Menu principale
Menu

Mostra messaggi

Questa sezione ti permette di visualizzare tutti i messaggi inviati da questo utente. Nota: puoi vedere solo i messaggi inviati nelle aree dove hai l'accesso.

Mostra messaggi Menu

Messaggi - maral

#391
Citazione di: Sariputra il 19 Gennaio 2017, 11:59:49 AM
Credo che l'incomprensione del vero cuore di una filosofia come quella del Buddha , nasca  perché noi la giudichiamo secondo le categorie di pensiero occidentale ( sostanzialmente sulla base della filosofia greca da quello che capisco...). Secondo queste categorie l'Essere e il Divenire sono incompatibili, si negano a vicenda, sono opposti. Secondo il pensiero buddhista ( ma forse orientale in genere, e qui sono solo parzialmente d'accordo con Coomaraswamy) l'essere è ( esiste quindi ) nel divenire e non può che manifestarsi nel divenire. Essere e divenire vanno a braccetto, se così si può dire e si sostengono a vicenda, dato che non è possibile l'uno senza l'altro. Il Buddha non si è mai occupato della questione del Vero Sè, giudicandola non rilevante all'interno del suo Insegnamento, in quanto inteso non come "Annientameto dell'essere" (Schopenauer, accidenti a lui e al tutto il male che ha fatto per la sua superficiale conoscenza di queste filosofie...) ma come annientamento del dolore insito nel divenire continuo.
Questo annientamento del dolore non si può intendere in maniera nichilistica, altrimenti non verrebbe data nessuna enfasi alla dimensione non-dolorosa che esiste  ( il non-nato, non-divenuto, non-composto, ecc.). Se però  si intende questo stato non-composto come una divinità o come un Essere in sé ( induismo) il buddhismo diverge totalmente perché pone questa dimensione spirituale all'interno del divenire stesso ( i confini del Nirvana sono i confini del samsara). Per il buddhismo tutto è natura e nulla trascende la natura ( nemmeno il Nirvana). Nella mia personale concezione del Dharma ( perché , come ogni cristiano ha la sua personale riflessione e visione di Dio, anch'io ho maturato la mia su questo tema... ;D) questo non "abbassa" l'esistenza rendendola un cieco vortice di semplici cause e condizioni , ma invece la "innalza" perché non ponendo distinzioni tra il divenire e lo stato che non-diviene rende il divenire manifestazione di quello stato inesprimibile, pertanto il buddhismo "santifica" ( usando un termine giudaico-cristiano) in un certo modo il divenire stesso che la filosofia Parmenidea e poi la teologia giudaico cristiana aveva relegato nella categoria del male ( L'Essere è il bene - il Divenire è il male e dentro questo dualismo si è sempre mossa e compiaciuta). Infatti Nagarjuna afferma " All'interno del samsara sono contenuti infiniti mondi di Buddha"( Buddha qui è sinonimo di "Mondi di libertà dal dolore" e non come divinità...).
Sono d'accordo sul fatto che noi pensiamo l'Oriente nei termini del pensiero occidentale, anche "Essere", "Non essere" e "Divenire" sono termini del pensiero occidentale, forse c'è qualcosa di più originario e primordiale che riposa nei miti, forse il divorare e l'essere divorati (che Danielou considera alla base della visione vedica, indoeuropea, simbolizzata nell'immagine primigenia del fuoco che divampa e divora ogni cosa, ma che divorando purifica, riscalda, illumina, rigenera e consente la vita in forma umana attraverso i riti e la tecnica del fuoco).
L'Occidente, tu dici, vede il male nel Divenire, ma non credo che le cose stiano così, l'Occidente intende il Divenire non solo come percorso di morte, ma, soprattutto a partire dal cristianesimo, come percorso salvifico, come redenzione verso l'Essere. Il Divenire è ineliminabile dal pensiero occidentale, perché solo l'Occidente è giunto a pensare in termini di storia e di utopia (e lo stesso frammento di Anassimandro, ben prima del pensiero cristiano, è già molto indicativo in merito: gli enti escono dall'Apeiron, ma scontano questa colpa secondo giustizia così da tornare all'Apeiron originario, Nulla o Dio che sia). L'esserci del "Non Essere che non è" fu forse il primo pensiero incontrovertibile che  illuminò il greco, da questo pensare sorge la necessità del Divenire, ossia di un dover farsi essente del niente che è in quanto tale, già essere in potenza, e per contro del dover farsi niente di ogni essente, poiché ogni essente, in quanto tale, è in potenza il niente da cui è generato e dunque deve tornare niente, perché le cose stiano come sono, secondo verità di giustizia.
In fondo sia l'Oriente che l'Occidente hanno pensato di liberare l'uomo dalla catena infinita di questo dolore di un Niente che genera ogni essente e di ogni essente che non può che tornare al Niente per essere ancora rigenerato in qualcosa che ancora ripeterà il ciclo, ma mentre l'Occidente ha riposto la liberazione dal ciclo nella concezione di un ente eterno sempre in atto al di sopra del ciclo stesso, l'Oriente lo ha riposto nella pura prassi (che è prassi rituale perfetta compiuta nella dimensione immanente del corpo). Liberarsi dal dolore e dalla morte significa allora liberarsi da ogni desiderio che intende guidare la prassi da fuori di essa, liberarsi dal senso che questo desiderio vuole imprimerle costringendo alla ripetizione il medesimo ciclo doloroso che è il ciclo del fuoco e della combustione. in questa visione liberarsi dal ciclo del fuoco significa aderire totalmente al fuoco stesso (il punto fermo, l'occhio dell'uragano), liberarsi dal ciclo del divenire non è come per l'Occidente spezzarlo in nome di Enti eterni collocati fuori da esso, ma aderire  al divenire nell'istante perfetto in cui accade, l'istante supremo del Nirvana.
Non so, tutto questo è solo un abbozzo che sto tracciando in modo estremamente impreciso e sommario, sulla base di pochi spunti. Posso però dire che la posizione di Severino mi sembra ben diversa (pur avendo tratti in comune con entrambe), poiché in essa si dice che non c'è nulla da cui liberarci, difenderci o salvarci, poiché ogni ente è proprio sempre quello che è, nell'eterno diverso apparire che solo lo può manifestare. Severino nega sia Parmenide che Anassimandro rispettivamente perché non c'è Essere senza essenti e perché esistere non consiste in un entrare e in un uscire da qualsiasi Apeiron o da qualsiasi Nulla per tornarci affinché il gioco continui. Afferma piuttosto la corrispondenza necessaria tra l'eterno Essere in quiete assoluta e il parimenti eterno immenso gioco sempre variante dell'Apparire, l'uno il rovescio della medaglia dell'altro, ma entrambi (pensandola certamente in modo molto Occidentale) si realizzano non nella totalità degli enti, né nell'originario e finale Apeiron o Nulla che tutto ingoia e vomita, non presso un ente privilegiato eternamente in atto che garantisce per tutti, non in un'idea o in un'utopia che sovrasta tutti gli enti, ma in ogni singolo ente in continua concreta relazione di significato con ogni altro.  Per Severino non c'è alcun "essere in potenza" o poter essere, dunque ogni ente resta quello che è nel suo continuo apparir sorgere e tramontare. Il problema del dolore e della morte sono quindi tolti di mezzo alla radice, sono illusioni di un modo di apparire parziale delle cose che pretende, isolandosi in sé, nella propria necessaria parzialità, di essere tutto per sempre, mentre si sente morire.
#392
Citazione di: Sariputra il 18 Gennaio 2017, 23:29:55 PM
@ Maral
Infatti la formula completa è "A è anche  non-A, pertanto A". Come vedi questa formula non esclude che A=A ma inserisce il fattore "anche non-A"( che è diverso da A è non-A). Vorrebbe dire che A esiste ma il suo essere anche non-A gli permette di cambiare, di trasformarsi, di vivere. Per dare un'immagine , se ci riesco: un albero è un albero ( A=A) ma tutto cio che non è albero ( la luce, la pioggia, la terra, ecc.) ossia non-A, permette all'albero ( A) di esistere (pertanto A ). La concezione buddhista sostiene che A ( l'albero) non si può intendere come ente permanente, fisso, durevole perché la sua esistenza è dipendente da tutto ciò che è non-A  (non-albero, ossia la pioggia, la luce , la terra). Come vedi niente viene perduto: l'albero è sempre l'albero, la pioggia è sempre la pioggia, la terra è sempre la terra e l'Io che scrive è sempre l'Io che scrive. Si passa solo da una prospettiva in cui si vede l'albero come identità fissa e indipendente, ad un'altra in cui l'albero ( e anche l'io, Acquario...) cambia in continuazione perché dipendente da ciò che non è albero. E questo appare evidente all'osservazione. Se manca l'acqua l'albero rinsecchisce e cambia; resta un albero (A) ma non è più lo stesso albero rigoglioso di prima. Il fattore non-A ( la pioggia assente) gli ha permesso di cambiare. Se non ci fosse il fattore non-A non ci sarebbe alcun cambiamento; tutto sarebbe fisso , eterno, immutabile, sterile come una landa desolata.
Vedi come la formula logica A=A non va perduta ma bensì arricchita? Il fattore non-A non toglie l'esistenza di una cosa ma , al contrario, permette la vita e il tempo di quella cosa.
La mente intuisce naturalmente questo processo, ma la ragione si ostina a fissarlo , a fermarlo in frammenti, ossia si ferma alla formula A=A . Si potrebbe dire che si ostina a vedere il particolare e ignora il generale. La filosofia occidentale, per quel che ne conosco attraverso di voi ( anche per questo passo tanto tempo sul forum, Acquario...), mi sembra ossessionata dal particolare  e gli viene a mancare un "respiro" più ampio ( ovviamente senza generalizzare o banalizzare). Pertanto quando il Sari dice ( e mi ricollego anche alle critiche di Acquario...) che non c'è Io, intende solamente che non c'è un Io indipendente e permanente, ma bensì c'è un Io dipendente da tanti fattori che non -sono Io (  contatto, sensazioni, volizioni, ecc.)e pertanto impermanente. Ma se non ci fossero questi fattori di non-Io non ci sarebbe alcun Io, ma solo fissità immobile.
A me sembra che questa posizione sia più logica e sorretta dall'esperienza concreta della nostra vita, che non la concezione di enti permanenti, fissi, eterni, immutabili, ecc. ( oltre che essere mooolto più artistica e Bella , chè percepisco una bellezza senza fine in questo eterno fluire di tutte le cose che si sorreggono a vicenda, c'è molto Amore...).
Sari, quello che sostieni qui (ossia che l'identità di A a se stesso è fondata da ogni NON A) è esattamente quello che sostiene la dialettica hegeliana che è proprio quella che segue Severino: l'Essere A di A comprende il NON A, tant'è che solo l'infinito apparire di tutti NON A possono manifestare A. L'isolamento di A in se stesso è invece, al contrario, proprio quello che Severino chiama la Terra Isolata, ossia l'ente astratto preso in astratto (che se vogliamo corrisponde a una figura della logica formale classica).
La differenza tra Hegel e Severino consiste nel fatto che mentre per il secondo A diventa la totalità (espressa dal totale delle sue negazioni) in un progressivo divenire, per Severino lo è già da sempre e per sempre, anche se questa totalità viene in eterno continuamente ad apparire, senza mai potersi esaurire o concludere (metaforicamente, come nonostante questo testo è un ente unico e immediato nella sua totalità, esso si può leggere solo una parola dopo l'altra, c'è quindi la necessità di una successione nel suo apparire, l'apparire è il tempo stesso in cui la successione ha luogo, ma l'apparire non è divenire se per divenire si intende passare da non essere a essere e quindi di nuovo a essere da parte dell'essente). E l'apparire dell'apparire è la stessa Gloria, ben diversa dalla totalità Hegeliana posta alla fine dei tempi e raggiungibile dal pensiero dialettico che muove dall'oscurità ove tutte le vacche sono nere, alla luce ove tutte le vacche saranno viste nel loro vero colore, in una sintesi che tutto abbraccia. Per Severino la totalità di ogni ente (e la totalità di tutti gli enti) c'è sempre e immutabile, ma via via appare nelle sue negazioni che sono gli altri enti.
Anch'io sono perfettamente d'accordo sulla necessità di intendere l'identità su base dialettica e non formale, ma a questo il pensiero occidentale c'è comunque arrivato, per di più in quel punto culminante per la metafisica che è rappresentato da Hegel.
#393
Il problema è che la macchina che può sempre più poter fare per l'uomo quello che l'uomo desidera, rende sempre più inutile e quindi obsoleto l'uomo stesso. L'algoritmo su cui la macchina si basa si evolve e si riproduce ben più rapidamente ed efficacemente dell'uomo (il film "Lei" ne dà un ottima rappresentazione, l'uomo resta fermo, la macchina evolve e dunque l'uomo non ha più senso. Non lo cancellerà la macchina comunque, perché non è la macchina a poter progettare la fine dell'uomo, ma l'uomo stesso che non troverà più alcun senso a esistere, nemmeno per accudire o progettare e costruire nuove ideare macchine, poiché anche questo le macchine sapranno farlo meglio. L'uomo si sta sempre più scoprendo come una macchina difettosa.
#394
Citazione di: Sariputra il 17 Gennaio 2017, 10:21:42 AM
ma se non c'è identità fissa non ci può essere nemmeno qualcosa che perda identità. La difficoltà di accettare logicamente la perdita di un'identità di un ente è data dal fatto che si è prima accettato aproristicamente , come scontato, che ci sia un'identità.  E' come un uomo che vada in giro dicendo:"ho perduto il mio essere asino " ma non-sono mai stato un asino! Dal mio punto di vista dunque è sbagliato assumere come dato di fatto che esistano enti immutabili ( in questo caso soprattutto enti-idee ) e quindi sforzarsi di dire che non possono essere/diventare nulla. Fino al punto di cistallizzare il fluire di un universo intero in attimi eterni, fissi, immutabili per non perdere la logica di qualcosa che si accettato senza poterne dimostrare la logica. E' solo perché si accetta senza poterlo dimostrare che A=A  che si arriva al Severino. Ma se anche A=A è vero parzialmente può essere vero anche "A è anche non-A, pertanto è A"( che non esclude A=A), ossia la formula logica che tenta di dare una misera definizione linguistica del mutare, del fluire incessante.
Sari, è vero che non è dimostrabile logicamente che A è identico ad A, ma è altrettanto vero che se così non fosse non capisco che senso avrebbero queste tue parole, né che senso avrebbe il Buddismo o qualsiasi altro pensare o dire. Se mi si dice che A non è A, questo dire che senso ha? evidentemente non che A non è A, visto che questo dire non è questo dire. Se mi dici "prendi quella sedia" che cosa devo andare a prendere, dato che quella sedia non è quella sedia e "io" non sono "io" e nemmeno "prendere" è "prendere" e "non" non è "non"?
Per questo da ciò che si è nulla e nessuno può sfuggire, nemmeno il nulla, nemmeno il vuoto, nemmeno l'impermanenza, nemmeno il divenire stesso. E questo evidentemente non significa "volersi permanenti", in questo senso il pensiero di Severino si accorda perfettamente con quello del buddismo, non ha senso volersi eterni, dato che si è eterni ed eternamente se stessi in perenne relazione a ogni altro se stesso, non ha senso alcun volere, dato che si può volere essere (e quindi voler avere per essere un io che vuole) solo ciò che già da sempre e per sempre si è. "L'essere quello che si è" nega il voler essere, quindi nega nel modo più radicale il dolore e nega la morte, perché Severino lo dice esplicitamente, la morte è la Gloria stessa e la Gioia della Gloria. La morte coincide con la fine dell'ente isolato nella sua astrazione (la Terra isolata ove l'esistenza è illusione e dolore), ma anche l'ente isolato (proprio come il dolore, proprio come l'illusione e la stessa separazione che lo causa) sono enti eterni che. compresi nel Destino sono la Gloria del Destino. Nell'ottica severiniana non può esserci un "Nirvana" di quiete perfetta, contrapposto all'agitazione di tutti gli altri enti, non può esserci un Brahman da cui ogni ente ha origine e termine, poiché tutti gli enti sono già da sempre Nirvana e Brahman, essendo quello che sono, sulla base della loro eterna identità specifica che appare per come via via viene apparendo.
Nietzsche diceva "diventa ciò che sei", come si fa a diventare ciò che siamo, dato che siamo sempre ciò che siamo, oltre il bene e il male? C'è solo una via che si percorre nel bene e nel male e questa via dice: guardati e riconosciti per ciò che sei (questo intendeva Nietzsche) e ciò che sei è oltre ogni Dio che si possa pensare o immaginare desiderando di poter come Lui diventare. Ogni ente è Brahman, proprio in quanto essente nel gioco immenso e infinito in cui viene ad apparire, un gioco che non è illusione e quindi dolore e morte, ma l'eterno che concretamente si rivela per quello che è a ogni altro eterno, diverso, ma mai da esso separato, nemmeno quando più non ci appare.
#395
Citazione di: Sariputra il 15 Gennaio 2017, 01:11:02 AM
Allora, se si dice che non c'è divenire dell'ente, perché quando osservo una foto dell'ente Sari giovane e con un rigoglioso ciuffo e la confronto con quella dello stesso ente Sari attuale, non trovo alcuna rassomiglianza; così che si potrebbe dire , senza essere smentiti da un'estraneo a cui si mostrassero le due foto, che si tratta di due enti diversi?
Infatti, sono due enti diversi, proprio per quello che mostrano di sé, uno ha il ciuffo, l'altro no. Dire "il mio" non significa riferirsi a un io che rimane identico con o senza ciuffo. Il "mio" è solo un modo di apparire di un presente che adesso e solo adesso definisce un io: tutto quello che appare adesso mio sono io, anche il ricordo di un ciuffo sulla "mia" fronte.

Concordo comunque con Paul11, in realtà c'è qualcosa di "buddistico" nella visione di Severino. Alla fine cos'è l'assoluta permanenza logica dell'essente che è se non proprio l'assoluta non permanenza fenomenologica dell'esistente che tenta all'infinito di dire di se stesso cos'è a mezzo di un "non" che lo lega a ogni altro? Certo qui tutto è giocato sugli enti, ma in fondo l'ente mon è altro che una tautologia di cui nulla si può dire se non attraverso la fenomenologia, mai totale, mai definitiva o conclusa del suo concreto apparire in cui solo può manifestarsi.

Citazione di: sgiombo il 15 Gennaio 2017, 10:56:12 AMSe le parole in lingua italiana (non in "severinese", che non conosco e non ho alcun interesse ad imparare) hanno un senso, allora, se dicessi che un pezzo di legno segato dal ramo di un albero ieri e bruciato nel camino oggi ieri era cenere e fumo mi contraddirei, ma se dico che oggi è diventato cenere e fumo non mi contraddico affatto (lo farei casomai se dicessi " a la Severino" che oltre a diventare cenere e fumo oggi, dopo la combustione, inoltre è -continua ad essere- anche un pezzo di legno).
Sgiombo, per pensare di non contraddirti nel dire che il legno di ieri è diventato la cenere di oggi, hai bisogno di pensare che c'è un ieri (con tutto quello che contiene, proprio di quel ieri) che è diventato oggi (con tutto quello che contiene) ossia che quel "ieri", pur non essendo assolutamente ieri e non oggi, ora continua in "oggi", è oggi. Altrimenti non puoi dire che ieri diventa oggi. Ieri e oggi sono esattamente il legno e la cenere, tutto quello che fai è solo cambiare il nome con cui li identifichi.
Citazione"svolgersi" è sinonimo di "divenire", "mutare"
Non se quello svolgersi è svolgersi dell'Apparire e non (come nel significato del Divenire) dell'Essere. L'Essere (o meglio, ogni Essente) non può svolgersi in alcun modo, è.
CitazionePegaso é solo un concetto, con una connotazione arbitrariamente stabilita e basta, senza alcuna denotazione reale.
Non ci sono né concetti (significati) puri (tranne forse il "niente") né cose pure, ma solo significati e cose insieme. Vale anche per Bigio, che non è quella cosa, ma quella cosa che si può, a differenza di Pegaso, vedere e toccare e che significa: "Bigio, il cavallo di mio nonno", mentre Pegaso è il significato di qualcosa che, come tale, non si può né vedere né toccare, ma pensare e immaginare (ossia che produce pensieri e immagini con tutte le realissime conseguenze che da queste conseguono). Aggiungo che il nome-concetto-significato riassunti (che non è la cosa) prende il posto della cosa, se c'è il nome la cosa non c'è, essa appare solo nel suo nome, nel suo farsi concetto e significato che la evocano.

Citazione di: cvc il 15 Gennaio 2017, 12:12:59 PMMa è un ragionamento arbitrario, perché l'immutabilità del pezzo di legno o di cenere non è un attributo del pezzo di legno o cenere stesso, bensì una caratteristica che gli attribuisce quel commisto di ragione-coscienza-pensiero che è la visione umana.  
Sì certo, ma cos'è che non è nella coscienza umana? Il mutamento forse? A me pare di no e mi pare che anche il tuo discorso (come i miei discorsi e quelli di Severino) rientri nel punto di vista della coscienza/conoscenza umana. In quale altra forma di conoscenza potrebbe mai trovarsi?
#396
CitazionePer la definizione (arbitraria) di tali concetti, può darsi realtà in quanto tale (per esempio del cavallo Bigio) e realtà di (in quanto) concetto pensato (per esempio dell' ippogrifo Pegaso).
E può darsi realtà concettuale, realtà in quanto concetto pensato, inoltre "accompagnata da", coesistente con (dandosi anche) denotato reale di essa, del concetto pensato: Bigio; e può darsi realtà concettuale, realtà in quanto concetto pensato, non inoltre "accompagnata da", non coesistente con (non dandosi anche) denotato reale di essa: Pegaso.
Certamente Sgiombo, Bigio e Pegaso appartengono a due tipologie di enti diversi (anche l'enciclopedia cinese di Borges, che ho citato nel mio primo post in risposta a Sariputra, li classifica infatti sotto tipologie diverse), ma ciò non toglie che essi siano entrambi concetti, se togliamo il concetto che definisce (a mio avviso per nulla arbitrariamente, ossia non come diavolo vogliamo e ci pare) Bigio, cosa resta di Bigio? No, non dirmi un cavallo reale, perché un cavallo reale è ancora una definizione, forse una sensazione di qualcosa, ma anche questa è una definizione, qualcosa allora ... ma cosa? C'è poco da fare, ci vuole una definizione per dirlo, non la cosa, la cosa di per sé non appare. non si dice! Anche se la definizione non è qualsiasi definizione, una sua ragione ce l'ha e Bigio (qualunque cosa sia prima di essere definito come Bigio, il cavallo di tuo nonno) realmente non è Pegaso e certamente non solo per definizione.

CitazioneMa in realtà ciò che é qualsiasi cosa sia potrebbe anche essere (e a quanto pare di fatto é) il mutamento, il divenire
Sì, ma non se quella definizione è un'autocontraddizione, poiché anche se l'autocontraddizione è comunque un'autocontraddizione e tale resta per sempre come ogni ente, essa dice di sé stessa ciò che non è, dicendosi si nega. Il mutamento si autocontraddice perché afferma che una cosa diventando altro da ciò che è (ossia diventando ciò che non è) resta tuttavia ciò che è. dice che esiste realmente un tempo (un reale luogo temporale) in cui questa legna qui, proprio questa legna qui, è cenere.
#397
Citazione di: cvc il 14 Gennaio 2017, 14:10:06 PM
@Maral

Scusa ma tu dici che non c'è l'ente legno che diventa cenere, ma ci sono semplicemente l'ente legno e l'ente cenere. Quindi fra l'ente legno che si trova ad una certa coordinata spazio-temporale e l'ente cenere che occupa la stessa coordinata spazio-temporale non c'è in mezzo niente? C'è in mezzo il tempo, ma stando alla logica del tuo discorso il tempo è niente. Perché se - come credo - il tempo è divenire, allora secondo il tuo ragionamento il tempo non esiste. È un punto di vista non impensabile perché se deve esistere una sostanza - al di là della quahle tutto sarebbe parvenza - allora deve esserci qualcosa che permane immutato nel tempo e, d'altronde, le due realtà possibili - quella dell'immutabilità e quella del divenire - paiono escludersi vicendevolmente. Però se torniamo al punto che esiste l'ente legno e l'ente cenere, innegabilmente esiste anche l'ente fuoco. Ora seguendo sempre il tuo discorso, anche il fuoco è un ente immutabile. Però ragione ed esperienza ci dicono che il fuoco è un processo che trasforma una materia in un'altra e produce energia, e ciò non può avvenire in un piatto mondo atemporale. Anche la fisica dimostra che la materia permane nel tempo mutandosi, perciò l'immutabilità - che è una categoria necessaria di realtà - va posta nell'ambito generale dell'esistenza e non della semplice forma dell'essere.  Il marmo del blocco grezzo permane nella statua, nella forma della statua. Ma la statua è anzitutto un pezzo di marmo e poi, più particolarmente, una statua bella o brutta a seconda dell'artista. Ma ne tu ne Parmenide o Severino danno - a mio parere - dimostrazione di necessità dell'implicazione fra esistenza e immutabilità, più di quanto all'interno del divenire sia anche contemplata l'immutabilità della materia - che cambia forma ma non sostanza - e dei principi che caratterizzano il muoversi dell'universo, appunto attraverso spazio e tempo.
CVC, come ho detto il principio su cui si basa tutto il ragionamento di Severino è la concreta (ossia completa) identità dell'ente con se stesso, se c'è questa identità (che Severino stesso riconosce che in linea di principio può anche essere messa in discussione, ma che se la mettiamo in discussione dobbiamo accettare che nulla più di coerente può essere detto), l'ente, ogni ente per come interamente è, non può che essere eterno, immutabile, dunque il Divenire non c'è, perché gli enti, ognuno di essi, qualunque cosa siano, sono sempre sé stessi e non può esistere alcun tempo in cui questo pezzo di legno che ora è un pezzo di legno sarà cenere, pur rimanendo in astratto il pezzo di legno che era (onde si possa dire che il legno è diventato cenere). Certo, tutto è presente un presente che non passa e non muta. Ogni attimo di questo presente è ente, ma in questo presente si svolge la scena sempre diversa dell'apparire dovuto al continuo richiamarsi reciproco degli enti attraverso la negazione che li lega, dunque il tempo che passa non è che l'illusione del gioco dell'apparire. Che tutto sia presente ci sembra assurdo, ma se ci riflettiamo un attimo non è così, non lo è nemmeno fenomenologicamente: noi viviamo sempre e solo il presente, tutto accade solo adesso, il passato non è più, il futuro non è ancora, entrambi non sono, solo il presente è.
Seguendo il filo di questo discorso non può esserci una sostanza (una essenza fissa) non meglio specificata, ma fondamentale, che non muta, mentre tutti i suoi attributi formali che la specificano di fatto mutano, tale così da rendere possibile il divenire,
appunto perché sono proprio e solo quegli attributi formali, nessuno escluso, che specificano l'ente a mezzo deli infiniti altri enti che quell'ente non è. Questa sostanza è una sorta di idea astratta dell'ente, e, in quanto tale, è qualcosa di diverso dall'ente stesso non l'essenza, se la prendiamo come se ne fosse l'essenza, dice Severino, la prendiamo in astratto, ossia pensiamo l'astratto in modo astratto e questo pensiero astratto dell'astratto è la radice stessa dell'errore.
Certamente il pensiero di Severino (che, ripeto, è assai diverso da quello di Parmenide, in quanto non riguarda l'Essere, ma tutti gli innumerevoli Enti) può sembrare assurdo e ci sono dei punti in cui mi resta oscuro (ad esempio cosa sono davvero gli enti), ma non si può negargli né profondità né rigore logico e filosofico, oltre a un enorme coraggio nel negare ciò che a tutti ci appare tanto ovvio, che le cose passano, che il fuoco (simbolo per eccellenza del divenire fin dai tempi di Eraclito) bruciando trasforma, divora, si trasforma. 
   
#398
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 22:20:05 PM

Anche Severino però, come mi sembra ricordare dalla bellicosa discussione di qualche tempo fa, pare approdare alle stesse conclusioni di Parmenide, ossia negando in definitiva il divenire e "cristallizzando" in eterno gli enti...
Se mi tiri in ballo Severino mi sento in dovere di soffermarmi un poco sulla questione del Divenire, di A che diventa B, passando per innumerevoli stati intermedi; del pezzo di legno che, passando per il fuoco diventa piano piano o rapidamente cenere.
Severino parte dal principio di identità a se stesso di ogni ente, come Parmenide, non c'è dubbio (e anche come Aristotele che lo presenta come il fermissimo principio di non contraddizione o del terzo escluso, stabilendo così la regola logica fondamentale che tu hai contestato: di nessun ente si può dire nel medesimo rispetto e momento che è e non è ciò di cui si dice), ma Severino contesta sia Parmenide che Aristotele, il primo in quanto per costruire l'Essere (il perfetto Uno), nega gli Enti (innumerevoli) che lo costituiscono facendoli svanire nel Niente, il secondo perché l'ente, per quello che concretamente è respinge di per sé ogni contraddizione e quindi ogni possibilità di mutare, di essere altro da ciò che è, lo esclude ontologicamente, non solo logicamente. Per questo Severino non considera nella sua filosofia l'Essere e critica la logica aristotelica, in nome della concretezza dell'Ente (ossia l'ente è quello che è proprio perché non può essere le infinite cose che non è, ma nel contempo è quello che è, esattamente come tu dici, in virtù delle infinite cose che non è, hegelianamente Severino ci dice che ciò che l'ente è partecipa necessariamente di tutto ciò che esso non è, ossia partecipa di ogni altro ente, l'affermazione non solo implica, ma è data dalla negazione, da ciò che all'infinito contraddice quella affermazione).
Il divenire (inteso come un ente che viene a essere un altro ente, la legna che viene a essere cenere passando attraverso tutti gli stati intermedi che si vuole) è però impossibile proprio in quanto l'ente, nella specifica identità di quello che è datagli da ciò che non è, non può cambiare nemmeno di un minimo dettaglio: non c'è un legno che si fa cenere, ma un ente legno e un ente cenere (e tutti gli enti che vediamo intermedi) che si richiamano l'uno con l'altro in virtù di quanto è tra loro comune e per questo si presentano in successione, ma quel legno è sempre quel legno e quella cenere (cenere di quel legno) è sempre e solo cenere. Ogni stato intermedio non può essere un infinitesimo mutare, poiché per quanto infinitesimo ogni mutare sarebbe sempre un passare dall'ente a niente e da niente a un altro ente pur rimanendo, il nuovo ente, quell'ente che non c'è più. Dire che il legno è diventato cenere significa dire che il legno non c'è più, ma tuttavia c'è ancora, che, pur evidentemente non essendolo, è proprio in tutto e per tutto quella cenere (non legno) che è diventato. Dunque ciò che accade è solo un diverso e infinito venire ad apparire degli enti che si richiamano l'un l'altro, che all'infinito entrano in scena (vengono ad esistere, nel senso che dicevo prima) attraverso il richiamo delle negazioni che li definiscono e tramontano uscendo di scena senza mai diventar quel loro essere niente che è l'essere altro, ma conservandosi proprio per quello che sono, immutabili, mentre la danza dell'apparire (forse potremmo per certi versi considerarla come la danza di Maya, la danza dell'illusione e dell'esistenza) procede all'infinito perché gli enti sono infiniti, perché infinite sono le negazioni che tra loro li legano e li chiamano ad apparire.
Il diventar altro è quindi l'inganno supremo, ben più ingannevole dello stesso Niente, perché il Niente alla fine è sincero, dice di sé che non è, mentre il Divenire, che non è (quindi non è radicalmente ente, è niente) pretende di essere tutto, pretende che tutto è Divenire, mentre è solo un continuo apparire. Ma proprio questo continuo e immane apparire che coinvolge ogni ente nel suo gioco, è la Gloria a cui ogni ente partecipa in eterno e che culmina nella Gioia del Destino che coinvolge tutti gli enti. Il Destino significa essere concretamente quello che si è (e si è sempre stati e sempre si sarà) nel gioco infinito e immenso di un apparire che non ha mai termine. A non sarà mai non A, ma ogni non A gioca all'infinito con A, apparendo e scomparendo, ma senza mai cessare di essere, senza mai che il futuro venga a uccidere il presente per presentarsi come presente in atto da quell'essere in potenza che era. Ogni ente è sempre in atto.    

CitazioneP.S. Tra poco entrerò nella ristretta elite degli utenti "storici" del forum, dove mi sembra abbia trovato posto fin'ora, e da poco tempo, il solo Paul11 ( cha Allah lo preservi!). Per l'occasione ho intenzione di festeggiare con un sontuoso e poco buddhista banchetto tenuto nel salone della Villa. Naturalmente siete tutti virtualmente invitati. Potrete conoscere meglio la Vania e la Maddi... ;D
Ti sbagli, ci è già entrato pure Sgiombo che ti ha preceduto, tu probabilmente sarai il terzo, con te avremo una trinità storica, ma continueremo sempre filosoficamente a giocare per la Gloria di ciascuno :D
#399
Citazione di: Phil il 13 Gennaio 2017, 13:33:23 PM
C'è un ultimo istante ma, concordo, il soggetto in questione non lo vive come "ultimo", proprio perchè non gli sopravvive... e non può certo sapere che sia l'ultimo; ma gli altri, coloro che restano vivi dopo di lui, possono dirlo (il diretto interessato di certo non può raccontarlo  ;D).
Sì, mi pare che il discorso fili, ma se per lui non è l'ultimo cosa c'è per lui dopo, dato che non saprà mai di essere morto? Per usare una metafora della fisica, mi pare come per quegli astronauti che ipoteticamente stanno per entrare nell'orizzonte degli eventi di un buco nero: per chi li vede da lontano sembra che il tempo si stia fermando, mentre per loro il tempo passa normalmente, come sempre e hanno ragione entrambi, ognuno dal proprio punto di vista prospettico.

Citazione di: maral il 13 Gennaio 2017, 09:56:33 AMSe il terminare è una contraddizione, allora non lo è anche l'iniziare? E se entrambi sono una contraddizione, allora non si scopre che il tacito presupposto di tutto ciò è proprio quella famigerata eternità, oggetto di fede (a cui non credo, ma ammetto possa essere credibile)?
E certo che l'iniziare ha la medesima contraddizione, infatti nessuno vive il proprio iniziare, se non nelle parole degli altri. Ma qui non partiamo da un arbitrario presupposto di eternità, ma dimostriamo che l'eternità è l'unica coerenza logica possibile, poiché nascere e morire si dimostrano contraddizioni logiche (per concepirsi nati e morti infatti bisogna essere prima della propria nascita e dopo la propria morte, che è assurdo poiché autocontraddittorio, dunque la fede sta nell'esatto contrario della propria eternità). In altre parole l'ente non nasce e non muore non perché lo abbiamo presupposto eterno, ma è eterno perché logicamente non può né nascere né morire. E' sempre presente, che è esattamente anche quello che fenomenologicamente constatiamo partendo da quello che sentiamo.
#400
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 16:32:05 PM
noto pure una certa divergenza d'opinioni ( o almeno a me pare tale...) tra voi stessi. Infatti Phil afferma:
"Un ente non è un niente, poichè l'ente è numerabile, contabile, identificabile, il niente invece no."
Al che Maral insinua invece che:
"l'ente è, anche quando è quel particolarissimo ente che dice di sé di non essere ente, ossia di essere niente, un vero satanasso."
Non scoraggiarti Sari, l'ente non è mai niente (e non tanto perché non è numerabile, mi pare, dato che di enti non numerabili ce ne sono tanti e forse nessun ente lo è propriamente, a parte forse quegli enti che sono appunto i numeri), ma il niente è un ente dietro la sua maschera mentitrice che finge di essere niente, se infatti, come dici il niente è assenza di ogni ente si è già dichiarato come ente che qualcosa è, esattamente "l'assenza di ogni ente". Severino dice che il niente è un significante che significa l'autocontraddizione ossia significa niente, dato che ad autocontraddirsi non si dice niente, ma questo non vuol dire che non è, ovviamente, ma che è. Perché il niente non fosse bisognerebbe non dirlo né pensarlo, ma come si fa? Una volta pensato l'Essere (maledetto Parmenide!) non resta che pensare il niente (e oggi non manca certo chi afferma pure il contrario, ossia che si comincia con il non pensare niente per poi pensare qualcosa: come è noto tutto cominciò da niente e forse proprio lì alla fine tutto ritorna). Anche l'Essere dopo tutto è ente che dice sempre il vero, ossia ripete sempre la sua tautologia di cui ogni ente partecipa al participio presente. Heidegger voleva provarci a concepire l'Essere a prescindere dagli enti (l'ente è la radura dell'Essere andava dicendo), finì depresso sull'orlo del suicidio, la piantò lì dopo aver cercato l'Essere nella illuminazione poetica e concluse che solo un Dio ci potrà salvare e da cosa se non dal Niente?
Wittgenstein, da buon mistico appassionato di logica, concluse che di ciò che non si può parlare bisogna tacere, ma così dicendo, ahimè, si era già contraddetto, se semplicemente fosse stato zitto avrebbe dimostrato più coerenza.
Una cosa però mi sembra di poter dire a favore del Niente, pur essendo l'autocontraddizione fatta ente a modo suo è terribilmente coerente, infatti a rimuginare sul niente non si conclude mai niente, comunque la si metta, è logico.  :D

P.S a me non pare che a dire essente sia dire esistente, uno è il participio presente di essere, l'altro di esistere, sono due verbi diversi e un motivo ci sarà, il primo richiama qualcosa che sta, definitivo, inamovibile, incontaminabile nella purezza tautologica di "è", il secondo invece qualcosa che si fa largo per saltar fuori e apparire nella fenomenologia dei suoi significati per ogni altro ente (i "cerchi dell'apparire", come direbbe Severino). Ma ognuno può vederla come meglio crede, che nulla, finché non si muore, sarà mai definitivo  :) .
#401
CitazioneCosì , tra un ruminare e l'altro, si arriva ai tempi moderni dove per lo più si identifica il concetto di ente con quello di essere

In realtà con i tempi moderni (con la fenomenologia husserliana e soprattutto con Heidegger) le cose si complicano ancor più terribilmente. E dire che l'idea di ente era così semplice, banale, elementare, ma come tutte le cose semplici nasconde una complessità che è diventata sempre più indecifrabile.
L'ente, come dici, è semplicemente il participio presente sostantivato e abbreviato del verbo essere,  l'ente è l'essente, prima e al di là di qualsiasi specificazione che miri a stabilire cosa è e come è, è qualsiasi essente in quanto è. Dunque è l'albero come ognuna delle sue radici o foglie, è l'unico Dio, come uno dei miliardi di evanescenti  neutrini così difficili da pescare, è un sasso come un ente statale, parastatale o affine, è questa tua domanda come il tuo pensarla, è questa risposta come il tuo chiederti, mentre la leggi "ma che cacchio dice questo Maral?". È la totalità infinita dell'Essere come, sì, anche come lui, come il "Niente", l'ente che nega l'ente, essendo,   proprio come dice la parola, il "Non ente". E' infatti un ente anche l'eterno contraddirsi logico del Niente, dato che esso è. Gli enti sono una molteplicità infinita, plurale e sterminata  da cui nulla resta escluso, nemmeno il nulla stesso e  che trovano essenza nella pura e semplice tautologia sempre vera e assolutamente egualitaria: l'ente è, anche quando è quel particolarissimo ente che dice di sé di non essere ente, ossia di essere niente, un vero satanasso.
Diverso è iinvece l'ente che è anche esistente, perché per quanto infiniti possano pure essere gli esistenti, ciò che li caratterizza oltre a essere, è esistere e l'esistere non è mai perfettamente egualitario, fa differenze, seleziona, discrimina. Esistere infatti vuol dire qualcosa di diverso dal puro essere, vuol dire emergere, apparire, mostrarsi. L'ente deve uscire dalla sua essenza del tutto tautologica e autoreferenziale per poter esistere, ossia apparire, mostrarsi ad altri enti, reciprocamente. Si potrebbe dire che Il rapporto che lega gli enti agli esistenti è lo stesso che c'è tra i numeri reali e quelli naturali.
A ben vedere però tutti gli enti che ho citato sopra sono anche esistenti, non potrei averli citati se non fossero esistenti, cioè se non esprimessero un modo di essere che li fa  apparire, ma anche qui l'esistenza ha dei modi privilegiati per farsi intendere ed esistere come esiste un neutrino non è la stessa cosa di esistere come esiste un'idea o un tavolo, l'ippogrifo o il Monte Bianco e anche qui si istaurano delle doverose gerarchie, fino appunto ad arrivare al supremo esistente che è anche il supremo ente di Tommaso o il puro Essere in Atto di Aristotele. Si potrebbe anche dire che nel complesso, pur essendo concettualmente diversi, esistente ed ente si equivalgono, che un infinito vale l'altro, ma il fatto è che tra gli enti occorre comprendere anche quell'ente che assolutamente non appare che continuerà a non apparire anche quando lo si è così definito esistente, proprio come ci ha dimostrato Cantor c'è sempre almeno un numero reale in più rispetto agli infiniti numeri ordinali che si contano.
D'altra parte è proprio su questa diatriba tra ente ed esistente che così spesso Sgiombo e io ci ingarbugliamo in polemiche infinite che coinvolgono alcune famose montagne alpine fino a intere regioni sempre alpine (Chissà poi come e perché non siamo mai scesi sotto dalle Alpi, il motivo non mi appare  ::) )
Ah dimenticavo, gli esistenti, proprio in virtù delle loro caratteristiche che li rendono tali, sono, a differenza degli enti, classificabili in categorie, sono mappabili. Di mappe ce ne sono di tanti tipi, quanto e più che di esistenti da mappare (dimostrando che come al solito volendo fare le cose più semplici e controllabili le si complica).
Questa è una bellissima categorizzazione degli animali che riporta Borges da "una certa enciclopedia cinese". La cito perché la trovo particolarmente significativa, in questa enciclopedia infatti, si  trova scritto che "gli animali si dividono in: a) appartenenti all'Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l'amore, n) che da lontano sembrano mosche."  E con questo direi che gli animali esistenti ci sono proprio tutti. :)
#402
Citazione di: Phil il 12 Gennaio 2017, 21:15:47 PM
Non ha un dopo per quell'ente, ma proprio il disfarsi dell'ente, il morire della coscienza, etc. sancisce il fatto che quello sia l'ultimo istante per esso; altrimenti come potremmo definirlo "ultimo", se non dopo che si sia concluso e non ne sia seguito un altro
Si potrebbe allora dire che l'ente si disfa e muore per noi che non siamo quell'ente per cui siamo certamente solo noi a dire che quell'istante è ultimo e quindi che non ha un dopo, per l'ente non è ultimo in ogni caso, per il soggetto non ci può essere comunque un "ultimo istante". Ma questo non significa presupporne l'eternità, al contrario, il presupposto è nella fenomenologia del finito, di ciò che termina e terminando mostra che il terminare è una contraddizione.

Citazione
Direi che in caso di morte io non avrò un domani, e quel giorno io finirò, così come a mezzanotte finirà quel giorno per i restanti vivi... poi arriverà il domani, ma io (in quanto essere-vivo), non ci sarò più (o non sarò più tale...). Cosa farà finire quel giorno per me? Esattamente la mia morte, il mio "spegnermi", il vivere il mio ultimo istante senza che ne segua un altro (per me)... ed eccome se finirò  ;D
Tutto è necessario che finisca, ma per te stesso non potrai mai dire, né vedere, né concepire la tua fine, proprio perché non c'è un oltre del soggetto se la fine è fine. Al massimo potrai credere di essere come tutti gli altri che vedi finire, sperare di finire come ogni altro ed esserne contemporaneamente terribilmente spaventato.

#403
CitazioneUn Inizio sembra invece ci sia stato, secondo un'osservazione Fisica, quindi, se questo è vero, intendo comprendere di che cosa si tratta in Realtà, andando eventualmente oltre una meramente fisica.
Inizio (e fine), stanno sempre oltre ciò di cui facciamo esperienza, proprio come l'eternità senza inizio e senza fine. Inizio e fine sono l'interpretazione del presente (un presente che è eterno in ogni istante), per vedere in essi il senso del suo esserci che accade sempre e solo ora e qui. Inizio e fine sono il conforto di un oltre che non si vede.
#404
Citazione di: Phil il 12 Gennaio 2017, 14:57:26 PM
... che è una conseguenza del presupposto dell'eternità dell'ente, che è una conseguenza del presupposto che non c'è un dopo, etc.
No, non si presuppone l'eternità dell'ente, si arriva all'eternità a partire dal considerare la morte come ultimo istante dell'ente che, essendo l'ultimo, non ha un dopo (quindi è esattamente il contrario e il loop non è possibile, poiché dall'eternità dell'ente non si può arrivare all'ultimo istante dell'ente, sarebbe contraddittorio).

CitazioneP.s. Concordo che solo il domani uccide l'oggi, ma, per quel che ne so, il domani arriva sempre (e un giorno non mi troverà più ad aspettarlo...).
Dunque quel giorno non avrà per te alcun domani. E se dopo per te non c'è niente, cosa per te potrà mai far finire quel giorno?
#405
Tematiche Filosofiche / Re:Tempo ed eternità
12 Gennaio 2017, 11:36:59 AM
Citazione di: Sariputra il 12 Gennaio 2017, 00:01:26 AM
Sistema anatta (tipico del buddhismo) ( o anatma-vada) è la teoria dell'assenza del sé (anima), per cui tutte le cose  sono prive di sostanza o di realtà permanente e identica;  tutto è impermanente, mutevole, momentaneo ( anitya), non-essere, negazione, assenza (abhava).
Essere è quindi ciò che è presenza, permanente, sostanziale. Non-essere è ciò che diviene, che muta, che è assente.
Interessante, trovo che richiami quello che dice Ronchi quando parla, in termini filosofici occidentali, di un "Divenire assoluto". E' come se Oriente e Occidente, pur nella loro diversità, si richiamassero costantemente. Nel video, Ronchi (un po' ingarbugliandosi con le parole) dice anche che all'origine del pensiero non c'è l'Essere, "l'Essere è" non è una preposizione semplice e originaria, ma estremamente problematica, è quella che con la sua problematicità irrisolvibile porta alla  fine della filosofia ("perché mai l'ente anziché il niente?" o "l'Essere anziché il Non essere?" si chiedono Heidegger e Leibniz, il primo da un punto di vista esistenziale-fenomenologico, il secondo da quello logico-ontologico). La preposizione semplice, non problematica, elementare e assolutamente indubitabile nel pensiero occidentale (ma a questo punto si potrebbe anche dire in quello orientale) è il "Non essere non è", per cui è del tutto evidente che "il Non essere che non è è", ossia che "il Non essere è". E questa evidenza originaria la rileva anche Severino, e la traduce nell'evidenza assoluta del Divenire (nient'altro che un continuo essere del Non essere) che lui considera come la follia estrema che sta alla base del pensiero stesso.