Citazione di: Sariputra il 19 Gennaio 2017, 11:59:49 AMSono d'accordo sul fatto che noi pensiamo l'Oriente nei termini del pensiero occidentale, anche "Essere", "Non essere" e "Divenire" sono termini del pensiero occidentale, forse c'è qualcosa di più originario e primordiale che riposa nei miti, forse il divorare e l'essere divorati (che Danielou considera alla base della visione vedica, indoeuropea, simbolizzata nell'immagine primigenia del fuoco che divampa e divora ogni cosa, ma che divorando purifica, riscalda, illumina, rigenera e consente la vita in forma umana attraverso i riti e la tecnica del fuoco).
Credo che l'incomprensione del vero cuore di una filosofia come quella del Buddha , nasca perché noi la giudichiamo secondo le categorie di pensiero occidentale ( sostanzialmente sulla base della filosofia greca da quello che capisco...). Secondo queste categorie l'Essere e il Divenire sono incompatibili, si negano a vicenda, sono opposti. Secondo il pensiero buddhista ( ma forse orientale in genere, e qui sono solo parzialmente d'accordo con Coomaraswamy) l'essere è ( esiste quindi ) nel divenire e non può che manifestarsi nel divenire. Essere e divenire vanno a braccetto, se così si può dire e si sostengono a vicenda, dato che non è possibile l'uno senza l'altro. Il Buddha non si è mai occupato della questione del Vero Sè, giudicandola non rilevante all'interno del suo Insegnamento, in quanto inteso non come "Annientameto dell'essere" (Schopenauer, accidenti a lui e al tutto il male che ha fatto per la sua superficiale conoscenza di queste filosofie...) ma come annientamento del dolore insito nel divenire continuo.
Questo annientamento del dolore non si può intendere in maniera nichilistica, altrimenti non verrebbe data nessuna enfasi alla dimensione non-dolorosa che esiste ( il non-nato, non-divenuto, non-composto, ecc.). Se però si intende questo stato non-composto come una divinità o come un Essere in sé ( induismo) il buddhismo diverge totalmente perché pone questa dimensione spirituale all'interno del divenire stesso ( i confini del Nirvana sono i confini del samsara). Per il buddhismo tutto è natura e nulla trascende la natura ( nemmeno il Nirvana). Nella mia personale concezione del Dharma ( perché , come ogni cristiano ha la sua personale riflessione e visione di Dio, anch'io ho maturato la mia su questo tema...) questo non "abbassa" l'esistenza rendendola un cieco vortice di semplici cause e condizioni , ma invece la "innalza" perché non ponendo distinzioni tra il divenire e lo stato che non-diviene rende il divenire manifestazione di quello stato inesprimibile, pertanto il buddhismo "santifica" ( usando un termine giudaico-cristiano) in un certo modo il divenire stesso che la filosofia Parmenidea e poi la teologia giudaico cristiana aveva relegato nella categoria del male ( L'Essere è il bene - il Divenire è il male e dentro questo dualismo si è sempre mossa e compiaciuta). Infatti Nagarjuna afferma " All'interno del samsara sono contenuti infiniti mondi di Buddha"( Buddha qui è sinonimo di "Mondi di libertà dal dolore" e non come divinità...).
L'Occidente, tu dici, vede il male nel Divenire, ma non credo che le cose stiano così, l'Occidente intende il Divenire non solo come percorso di morte, ma, soprattutto a partire dal cristianesimo, come percorso salvifico, come redenzione verso l'Essere. Il Divenire è ineliminabile dal pensiero occidentale, perché solo l'Occidente è giunto a pensare in termini di storia e di utopia (e lo stesso frammento di Anassimandro, ben prima del pensiero cristiano, è già molto indicativo in merito: gli enti escono dall'Apeiron, ma scontano questa colpa secondo giustizia così da tornare all'Apeiron originario, Nulla o Dio che sia). L'esserci del "Non Essere che non è" fu forse il primo pensiero incontrovertibile che illuminò il greco, da questo pensare sorge la necessità del Divenire, ossia di un dover farsi essente del niente che è in quanto tale, già essere in potenza, e per contro del dover farsi niente di ogni essente, poiché ogni essente, in quanto tale, è in potenza il niente da cui è generato e dunque deve tornare niente, perché le cose stiano come sono, secondo verità di giustizia.
In fondo sia l'Oriente che l'Occidente hanno pensato di liberare l'uomo dalla catena infinita di questo dolore di un Niente che genera ogni essente e di ogni essente che non può che tornare al Niente per essere ancora rigenerato in qualcosa che ancora ripeterà il ciclo, ma mentre l'Occidente ha riposto la liberazione dal ciclo nella concezione di un ente eterno sempre in atto al di sopra del ciclo stesso, l'Oriente lo ha riposto nella pura prassi (che è prassi rituale perfetta compiuta nella dimensione immanente del corpo). Liberarsi dal dolore e dalla morte significa allora liberarsi da ogni desiderio che intende guidare la prassi da fuori di essa, liberarsi dal senso che questo desiderio vuole imprimerle costringendo alla ripetizione il medesimo ciclo doloroso che è il ciclo del fuoco e della combustione. in questa visione liberarsi dal ciclo del fuoco significa aderire totalmente al fuoco stesso (il punto fermo, l'occhio dell'uragano), liberarsi dal ciclo del divenire non è come per l'Occidente spezzarlo in nome di Enti eterni collocati fuori da esso, ma aderire al divenire nell'istante perfetto in cui accade, l'istante supremo del Nirvana.
Non so, tutto questo è solo un abbozzo che sto tracciando in modo estremamente impreciso e sommario, sulla base di pochi spunti. Posso però dire che la posizione di Severino mi sembra ben diversa (pur avendo tratti in comune con entrambe), poiché in essa si dice che non c'è nulla da cui liberarci, difenderci o salvarci, poiché ogni ente è proprio sempre quello che è, nell'eterno diverso apparire che solo lo può manifestare. Severino nega sia Parmenide che Anassimandro rispettivamente perché non c'è Essere senza essenti e perché esistere non consiste in un entrare e in un uscire da qualsiasi Apeiron o da qualsiasi Nulla per tornarci affinché il gioco continui. Afferma piuttosto la corrispondenza necessaria tra l'eterno Essere in quiete assoluta e il parimenti eterno immenso gioco sempre variante dell'Apparire, l'uno il rovescio della medaglia dell'altro, ma entrambi (pensandola certamente in modo molto Occidentale) si realizzano non nella totalità degli enti, né nell'originario e finale Apeiron o Nulla che tutto ingoia e vomita, non presso un ente privilegiato eternamente in atto che garantisce per tutti, non in un'idea o in un'utopia che sovrasta tutti gli enti, ma in ogni singolo ente in continua concreta relazione di significato con ogni altro. Per Severino non c'è alcun "essere in potenza" o poter essere, dunque ogni ente resta quello che è nel suo continuo apparir sorgere e tramontare. Il problema del dolore e della morte sono quindi tolti di mezzo alla radice, sono illusioni di un modo di apparire parziale delle cose che pretende, isolandosi in sé, nella propria necessaria parzialità, di essere tutto per sempre, mentre si sente morire.