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Messaggi - Eutidemo

#3871
Citazione di: sapa il 16 Maggio 2021, 10:53:43 AM
Ciao Eutidemo, molto probabilmente la vespa in questione ha individuato il punto sull'inferriata come idoneo a costruirsi il nido. La posizione all'intersezione si presenta, infatti, come ben riparato e protetto. Naturalmente, lei non sa che al di là della zanzariera si trova un pericolo e un soggetto ostile, quindi logicamente insiste. Mi stupisce, però, il fatto che insista anche dopo che tu l' hai bombardata con il getto dell'anti-vespa, che normalmente uccide sul colpo l' insetto e lascia odori repellenti per altri suoi simili. Il comportamento che hai descritto è abbastanza tipico delle vespe, ma davanti alla contraerea a base, per lo più, di piretroidi di sintesi, normalmente o muoiono, oppure finiscono per desistere. Ma sei sicuro che si tratti di vespe e non di api? Perchè, mentre verso le prime nutro sentimenti di forte ostilità anch'io, le seconde vanno rispettate e difficilmente faranno nidi in posizioni come quella. A presto.
Pur essendo molto ignorante in materia, riesco perfettamente a distinguere un'ape da una vespa; e quella sono sicuro che era proprio una vespa.
Probabilmente, come dice Bobmax, deve  trattarsi di una "vespa-vasaio", che è solitaria; e, come dici tu, ha individuato il punto sull'inferriata come idoneo a costruirsi il nido.
E' la sua insistenza che è strana, sebbene ormai sono un po' di giorni che non si fa più viva; non deve aver gradito molto i piretroidi di sintesi.
Però, per fortuna, tutte e tre le volte se l'è cavata, perchè, forse, la fitta "zanzariera" deve averla parzialmente schermata e protetta!
#3872
Citazione di: bobmax il 16 Maggio 2021, 09:54:11 AM
La vespa vasaio è solitaria.
Sono completamente ignorante in materia, però, se è vero che la "vespa vasaio" è solitaria, allora potrebbe essere proprio lei.
Però non capisco proprio perchè cerchi di entrare in casa mia, visto che io non fabbrico nè possiedo vasi di sorta!
:)
#3873
Citazione di: Alexander il 16 Maggio 2021, 09:18:37 AM
Buona domenica Eutidemo


Non è più semplice lasciarla entrare e vedere quello che vuole?  :-\  Noi pensiamo che ci sia necessariamente una causa, ma potrebbe essere che semplicemente è così. Alla vespa piace forse fermarsi in quel punto, senza alcun motivo preciso.
Non sono d'accordo con Bobmax sull'eventualità che ci sia un nido nello stipite. Penso che si vedrebbe un bell'andirivieni nel caso. Se però ci fosse, non spruzzare veleno contro gli insetti. Per l'ecosistema sono più importanti loro che Eutidemo. ;D
Sicuramente!
Per l'ecosistema sono senz'altro  più importanti loro; ma, per Eutidemo, è più importante Eutidemo.
Comunque, per evitare di usare lo "spray" velenoso, avevo pure provato a sparargli contro; ma, dopo il terzo passante morto, ho preferito rinunciare.
;D 
#3874
Citazione di: bobmax il 16 Maggio 2021, 09:06:20 AM
È probabile che nello stipite della finestra vi sia un nido di vespe. Magari di vespa vasaio.
Ci avevo pensato, perchè, purtroppo, mi è capitato altre volte; si annidano nella cassetta dell'avvolgibile, ed è molto difficile eliminarle.
Ma non in questo caso, perchè, quando succede, si sente un orribile ronzio e le vedi fare avanti indietro in gran numero.
Questa, invece, è una vespa isolata che si ripresenta a distanza di giorni sempre nello stesso punto (ammesso che sia la stessa).
:)
#3875
Personalmente, non solo non ho "paura della morte", ma, anzi, non vedo l'ora che essa arrivi, per mettermi al sicuro dai rischi e dai numerosi e sgradevoli inconvenienti della vita; ed infatti, una volta morti, non si può certo rimpiangere di non essere più vivi, mentre, essendo rimasti vivi più del necessario, si può rimpiangere di non essere morti prima (come diceva mia nonna, alla quale, ad ottanta anni suonati morì il figlio primogenito).
***
Ho invece, ovviamente, "paura di morire", in quanto, così come la nascita, il "trapasso" è, in genere, alquanto doloroso; ma, a ben vedere, si tratta semplicemente di "paura della sofferenza", non certo di "paura della morte" (sono due cose diverse).
La morte, infatti, è la fine della sofferenza!
D'altronde c'è scritto pure sulla Bibbia che "Il giorno della morte è molto migliore del giorno della nascita!" (Ecclesiaste 7 - 1)
Pur essendo la cosa evidente di per sè, se sta scritto pure lì, possiamo senz'altro crederci!
;)
#3876
Io sono una persona molto razionale, per cui ritengo che ogni fenomeno debba avere una sua spiegazione logica; tuttavia, questa volta, mi è capitata una cosa di per sè assolutamente irrilevante, che, però, non riesco assolutamente a spiegarmi.
***
La finestra del mio studio affaccia sul mio giardino, e, quindi, per evitare che entrino insetti all'interno, l'ho dotata di una fitta e robusta "zanzariera".
https://cdn-thumbs.imagevenue.com/3f/50/17/ME13CQFV_t.jpg
***
Qualche giorno fa, però, ho notato una vespa dirigersi senza senza esitazioni, e poi posarsi, circa a metà altezza sul bordo destro della "zanzariera".
https://cdn-thumbs.imagevenue.com/c5/5c/f5/ME13CQFX_t.jpg
***
In tale posizione, dalla mia scrivania (che è a circa ad un metro e mezzo di distanza), l'ho vista agitarsi  come se cercasse di aprirsi un varco per entrare; per cui l'ho spruzzata con uno "spray antivespa", e quella è subito fuggita via.
https://cdn-thumbs.imagevenue.com/9a/d2/36/ME13CQH5_t.jpg
***
Pensando che in quel punto si fosse creata una lacerazione o un varco nella "zanzariera", sono subito andato a verificare da vicino; però, sia pur esaminando tutto con il massimo scrupolo, non ho trovato nulla di tutto ciò.
Ed infatti, sia in quel punto che sopra e sotto, la mia "zanzariera" risultava perfettamente integra.
https://cdn-thumbs.imagevenue.com/ad/82/91/ME13CQFY_t.jpg
***
Tuttavia, dopo due giorni, non so se la stessa vespa o una sua amica, si è ripresentata (più o meno nello stesso orario pomeridiano); e poi, posatasi "esattamente nello stesso punto", si è esibita nello stessa "performance" di due giorni prima.
Io l'ho cacciata via di nuovo con lo "spray antivespa", e ho controllato ancora la zanzariera nel punto in questione; senza trovarlo minimamente alterato e con niente che lo distinguesse dagli altri punti della zanzariera stessa.
Ho pensato ad una coincidenza, e poi me ne sono completamente dimenticato.
***
Dopo circa una settimana, però, si è ripetuta per la terza volta la stessa storia; per cui mi sono incuriosito sul serio.
Però per quanto io lo esaminassi, il punto preferito dalla vespa/e non presentava (nè presenta) all'apparenza nessuna particolarità rispetto agli altri; ho provato perfino ad annusarlo, per sentire se emanasse un particolare odore, ma niente di che (ed il mio gatto ha confermato la cosa).
***
L'unica cosa che mi viene in mente, è che, la prima volta, la vespa abbia lasciato un traccia (bio)chimica in quel punto, in tal modo "marcandolo" in modo permanente; ma, in tal caso, a quale scopo, visto che là non c'è niente di particolare?
***
Se c'è qualche entomologo iscritto al FORUM, forse è l'unico che potrebbe rivelarmi il "mistero della vespa e della finestra"; ed infatti non è certo che la cosa mi abbia fatto perdere il sonno, ma sarei davvero desideroso di riuscire a capirla.
"Felix qui potuit rerum cognoscere causas!"(Virgilio, Georgiche, lI, 489).
:)
***
#3877
Tematiche Culturali e Sociali / I dialetti romani
15 Maggio 2021, 13:52:33 PM
Dante, nel "De Vulgari Eloquentia", scrive: "Dicimus igitur Romanorum non vulgare, sed potius tristiloquium, italorum vulgarium omnium esse turpissimum; nec mirum, cum etiam morum habituumque deformitate pre cunctis videantur fetere" (Dante "De Vulgari Eloquentia" XI 2).
Cioè, tradotto un po' liberamente, secondo Dante, la lingua che si parlava a Roma nella sua epoca, era la più brutta e turpe d'Italia; anzi,  non si poteva neanche considerare un "volgare" vero e proprio (come quello da lui usato nella Divina Commedia), bensì un vero e proprio "tristiloquio".
E poi aggiungeva  che non c'era affatto da stupirsi della cosa, visto che i Romani del suo tempo avevano la palma italiana della "turpitudine" sia nei  costumi sia nelle fogge del vestire (e, per giunta, puzzavano pure come maiali); questo, secondo  il parallelismo, tradizionale, fra linguaggio, "mores" e "habitus", che ricorre spesso nel suo trattato.
***
Tuttavia il dialetto romano dell'epoca di Dante, non aveva niente a che vedere con quello attuale; o meglio, con "quelli" più o meno attuali.
A dire il vero, non sappiamo bene neanche quale fosse, perchè Dante ci porta come esempio solo una breve frase nel dialetto romano dell'epoca "Messure, quinto dici?", cioè, immagino che volesse dire: "Che cosa dici Messere?"  (Dante "De Vulgari Eloquentia" XI 2).
Si presume che tale dialetto fosse molto simile all'attuale "ciociaro"; mentre adesso, il "ciociaro" (anche come semplici accenti), è completamente diverso dalla lingua che si parla a Roma.
Il che costituisce una particolarità di tale idioma, perchè sembra che in nessuna altra parte d'Italia ci sia una così accentuata differenza tra il dialetto che si parla in città, e quello che si parla nel contado; ovvero nelle più vicine città della stessa regione.
***
Più in dettaglio, infatti, nel Lazio, attualmente si parlano principalmente i seguenti dialetti:
- il romanesco (e, ancor di più, il "romanaccio" e il "borgataro")
-il ciociaro;
- il sabino.
Inoltre, più o meno affini con l'uno o con l'altro dei precedenti, nel Lazio si parlano anche i dialetti dei Castelli Romani,  i dialetti della Tuscia viterbese,  il dialetto laziale meridionale e, in alcune aree al confine con la Campania, il dialetto campano.
Nelle zone dell'agro pontino, si parla, invece,  il dialetto "venetopontino"; il quale, però, appartiene precipuamente ai dialetti veneti.
***
In questa sede, però, io intendo trattare in modo specifico del "romanesco" propriamente detto; con qualche accenno anche al "romanaccio" e al "borgataro".
Tale dialetto, che presenta caratteristiche notevolmente diverse da tutti gli altri dialetti laziali, ovviamente, è diffuso soprattutto  a Roma (in determinati quartieri storici), ma, stranamente, anche in alcune zone meridionali della provincia di Viterbo e nella zona costiera della città metropolitana; in particolare tra Civitavecchia e Anzio, ma in misura minore a Nettuno, il cui dialetto mantiene relitti fonetici e lessicali di tipo riconducibile ai dialetti dei Castelli romani.
***
Ma come è nato il "romanesco" propriamente detto, che, come come sopra ho accennato, non ha niente a che vedere con il dialetto che trovò Dante quando venne a Roma per il giubileo dell'anno di grazia 1300, e che è così diverso da tutti gli altri dialetti laziali?
In un certo, si può dire che esso nacque "grazie" ai Tedeschi!
***
Ed infatti, nel 1527 d.c. un'orda di quasi 40.000 soldati, armati di alabarde, archibugi e cannoni, al comando del Borbone -per conto di Carlo V-, per la maggior parte tedeschi di religione luterana (ma anche non pochi cattolicissimi Spagnoli e Italiani) investirono e devastarono selvaggiamente Roma; e lo fecero molto peggio di quanto fecero Brenno nel  387 a.c. e Alarico nel 410 d.c.
Ed infatti, al tempo del "Sacco dei Lanzi", la città di Roma contava, secondo il censimento pontificio realizzato tra la fine del 1526 e l'inizio del 1527, soltanto 55.035 abitanti; parte  dei quali provenienti da Firenze, immigrati a Roma in conseguenza dei due recenti papi della famiglia Medici.
Contro tale orda di 40.000 "barbari" assetati di sangue e di bottino, Roma potè quindi opporre soltanto 4.000 cittadini romani in armi; nonchè 189 mercenari svizzeri che formavano la guardia del pontefice, tutti morti combattendo fino all'ultimo uomo vicino all'obelisco di piazza San Pietro.
Alla fine del 1527, la cittadinanza di Roma fu ridotta quasi alla metà, a causa delle circa 20.000 morti provocate dai barbari invasori, dalla fame e dalle malattie; ma, in realtà, in città ne rimasero molti di meno, perchè in tanti erano fuggiti per non tornare mai più.
***
Molti storici, pertanto, indicano il 1527 come la data simbolica in cui porre la fine del Rinascimento, di cui la Roma "medicea" costituiva il fulcro; e, sebbene questo possa risultare soggetto a diverse opinioni, non c'è però alcun dubbio sul fatto che tale data segnò una  radicale "contaminazione" dell'originario "tessuto etnico" della città, e del suo originario dialetto (quale che esso fosse).
Ed infatti, a partire da tale data, la città semideserta e le case vuote e abbandonate, vennero occupate sempre più massicciamente da immigrati toscani; ed anche, sebbene in molto minor misura, da immigrati umbri e marchigiani.
Dal rimescolamento dell'originario dialetto romano con il toscano, nacque il "Romanesco"; il quale, sostanzialmente, rimase lo stesso fino ai tempi del Belli.
***
Però, dopo la successiva occupazione militare di Roma, molto meno "cruenta" ma molto più "sovvertitrice" della precedente, si verificò un nuovo più consistente rimescolamento della popolazione e della lingua dell'Urbe.
Ed infatti gli abitanti censiti a Roma nel 1871 erano in tutto 212.000 (principalmente preti, mendicanti e prostitute), e parlavano ormai tutti indistintamente il "romanesco" immortalato dal Belli; ma, a partire da tale data, in meno di un secolo gli abitanti di Roma si decuplicarono.
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Questa volta, però, l'immigrazione, a parte quella del personale impiegatizio piemontese, risultò  essere in prevalenza di ascendenza calabrese, marchigiana, campana, abruzzese, pugliese e siciliana.
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Il "romanesco", per così dire "puro" (ammesso e non concesso che esistano davvero "idiomi puri"), ormai, resiste solo in poche aree cittadine, soprattutto quelle abitate dai "Giudìi"; i quali sono gli abitanti più antichi di Roma (ed infatti, quella di Roma, è la più antica colonia ebraica d'Europa, risalente al 60 a.c.).
A parte i "Giudìi", quando ero bambino, rammento ancora che, ogni tanto, sentivo ancora qualcuno parlare in "romanesco"; a cominciare da mia nonna materna, che era nativa del quartiere di Borgo (spianato più tardi da Mussolini), e poi cresciuta a Trastevere.
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Quando parlava in dialetto, ad esempio, come passato remoto del verbo "andare", lei diceva "me n'andiedi (o "agnedi"), mentre io, quando parlo in dialetto, dico "me n'annai"; per cui mi rimproverava affermando che il mio era "romanaccio", e non "romanesco".
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A volte pregava persino in "romanesco": ad esempio, il giorno dei morti davanti alle foto dei genitori, diceva: "lusciattèi requia e scant'in pasce ammenne!".
Molto più tardi ho capito che voleva dire "luceat eis, requiescant in pace, amen", cioè l'"eterno riposo" in latino; ma non si trattava certo di reminescenze latine nel linguaggio popolare, bensì soltanto dell'imitazione delle preghiere ascoltate dal prete in chiesa.
Ed infatti, anche ai tempi della mia infanzia, la messa era recitata esclusivamente in latino!
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In "romanesco", lei diceva "froscio" o "frogio" (non rammento bene), e mi spiegò pure, almeno secondo lei, "donde" scaturiva tale termine; il quale, ormai, è stato messo giustamente  all'indice anche nella sua versione "romanaccia" di "frocio".
Secondo la sua etimologia, tale termine derivava da "frogia" (cioè, in romanesco, "narice"); un soprannome che veniva dato ai settentrionali, con riferimento alle narici mediamente più larghe di quelle dei romani. Poi, un po' alla volta il significato del termine mutò in quello di "omosessuale"; probabilmente, secondo lei, per via del maggior numero di omosessuali tra i settentrionali rispetto alla popolazione locale.
Personalmente, però, non mi risulta affatto che i settentrionali abbiano narici più larghe dei meridionali, nè che, comunque, siano maggiormente propensi all'omosessualità; tuttavia mi riservo di verificare la faccenda anche su INTERNET.
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Inoltre, sia pur molto raramente, mia nonna imprecava esclamando "Tartoifel"; imprecazione che, immagino, sia stata mutuata dalle Guardie Svizzere papaline, che bazzicavano soprattutto il quartiere di Borgo ("Der Teufel!", cioè, "Il Diavolo!").
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Il che mi fa venire in mente che, in romanesco e in inglese, esiste una parola identica, e con lo stesso significato: "core"!
"Lets go to the <<core>> of the problem!"
"'Nnamo ar <<core>> der probrema!"
Senza falsa modestia, credo di essere stato il primo al mondo a farci caso!
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Poi, mia nonna, diceva "incoppolare", mentre in "romanaccio" (e non solo) ormai si dice "scopare"; però, a ripensarci, in effetti, tale romanesco era più vicino all'italiano "copulare".
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Però, con tutto il rispetto per il romanesco di mia nonna, il Belli scrisse pure : "De tante donne che mme sò scopato...".
Ma "scopare" da dove viene?
Nel "De  vulgari eloquentia" Dante cita questa frase dialettale marchigiana della sua epoca, "Una fermana scopai da Cascioli, cita cita se 'n gìa 'n grande aina!" (Dante, "De  vulgari eloquentia" XI 3"); Dante, però, sbaglia un po' la citazione, perchè la versione originaria sembra tratta da una poesia di un certo  Messer Osmano di Castra, che, se non sbaglio, era toscano, e suonava: "Una fermana iscoppai da Cascioli, cietto cietto s'agia in grand'aina!".
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Per concludere la disamina, in ambito in verità un po' "scurrile" (come, spesso, siamo noi Romani), mentre ormai, sia in italiano sia in "romanaccio" prevale la ben più nota formula "vaffancxxx", nel "romanesco" veniva usata la più ridondante espressione "vattelappijàndercxxx"; che io, in verità, tutt'ora preferisco, pur parlando in "romanaccio".
Ed infatti:
a)
Sotto il profilo semantico:
- "vaffancxxx" mi sembra un po' troppo vago e generico, perchè, in quel posto, si possono "fare" svariate cose (sia passivamente che attivamente):
- "vattelappijàndercxxx", invece, sebbene l'ovvio "complemento oggetto" sia sottinteso, mi sembra un invito molto più preciso e circostanziato ad andare a prenderlo in quel posto (solo passivamente).
b)
Sotto il profilo psicologico, è ormai dimostrato scientificamente che la formula "vattelappijàndercxxx", soprattutto se più riccamente arrotondata in "mavvedidannattelapijàndercxxx", risulta psicologicamente molto più appagante e gratificante per chi la pronuncia; sebbene non sempre per chi la riceve, qualora non abbia le giuste propensioni passive.
***
Ciò detto del "romanesco" e del "romanaccio", resterebbe da parlare del "borgataro"; cioè del greve "slang" suburbano e sottoculturale delle periferie romane.
Ma, al riguardo, secondo me, concludendo il "ciclo storico vichiano",  parafrasando un po' Dante potremmo tornare a dire: "Dicimus igitur Borgatarum non vulgare, sed potius tristiloquium, italorum vulgarium omnium esse turpissimum; nec mirum, cum etiam morum habituumque deformitate pre cunctis videantur fetere"
***
#3878
Ciao Bobmax :)
Tu scrivi che occorre andare "oltre" l'esistenza e la non esistenza; e che qui abbiamo l'"Essere", il quale, essendo "oltre" l'esistenza equivale al "Nulla".
E' un discorso molto "intrigante", ma un po' "fumoso"; ed invero, per renderlo davvero "significativo", dovresti definire e spiegare il "significato" della locuzione "oltre".
Cosa vuol dire "oltre", secondo te?
Ed infatti, secondo la comune accezione dell'avverbio in questione:
- non si può andare "oltre" il niente, perchè non si può "scavalcare" quello che non c'è!
- si può invece andare oltre "qualcosa" che c'è... ma allora vuol dire che qualcosa c'è!
Un saluto! :)
#3879
Citazione di: iano il 14 Maggio 2021, 12:10:07 PM
Ciao Eutidemo.
Suggestiva l'etimologia di simbolo, che non conoscevo.
Gli Arabi sono capaci di commerciare qualunque cosa, e sono riusciti a raccattare le cifre Indiane, acquistate poi come souvenir dal figlio di un ambasciatore pisano in terra Araba , detto il bonaccione, da cui Fibonacci, quando ancora i simboli posti a nostra corrispondenza  ci qualificavano, non limitandosi a distinguerci.
Un uso dei nomi, che se fosse ancora di moda, io mi chiamerei Nivaloro, venditore di neve.
Un nome che dice da dove venivano e cosa facevano i miei avi.
Oggi si preferisce svincolare i simboli dai significati , lasciandone libera la corrispondenza.

Nel duecento così inizia in Occidente l'uso della numerazione Indiana che soppianta quella  romana.
Ciò che è equivalso a una rinascita della matematica occidentale per ibridazione. La rinascita e' partita di fatto dal distinguere il modo di comporre le cifre per indicare numeri, dall'operazione di comporre i numeri per sommarli.
Svincolare il modo di indicare i numeri dalle operazioni fatte fra numeri, ne ha reso l'uso libero per operazioni più generalizzate.
Quindi si è potuto porre una cifra accanto all'altra senza che ciò implicasse sommarli.
Il misticismo simbolico indiano quindi si è sposato alla  mentalità ingegneristica dei romani, per i quali i numeri si costruivano aggiungendo una cifra all'altro, come fossero mattoni per fare ponti, in un proficuo matrimonio che continua ancora adesso a figliare.
Certamente l'origine dei simboli è in un processo di astrazione, avvenuto però senza uso di coscienza, per cui nella cultura passata non si distinguevano bene i simboli da ciò che essi indicavano.
C'era fra simboli e realtà un matrimonio d'amore.
Oggi si sono separati, ma sono rimasti buoni amici.
Uno dei motivi per cui invece non vi è intimità in generale fra noi è la matematica è il fatto che dobbiamo accettarne per convenzione i simboli scelti da altri, e come tutti i matrimoni fatti per convenienza, e non per amore, non funzionano.
Altro sarebbe potersi scegliere i propri simboli e costruirsi la propria matematica, come figli nati dall'amore.
Buon parte del merito va a Fibonacci: vedi il suo testo da me riportato nel mio post iniziale.
:)
#3880
Ciao Iano. :)
Hai ben individuato il nocciolo del problema; cioè, la corrispondenza perfetta ed esclusiva fra i "simboli" e la "realtà", che, secondo, è difficilmente realizzabile.
Come, appunto, l'OMICRON che i Greci usavano per indicare lo ZERO, come "simbolo" di OUDEN, e, cioè, del NULLA;  gli Arabi, invece, assunsero tale "simbolo" con un significato ontologico molto simile, ma, matematicamente, alquanto differente  da quello dei Greci.
***
D'altronde il termine "simbolo" deriva dall'unione del prefisso "σύν"(syn(m)), che significa "con",  ovvero "insieme", con il verbo greco "βάλλω" (ballo) che significa "getto": quindi, etimologicamente, significa "mettere insieme", unire, armonizzare.
Il che ci permette subito di cogliere nella sua etimologia il significato profondo dell'unità, quasi  metafisica, tra significante e significato, idea e rappresentazione che questo termine racchiude in sé: non a caso il suo contrario è διαβάλλω (diabàllo) da cui il termine moderno "diavolo", colui che divide per antonomasia.
***
Un saluto! :)
***
#3881
Citazione di: bobmax il 14 Maggio 2021, 09:38:02 AM
Il mio intervento era relativo al contenuto dei due post di apertura, più che al titolo di per se stesso.

Che qualcosa debba necessariamente esistere è il pregiudizio che fa da pietra tombale alla ricerca filosofica.
Perché è proprio il "qualcosa" a dover essere messo in discussione.
Non puoi postulare l'esistenza del "nulla", se non implicitamente ammettendo che esiste "qualcosa"; secondo me non avrebbe alcun senso logico.
:)
#3882
Ciao Bobmax :)
Veramente il mio tema era lo "zero" (e, in appendice conclusiva, anche l'"uno"), e non i concetti di "finito" e di "infinito"; i quali, con lo "zero" (e con il "nulla") non hanno molto a che fare, se non in modo molto "incidentale".
Ed infatti, lo "zero" è un "numero intero  pari", mentre, per Leibniz, un "numero infinitesimale" è un numero dx "maggiore di zero" e al tempo stesso minore di qualsiasi numero reale per quanto piccolo (0<dx<1N).
Sono due cose diverse, in quanto lo "zero"  non ha niente a che vedere nè con l'"infinitamente piccolo" nè con l'"infinitamente grande": e, a ben vedere, è difficilmente comparabile anche con un qualcosa che possa definirsi propriamente "finito".
***
Quindi, secondo me, discutere circa il "finito" e l'"infinito", argomenti di per sè molto interessanti, dovrebbe costituire l'oggetto di un apposito autonomo "thread"; ma non di quello che ho aperto io.
***
Diversamente, il noto principio "A = A", ha decisamente a che vedere col mio tema; sebbene anch'esso avrebbe diritto ad un apposito topic (che avevo già iniziato a scrivere).
***
Quanto al componente elementare, l'"indivisibile", cioè quello che, come tu scrivi, non dovrà mai a sua volta rimandare ad altri componenti, perché "assoluto", occorre vedere il senso da attribuire al concetto di "uno" e di "divisibile"; ed infatti, in matematica, l'"uno" può essere benissimo diviso (1/2, 1/3 ecc.), mentre, sebbene non sia possibile dividere un numero per "zero", nulla però vieta di dividere lo "zero" per un numero qualsiasi (ossia di calcolare 0:N).
***
Quanto al fatto se sia davvero così importante che vi sia davvero "qualcosa", questo dipende dai punti di vista; però, che lo si ritenga o meno importante, "qualcosa indubbiamente c'è."
Di che cosa poi si tratti, magari, è un altro discorso.
***
Un saluto! :)
***
#3883
Citazione di: Ipazia il 13 Maggio 2021, 15:15:01 PM
Lo zero è strumento matematico, fisico e metafisico che risponde ottimamente al principio mensurale di Protagora.

Matematicamente è necessario per esprimere il continuo numerico e non a caso sta all'origine degli assi cartesiani. Anche nel conteggio, dove parrebbe non avere senso, ne ha invece molto, come rivelano le scorte di magazzino quando si svuotano.

Fisicamente esprime la sensibilità della misura ed è sempre relativo al nostro armamentario rivelativo di tipo fisico, chimico o biologico.

Metafisicamente esprime la fervida fantasia umana e si avvale di facezie e aporie a non finire, in particolare perché la metafisica tende all'assoluto mentre lo zero/nulla è saldamente radicato nel relativo cartesiano.

Tra le facezie linguistiche: Il nulla non è nulla è ovviabile in lingue che escludono la doppia negazione e ci riconciliano col principio di uguaglianza e di non contraddizione; "il nulla è nulla" fila perfettamente semanticamente, e non dice nulla ontologicamente, in quanto, come aveva già capito Parmenide: il non essere non è. Cosa che il suo più entusiasta supporter, Platone, doveva sapere a menadito, ma gli piaceva gigioneggiare con menti meno scafate della sua.

Che il nulla faccia da sfondo a qualcosa (essere, uno) resta pur sempre nell'ambito del relativo e contestuale. Se un frigo serve a contenere il cibo, è corretto dire "è vuoto" o "(non) c'è nulla" quando il cibo non c'è. Senza scomodare la metafisica o la fisica delle particelle.
Molto sintetico, ma, indubbiamente, encomiabile!
Chapeau!
:)
#3884
PROSEGUE

3) LO ZERO METAFISICO
Lo "zero metafisico", in sostanza, almeno per come viene inteso dalla maggioranza dei filosofi, è puramente e semplicemente il "nulla".
Ed invero, lo "0" corrisponde alla prima lettera della parola "οὐδέν" ("niente"); e, cioè all'"omicron", che ha forma circolare, come, appunto, lo "zero"
***
Il che, però, innesca subito la cosiddetta "aporia del nulla" esposta per la prima volta da Platone nel "Sofista", il quale la formulò per bocca del "Forestiero d'Elea" con queste parole: "Amico, non ti rendi conto che, in base a quanto detto, <<ciò che non è">>, fa cadere in un vicolo senza via d'uscita anche chi ne nega l'esistenza? Ed infatti,  ogni volta che uno tenti di negarne l'esistenza, finisce per essere costretto a esprimersi su di esso in modo contraddittorio."
Ed invero, ogni volta che che il "nulla" viene indicato come "esso", lo si identifica come "reale".
Il che, come abbiamo visto, vale anche:
- per lo "zero matematico", che viene utilizzato per effettuare delle operazioni:
- per lo "zero fisico", dentro il quale si agitano particelle e fluisce l'energia.
***
Ma, sotto il profilo semantico, il "nulla non è nulla" o il "nulla è nulla"?
Benchè "linguisticamente", almeno in italiano, la prima proposizione sia formalmente più corretta della seconda, tuttavia, in base al "principio di non contraddizione" (ammesso di volerlo recepire):
- la prima proposizione risulterebbe contraddittoria, perchè "A non può <<non essere>> A";
- la seconda proposizione, invece, risulterebbe corretta, perchè "A non può che <<essere>>, appunto, A".
***
Il problema è quando ad A corrisponde il "nulla".
***
Al riguardo, tuttavia, secondo me è bene distinguere tra:
1)
Il "nulla relativo".
Cioè, ad esempio, quando io, rivolgendomi ad un politico da strapazzo, gli dico "Guarda che la vera politica non è <<nulla>> di tutto questo".
2)
Il "nulla assoluto".
Cioè, ad esempio, quando io, affermo in astratto: "Secondo me, il <<nulla>> in sè e per sè, a mio parere, è un concetto intrinsecamente ambiguo".
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Si tratta di due locuzioni di significato molto diverso, la prima delle quali, secondo me, non presenta particolari problemi, mentre la seconda sì!
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Ed infatti, quando si discute di qualcosa, in generale, la prima cosa da fare sarebbe di "definirla"; ma come si fa a definire il "nulla"?
Dire che "il <<nulla>> è ciò che <<non è>>", in fondo, è solo una tautologia; perchè <<nulla>>  equivale esattamente a dire <<ciò che non è>> (come dire che un quadrupede ha quattro zampe).
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Peraltro, nel dire o pensare che "il nulla non è", secondo alcuni, come il "Forestiero d'Elea", lo si investe della realtà che gli si nega; innescando, appunto, la cosiddetta "aporia del nulla".
Si passa, cioè, dal pensiero "logico-semantico" a quello"ontologico".
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Secondo Bergson, invece, si tratta di un termine "impredicabile"; cioè,  di "una semplice parola", ovvero, di "una pseudo-idea".
Salvo che, come avevo premesso, non si tratti di una parola usata in senso relativo!
Cioè, per Bergson, quando io sto negando che una certa determinatezza competa al mio essere, alla mia identità, al mio volere, al mio pensare:
- non sto affatto affermando l'esistenza di una dimensione chiamata "nulla";
- sto solo affermando l'insussistenza di un certo stato di cose imputato a me o ad altra cosa a me nota.
Quindi, per il detto filosofo, si tratta solo di un "problema di linguaggio"; altrimenti, considerato in senso assoluto, diverrebbe un concetto "autocontraddittorio", o, ancor meglio, "auto-distruttivo".
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Ed in effetti, sotto l'aspetto "oggettivo", ovvero "fenomenologico",  non c'è "niente" (appunto) che possa fare da  "ὑποκείμενον", cioè da "substrato",   a tale (non)entità puramente formale.
Parlare del "nulla" in senso assoluto, cioè, significa porre alcunché di autocontraddittorio; cioè un (non)qualcosa che elimina se stesso nel momento stesso in cui viene formulato, un po' come nel famoso "paradosso del mentitore".
In altre parole, secondo Bergson, chi "pensa il nulla", in realtà, semplicemente "non pensa", in quanto si astrae da ogni determinatezza e quindi dissolve il suo pensiero nell'indeterminato.
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Il che, però, in effetti accade anche per il contrario del "non essere", e, cioè, per l'"essere"; ed infatti, anche pensando all'"essere" (in assoluto) ci si astrae da ogni determinatezza, e quindi il nostro pensiero cade nell'indeterminato.
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Ed infatti, almeno secondo Aristotile, ciò che esiste viene identificato per "genere prossimo" e per "differenza specifica"; ad esempio, per definire l'uomo:
- il "genere prossimo" di uomo è "animale";
- la "differenza specifica" è che l'"uomo" è un animale capace di "ragionare" (sebbene non in tutti i casi), mentre l'"animale" no!
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Ma come si fa a identificare per "genere prossimo" e per "differenza specifica", l'"essere" in generale?
Possiamo forse dire che il "genere prossimo" dell'"essere" è il "nulla", e che la "differenza specifica" dell'"essere", è che, mentre il "nulla" non è, l'"essere", invece, è?
Suona un po' paradossale!
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Secondo me, quindi, il nocciolo dell'aporia consiste proprio in questo:  il minimo semantico – il nulla – e il massimo semantico – l'essere – hanno un punto in comune, quello, cioè, di essere astrazioni assolute dalla determinatezza (e, in quanto astrazioni vuote di contenuto, finiscono per giustapporsi).
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In effetti, nella "Dottrina dell'essere", Hegel dice più o meno qualcosa del genere: "Il puro essere e il puro nulla son dunque lo stesso. Il vero non è né l'essere né il nulla, ma che l'essere, – non passa, – ma è passato, nel nulla, e il nulla nell'essere".
E poi conclude: "In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi ch'essi non sono lo stesso, ch'essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche inseparati e inseparabili e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto ("jedes in seinem Gegenteil verschwindet")".
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Però, "si licet parva componere magnis", secondo me quello che dice Hegel è vero  soltanto per il "nulla" e per l'"essere" relativi; ed infatti, io, adesso, nel momento in cui scrivo, "sono"...però, una volta morto, svanirò nel "non essere" (almeno come individuo).
Ma questo non ha niente con vedere con il concetto di "non essere" e di "essere" in senso assoluto.
Si tratta di cose diverse!
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Quanto scrive Hegel è verissimo: "La verità dell'essere e del nulla è pertanto questo movimento ("Bewegung") consistente nell'immediato sparire ("des unmittelbaren Verschwindens") dell'uno di essi nell'altro: il "divenire" ("das Werden")".
Ma quando lui parla del divenire dell'uno nell'altro, si riferisce alle singole cose e ai singoli individui; in quanto non serve certo un filosofo della stazza di Hegel per capire che l'"<<essere>> adesso Pippo un bambino", quando Pippo diverrà un "adolescente", diverrà "il <<non essere>>  più Pippo un bambino".
Ma questo, secondo me,non significa affatto che l'"essere" divenga, o meglio, si trasformia, nel "non essere"; significa soltanto che quel singolo individuo è passato da una modalità di "essere" ad un'altra modalità di "essere", che ha posto nel "nulla" la  precedente.
Ma sempre "essere" è!
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E, poichè l'"essere" è il minimo comun denominatore di tutte le cose che "sono", quando quel singolo "individuo" morirà, passerà egualmente da una modalità di "essere" ad un'altra modalità di "essere", che ha posto nel "nulla" la  precedente; cioè, da "organismo vivente", diverrà un "cadavere" (ma anche il cadavere "è", sebbene qualcosa di "molto" diverso da quello che era prima).
E comunque, fermo restando che quell'individuo, come singola entità autocosciente, ha cessato per sempre di "esistere", ciò non significa che l'"essere" che era (in) lui, come in tutte le cose (pure prima che lui nascesse), inizi ad "essere" o cessi per questo di "essere".
Ma questo è un altro discorso, che potrebbe portarci troppo O.T. (Off Topic)!

4) L'UNO METAFISICO
Per concludere, secondo me, lo "zero metafisico" può essere compreso solo facendo riferimento all'"uno metafisico".
I numeri sono infiniti:
- piccoli, come il 2, il 3, il 6 ecc.
- grandi, come il 345, il 654, il 453 ecc.
- enormi, come 234.000.000.000 alla miliardesima potenza.
Però, tutti quanti, singolarmente presi, divisi per se stessi, sono uguali a "1"; perchè l'"1" è l'unico numero che si trova in tutti i numeri, pur non corrispondendo a nessuno di essi (salvo se stesso)
Allo stesso modo, per analogia, tutti gli esseri, quando si "dividono per se stessi", disgregandosi come identità individuali, tornano all'"essere", di cui non erano altro che epifenomeni; un po' come le "onde" tornano ad essere "mare".
Per altro verso, così come qualsiasi numero elevato a potenza "0", è uguale a "1", allo stesso modo ogni singolo essere, nel momento in cui si annulla come individuo "zerificandosi", potenzialmente diventa l'"Uno"; cioè l'"essere" senza "qualificazioni" individuali.
"Io sono Eutidemo", ma, se tolgo l'"Eutidemo", allora "Io sono", e basta!
Ed infatti, "Jahvè", deriva dal verbo sostantivo arcaico "hāwāh" (essere), e non è un nome: quindi, a Mosè che scioccamente voleva sapere il suo nome, rispose:   "Dirai agli Israeliti: <<Io-Sono>> mi ha mandato a voi".
In altre parole, l'Uno è l'"Essere", contrapposto allo Zero, che corrisponde al "Non Essere"; del quale Plotino dice che "Il nulla non è essere, affinché l'essere sia".
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#3885
Al riguardo, a mio avviso, possono farsi le seguenti (sia pur molto sommarie) considerazioni.

1) LO ZERO MATEMATICO
Lo "zero" matematico, cioè lo "0", può essere espresso sia con una parola, sia con un segno.
Ed infatti:
a)
La parola "zero" deriva dall'arabo  صفر (sifr), da cui il nostro termine "cifra"; la quale, a differenza di quanto molti credono, non corrisponde affatto al concetto di "numero", bensì ai "segni grafici" dallo 0 al 9 , che servono per esprimere un numero.
Come,  infatti, scriveva nel 1228 Leonardo Fibonacci,  formatosi sui libri di al-Khwārizmī: "Novem <<figurae >>(n.d.a., ancor oggi in greco, "cifra" si dice <<φιγούρα>>) indorum hae sunt 9 8 7 6 5 4 3 2 1. Cum his itaque novem figuris, et cum hoc signo 0, quod arabice zephirum (n.d.a., "zero") appellatur, scribitur quilibet numerus, ut inferius demonstratur." (Leonardo Fibonacci, "Liber Abbaci", 1228)
In altre parole, i "numeri", i quali sono un modo per esprimere la "quantità", possono essere rappresentati da  una o più "cifre"; come, ad esempio, il "numero" 120, che è composto dalle "cifre" 1, 2 e 0.
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Per cui, lo "zero", è una cifra come le altre; e, da solo, rappresenta anch'esso un "numero"; sebbene di natura molto particolare.
b)
Il segno "0", invece, deriva dal greco, e, a quanto pare, fu usata per la prima volta da Tolomeo all'incirca nel 150 d. C.; esso corrisponde alla prima lettera della parola "οὐδέν" ("niente"), e, cioè all'"omicron", che ha forma circolare, come, appunto, lo "zero".
Robert Kaplan, nel suo libro "Zero", avanza un'ulteriore ipotesi suggestiva sull'origine del segno "0".
Ed infatti, secondo lui, i matematici greci, anche prima di Tolomeo, rappresentavano i numeri con ciottoli scuri posati  sulla sabbia e li rappresentavano, nei loro disegni su pergamena, con cerchietti neri pieni; ma, poichè quando si toglieva un ciottolo, ne restava soltanto un impronta circolare vuota sulla sabbia, a suo parere potrebbe essere risultato naturale, nei loro disegni su pergamena,  rappresentare lo "zero" con un cerchietto vuoto (proprio per indicare l'assenza del numero).
Inoltre, visto che lo zero grafico non è propriamente tondo, ma oblungo (0), lui spiega: "Come mai questa "o" rotonda si è allungata nei secoli in forma di 0? Perché con penne d'oca e pennini era più difficile tracciare un cerchio continuo che due parentesi curve accostate".
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Queste "curiosità" etimologiche, come vedremo più avanti, possono avere una loro incidentale rilevanza anche a livello filosofico; ma ne parleremo più avanti.
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Allo stesso modo, secondo me, possono avere una loro più sostanziale rilevanza a livello filosofico anche alcune caratteristiche matematiche dello "zero".
Ad esempio:
a)
Lo zero, ancorchè associato a un "insieme privo di elementi" (→ insieme vuoto) tuttavia è anch'esso un "numero"; e, benchè di primo acchito non ci si pensi, è un "numero intero pari" (né positivo né negativo), essendo un multiplo intero di 2, dato dal fatto che 0 × 2 = 0.
b)
Ancora più strana, almeno di primo acchito, è la circostanza per la quale un qualsiasi numero elevato a potenza "0", è uguale a "1"; però, "0" a potenza "0" è uguale a "0" (o meglio, "0" elevato a potenza "0",  non ha alcun senso matematico)
Ed infatti, dalle proprietà delle potenze sappiamo che dividendo due potenze aventi la stessa base x, otteniamo sempre un numero con la stessa base e come esponente la differenza tra gli esponenti.
Per cui:
- sia x un numero diverso da zero:
xn:xm=xn−m
dove n ed m sono numeri interi qualsiasi.
- se è così, allora possiamo scrivere un numero elevato a zero come:
x0=xn−n
Adesso è chiaro perché fa 1, infatti:
x0=xn−n=xn:xn=1
Ed infatti, ogni numero diviso per se stesso dà come risultato "1"; il che pure può avere, come vedremo, un suo risvolto filosofico.

2) LO ZERO FISICO
In un certo senso, potrebbe esserne un esempio il cerchietto "vuoto" lasciato nella sabbia a seguito del prelievo del ciotolo nero rotondo che c'era sopra prima; di cui, appunto, parla Robert Kaplan nel suo libro "Zero", laddove avanza la sua suggestiva ipotesi sull'origine del segno "0".
Ed invero, a livello fisico, lo "zero" richiama molto il "Śūnya" ("vuoto"), che risale all'antico sanscrito; molto prima che Budda ne traesse la sua dottrina del "Śūnyatā".
Ma esiste davvero il "vuoto" a livello fisico; o almeno in modo tale da poterlo definire uno "zero fisico"?
***
Al riguardo,  Guido Tonelli, professore di fisica all'Università di Pisa nonché uno dei protagonisti della scoperta del bosone di Higgs al CERN di Ginevra, in un'aula universitaria all'aperto nella cornice di Piazza Mantegna, ha recentemente spiegato: "Un centimetro cubo è l'unità di misura utilizzata per iniziare il ragionamento. Ipotizzando di estrarre aria, polvere e quant'altro contenuto al suo interno, potrebbe venir spontaneo di concludere che si sia ottenuto il <<vuoto>>. In realtà è proprio qui che si apre un intero universo ricco di tantissime entità fisiche. Fotoni, neutrini, raggi cosmici, energia termica, tutte entità che è difficile schermare e dominare."
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Tuttavia, occorre porsi anche un'altra domanda: è vero che tutto l'universo è "pieno" di atomi, ma gli atomi quanto sono "pieni"?
Ed infatti un atomo è composto da un nucleo, contenente protoni e neutroni, e da elettroni, i quali attorno ad esso girano, in regioni chiamate orbitali; ma la raffigurazione che di solito se ne fa, per necessità di spazio grafico, è completamente fasulla per quanto concerne le dimensioni e le distanze tra le particelle in questione.
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In proporzione, se il nucleo atomico fosse grande quanto una mela, gli elettroni gli ruoterebbero attorno ad una distanza pari a circa un chilometro; cioè se il nucleo fosse una "mela" posta al centro del Colosseo, gli elettroni, grandi in proporzione come un "grano di sabbia", si troverebbero a ruotargli intorno all'incirca dalle parti della Stazione Termini.
E, tra di loro, ci sarebbe soltanto il "vuoto"!
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Ed infatti un nucleo atomico ha una massa quasi 1800 volte superiore a quella di un elettrone (da 1,67 × 10−27 a 4,52 × 10−25 kg); quindi, considerate le dimensioni e le distanze, questo significa che gli atomi, che, pure,  sono dappertutto, sono "fatti" al 99,9% di vuoto (fotoni, neutrini, raggi cosmici, energia termica ecc. a parte).
Cioè, per fare un altro esempio, se togliessimo tutto lo spazio vuoto tra nucleo ed elettroni, tutti i 6 miliardi di abitanti della terra ci starebbero dentro nello spazio di una mela.
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Passando dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande, secondo le ultime stime, sembra che il nostro universo potrebbe essersi espanso per circa 46,5 miliardi di anni luce; quindi, il diametro del "pallone" che si sta tuttora gonfiando, sarebbe attualmente pari a  circa 93 miliardi di anni luce, e  sarebbe tutt'ora in espansione.
Già, ma in espansione dentro che cosa?
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Possiamo raffigurare visivamente il nostro universo come se fosse un cerchietto bianco, che si espande in uno spazio nero infinito.
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Ed infatti, il nostro universo, per quanto immenso esso sia, se è vero che si sta ancora espandendo, deve necessariamente avere dei confini che si stanno estendendo sempre di più rispetto a prima; ma si stanno estendendo e stanno avanzando dentro che cosa?
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Se è vero che fuori dall'universo, per definizione scientifica comunemente accettata, non esiste nè lo spazio nè il tempo, dove lo collochiamo il nostro "piccolo" universo in espansione?
Nel "nulla"?
Il paradosso è questo:
- non ci si può espandere se non ampliando i propri confini;
- ma non si posso ampliare i propri confini in "ciò che non c'è", e che è fuori del tempo e dello spazio.
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Per cui, forse, ciò che è oltre il perimetro in espansione, non è il  "nulla", bensì un "vuoto" analogo a quello che c'è tra il nucleo di un atomo e i suoi elettroni.
Ma che differenza può esserci tra tale "vuoto" e il "nulla"?
La questione è molto controversa, e finisce per sfociare in ambito filosofico.
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