto", il cane "cane", l'uomo "uomo" ma la chiamerei "forma" e lascerei il termine "anima" a ciò che può essere considerato "senziente" (il che è piuttosto difficile da stabilire). Per quanto riguarda lo spirito personalmente ritengo ciò la "concettualizzazione" della nostra facoltà di speculare, distinguere il bene e il male"


solo per precisare che sono d'accordo con questo appunto: l'anima la vedo come una particolare determinazione della forma, la forma costituente l'essenza degli esseri viventi, dunque una forma interiore che spinge l'ente a svilupparsi in una certa direzione, ma non tutte le forme sono anime, la pietra ha una forma, ma non ha un'anima, in quando non vi è in essa una spinta a un dinamismo autonomo, cioè proveniente da dentro e finalizzato ad uno sviluppo prestabilito. Concordando con la classificazione aristotelica, non riduco l'anima alla vita "senziente" che comunemente si attribuisce esclusivamente agli animali, ma ogni ad ogni forma di vita, di essere che cresce e si sviluppa sulla base di un "progetto", di un fine insito sin dal punto di origine dell'autodispiegamento, quindi anche allo stadio "vegetativo" a cui vengono ricondotte le piante.

Certamente il tema della forma si lega a quello dell'identità personale, ma più in generale al tema dell'individualità, forma infatti è ciò che delimita, supera l'indeterminatezza a cui le cose resterebbero se fossero solo mera materia ed estensione spaziale: ciò che ha un'individualità, la ha in quanto ha una forma che unisce, fisicamente e non solo, determinando una tendenza unitiva opposta a quella dispersiva, che consente di parlare di individualità (cioè non-divisibilità). Ma unire implica delimitare, e a livello semantico, ciò vuol dire che la forma delle cose è ciò per la quale assumono una essenza necessaria, un tratto caratteristico sulla base della quale poterle qualitativamente distinguere dal resto, e al tempo steso, fissa un limite alle potenzialità indeterminate per cui le cose sarebbero tutto e il contrario di tutto, e questo limite, pur rispettando la molteplicità di varianti, nonché di fasi temporali dello sviluppo, impone al divenire delle cose una logica, un senso, per il quale esso tende a realizzarsi in un determinato modo anziché in un altro. E questa logica fissa immanente allo sviluppo ne costituisce anche il fattore individualizzante, perché unificante, l'essenza che resta tale indipendentemente dalla molteplicità degli stadi in cui lo sviluppo si attua, e che dunque "unisce" nel senso di essere l'elemento presente in tutte le fasi
#378
Tematiche Filosofiche / Re:Anima, Spirito, Mente
02 Gennaio 2018, 18:37:29 PM
condivido molto il modo in cui nel suo post di apertura Viator ha esposto il significato filosofico delle nozioni di "anima" e "forma", considerando la forma come fattore di specificazione e determinazione qualitativa dell'ente, che restando pura materia resterebbe allo stadio di potenzialità indeterminata, mentre l'unità di forma e materia costituisce la sostanza, e la forma attribuisce all'ente potenziale l'esistenza, che è sempre esistenza caratterizzata da una determinata e specifica natura caratterizzata da un modo d'essere che ammette delle potenzialità e ne esclude altre. L'anima sarebbe la forma degli esseri viventi, cioè ciò che attribuisce all'ente come essenziale la qualifica di ente vitale. Intesi così questi concetti assumono una valenza razionale, in quanto le forme non sarebbero entità del tutto separate e trascendenti, dunque impossibilitate a vedersi riconosciute nella loro efficacia causale di esplicazione degli aspetti della realtà, proprio in quanto l'anima non trascende la materia vivente ma ne è la forma, la sua presenza è razionalmente riconoscibile, perché rende ragione della differenza qualitativa fra ente vivente e non vivente, differenza che resterebbe inavvertita restando nell'ottica di un materialismo che invece riduce il tutto alla "materia", cioè all'aspetto di potenzialità indeterminata, per la quale la materia vivente dovrebbe presentarsi identica a quella vivente, a quel modo d'essere presentante un principio interiore che la porta a svilupparsi alla luce di un determinato senso, l'anima appunto. Condivido anche l'intendere lo spirito, come livello qualitativamente superiore, tra i gradi di complessità nei quali il fenomeno-vita si manifesta. Lo spirito costituisce il carattere di libertà e dunque è corretto intendere la volontà come facoltà eminentemente spirituale, ma a condizione di considerarla come necessariamente implicata nella presenza della mente. Lo spirito presuppone che il complesso dei vissuti che legano l'Io al mondo, siano compresi nella coscienza, cioè espressioni di un Io cogitante, e nella coscienza il mondo e se stessi sono posti dall'Io come oggetti, dunque enti distinti da se stesso inteso come "soggetto", punto sorgivo dei vari vissuti coscienti e cogitanti. La distinzione soggetto-oggetto nell'ambito della mente preserva un margine di autonomia del soggetto, che non si lascia assorbire e far coincidere con le oggettivazioni della propria attività pensante, bensì mantiene un centro interiore individuale a partire dal quale tendere alla luce dell'intenzionalità verso tali oggettivazioni, attribuendo ad esso soggettivi significati e valori alla luce delle categorie di giudizio insiti in esso, costitutivi della personalità. In questo modo la struttura mentale soggetto-oggetto si presenta come sintesi di attualità-passività, coincidente con la polarità forma-materia, spirito-corpo, dove l'aspetto di attualità costituisce quel margine di libertà che rende ragione della qualifica dell'Io umano spirituale non solo come "pensante", ma anche come "volente". Quindi troverei un po' equivoco parlare di uno "sviluppo" della mente sulla base dello spirito, che potrebbe far pensare ad una mente come conseguenza secondaria a-posteriori di un'attività dello spirito preesistente, ancora non cosciente, ma andrebbe riconosciuta la mente come fattore essenziale e costitutivo dello spirito, e quest'ultimo come dimensione della vita nella quale non c' è primato della volontà e della mente, ma reciproca implicazione, dimensione che rivela la coincidenza di libertà e razionalità. Non vorrei che questo appunto apparisse come eccesso di pedanteria, dato che nel complesso sto commentando un pensiero che condivido a apprezzo davvero molto.

Buon anno a tutti!
#379
Citazione di: Angelo Cannata il 26 Dicembre 2017, 22:23:54 PMIn base a questo tuo ragionamento sul virtuoso non felice di essere tale, Gesù, visto che mentre gli piantavano i chiodi non si dimostrava felice, non può essere considerato uno veramente virtuoso. È da precisare che, secondo le narrazioni evangeliche, Gesù scelse di sua volontà di morire in croce, poiché poteva sottrarsi ad essa, sapeva di potersi sottrarre, sapeva cosa lo aspettava, ma non fece nulla per sottrarsi, anzi, si comportò in modo da provocare attivamente la rabbia degli accusatori contro di lui. Paolo Borsellino, certamente non sprizzava felicità nel momento in cui diceva "Siamo dei cadaveri che camminano", ad indicare la piena consapevolezza di essere destinato a venir ucciso dalla mafia. Anche lui quindi non può essere considerato uno veramente virtuoso.

per quanto riguarda il dolore fisico, siamo in un'ottica di "al di là del bene e del male". Il provare dolore fisico come ad esempio quello che può aver provato Gesù sulla croce è un fenomeno che la vittima subisce al di là del suo libero arbitrio, indipendentemente dai valori personali, dai quali invece dipende il piacere e il dolore a livello spirituale. Quindi il dolore fisico che si può subire come conseguenza di un agire virtuoso non ci rivela nulla dello spessore morale (cioè spirituale) della persona, ma semplicemente che questa persona non è un angelo, un puro spirito, ma ha anche un corpo, mentre la moralità è una realtà tipicamente spirituale. La spiritualità entrerebbe in causa invece nel l'esempio di Borsellino, e posso certamente immaginare che la coscienza di essere, come disse testualmente, "un morto che cammina", non gli provocasse alcun piacere, anzi sofferenza e profonda tristezza. ma questo non esclude o diminuisce in alcun modo la sua virtù, testimoniata dal piacere o felicità di sapere di contribuire al perseguimento del valore della legalità tramite il suo impegno antimafia. In quel caso assistiamo a un conflitto di valori: da un lato l'impegno per la legalità, dall'altro la sua vita e la sua famiglia. Anche la propria vita rappresenta certamente un valore positivo, e dunque la sofferenza nel vederla a rischio non è affatto indice di immoralità, al contrario, è coscienza del valore positivo della propria esistenza nonché dell'amore verso la propria famiglia, che certamente soffrirà profondamente la mancanza. Ogni azione che compiamo implica sempre questo conflitto fra i valori, per il quale la coerenza con alcuni di essi porta a sacrificarne altri, meno importanti evidentemente, ma comunque rilevanti. E questa rilevanza fa sì che il loro sacrificio provochi tristezza nel soggetto, ma una tristezza meno forte della soddisfazione che ci dà l'essere coerenti con i valori interiormente più importanti per noi, che sono poi quello che ispirano le decisioni concrete. Borsellino non era certamente un masochista a cui faceva piacere morire, ma la sua amarezza nulla toglieva alla soddisfazione interiore, dominante che provava nell'andare fino in fondo ai propri doveri di uomo di stato e di legge, soddisfazione che era più forte della tristezza, probabilmente non a livello emotivo-superficiale, ma a livello più profondo, perché altrimenti avrebbe agito diversamente, avrebbe rivelato una diversa gerarchia valoriale personale anteponendo la propria vita all'esercizio del proprio dovere. E solo in quel caso avrebbe avuto un senso cogliere uno sminuimento (anche se certamente umano e comprensibile) della caratura morale dell'uomo. L'agire morale costituisce un ambito complesso in cui entrano in gioco motivazioni contrastanti, per il quale la stessa linea d'azione chiama in in causa diversi fattori che determinano diversi riscontri sentimentali, e ogni valutazione presuppone un atteggiamento analitico che distingua questi singoli fattori.
#380
a mio avviso non ha senso concepire mete esistenziali alternative alla felicità, se si indica con questo concetto quella condizione di sommo appagamento esistenziale nel quale la persona vedrebbe pienamente esauditi e concretizzati tutti suoi più fondamentali profondi desideri ed auspici (certamente irraggiungibile nell'imperfezione di questo mondo). In questo senso la ricerca della felicità andrebbe posta come un "trascendentale", l'elemento necessario ed inevitabile che giuda ogni pulsione ed ogni agire di un essere, e non un'opzione fra le tante. Ciascuno di noi persegue differenti valori, e la felicità è il vissuto che sorge in noi nella coscienza della realizzazione di tali valori, la felicità non è un valore accanto gli altri, ma ciò che ne accompagna la realizzazione di essi, qualunque essi siano. Non ha senso contrapporre o considerare un'alternativa fra la ricerca della felicità, ad esempio, all'amore per la verità e la conoscenza. Chi desidera dedicare la sua vita al sapere porrà la ricerca della felicità come condizionata da tale valore, cioè la conquista di un livello massimo di conoscenza, in quel caso la conoscenza sarebbe ciò che rende felici. Così come non ha senso contrapporre la felicità alla virtù. Piuttosto la felicità andrebbe visto come quel sentimento concomitante alla coscienza di aver agito secondo virtù, cioè quel senso di soddisfazione nel vedere di aver contributo alla realizzazione del proprio ideale di Bene. Occorrerebbe arrivare a dire che un virtuoso non felice di essere tale, o di agire come tale, che vede il suo perseguire la virtù in termini prevalentemente di sacrificio non andrebbe considerato veramente come "virtuoso", dato che il suo agire non coinciderebbe con le sue intenzioni profonde, intenzioni, fondate sui nostri valori, dovrebbero una volta realizzate darci quel senso di appagamento dato dalla constatazione della coerenza fra la realtà e questi valori. La felicità è immorale solo quando malvagie sono le intenzioni il cui esaudimento la determina. L'errore sta nell'identificare i desideri il cui esaudimento produce felicità solo come intenzionati all'acquisizione di beni e valori superficiali, legati alla sfera del mondo sensibile, esteriore, non comprendendo che, accanto a un livello di piacere superficiale, che accade nell'immediatezza del contatto dell'Io con gli stimoli esteriori, esiste un livello più profondo, per il quale il piacere segue alla realizzazione di valori spirituali che sono il correlato oggettivo dei sentimenti soggettivi che sorgono dal nucleo profondo della nostra personalità, quel livello di sensibilità assiologica più profondo, costante, che caratterizza l'individualità al di là delle varie contingenze inerenti le mutevoli situazioni in cui ci troviamo a vivere.
#381
Citazione di: green demetr il 10 Dicembre 2017, 19:06:34 PM
Citazione di: davintro il 10 Dicembre 2017, 18:23:57 PMconsidero la solitudine come condizione fondamentale di ogni filosofare, inteso come momento in cui l'Io, appurato come l'esperienza esteriore si riveli insufficiente a risolvere dei problemi teoretici fondamentali come l'individuazione dei princìpi fondamentali dell'essere, del mondo, delle condizioni necessarie, cioè trascendentali della conoscenza, operi una sorta di "conversione" sguardo dall'esterno all'interno, considerando l'interiorità, la coscienza come l'ambito dal quale partire per cogliere le verità fondamental....e. Solo nell'individuazione del compito della filosofia come scoperta razionale dei princìpi primi fondamentali del pensiero, della conoscenza, dell'essere si riapre l'interesse a porre l'interiorità (e la solitudine) come luogo decisivo e punto di partenza di un sapere rigoroso.
Questo modo di intendere la filosofia è completamente imbalsamato. Quando parli con una persona, quando vieni aggredito, minacciato, hai bisogno di una individuazione teoretica dei principi di verità????? Mi sembra invece che questo modo di procedere analitico, sebbene di matrice fenomelogica, abbia gli stessi difetti della terribile filosofia analitica americana: sono sintomi della morte della filosofia.

ad esempio il principio di non contraddizione, che è uno degli assiomi fondamentali della logica, dunque uno dei princìpi di verità di qualunque forma di razionalità (non solo filosofica, ma sui quali la filosofia focalizza le proprie ricerche individuandoli come fondazione trascendentali di ogni discorso vero), è ciò che mi permette di sottolineare come il discorso che sta facendo la persona che mi sta aggredendo o minacciando, in quanto incoerente, cioè autocontradditorio sia un discorso assurdo, e che dunque mi rassicura sul fatto che quantomeno non tutti i torti sono miei, che il punto di vista dell'altro è viziato da una componente di irrazionalità, che posso far notare, e in questo modo incalzare la persona a chiarire meglio il discorso ed eventualmente dissipare gli equivoci, arrivando magari a un chiarimento riappacificatore. Ovviamente questa è solo la più ottimistica delle prospettive, ma è comunque una conclusione possibile, la cui possibilità di realizzarsi è data proprio dall'applicazione di criteri di verità riconoscibili intersoggettivamente attraverso cui recuperare una visione delle cose entro certi limiti oggettiva, sulla base del quale intenderci e dialogare per superare i contrasti. Chiaramente il complesso delle pratiche sociali e comunicative ha una complessità per la quale i problemi che là sorgono non sono mai risolvibili per pura deduzione logica coerente da premesse ed assiomi, in quanto il motore dei conflitti non è mai puramente teoretico, ma costituito dalle contrapposizioni tra diverse soggettive visioni morali e valoriali, su cui la razionalità non può fissare una gerarchia in senso assoluto. Tuttavia nella gran parte dei casi anche una certa illogicità, confusione che conducono i discorsi a una visione teorica delle cose errata, che porta ad un'incomunicabilità per la quale ciò che voglio esprimere viene frainteso sulla base di parametri interpretativi diversi dagli altri (ne abbiamo in continuazione esperienza quotidiana purtroppo...), e questa incomunicabilità porta a equivoci e conflitti, che una condivisione di significati nel linguaggio potrebbe evitare. Dunque non sottovalutarei la rilevanza dell'aspetto di chiarificazione teoretica dei punti di vista, nel contribuire a evitare conflitti comunicativi nell'ambito pratico. Nessuno ovviamente pensa che lo svolgimento di tale compito sia sufficiente a ciò, ma certo è un fattore contributivo, che stimola la filosofia e l'indagine teorica speculativa a attivarsi sulla base di un'urgenza anche pratica, tutt'altro che uccidendola e imbalsamandola
#382
considero la solitudine come condizione fondamentale di ogni filosofare, inteso come momento in cui l'Io, appurato come l'esperienza esteriore si riveli insufficiente a risolvere dei problemi teoretici fondamentali come l'individuazione dei princìpi fondamentali dell'essere, del mondo, delle condizioni necessarie, cioè trascendentali della conoscenza, operi una sorta di "conversione" sguardo dall'esterno all'interno, considerando l'interiorità, la coscienza come l'ambito dal quale partire per cogliere le verità fondamentali, valide al di là della particolarità dei contesti empirici, e che costituiscono il presupposto inaggirabile delle verità particolari delle scienze empiriche, i cui limiti metodologici impediscono di accedere ad una visione essenziale delle cose, che comprenda i princìpi che sovrintendono a una realtà intesa come totalità. In questo senso lo stesso razionalismo cartesiano, il metodo della radicalizzazione del dubbio, tanto vituperato (anche vedo in questa discussione), è un modello filosofico in cui la fondamentalità, almeno a livello procedurale metodologico, della solitudine per la filosofia viene a mio avviso assolutamente confermata e valorizzata. La radicalizzazione del dubbio che si spinge a dubitare della presunzione di verità dei giudizi fondati sulla percezione sensibile, porta attraverso la deduzione dall'esercizio di tale dubbio al riconoscimento della certezza dell'esistenza dell'Io come soggetto pensante, e ciò, certamente al di là delle forme discutibili ed imperfette in cui Cartesio ha operato le sue speculazioni, va interpretata come richiamo alla posizione dell'interiorità, dell'analisi degli schemi, dei vissuti soggettivi della coscienza come punto di partenza da cui ricavare l'idea di un sapere rigoroso, una razionalità fondativa, dunque una razionalità filosofica. La posizione dell'interiorità come princìpio della filosofia (non una invenzione cartesiana, ma a quel che ne so, di S. Agostino che sviluppa e sistematizza ispirazioni socratiche-platoniche) è ciò che legittima il riconoscimento della solitudine come momento fondamentale della filosofia. La filosofia intesa come sapere radicalmente critico implica una riflessione sulla validità delle forme soggettive entro cui facciamo esperienza del mondo, e perché sia radicalmente rigoroso, occorre partire da un punto fermo, che mostri tale fermezza non dogmaticamente ma razionalmente, e ciò non può che essere il pensiero soggettivo, che comprende nella certezza della propria esistenza sia la possibilità della verità che della falsità riguardo le asserzioni sulla realtà trascendente rispetto ad esso (non solo il mondo esterno, ma anche lo stesso soggetto empirico inteso come causalmente condizionato da tale mondo esterno). La solitudine diviene momento necessario nel quale si opera tale conversione dello sguardo dall'esterno all'interno. Ciò che principalmente ostacola tale conversione sono due fattori, tra loro correlati, che costituiscono aspetti sempre presenti nella nostra vita, impossibili da eliminare, ma che la riflessione filosofica dovrebbe relegare a una sorta di marginalità: pragmatismo ed immediatezza. Il pragmatismo è ciò che pone l'uomo in relazione pratica con il mondo, a sviluppare l'interesse non per la realtà intesa come contemplazione fine a se stessa, ma come oggetto da manipolare per i nostri desideri, per la realizzazione dei valori etici. La necessità di agire nel mondo esterno implica sempre, ovviamente, un certo livello di conoscenza, ma non una conoscenza retta da fondamenti trascendentali che la rendano apodittica, ma un livello per il quale ci si può accontentare di un ambito probabilistico , sufficiente a orientarci in modo pratico legittimando una certa linea d'azione anziché un'altra: per intervenire sugli oggetti esterni devo conoscere quelli, manipolarli, ma al contempo adeguarmi ad essi, e l'interiorità, l'individuazione della coscienza come certezza fondamentale della conoscenza restano presupposti impliciti, sempre validi ma trascurati: devo muovermi nel mondo, la solitudine e il raccoglimento interiore che mi consente l'emersione dell'evidenza dell'esistenza dell'Io come soggetto pensante sono visti come intralci mentali e perdite di tempo. Per quanto riguarda l'immediatezza, noto come la conoscenza e la scoperta dell'esteriorità abbia, rispetto a quella dell'interiorità, un impatto emotivo sulla maggior parte delle persone più forte: dal punto di vista dei "dati", dei "fatti" certamente l'universo, le nazioni, i continenti, le galassie ecc possiedono una ricchezza immensamente più grande del ristretto ambito delle strutture mentali soggettive. La scoperta di un nuovo continente, di un nuovo pianeta colpisce nell'immediato molto di più rispetto alla scoperta di una nuova categoria trascendentale nell'intelletto umano. Il piacere della riflessione interiore, della speculazione mentale, è qualcosa di molto più "raffinato", mediato. La riflessione interiore trascendentale, non porta a conoscere nuovi "fatti", fissa però le condizioni, i limiti, le possibilità entro cui ogni forma di esperienza, comprese quelle riferite alla scoperta dell'esterno sono valide. Eppure l'interesse pratico porta le persone inevitabilmente a orientare l'interesse e la curiosità verso l'esterno, verso i fatti, che sono reali "hic et nunc" , perché sono le cose con cui dobbiamo fare i conti pragmaticamente per realizzare i nostri obiettivi, siamo interessati a una conoscenza che si ampli in estensione, molto più in profondità, quella profondità che ci appare spesso sterile, noiosa, astratta e autoreferenziale, (da qui tutte le varie forme  parodistiche di irrisione del filosofo, come persona inutile, alienata, che si incarta in sterili e complicati sofismi e speculazioni) ma che al tempo stesso è l'ambito comprendente le fondamenta e i presupposti di ogni altra conoscenza. Per scoprire e conoscere un nuovo pianeta dobbiamo pensare e il pensare opera sulla base di norme, e schemi, che non interessano il naturalista, ma l'epistemologia, la gnoseologia, la filosofia: è l'interiorità fondamentale che la solitudine intesa come distacco dal flusso di informazioni esterne per ricondurle a delle norme insite nella profondità.

Per questo non vedrei tanto nella "saggezza", che ancora è una conoscenza strettamente funzionale all'azione pratica rivolta al mondo esterno, come ricorda Aristotele, bensì in un recupero, certamente critico e non dogmaticamente tradizionalista, proprio di quella tradizione teoretica e metafisica, che comprende certamente anche Cartesio ma non solo, impegnata non a elaborare conoscenza "estese", ma "profonde", cogliendo i presupposti fondativi, stabili, indubitabili che ogni scienza rivolta al raggiungimento della verità nei loro specifici campi, deve abbracciare, quantomeno implicitamente la base del riconoscimento solitudine-filosofia. Se, come credo io, occorre nettamente distinguere "filosofia" e "storia della filosofia", non ci deve interessare che tali visioni metafisiche siano passate di moda dopo Nietzsche o dopo Heidegger, l'unica cosa che conta è se siano valide teoreticamente o meno, e questo non lo decide il susseguirsi storico delle varie egemonie culturali, ma la corrispondenza delle loro tesi alla verità delle "cose stesse" oggettive. Solo nell'individuazione del compito della filosofia come scoperta razionale dei princìpi primi fondamentali del pensiero, della conoscenza, dell'essere si riapre l'interesse a porre l'interiorità (e la solitudine) come luogo decisivo e punto di partenza di un sapere rigoroso.
#383
Citazione di: Angelo Cannata il 29 Novembre 2017, 20:36:34 PMQuesto sistema che hai presentato si regge, a mio parere, su basi fragilissime: si basa tutto sullo spauracchio dell'assurdo come unica alternativa, che sta lì a minacciare ciò che non risponde a ciò che chiami logica. Ma nulla vieta di sospettare che ciò che non ci sembra logico oggi possa risultare logico domani e che quindi eravamo noi a non accorgerci della sua logicità. Basti pensare ai sogni: possono sembrare assurdi, strani, incoerenti, illogici, poi viene Freud e ci mostra che sono strapieni di logiche e di significato, bisogna solo saper leggere il loro linguaggio. Insomma, ogni cosa che pensiamo di chiamare logica è soggetta a relativismo. Non possiamo fidarci di nessuna cosa che ci venga detta dal nostro cervello, neanche quando esso ce la presenta come coerenza inventata, decisa arbitrariamente. Questo non poterci fidare significa che anche quando io penso di essere riuscito a smentire un tuo pensiero (in questo caso i criteri di logicità che hai esposto), non posso mai essere certo di averlo davvero smentito; ne ho solo dubitato e perfino su questo posso nutrire sospetti: chissà se ne ho davvero dubitato. Il fatto è che ciò vale anche quanto tu vorresti smentire me. Nessun sistema di pensiero è definitivamente demolibile, né, al contrario, difendibile. Non possiamo essere certi né di ciò che sta in piedi, che stia davvero in piedi, né di ciò che è crollato, che sia davvero crollato. Insomma, qui stiamo ancora a cadere nei tranelli mentali di pretendere di giungere a conclusioni ultime, definitive, certe, tranelli che ancora ci portiamo dietro perché la filosofia greca pervade tuttora le nostre menti di stampo occidentale.

questo punto di vista continua a reggersi sull'errore di non distinguere la logica dall'esperienza, sulla base di un pregiudizio direi empirista, prima che relativista. La logica non si fonda sull'esperienza, sull'induzione, la verità dei suoi assiomi è riconoscibile dialetticamente, mostrando l'assurdità di qualsivoglia tesi finalizzata a smentirli. La non-definitività di un sapere è un carattere presente in ogni conoscenza fondata sull'osservazione dei contesti spaziotemporali, perché l'esperienza è un campo infinitamente aperto, dal punto di vista spaziale e temporale, e perché i livelli di efficienza degli strumenti osservativi sono teoricamente infiniti: in ogni momento una nuova esperienza può smentire i risultati ricavati da esperienze precedenti, si possono sempre creare nuovi strumenti di osservazioni sempre più efficienti che correggono quelli precedenti. L'esempio della psicanalisi freudiana è attinente in questo ambito... il metodo di Freud (che non era un filosofo o un logico, ma un medico, un empirico) era sperimentale, nessuna meraviglia che abbia prodotto dei dati innovativi che hanno messo in discussione il punto di vista sulla psiche dominante nelle epoche precedenti. Ma la logica formale non ha nulla a che fare con tutto ciò, non si occupa di fornire regole al pensiero nelle sue determinazioni storiche, come invece la psicanalisi, che si occupa di un certo tipo di soggettività, contingente, ma ad ogni forma di pensiero come tale, indipendentemente da ogni contesto particolare e limitato, e per far questo non può porre l'esperienza come fondamento, in quanto questa è sempre limitata all'apprensione di un certo contesto spaziotemporale e non può soddisfarne le istanze di validità universale. Che A sia A e non possa mai essere non-A non è una verità ricavata per generalizzazioni induttive o per sperimentazioni, e quindi nessuna esperienza potrà mai smentirla, perché non è su di essa che tale verità si fonda. Quando una smentita si regge su presupposti diversi da quelli su cui si regge la tesi da smentire, finisce sempre con l'essere estrinseca, non potendo intaccare le ragioni autentiche di ciò che si vuole smentire. Per criticare in modo razionale un discorso occorre o squalificarne le premesse, oppure cogliere l'incoerenza tra queste e lo sviluppo del discorso, quindi per smentire che sia assurdo A= non A bisognerebbe o squalificare il metodo dialettico di reductio ad absurdum, identificando come unico metodo valido conoscitivo quello sperimentale induttivo (ma con quali argomenti?), o dimostrare la non assurdità della tesi portando dimostrazioni, ma non rinviando a un ipotetico futuro in cui una certa esperienza potrebbe far cambiare le cose, utilizzando un presupposto irrilevante (l'esperienza) per il contesto in cui stiamo discutendo, cioè un ambito del sapere che non considera tale presupposto come fondativo, cambiando solo, come si suol dire, le carte in tavola. La sovrapposizione tra ambiti distinti come piano trascendentale e piano empirico-fattuale porta a confusioni ed equivoci che vanno chiariti in modo analitico.
#384
Angelo Cannata scrive

"mi viene in mente un altro semplice paragone: secondo questo criterio, anche un gatto potrebbe affermare tranquillamente che non esiste pensiero senza fare "miao", o fisicamente o come minimo mentalmente. La cosa interessante è che questo gatto non potrà mai essere smentito: egli potrà sempre ribattere che siamo noi a non accorgerci che, tutte le volte che elaboriamo un pensiero, in realtà la nostra mente, senza accorgersene, s'immette nella struttura mentale del fare "miao".

Voglio dire, quando uno s'immette in uno schema mentale e decide di mantenersi ermeticamente al suo interno, non solo tutti i suoi conti tornano, ma non esiste neanche alcuna possibilità di smentire le sue affermazioni.

Il problema è che ciò vale per qualsiasi sistema mentale, cosicché alla fine tornano i conti e non c'è possibilità di smentita sia per chi dice che due e due fanno quattro, sia per chi dice che fa cinque."


va distinto il piano formale-trascendentale, quello su cui si situano i princìpi della logica a cui ogni razionalità deve necessariamente attenersi, e un piano fattuale empirico, di per sé contingente. L'universalità dei princìpi della logica non ha un'accezione solo quantitativa, universalità intesa come semplice insieme compiuto delle realtà comprendenti il pensiero che la logica è chiamata a fondare, ma è un'universalità intesa come necessità a-priori, vigente non solo per tutte le determinazioni attualmente esistenti in cui un pensiero si realizza in una certa particolare esperienza, ma per tutte le determinazioni possibili immaginabili, per ogni tempo e luogo possibile. Quindi per smentire la pretesa del gatto di porre il miao come presupposto necessario di ogni pensiero è sufficiente riconoscere la non-assurdità, cioè la non-impossibilità di un pensiero che non necessita del miao, senza bisogno che un uomo hic et nunc riconosca con certezza il suo pensiero come indipendente dal miagolio (effettivamente in linea teorica potrebbe esserci una dipendenza senza che l'uomo se ne accorga).  Se il gatto non riesce a dimostrare l'assurdità di un pensiero che non si regge sul miao, allora non potrà porre il miao come norma apriorista del pensiero, ma solo, al massimo, come princìpio che fonda il suo particolare modo di pensare, il pensiero di una determinazione empirica e particolare incapace però di escludere modalità di pensiero diverse. Diverso il caso degli assiomi logici, come ad esempio il principio del terzo escluso, per il quale "A non può essere al contempo A e non-A": qualunque tentativo di negare la validità universale di tale princìpio farebbe cadere nell'assurdo ogni forma di pensiero, compreso lo stesso pensiero che nega tale validità, che dovrebbe così ammettere anche in se stesso la sua contraddittorietà, autosvalutandosi. Ciò perché la fondatività della logica non consiste in una comune struttura psichica (sempre contingente) che dovrebbe accomunare storicamente le varie determinazioni del pensiero, ma in un'evidenza oltre la quale si cadrebbe nell'assurdo e nel non-senso. La logica fissa le condizioni minime (certamente non sufficienti, ma nemmeno le fondamenta di una casa sono sufficienti alla costituzione della casa, però senza di esse la casa crolla), di ogni pensiero, e per questo non sono relativizzabile sulla base di alcuna esperienza, non ha direttamente a che fare con le particolari determinazioni della realtà, ma fissa i limiti oltre i quali la realtà non avrebbe più alcun senso.
#385
scrive Phil:

"Non è il tema centrale, ma vorrei capire meglio questa dualità fra vissuti spazializzati e non-spazializzati. Nel mio piccolo, mi pare che anche i vissuti psichici-emotivi abbiano una "spazializzazione": il mio "preoccuparmi per te"(riprendo il tuo esempio, non dico sul serio ) ha un suo posto nella mia coscienza/spirito/anima/psiche/etc. che, almeno in questo caso, mi sembra localizzata stabilmente nel mio cervello. Lo dimostra la variazione dei parametri fisiologici gestiti dal cervello (se sono in ansia per te avrò battiti alti e altri sintomi fisici tutti regolati, se non erro, proprio dal cervello), inoltre tale ansia sfumerà quando il mio cervello sarà distratto da altro (supponiamo l'incontro improvviso con un vecchio amico che mi riporta alla memoria episodi passati emotivamente rilevanti). Reazioni fisiche (vissute emotivamente) e attività di pensiero condizionante: il ruolo del cervello non è quindi marginale nel mio all'essere preoccupato per te; come/perché supporre che tuttavia ci sia dell'altro?

"Indubbiamente non ho una percezione sensibile del mio cervello e della sua attività, come non ho una percezione sensibile di un mio rene e della sua funzione (salvo sia ammaccato o dolorante); infatti se mi chiedi esattamente dov'è, non so indicartelo per sensazione percettiva, ma solo per cognizione di (carenti) studi del corpo umano, ma ciò non toglie che il mio rene funzioni (almeno spero!). Ugualmente i fenomeni di coscienza psichica-emotiva, suppongo ma non sono affatto erudito in materia, siano plausibilmente localizzati nel cervello, poiché neurotrasmettitori e altre "strutture biologiche" producono, rispondendo a stimoli esterni, una reazione fisica che io vivo (rieccoci a "spiegazione vs vissuto") come ansia, gioia, perplessità, etc.
Forse mi dirai che la gioia non ha solo il suo aspetto fisiologico, ma ciò comporterebbe, radicalizzando, che si possa provare gioia anche senza secrezione di endorfina, serotonina o non so quale altra sostanza, perché in fondo è l'anima/psiche/spirito a gioire in sé... siamo sicuri sia possibile un qualche forma di verifica di ciò?
Oppure alludi forse a una catena di reazioni di questo tipo: tu mi dici una bella notizia / la percepisco con l'udito / il mio cervello decodifica il senso di quei suoni / il senso piace alla mia anima-psiche-spirito / l'anima-psiche-spirito innesca un meccanismo cerebrale / il cervello attiva la secrezione di serotonina o altro / provo gioia e annesse reazioni fisiologiche (sorrido, etc.)?
Non si ritorna sempre all'atavica questione aporetica di spiegare come l'immateriale (spirito o altra postulazione) condizioni il materiale (corpo)?"






anche nell'esperienza soggettiva dei vissuti siamo accompagnati da percezioni localizzate, ad esempio quando abbiamo paura, o più in generale, siamo fortemente emozionati sentiamo il cuore battere forte. Ma tali esperienze hanno una peculiarità fenomenica non confondibile con la spazialità del dolore, del caldo o del freddo nella zona corporea entrata in contatto con un stimolo esteriore. In questo ultimo caso le sensazioni sono avvertite come davvero originatesi dalla zona corporea che subisce la causalità fisica dall'esterno, mentre la paura non è originata dal cuore che batte, il battito è una conseguenza concomitante, non la causa efficiente produttore del vissuto. Attraverso la riflessione possiamo sempre collegare il sorgere di un certo vissuto con delle motivazioni correlate ad esse. I vissuti spirituali, paura, gioia, malinconia sono intenzionali, dotati di un senso, attività di un Io che si dirige intenzionalmente verso un mondo di cose, a cui noi attribuiamo una valenza positiva o negativa sulla base di una sensibilità assiologica che ci costituisce nella nostra singolarità. La mia paura ha un senso, è motivata perché sempre intenzionata dal valore che l'Io attribuisce a un oggetto o stato di cose del mondo, se non ci fosse tale attribuzione assiologica, non avrebbe alcun senso o ragion d'essere provare paura o di qualunque altro sentimento. Qui sta lo scarto tra la causalità fisica per cui essendo colpito da un calcio provo dolore, e la motivazionalità per la quale un certo vissuto dell'Io come la paura è motivato non da una causa esterna all'Io, ma interna, vale a dire una certa intenzionalità valoriale per la quale la paura è sempre collegata al mio orientamento di valore, in gran parte assunto liberamente dalla personalità. Non esiste invece alcuna "motivazione" al fatto che io provi dolore dopo un calcio, eppure lo provo, lo provo sulla base di un fattore esterno nei cui confronti il mio Io è passivo. La psiche la vedo come questo continua reciproca interconnessione tra causalità fisica, per la quale l'Io subisce passivamente, sulla base della sua componente materiale, l'influsso degli agenti dal mondo esterno, e la motivazione spirituale, per la quale i vissuti promanano da un Io dotato di libertà, che liberamente si rivolge intenzionalmente verso le cose del mondo. Chiaramente non si può riferire la totalità dello psichico al piano motivazionale, ma resta comunque una dimensione fondamentale che fissa i limiti all'approccio materialista che ritiene di poter studiare la mente sulla base dell'osservazione dall'esterno. L'osservazione esteriore è metodologicamente valida nella misura in cui l'oggetto di indagine è passivo, qualcosa di morto, che si presta docilmente a essere studiato da una mente che lo studia manipolandolo, mentre nella misura in cui l'Io si pone come soggetto libero, che produce un vissuto sulla base di un altro prima prodotto, in un flusso temporale unitario di coscienza, allora non può essere osservato dall'esterno, ma lascia che sia un approccio autocoscienziale e introspettivo, per il quale il soggetto dell'osservazione coincide con il "tema" osservato, ad essere il più attinente, cioè l'approccio in cui il dinamismo coscienziale si rispecchia nel soggetto stesso che lo percepisce interiormente, proprio in quanto avverte in sé tale dinamismo, un approccio in cui il soggetto viene considerato maggiormente in quanto tale, cioè come soggetto dinamico, senza essere frainteso nello sguardo reificante delle scienze naturali (pur fondamentali per quanto riguarda lo studio dell'ambito materiale-passivo dell'uomo, ma che si arrestano di fronte a quello intenzionale-attuale).
#386
Citazione di: green demetr il 30 Ottobre 2017, 22:28:44 PMdavintro : Lo stessa fenomenologia husserliana pur riconoscendo un'attività delle noesi, espressione di una soggettività (però l'Io puro, trascendentale, non l'essere umano con le sue proprietà determinate) nella formazione dei noemi, non mi pare consideri l'attività formante come arbitraria proiezione dell'umano, ma fondato sull'apprensione passiva, la sintesi passiva, di un mondo ulteriore di sensazioni, che incidono sulla formazione degli schemi percettivi, in un'intenzionalità "al contrario" ,che va dall'oggetto al soggetto. Phil : ...al soggetto umano (che dà un senso a quello trascendentale ;) ), Husserl non l'ha precisato perché probabilmente era ovvio; eppure secondo me, è un'ovvietà piuttosto problematica (o almeno "antropocentrica" ;D ), se si ambisce a parlare in termini assoluti e meta-umani... Questo è il mio problema con Husserl. >:( Husserl non solo non l'ha precisato, ma non lo avrebbe mai detto. Infatti non si avvede della problematicità stessa di questo passaggio in più, che non a caso viene dimenticato. In realtà la problematicità vera sta all'inizio della questione Husserliana. E cioè proprio dalla sostanza. Unendo i diversi frammenti sul pensiero che mi sono fatto di Husserl, mi pare che egli ponga la trascendantelità alla base del suo ragionamento. Egli la postula, ossia la ipotizza una volta che ha eseguito l'epochè, ossia la dimenticanza di ogni cosa che riguarda il soggetto. Egli pensa di ritrovarla nell'idea di sfondo, su cui si staglia il primo ogetto, il primo oggetto, non è cioè mettiamo un tavolo, ma lo sfondo stesso su cui "qualcosa" si staglia. Direi che l'errore è già tutto lì. Anche abbastanza evidente per parte mia. Considerare lo sfondo come un oggetto (a sè stante). Quando in verità è oggetto solo all'apparire di uno stagliante, di un Altro oggetto. E come aveva già brillantemente sciolto Hegel la realtà è semplicemente una correlazione. La vecchia idea di sostanza aristotelica non dovrebbe essere già andata in soffitta dopo Kant?? Non tanto per l'idea di sostanza, per quella bisogna aspettare appunto Hegel, ma per quella di sostanza prima. Non esistono sostanze prime, nè forme prime. Esistono invece percetti, primari e secondari (cosa tra l'altra pionerizzata da Locke). Siamo d'accordo che sulla scorta di berkley, l'oggetto risale alla sua forma lentamente e nel tempo.(vogliamo parlare di sintesi passive in questo modo, sarei anche d'accordo) Ma io non sono assolutamente d'accordo che l'oggetto sia una specie di oltre mondo, che viene percepito prima di essere percepito. L'esempio della porta che sta sbattendo, che innesca in noi la sensazione del rumore prima che il rumore avvenga, è chiaramente frutto del trauma auditivo della prima porta che sbatte. E in generale del primo suono esterno udito. Di solito il proprio vagito. Ritenere sostanza ciò che è invece correlazione psicologica, e quindi giustamente intenzionalità attiva, mi sembra un errore, oltre che un approdo aporetico rispetto a come si sta costruendo la propria idea di mondo. Tra l'altro è anche un delirio paranoico, ritenere che l'oggetto abbia uno statuto pari a quello umano, è tipico dei deliri maniaci. (gli oggetti parlano alle persone). E torno a ripetere Dio NON è un oggetto. (che è poi come a dire: quando è che Aristotele viene smesso di essere creduto un grande?)


Personalmente penso che nell'impostazione fenomenologica la dualità sfondo-oggetto, se ho ben capito il contesto in cui qua la dualità viene trattata, debba essere concepita in senso prevalentemente formale, cioè come termini a cui non si associano necessariamente un determinato contenuto fenomenico "materiale", vanno trattati come categorie formali, di per sé vuote nella loro astrattezza, ma indispensabili, trascendentali appunto, nell'organizzazione di un mondo della nostra esperienza cosciente. E il contenuto concreto fenomenico con cui le si "riempie" è in realtà ciò che muta nel passaggio dell'epochè, che segna il passaggio fra l'atteggiamento naturale, per il quale l'attenzione centrale dell'Io è rivolta ai giudizi sul mondo inteso come complesso di fatti realmente esistenti, dunque trascendenti rispetto agli atti soggettivi della coscienza, che resta così sullo sfondo, e l'atteggiamento fenomenologico, nel quale il tema della riflessione consiste nella sfera trascendentale degli atti di coscienza, cosicché, ciò che nel precedente atteggiamento costituiva lo sfondo non tematizzato, diviene oggetto che si staglia, mentre ciò che prima dell'epochè veniva tematizzato come oggetto viene messo in sospensione e relegato a sfondo. Non va confusa l'idea di "oggetto" inteso in senso logico, oggetto inteso come tema verso cui orientare la riflessione, dall'oggetto inteso ontologicamente, cioè in chiave meno formale, come realtà esterna al soggetto. Nella sfera trascendentale che la fenomenologia mira a individuare, l'oggetto inteso nella prima accezione coincide con l'Io puro e gli atti intenzionali soggettivi che da esso scaturiscono (tutt'altro che una dimenticanza del soggetto, anzi, proprio nell'approccio trascendentale il soggetto diviene l'ambito filosofico da cui far derivare ogni analisi sugli aspetti essenziali dei vari fenomeni). Il tema della sostanza rientra nell'ambito ontologico distinto da quello del rapporto oggetto-sfondo, in quanto ciò che collochiamo come "sfondo" e ciò che collochiamo come "oggetto" dipende dall'approccio di ricerca, e la "sostanza" è un concetto che a seconda dell'impostazione che poniamo può essere tematizzata come oggetto se ci poniamo nell'ambito dell'ontologia, oppure essere lasciato sullo sfondo, quantomeno provvisoriamente nel caso ciò che ci interessa consiste non direttamente nell'essere considerato in se stesso, ma sulle soggettive condizioni di conoscibilità o esperibilità dei fenomeni
#387
Attualità / antimafia e stato di diritto
21 Novembre 2017, 00:41:45 AM
Già poco tempo prima della sua morte accaduta in questi giorni si era aperto un dibattito riguardo la necessità di assicurare una morte in carcere pietosa e dignitosa a Toto Riina. Molte voci si sono levate scandalizzate al pensiero di tale necessità mettendo in discussione l'idea che la dignità dovesse essere riservata a un individuo resosi responsabile di crimini talmente efferati, affermando che Riina "non è un detenuto come gli altri". Su questo punto in particolare mi piacerebbe soffermarmi: in cosa consisterebbe specificatamente "non essere un detenuto come gli altri?". A me pare che un discorso circa la validità di un trattamento verso un detenuto possa essere impostato in modo razionale, vale a dire ricercando negli atteggiamenti concreti la coerenza con i princìpi fondamentali dello stato di diritto, vale a dire carattere rieducativo e non punitivo-vendicativo della detenzione, umanità e rifiuto di barbarie come tortura o pena di morte, oppure da un punto di vista emotivo e istintivo per il quale apparirebbe del tutto lecito provare una rabbia verso uno spietato criminale, come certo Riina era, al punto da non tener conto di alcuna umanità nel trattamento, ma al contrario auspicando in nome dello spirito di vendetta che soffra il più possibile, quando i crimini compiuti superano una certa soglia di gravità. Dunque mi pare che il concetto "Riina non è detenuto come gli altri" cada totalmente nel secondo approccio al problema, quello nel quale la rabbia e l'emotività offuscano la lucidità e il distacco necessari all'applicazione coerenti dei princìpi dello stato di diritto. Il problema che pongo è, accettato come legittimo tale approccio emotivo e demagogico, chi si arroga il diritto di stabilire in cosa consisterebbe la soglia che dovrebbe separare la categoria dei "detenuti normali" (per cui varrebbe ancora il rispetto della dignità come uno stato di diritto coerentemente richiede) e la categoria dei "detenuti speciali" a cui apparterrebbe Riina e per cui sarebbe considerata lecita tortura, pena di morte, sospensione delle garanzie giuridiche? Quali sarebbero i criteri di demarcazione? Se fossi un detenuto con 2 omicidi alle spalle dovrei essere considerato ancora nella prima categoria, mentre con 3 omicidi dovrei passare alla seconda, quella dei "superdetenuti"? (come, volendo ironizzare un po', in una sorta di videogioco con dei livelli da superare, da normale a super...). Son chiare le derive pericolose che si annidano all'interno di un approccio di tal genere... lo stato di diritto, imperniato sul principio della finalità rieducativa e su una visione della giustizia non vendicativa perderebbe il suo carattere di riferimento universale, ma verrebbe relativizzato sulla base di differenziazioni riguardo la gravità dei delitti commessi, differenziazioni però totalmente arbitrarie, in quanto fondate su criteri puramente emotivi, soggettivi, umorali, basate sulla "giustizia" di piazza, da social, dove impera la demagogia e la rabbia popolare. Sarebbe il caos. La difesa dello stato di diritto in nome del quale si reputano tortura, pena di morte, linciaggio popolare, come incivile forme di barbarie, non potrebbe più porsi come riferimento universale ed una società priva di riferimenti etico-giuridici aprioristici e fondativi cadrebbe nel caos e nella confusione, segnando la fine dello stato democratico così come ora lo conosciamo. Questo è il rischio che vedo. Soffermandoci un attimo su ciò che alimenta l'approccio emotivo al tema, trovo sarebbe interessante iniziare una riflessione critica non sull'Antimafia intesa come complesso del lavoro in cui magistrati, forze dell'ordine, società civile cercano di combattere il fenomeno mafioso, ma su una certa "retorica" intorno ad essa, portata avanti a livello mediatico, tra libri, film, serie tv che da molti anni, se certamente ha avuto un ruolo estremamente positivo nella sensibilizzazione dell'opinione pubblica riguardo i valori della legalità, nella formazione di una coscienza civile per la quale la mafia non viene più vista come realtà alla cui presenza rassegnarsi, se non legarsi in forme di complicità, bensì nemico da abbattere e che può davvero essere abbattuto col tempo, ruolo certamente da lodare e valorizzare, ha però anche provocato a mio avviso l'effetto collaterale di instillare nella percezione popolare l'idea di un'esasperata separazione tra il concetto di "mafia" e di "mafioso" da un lato e tutto il resto della comune criminalità, attribuendo alla lotta alla mafia un carattere eccessivamente speciale, al punto che in molti si sentirebbero in diritto di considerare tale lotta da portare avanti con mezzi, appunto, speciali, per i quali lo stato di diritto non appare più come necessità vincolante e potrebbe in fondo essere sospeso senza troppi rimpianti. E nel momento in cui il "mafioso" non è più un criminale comune di fronte al quale mirare alla rieducazione, ma diviene quasi una figura antropologica a se stante, una sorta di categoria di mostri irrecuperabili allora apparirebbe lecito per gran parte dell'opinione pubblica poter auspicare vendette, linciaggi, sedie elettriche ecc.  mentre parlare di "morte dignitosa" appare come uno scandalo inaccettabile.  Insomma, la questione non è ovviamente, continuare a ritenere la mafia come un male da combattere, certo che lo è, ma chiarire se la guerra (già il termine "guerra" rischia di creare pericolose ambiguità, ma per ora lasciamo stare) debba restare azione contestualizzata all'interno della cornice dello stato di diritto, oppure condotta sulla base di una nuova concezione dello stato e della giustizia, più simile all' "occhio per occhio", che tradisce la sua natura liberale e garantista per adeguarsi al nemico da combattere. La mia speranza è che la classe politica non debba mai mostrare su questo ambiguità da poter far pensare a una sorta di cedimento verso la seconda opzione, magari condizionata dal timore di apparire impopolare e "buonista" agli occhi dell'emotività popolare di cui ricerca il consenso, emotività che porta a confondere "giustizia" e "vendetta" e a sacrificare principi giuridici universali in nome di una rabbia che fa perdere lucidità
#388
proprio perché le essenze non sono le definizioni (anche se queste ultime presuppongono implicitamente il riconoscimento delle prime, intese come elementi necessariamente presenti in un ente al di là delle differenze dei contesti in cui si esistenziano), non ne assumono il carattere di contingenza, l'essenza di un ente non è un concetto avente un significato distinto da quello dell'ente a cui l'essenza è riferita, che si aggiunge in modo estrinseco, non è che A sia essenza di B. L'essenza di un ente è ciò che gli permette di fissare un limite alle proprie possibilità di essere, limite oltre il quale quell'ente non potrebbe essere e svilupparsi. Nella misura in cui ogni ente ha un senso determinato e delimitato, il suo sviluppo si orienta in una certa direzione anziché altre, ciò presuppone la presenza di una necessarietà, dunque di un'essenza, che non è un concetto che si aggiunge arbitrariamente all'ente, ma ne costituisce il senso intrinseco di tale sviluppo. L'arbitrarietà presente nello stabilire l'identità degli enti, "ciò in cosa dovrebbero consistere per essere quelli e non altri" è una caratteristica presente nel linguaggio, nelle definizioni, sempre convenzioni comunicative, ma non tocca la realtà delle cose, e la loro essenza. Se da un seme di un albero di ciliegio si pone in atto un dinamismo finalizzato (più o meno ostacolato o favorito da interventi esterni) alla crescita di un albero di ciliegio e non di una quercia, allora dobbiamo ammettere un'essenza dell'albero di ciliegia, la sua causa formale (l' "alberodiciliegità") che fa sì che il movimento di sviluppo naturale tenda necessariamente un albero di ciliegie piuttosto che una quercia o di un altro albero. Dal punto di vista linguistico, nulla mi impedisce di smettere di usare la distinzione terminologica tra ciliegio e quercia, utilizzando un solo termine, non dando importanza al fatto che una delle due piante produca ciliegie e un altro ghiande (del resto nulla impedisce agli anglosassoni di usare lo stesso verbo, to play, per definire due attività decisamente diverse come "suonare" e "giocare"). Così dal punto di vista linguistico il ciliegio non avrebbe più alcun quid che lo renda "ciliegio e non quercia". Dal  punto di vista linguistico, ma non certo dal punto di vista reale e ontologico: lo sviluppo dell'albero di ciliegio continuerebbe a porsi come realmente distinto da quello dell'albero di ciliegio, infischiandosene del fatto che il nostro linguaggio convenzionale stabilisca che non c'è ragione di formalizzare tale distinzione in una distinzione terminologica, l'albero di ciliegio continuerebbe a essere realmente diverso da una quercia, ed avrebbe pienamente senso continuare ad affermare un'essenza del ciliegio che lo rende "ciliegio" e non "quercia". Semplicemente a tale essenza non sarebbe associabile una categoria linguistica. Quando ci si occupa di ontologia si dovrebbe considerare le strutture necessarie degli enti, tagliando fuori ciò che è contingente e arbitrario, come le definizioni linguistiche, necessarie certamente a comunicare, ma spesso ostacoli alla comprensione profonda del senso delle cose. Occorre forzarci in un certo senso a pensare fuori del linguaggio, approccio di certo estremamente scomodo e difficile considerando quanto le esigenze pratiche-comunicative ci portino a permeare ogni forma di esperienza del mondo con le parole, e ad influenzare il pensiero interiore, associando idee e sfumature concettuali ai segni esteriori convenzionali che costantemente utilizziamo... però in nome di una maggiore chiarezza nella ricerca teorica ci si potrebbe almeno provarci a provare tale forzatura
#389
grazie a tutti per gli spunti!
 
non volevo negare la necessità di uno studio della componente materiale del cervello, quindi do ragione a Jacopus riguardo l'ammettere la validità dei risultati delle scienze naturali, come appunto le neuroscienze, anche perché io non intendevo soffermarmi sullo studio del cervello in sé, ma provavo ad argomentare la non esauribilità a partire dal cervello dei temi della coscienza, e dell'aspetto spirituale. Considerando lo spirituale non come sostanza separata ma forma immanente alla materia, lo stesso cervello, non è, come nessun ente, pura materia, bensì materia formata, da una forma che consiste nel principio vitale e razionale che lo configura in un certo modo e lo determina come supporto dalle varie funzionalità cognitive, nonché supporto del formarsi dei vari vissuti sensibili o sentimentali-assiologici che costituiscono il flusso di coscienza. Inteso in questo modo, la stessa localizzazione cerebrale di alcune componenti psichiche non andrebbe necessariamente interpretata come fisico causa efficiente dello psichico, ma al contrario come modellazione del fisico per rendersi adeguato all'essere supporto della forma psichica che pone la materia come contenuto del suo interagire con l'esterno. In questo senso la validità dei risultati delle scienze naturali, fintanto che indagano la materialità del cervello, va certamente riconosciuta, come integrazione ai risultati dell'approccio filosofico, fintanto che non presumono di essere onniesplicativi del problema della coscienza, travalicando i limiti ontologici del loro ambito di attinenza, quello materiale, che non esaurisce la realtà in questione, anche se ne fa parte a pieno titolo.
 
Rispondendo a Phil mi verrebbe da dire che il riconoscimento del ruolo fondamentale del cervello nella percezione localizzata del dolore, non cambia il senso del mio discorso riguardo la localizzazione spaziale dei sentimenti sensibili come appunto il dolore, che il meccanismo comprenda come medium necessario il cervello, non cambia il fatto che il dolore viene avvertito nel punto in cui il corpo subisce un'azione causale di un oggetto, in un rapporto di causalità prettamente fisico, e che dunque la spazializzazione di un vissuto sia una ragione sufficiente per ammettere un dualismo tra vissuti caratterizzati da tale spazializzazione, e quelli che non lo sono, e che dunque dovrebbero essere ricondotti ad un'origine distinta da quella corporea, seppur mai separata da essa, cioè l'Io inteso come soggetto di atti intenzionali regolati da una causalità non di tipo fisico, ma motivazionale, spirituale, una causalità che non consiste nel "mi dai un calcio alla gamba ergo provo dolore", ma nel "mi stai a cuore ergo mi preoccupo per te". Non sentirei il dolore se fossero recisi i nervi, ma in ogni caso il presupposto del dolore è la presenza di una certa struttura fisica, che comprende i nervi, e ciò è sufficiente per ricondurlo nella serie di vissuti la cui origine può essere spiegate fermandosi al livello della dimensione psico-fisica, ma non spirituale, che era il punto che mi interessava quando sono andato a esporre.
 
Concordo con la precisazione di Sgiombo riguardo la considerazione del cervello come "strumento". Effettivamente messa come l'avevo posta parlare di "strumentalità" poteva sembrare alludere a un rapporto troppo estrinseco tra mente e cervello, come se quest'ultimo fosse solo qualcosa che, una volta effettuata una certa azione, potrebbe anche essere dismesso o sostituito da qualcos'altro, come noi usiamo forbici o tagliacarte come strumenti, solo fino a quando non ne troviamo di più efficienti per poterli sostituire. In realtà il cervello è condizione necessaria per il funzionamento di attività cognitive, che private di un contenuto materiale a cui applicarsi non potrebbero in alcun modo porsi come sostanza autosufficiente. Intendendo l'uomo non come puro forma, né come pura materia, ma sintesi delle due componenti, allora è inevitabile che l'interazione con il mondo esterno, nelle quali le funzioni cognitive si attuano, cioè l'interazione con l'ambito della causalità fisica, presupponga il coinvolgimento della materialità, che sia adeguata a esprimere la forma immateriale che le attribuisce il proprio modo d'essere e funzionalità. In questo senso parlavo di "strumento", adeguazione della materia ai fini posti dalla coscienza, che però a sua volta necessita di tale substrato materiale per interagire con un mondo materiale a sua volta composto da enti materiali.
 
La coincidenza essere-apparenza la riferisco alla coscienza intesa come complesso degli atti di un Io cosciente, cioè complesso di vissuti intesi dal punto di vista soggettivo, il residuo del radicalizzarsi del dubbio riguardo le pretese conoscitive dei giudizi riferiti al mondo, inteso come insieme di fatti esistenti. In questo senso, non è possibile negare la realtà della coscienza: posso mettere in dubbio i giudizi riferiti al mondo dei fatti oggettivi , trascendenti, ma non la mia esperienza soggettiva, che in quanto tale, soggettiva, non rientra tra gli oggetti del giudizio, dunque è sempre al riparo da ogni possibile dubbio riferito a quei giudizi. Va distinto il soggetto empirico, anche se portatore di coscienza, e il soggetto trascendentale. Quell'esistenza soggettiva, che resterebbe reale anche in assenza di attività soggettiva mentale (i casi del sonno senza sogni, del coma ecc.), rientra nell'aspetto empirico, che effettivamente rientra tra l'ambito potenziale della messa in discussione, effettivamente per quanto ne so, potrei smettere di esistere nel sonno, e nel come, per poi tornare di nuovo all'esistenza ad ogni risveglio, dato che non esisterebbe un'autocoscienza che attesti una reale continuità. L'esistenza che invece non può essere messa in discussione, cioè rientra nell'ambito del non-dualismo tra verità e apparenza, è il soggetto trascendentale, quel nucleo del soggetto pensante la cui esistenza è necessariamente dedotta dall'esistenza della coscienza, come abbiamo visto necessaria. Una volta ammessa la non dubitabilità della mia coscienza, questa però richiede, per la sua attualità reale, che non sia solo astrazione, ma che sia supportata da un soggetto reale, avente una reale energia psichica che renda possibile il concretizzarsi dei vissuti della coscienza, anche se di tale soggetto, l'indubitabilità dovrebbe restare entro i limiti per i quali esso si pone come necessario supporto della coscienza, a sua volta riconosciuta indubitabile. Cioè se nella coscienza essere e apparenza coincidono, ma a sua volta la coscienza presuppone un soggetto reale, un Io dal quale i suoi atti di esperienza vissuta scaturiscono, allora anche tale soggetto va "salvato" dalla dubitabilità. Del resto la coincidenza realtà-apparenza nel mio post di apertura l'aveva esplicitamente riservata solo alla "coscienza", senza tirare in ballo "soggetti" o "oggetti", proprio alla luce dell'ambiguità della nozione di "soggetto" che può essere considerata in modo diverso, o empirico o trascendentale, dubitabile o indubitabile.
 
Non ho capito come si concilierebbe il rifiuto del riduzionismo materialista per cui la connotazione materiale determinerebbe i vissuti della coscienza con il negare che sia il desiderio dell'azione ad essere la causa dell'azione stessa. Se la coscienza non si esaurisce nella causalità fisica, allora nemmeno le azioni volontarie che provengono da vissuti cosciente, come gli impulsi volontari dovrebbero essere determinati dalle reazioni volontarie, ma proprio dai desideri di compiere le azioni. Tramite l'introspezione noi siamo in grado, di riconoscere le motivazioni che stanno dietro alle azioni, motivazioni legate al sentire etico, il sentire valoriale che differisce da individuo a individuo. Se fosse il cervello la causa fondamentale delle nostre azioni, queste dovrebbero essere pressoché identiche da persona a persona, sulla base di una sostanziale uguaglianza della struttura fisica del cervello, mentre in realtà la differenza proviene da qualcosa di non materiale come il carattere, cioè la sensibilità valoriale che differisce in ogni singolo individuo. Il che non esclude la convergenza di una causalità materiale, la predisposizione materiale del corpo, a partire appunto dal cervello, ad essere adeguato ad assecondare la spinta psichica proveniente dal nostro libero (entro certi limiti) arbitrio.
 
 
Per Angelo Cannata
 
Il rifiuto estremo di qualunque razionalità oggettivante, se coerentemente seguito, impedirebbe qualunque comunicazione e discussione teoretica, dato che il presupposto di ogni confronto è pur sempre la convinzione che ciò si pensa corrisponda alla realtà oggettiva. Non c'è pensiero senza oggettività, il pensiero è proprio ciò tramite cui si supera il livello esperienziale in cui subisce passivamente il flusso dei dati sensibili proveniente dall'influsso degli oggetti esterni, senza alcuna possibilità di rielaborazione e critica, finché si giunge a un livello di distacco che consente di porre il flusso come oggetto distinto da noi, polo verso cui potersi rivolgere attivamente, interpretandolo, concettualizzandolo, individuando delle forme e delle leggi, cosicché il flusso di pure sensazioni immediate diviene mondo di oggetti, latori di un senso che il soggetto può riconoscere. E se spiritualità vuol dire capacità di dare un senso e un valore alle cose, allora essa presuppone necessariamente l'oggettivazione. Ma non solo la comunicazione dialettica, ma anche quella narrativa, quella in cui uno invece di esporre un pensiero, racconta di sé, della propria vita, degli eventi individuali, comunicazione che poi si esprime nelle forme dell'estetica, romanzi, poesie, arti figurative..., diverrebbe impossibile senza pensiero oggettivante. Perché anche quando esprimo una verità soggettiva, che riguarda me, io sto pur sempre riflettendo su di me, cioè oggettivando me stesso, divengo il tema oggettivo a cui la mia attività riflettente, e poi la mia attività espressiva-linguistica si riferisce. In pratica la condanna del pensiero oggettivamente implica la condanna di ogni forma di comunicazione, dato che le parole non sono cose individuali, ma generalizzazioni che il pensiero produce per astrazione dalle cose individuali, che subiscono la nostra attività astrattiva nella misura in cui sono oggetti della nostra coscienza, cioè riconoscibili come distinti rispetto al soggetto, di fronte a noi.


Per Baylam

non necessariamente il "progresso" è un parametro adeguato di validità di un sapere rispetto a un altro. Non ha senso dire che le scienze naturali sarebbero più valide della metafisica perché maggiormente progressive. Ciò che rende valida una forma di sapere è il rispecchiamento della natura degli oggetti che costituiscono il loro ambito di ricerca. L'ambito della metafisica sono i princìpi primi, immutabili in quanto assoluti dell'essere, le altre scienze si occupano della realtà contingente diveniente, quindi nel loro punto di vista la progressività è fondamentale, intesa come costante aggiornamento delle teorie in relazioni al divenire reale dei loro oggetti di studio. Ma non ha senso porre tale progressività come fattore "vincente" in confronto alla metafisica, in quanto la metafisica, mirante a individuare princìpi e leggi aprioriste e immutabili, non deve mirare a essere progressiva, ma deve raggiungere certezze il più possibile definitive, che rispecchino il carattere d' immutabilità, cioè necessità, dei propri oggetti di indagine. Se mi interessa cogliere i princìpi immutabili, allora il divenire della ricerca non potrebbe essere elemento positivo, ma limitativo, in quanto testimoniante l'incapacità di raggiungere il fine della ricerca, cioè una visione teorica definitiva che rispecchi l'immutabilità degli oggetti della visione. Cioè non ha a mio avviso senso, confrontare le scienze naturali, empiriche e induttive, con la razionalità metafisica deduttiva e speculativa, sulla base di un parametro, quello della "progressività" totalmente interno all'ottica di una delle parti in confronto, cioè le scienze naturali.

Senza contare che il termine "progresso" presuppone una valenza positiva, qualcosa che tende verso il miglioramento, applicato alla conoscenza, vorrebbe dire che i risultati della ricerca migliorerebbero via via lo stato attuale e provvisorio delle conoscenze scientifiche in direzione del conseguimento di una meta ideale, cioè il sapere assoluto e totalizzante. Per dire che la scienza amplia sempre di più la verità sulle cose io devo per forza presupporre un ideale, un modello regolativo di "verità" in relazione al quale lo stato delle ricerche si starebbe sempre più avvicinandosi. Se io parto da Milano e affermo di stare sempre più avvicinandomi a Roma, come potrei affermarlo se non avessi già in questo momento un'idea della locazione di Roma? Dunque affermare che le scienze naturali siano "progressive" implica porre apriosticamente un'idea di verità universale, seppur vaga e generica, del fine verso cui i risultati di tali scienze starebbero conducendo l'uomo, ed è la filosofia a definire l'ideale regolativo di verità universale, certo non ricavabile per via empirica, dunque a individuare il fine ultimo e il senso del divenire della scienza. Tutto ciò è ulteriore testimonianza che ogni critica alla filosofia, come il contrapporre alla sua (presunta) staticità il valore progressivo delle scienze particolari, è pur sempre critica filosofica. Solo la filosofia possiede gli strumenti per criticare se stessa. Ecco perché tutti gli epistemologi, coloro che hanno riflettuto sulla scienza, sui suoi metodi, sui fini, sulle possibilità, i limiti ecc. sono sempre filosofi, l'epistemologia è una branca della filosofia, filosofia della scienza, mentre non mi risulta esistano branche della fisica, della chimica, della biologia che riflettano sui problemi filosofici, ed ecco perché lo stesso positivismo che in nome del progresso delle scienze sperimentali vedeva lo spazio della metafisica via via ridursi fino a scomparire, era a tutti gli effetti una corrente filosofica, non scientifica. Sono convinto che gli scienziati, quelli autentici e seri, non trovino in alcun modo sensato contrapporre il loro lavoro a quello dei filosofi, sentendosi migliori, ma si limitino a concentrarsi sul loro lavoro rispettando la distinzione dei diversi ambiti di ricerca, senza sconfinare o squalificare gli ambiti a loro trascendenti.
#390
scrive Phil:

"Non farei coincidere l'essenza metafisica con il quid dell'(arbitraria e convenzionale) identità linguistica (e quindi con la predicabilità)... se restiamo dentro l'orizzonte classico, l'essenza è indubbiamente un perno fondamentale dell'impalcatura metafisica, ma davvero non se ne può proprio uscire? Secondo me, come accennavo sopra, è possibile almeno una prospettiva alternativa (non per questo più vera, ma almeno c'è legittima concorrenza   )."


condivido la distinzione tra essenza, intesa come aspetto necessario dell'essere dell'ente, e definizioni linguistiche. Le essenze delle cose non coincidono con le definizioni delle cose, l'accostamento che vedevo consiste nel considerare le definizioni come fondate sulle essenze, e quindi la possibilità di definire la intendevo come conferma della presenza di elementi universali necessariamente presenti in una molteplicità di individui di una specie, in quanto la definizione di un concetto coglie ciò che delle realtà a cui il concetto si riferisce è presente a prescindere dalla molteplicità dei contesti particolari in cui si determina, cioè l'essenza. Quindi la definizione presuppone sempre l'apprensione dell'essenza, ma questo non vuol dire che il termine linguistico (convenzionale, prodotto culturale dell'uomo) di identifichi con l'essenza, che ha un valore ontologico, causa formale dell'ente, inscritto nella sua realtà necessaria e naturale. Trascinare nella convenzionalità del linguaggio anche le essenza delle cose reali, negando in ogni senso la realtà di caratteri universali delle cose è sempre stato un errore tipico delle forme estreme di nominalismo, che identificando parole e cose e considerando le prime come convenzionali (giustamente) ha finito per relativizzare anche le seconde. In realtà si supera distinguendo cose e parole, considerando la possibilità umana di definire linguisticamente le cose come presupponente l'intuizione dell'essenza delle cose, senza mai però identificare definizione ed essenze, convenzionali e quindi storicamente modificabili le prime, naturali e oggettive le seconde.

Tra l'altro faccio notare che proprio la distinzione parole-cose è a mio avviso proprio il principio in base a cui è secondo me scorretto pensare di ricavare l'origine dell'idea di infinito sulla base della struttura della parola "infinito", "in-finito", pensando di assommare o associare i concetti delle singole parti, cioè la "finitezza" e la "negazione". Proprio perché parole e cose, definizioni ed essenze non coincidono, allora non dovremmo confondere l'idea di infinito con la parola "infinito" e pretendere di spiegare la formazione della prima sulla base della struttura sintattica della seconda, proiettando la complessità di questa sul senso semplice della prima. Nel nostro linguaggio l'idea di infinito viene associata a un termine "negativo", con il prefisso privativo, ma stante la convenzionalità del linguaggio nulla in teoria potrebbe impedirci di esprimere lo stesso significato con un termine semplice e non composto, "positivo" e non "negativo", senza che il senso che intendiamo cambi nella sua essenza qualitativa. Ricavare dalle relazioni che compongono la struttura del linguaggio l'analisi ontologica degli enti, ideali o reali sarebbe un approccio valido solo nel caso di ipotizzare un nesso necessario e naturale tra parole e cose, ignorando il carattere artificiale delle prime, ma questo avrebbe senso solo considerando il linguaggio onomatopeico, ma ovviamente non è questo il caso che qua ci interessa!!