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Messaggi - davintro

#391
Ritengo che una delle più forti critiche all'idea che il cervello, inteso nella sua connotazione meramente materiale, oggetto delle scienze della natura, possa essere condizione sufficiente a rendere ragione del fenomeno della coscienza, della sua origine, stia nella constatazione dell'irriducibilità del darsi dei vissuti psichici a livello interiore, nell'esperienza interiore in prima persona, rispetto ai vissuti nelle forme fisiche con cui si manifestano per un occhio che osserva dall'esterno. Questa irriducibilità esprime la dualità tra i vissuti nell'accezione della loro manifestazione fisica e nella manifestazione spirituale, e considera tutta la problematicità di un passaggio causale che porterebbe la prima accezione a determinare pienamente la seconda. Se quest'ultima, la coscienza intesa nell'esperienza interiore del flusso dei vissuti, fosse solo u derivato secondario, un epifenomeno, del cervello, noi dovremmo vivere i nostri pensieri e sentimenti come localizzati in determinato luogo del corpo, allo stesso modo di quando proviamo dolore a una gamba se qualcuno ci dà un calcio in quel punto. Dolore, caldo, freddo sono sensazioni prodotte dal corpo manipolato da uno stimolo esterno fisico, mentre, personalmente, a me non è mai capitato di provare paura nel braccio o gioia o serenità alla ...nuca. Questi sentimenti non sono spaziali perché a mio avviso non provengono dal corpo, che subirebbe l'urto di uno stimolo esterno, ma da una realtà spirituale che la tradizione filosofica identifica nell'anima, intesa come "forma corporis",  fattore di unificazione dello spazio corporeo, e che può svolgere tale "compito" di unificazione proprio perché non è di per sé ente spaziale, ma sistema di configurazione dello spazio corporeo, che in tale modo riceve un'unità, un'individualità, l'Io personale. Questo Io, con la sua struttura di motivazioni e valori interiori, è il luogo da dove provengono le mie paure e le mie speranze. Ho paura perché vedo nella realtà minacciati i miei valori, provo gioia se li vedo esaltati e confermati. In ciò consiste l'irriducibilità tra una mera causalità fisica, che accade sempre all'interno di uno spazio, e una causalità motivazionale, che pone come luogo di origine un livello della psiche non percepibile spazialmente. Il cervello è "solo" (si fa per dire...) uno strumento, umanamente necessario, con cui la coscienza interagisce tramite il medium del corpo con il mondo esterno, permettendogli di esprimere delle sue funzioni cognitive, e conseguentemente delle azioni. Ma la coscienza di per sé, non è un complesso di "funzioni", qualcosa che utilizziamo in vista di un fine, uno strumento, ma proprio quella condizione ontologica che ci permette di porre liberamente dei fini per il nostro agire, e dunque è una "luce" che può illuminare il corso della nostra esperienza vissuta anche a livelli psichici oscuri e profondi, nascosti ai nostri strumenti di osservazione superficiali che la coglierebbero solo come "funzioni" in vista dell'agire nel mondo esterno. A questo punto il riduzionismo materialista potrebbe provare a difendere le sue tesi dicendo che la non-spazialità dei pensieri è solo un'illusione dualista dell'Io, squalificando in linea con l'impostazione cartesiana e galileiana, l'esperienza dei dati qualitativi, rispetto a ciò che della realtà è possibile quantificare sulla base di un substrato spaziale: in realtà questa difesa non la ritengo valida, in quanto la coscienza non è un ente come un altro, per il quale sarebbe sempre legittimo quantomeno ipotizzare una "autentica realtà" al di là delle apparenze fenomeniche, in essa al contratio non c'è dualismo tra verità e apparenza, l'essere della coscienza coincide con i nostri vissuti, con il loro darsi come fenomeni, essere e apparenza nella coscienza coincidono.La coscienza è la condizione ontologica che comprende in sé la totalità dei modi con cui un Io fa esperienza del mondo, quindi non ha alcun senso pensare ad una verità della coscienza al di là del complesso dei vissuti esperienziali, perché proprio tali vissuti la costituiscono. Ecco perché l'unico modo a mio avviso di analizzare la coscienza nella sua struttura essenziale è l'approccio fenomenologico, che coglie i vissuti in loro stessi, nelle qualità essenziali del loro darsi come fenomeni alla nostra esperienza interiore in prima persona, non riducendola a  misure quantitative, non per svalutare la validità delle scienze che su tali misure fondano i loro risultati, ma per contestualizzarle all'interno di qualcosa di più ampio, il complesso delle qualità della nostra esperienza vissuta, il cosiddetto Lebenswelt, Mondo della vita, di cui le scienze positive sono solo una componente particolare non totalizzante
#392
beh, nulla di male a utilizzare concetti ritenuti "scomodi" come quello di "essenza" in un certo contesto storico, dato che all'onesto cercatore della verità dovrebbe mirare solo a considerare l'adeguatezza di un concetto in relazione all'esperienza delle cose oggettive, e non in relazione al sentire comune dell'epoca nella quale gli è capitato di trovarsi a vivere. Certamente nell'epoca in cui il geocentrismo tolemaico andava per la maggiore il sistema eliocentrico copernicano era certamente "scomodo", ma si è poi rivelato quello valido...

 

La necessità delle essenze è dimostrabile analiticamente: cioè a partire dalla definizione stessa che ne diamo: se intendiamo l'essenza come la componente necessaria di un ente, quella che rende un ente quell'ente determinato e non un altro, allora l'essenza non può non essere presente in ciascun ente, altrimenti il concetto stesso di "essenza" sarebbe autocontraddittorio e dunque insensato. Senza la propria essenza ogni ente smarrirrebbe il suo "quid" che gli attribuisce una qualsivoglia determinazione e lo contraddistingue da altri enti: cioè l'essere cadrebbe nella pura indeterminazione, verso il nulla. Tutto sta nel non concepire le essenze come idee idealisticamente separate dagli enti a cui si riferiscono, ma, pur mantenendo la loro conntotazione ideale, porle come immanenti ai loro enti di riferimento, cioè identificarle con il loro "quid" che ne specifica il senso determinato, rendendo anche possibile, in seconda battuta la definibilità linguistica. 

 

Etichettare come "antropocentrismo" qualunque attribuzione da parte di un intelletto soggettivo di categorie formali applicate poi alla realtà oggettiva dovrebbe coerentemente far ricondurre in questa etichetta qualunque forma di conoscenza razionale, comprese le scienze naturali sperimentali, dato che ogni conoscenza presuppone l'organizzazione del flusso di dati sensibili, di per sé informe e caotico, in un sistema di concetti, di forme intelligibili. Anzi, forse proprio nella riconduzione della natura in termini matematici, quantitativi, operata dalle scienza naturali, se si vuole, è riscontrabile un'astrazione e una formalizzazione maggiore che in una visione del mondo fondato sull'apprensione delle concrete qualità fenomeniche materiali delle cose, colori, suoni ecc. nel loro porsi come oggetti di un'esperienza vissuta, una visione che non squalifica le qualità primarie rispetto a quelle secondarie, e quindi in tale più rigida formalizzazione dovrebbe riconoscersi un carattere antropocentrico più forte... in realtà credo che il rischio di cadere in un'antropocentrismo che ostacola la conoscenza della realtà oggettiva, possa essere scongiurato nel momento in cui una sana epistemologia individui dei criteri della conoscenza solidi, come il complesso dei princìpi logici universali, che nella loro trascendentalità, sono regole necessarie del pensiero, a prescindere dal tipo di realtà determinata in possesso di tale pensiero. In questo senso che A sia uguale ad A e non potrebbe mai essere non-A, è una norma che ogni pensiero presuppone necessariamente per non cadere nell'assurdità, sia il pensiero dell'essere umano, che di un ipotetico alieno sceso da Marte, cosicché un complesso di deduzioni ricavate da princìpi originari come questo sarebbe svincolato dall'antropocentrismo. La razionalità che garantisce la corrispondenza di una tesi con la realtà oggettiva è l'argine contro ogni antropocentrismo relativista. Lo stessa fenomenologia husserliana pur riconoscendo un'attività delle noesi, espressione di una soggettività (però l'Io puro, trascendentale, non l'essere umano con le sue proprietà determinate) nella formazione dei noemi, non mi pare consideri l'attività formante come arbitraria proiezione dell'umano, ma fondato sull'apprensione passiva, la sintesi passiva, di un mondo ulteriore di sensazioni, che incidono sulla formazione degli schemi percettivi, in un'intenzionalità "al contrario" ,che va dall'oggetto al soggetto.

mi pare di dover condividere molto le osservazioni di viator, che mi sembra ricalchino bene, anche meglio di come ho provato a fare, i miei pensieri sul rapporto forma-materia.
#393
Citazione di: Phil il 13 Ottobre 2017, 16:39:54 PM
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AMAccanto a tale concezione c'è però quella classica, soprattutto aristolelica, per cui l'anima non è sostanza separata dal corpo, ma forma immanente ad esso, e questa immanenza (non identità), le restituisce una ragion d'essere come causa formale della materia, principio che attribuisce un senso determinato e delimitato alla materia
La "causa formale" dell'uomo, attualizzando la terminologia aristotelica, credo sia la genetica (che è infatti sostanziale: Dna, geni, etc.), anche se il buon Aristotele non poteva certo saperlo ;D
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AMIn questa concezione l'anima torna ad essere concetto dalla dignità razionale, in quanto la sua presenza risponde a una decisiva questione, la ragion d'essere della differenza fra materia inanimata e materia vivente, nonché, grazie alle varie tipologie di "anima" (razionale, sensitiva, vegetativa), delle diverse configurazioni interne agli esseri viventi, le persone rispetto agli animali, gli animali rispetto alle piante...
L'anima come spiegazione della vita è un classico intramontabile e... infalsificabile ;)
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AMEscludere la presenza di tali nozioni originarie in quanto non riconoscibili da un modello di ricerca verificazionista valido per la verificazione dell'esperienza esterna (induttivo e osservativo-sensibile) vorrebbe dire dare pregiudizialmente per scontato che l'unico metodo di ricerca razionalmente valido sia di questo tipo, mentre un'affermazione di questo genere sarebbe proprio la tesi che l'antiinnatismo dovrebbe essere chiamato a dimostrare, in quanto presupporrebbe che un'esperienza interiore autonoma da quella esteriore sarebbe impossibile per assenza di contenuti propri: in pratica nel negare concetti innati in quanto non ricavabili dalla verificazione esterna sensibile e nel pensare tale tipo di verificazione come l'unica possibile vuol dire cadere in un circolo vizioso argomentativo
L'anima (proprio come il "pappagallo funebre") non può essere razionalmente esclusa o negata, essendo indimostrabile, per cui concordo appieno sul fatto che l'antiinnatismo pecca di una "protezionistica" chiusura logica che confonde maliziosamente l'inverificabile con il falso.

contrapporre gli oggetti di studio della genetica all'anima avrebbe senso solo restando all'interno dell'errore della visione che separa in modo assoluto il piano della materia dal piano dello spirito. La visione per la quale se troviamo nel piano della materia un ente che ci appare poter svolgere una certa azione inizialmente attribuita a una realtà spirituale, allora ci si sente legittimati a sostituire questa con quello relegandola al piano di un'ammuffita superstizione del passato. Questa è la tipica visione del progressivismo positivista che vede la scienza (nel senso fisicalista ed empirico) come un continuo progresso che man mano che progredisce si mangia sempre più ambiti della metafisica, privata di un proprio peculiare ambito di oggetti. In realtà, il dna non sostituisce l'anima, piuttosto lo si potrebbe vedere come una conferma, un corrispettivo nell'ordine materiale dell'azione causativa della forma vivente, l'anima sul piano spirituale-metafisico. Il punto è che la materia pura non esiste come sostanza, in nessun ente, neanche quelli inanimati. La materia esiste solo come "materia formata", materia che si specifica e si determinata come configurata dalla forma. Non può esistere alcuna sostanza puramente materiale, la materia esiste sempre come dotata di una certa unità e modo d'essere, delimitata dall'azione formante di un ente immateriale, nella materia vivente l'anima. E anche il dna esiste ed agisce non come materia indeterminata, mera res extensa, ma come materia formata, o meglio come componente di un organismo organizzato in un'unità circoscritta da una forma, che costituisce l'essenza specificante della sostanza di cui la materia fa parte. Se vediamo il dna agire come principio interno che conduce l'ente ad acquisire nello sviluppo organico una certa forma, ciò non vuol dire che la forma è prodotto arbitrario del dna inteso nella sua accezione materiale, ma che tale forma è presente ed agente "ab origine", che configura l materia rendendola il più possibile adeguata a esprimere il senso e il modo d'essere indicata nella forma. Qualunque entità materiale possa individuare la genetica sarà sempre materia formata, accompagnata da un'essenza immateriale che la configura come materia vivente. Fin dall'istante in cui sono stato concepito, nel nucleo originario materiale era già impressa quella spinta interiore teleologicamente orientata a svilupparsi (certamente necessitando anche di fattori esterni) come essere umano, e non come cane, gatto, o albero, l'anima umana, razionale, seppur latente e ancora non in "funzione" era già in atto come spinta verso la realizzazione dell'essenza insita nella forma, autopoiesi. Il dna, come qualunque altro concetto considerato dalla biologia o dalla genetica appartiene a un organismo materiale da sempre conformato (con-formato...) all'azione causativo della forma vivente che la costituisce come materia dotata di un senso, di un'unità, proprietà e facoltà che la specificano come un certo tipo di ente materiale anziché un altro. La complementarità tra dna ed anima rispecchia quella tra fisica e metafisica, due diverse prospettive riferite però alla stessa realtà, nel caso di cui stiamo discutendo ora l'essere vivente, più genericamente del mondo che si dà come insieme di fenomeni alla nostra esperienza.
#394
Citazione di: Phil il 06 Ottobre 2017, 20:43:04 PM
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PMla differenza fondamentale tra l'ammissione di contenuti ideale innati latenti nei livelli profondi della psiche e la pretesa che gli altri credano che ho un pappagallo invisibile sulla spalla consiste nel fatto che mentre l'idea del pappagallo invisibile, pur di per sé infalsificabile, non ha nemmeno alcuna ragione di essere creduta, per il semplice motivo che è una credenza del tutto inutile a risolvere dei problemi teoretici riguardo la realtà: Se conoscere vuol dire "conoscere le cause", allora il pappagallo invisibile è totalmente inutile all'ampliamento della conoscenza razionale del mondo, in quanto pur teoricamente non impossibile, non risolve alcuna questione, non risponde ad alcuna possibile domanda.
L'esempio era volutamente giocoso e surreale, eppure, a ben vedere, non è che fra l'idea del pappagallo e l'idea di anima ci sia troppa differenza, sia per indimostrabilità che per "utilità teoretica"... ;)
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PMl'origine delle idee dal contenuto intelligibile che non troverebbe adeguazione nei contenuti sensibili dell'esperienza a-posteriori. Se l'esperienza esteriore appare, pur necessaria, insufficiente a produrre in noi contenuti qualitativamente distinti da quelli sensibili, cioè le qualità intelligibili, allora occorrerà rivolgersi all'interno.
Si; tuttavia direi meglio se ad un interno verificabile...
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PMMesse così le cose non si può dire che la tesi innatista sia infalsificabile in assoluto: sarebbe falsificabile nel momento in cui si riuscisse a dimostrare che l'esperienza sensibile fosse condizione non solo necessaria ma anche sufficiente della forma di tutti i concetti (sensibili e intelligibili), e del contenuto di quelli intelligibili, e questo, nonostante le varie obiezioni, non lo vedo dimostrato, almeno per il momento
Secondo me, la capacità di astrarre sta proprio in questa produzione di concetti intelligibili ispirati (ma eccedenti per grado) al sensibile; così come, ad esempio, la negazione (operazione logica) del finito (sensibile) produce il concetto di in-finito (non-sensibile); e tirerei anche il ballo la comunicazione simbolica dei nostri simili, l'impatto culturale e la narrazione ricevuta (la stessa che ci consente di parlare di "idee innate" ;) ). Se si crede in questi fattori (cognitivi, logici e culturali), l'innatismo delle idee non è più necessario; se poi queste spiegazioni non vengono ritenute adeguatamente falsificanti l'innatismo, allora certo che resta una posizione più che plausibile :)


Tutto dipende da cosa si intende per "anima": se la si concepisce come sostanza spirituale del tutto separata e slegata dalla materia, allora si avrebbe ragione nel pensare che ammetterne l'esistenza, pur non essendo illogico, sarebbe del tutto demotivato dal punto di vista argomentativo. Ciò in quanto l'assoluta separazione anima-corpo condurrebbe la prima alla totale esclusione della prima, dal complesso dei legami causa-effetto che costituiscono la realtà considerata sul piano della razionalità. Se argomentare razionalmente la presenza di un ente vuol dire porlo come principio causale per rispondere a dei "perché", allora l'isolamento dell'anima dai rapporti causali con il resto degli enti ne determinerebbe l'irrilevanza esplicativa delle varie questioni teoretiche sulla realtà, in parole povere la non-razionalità, la non-necessità di legittimare razionalmente la sua esistenza. Lo stesso Cartesio provò maldestramente a correggere il suo radicale dualismo sostanzialista res cogitans-res extensa cercando nella ghiandola pienale una sorta di medium tra le due sostanze. Suppongo, una mia modesta interpretazione, si fosse reso conto che la totale separazione avrebbe reso impossibile qualunque spiegazione razionale dei fenomeni psicofisici costituenti l'unità della persona, in quanto anima e corpo, in assenza di qualunque punto di contatto, sarebbero slegati da ogni interconnessione causale. Accanto a tale concezione c'è però quella classica, soprattutto aristolelica, per cui l'anima non è sostanza separata dal corpo, ma forma immanente ad esso, e questa immanenza (non identità), le restituisce una ragion d'essere come causa formale della materia, principio che attribuisce un senso determinato e delimitato alla materia, costituendola come corpo vivente, "animato" appunto. In questa concezione l'anima torna ad essere concetto dalla dignità razionale, in quanto la sua presenza risponde a una decisiva questione, la ragion d'essere della differenza fra materia inanimata e materia vivente, nonché, grazie alle varie tipologie di "anima" (razionale, sensitiva, vegetativa), delle diverse configurazioni interne agli esseri viventi, le persone rispetto agli animali, gli animali rispetto alle piante... L'impressione personale è che per chi sostiene pregiudizialmente una visione materialista e scientista della realtà (non mi riferisco a Phil o a nessun altro in particolare, ma ad un generale "sentire comune") faccia molto comodo ritagliarsi un "nemico" su misura, facile da sconfiggere, uno spiritualismo della prima concezione, uno spirito del tutto scisso dal complesso della realtà fenomeno d'esperienza, da ogni nesso di causalità, che avrebbe la stessa legittimità razionale del pappagallo invisibile, la cui presenza potrebbe essere testimoniata solo per atto di fede, o che potrebbe manifestarsi non come principio sistematicamente presente, ma come saltuario fenomeno  emergente in sedute spiritiche, evocato da santoni, medium, ciarlatani. Uno spiritualismo, che è solo la parodia di se stesso, perché lo spiritualismo autentico, frutto di una solida tradizione metafisica speculativa razionale, potrebbe creare ben più grattacapi ai materialisti.

Certamente l'interno va verificato, ma perché sia davvero "interno" il modo di verificazione non può essere lo stesso dall'esterno, perché altrimenti i risultati non potrebbero divergere rispetto a quelli dell'esperienza esterna, e il metodo d'indagine non potrebbe essere adeguato a cogliere un ambito del reale, l'interiorità, confondendola con l'esteriorità, proprio quella realtà che si era rivelata insufficiente per rispondere a quelle domande, che poi appunto ci hanno portato a rivolgere l'attenzione all'interno. La presenza di nozioni originarie alla nostra mente è ricavabile, a mio avviso,  all'interno di una gnoseologia in cui il meccanismo conoscitivo viene considerato astraendo dalle circostanze storiche-fattuali in cui si attua, per considerarlo nella sua essenza, cioè dotato di strutture aprioristiche che reggono la possibilità del processo, e che in quanto aprioristiche sono anche originarie. Escludere la presenza di tali nozioni originarie in quanto non riconoscibili da un modello di ricerca verificazionista valido per la verificazione dell'esperienza esterna (induttivo e osservativo-sensibile) vorrebbe dire dare pregiudizialmente per scontato che l'unico metodo di ricerca razionalmente valido sia di questo tipo, mentre un'affermazione di questo genere sarebbe proprio la tesi che l'antiinnatismo dovrebbe essere chiamato a dimostrare, in quanto presupporrebbe che un'esperienza interiore autonoma da quella esteriore sarebbe impossibile per assenza di contenuti propri: in pratica nel negare concetti innati in quanto non ricavabili dalla verificazione esterna sensibile e nel pensare tale tipo di verificazione come l'unica possibile vuol dire cadere in un circolo vizioso argomentativo


#395
intanto mi fa piacere che il topic sia decollato, e vi ringrazio, anche se so che qua non ho "alleati" a sostegno delle mie tesi   

Rispondo a Sgiombo: 

"Per conoscere (limitatamente, parzialmente) un ente o un evento non è necessario disporre delle nozioni della totalità delle sue possibili determinazioni, ma di almeno qualcuna sì, altrimenti non se ne sa alcunché, non lo si conosce per nulla (per definizione)."

  

L'intelligibilità non la intendo tanto come sinonimo di "comprensibilità", bensì come carattere dei contenuti che apprendiamo attraverso la mente, e non dai sensi corporei. Tuttavia il nesso comprensibilità-intelligibilità è un dato fondamentale per rendersi conto che riducendo la relazione gnoseologica soggetto-oggetto allo stadio della pura esperienza sensibile nessuna conoscenza del mondo sarebbe possibile, perché sono le categorie ideali, cioè intelligibili che permettono alla mente di individuare, dal flusso dei dati sensibili, delle forme distinte che poi permettono la concettualizzazione degli oggetti e la conseguente possibilità di legare tali oggetti in nessi di causa-effetto, rendendo così il mondo comprensibile. E dunque dato che tale concettualizzazione è resa possibile dalla presenza originaria in noi di un sistema di categorie (tra cui rientrano ad esempio la nozione di "causalità" e di "unità"), questo sistema non potrebbe essere il derivato da alcuna dialettica di concetti precedentemente assunti, dato che ogni concettualizzazione la presuppone.



 
 

"Non è vero che "La conoscenza implica sempre l'adeguatezza del soggetto alla natura dell'oggetto";per esempio un soggetto del tutto incapace di nuotare può benissimo avere una più che adeguata comprensione del concetto di "nuoto" o uno che non abbia mai ballato può benissimo avere una più che adeguata comprensione del concetto di "walzer" o di "tango"; nessun critico d' arte che io sappia sa scolpire, ovvero è minimamente "adeguato alla natura delle sculture", ma ciò non impedisce loro di parlare a ragion veduta dei bronzi di Riace o del Mosè di Michelangelo. La conoscenza (teorica), ben diversa dall' operare pratico, non implica necessariamente la capacità pratica di realizzare ciò che si conosce (teoricamente; avverbio pleonastico)." 



Io non so nuotare e di fatto non conosco la tecnica adeguata per saper nuotare, se la conoscessi, magari dopo averla imparata con delle lezioni, potrei applicarla e nuotare. Ciò che posso sapere del nuoto è qualcosa di generico, come il significato del concetto di "nuotare", ma questa conoscenza generica può solo limitarsi a farmi riconoscere cosa intende dirmi qualcuno se mi dice: "ieri mi son fatto una bella nuotata", cioè so che intende dire di aver attraversato un certo corso d'acqua. Lo stesso dicasi del ballo, in ogni caso ogni livello di conoscenza di una certa cosa coincide con un certo "rendersi simile" all'oggetto. Lo stesso critico d'arte, per quel che ne so, non si occupa delle tecniche di creazione artistica, non è tenuto a conoscerle nel dettaglio, quindi non ha bisogno di essere a sua volta un artista. Il suo lavoro consiste in un'ermeneutica del prodotto finito, un'analisi dei dettagli estetici dell'opera finita che li riconduce alle idee, le intenzioni, le influenze dell'artista, riuscendo così a coglierne il senso. Per far questo il sapere di cui ha bisogno è essenzialmente dato dalla ricostruzione del periodo storico in cui l'opera è stata compiuta, il contesto sociale, culturale, politico, la biografia dell'autore... mentre può sorvolare (fino a un certo punto) sui dettagli tecnici della fabbricazione dell'opera. Il critico d'arte non è un restauratore. Sinceramente ce li vedo poco Sgarbi (laureato in filosofia) o Bonito Oliva come esperti dei processi chimici di conservazione degli affreschi o delle pitture a tempera... Anche qua emerge che la pratica altro non è che applicazione performativa della teoria, e ciò conferma il principio di corrispondenza del soggetto con l'oggetto nella conoscenza: ogni pratica presuppone sempre un adeguarsi del soggetto alla natura dell'oggetto per manipolarlo sulla base dei propri fini, e l'adeguazione presuppone la conoscenza della realtà oggettiva, cosicché la conoscenza teorica di un soggetto nei confronti di un oggetto viaggia parallela rispetto al "farsi simile" del soggetto all'oggetto che conosce, per potervicisi adeguare e dunque agire su di esso pragmaticamente.


 

 

 
 "Prova a convincere un neonato o anche solo un bambino di tre anni che sa parlare di rendersi conto che conosce i concetti di cui sopra ma semplicemente non ci sta facendo caso; ovviamente non: insegnandogli a posteriori quale ne sia il significato, ma solo dicendogli di fare bere attenzione a ciò che, sia pure un po' distrattamente, di già conosce, ha già in mente (sia pure in uno stato di "ombra provvisoria", ma non per questo interiormente assenti); dicendogli. "pensaci bene!", come quando si cerca di fargli ricordare qualcosa che conosce ma al momento non riesce a rammentare, per esempio dove ha appoggiato il cappello che attualmente non si trova.
Al concetto di "infinito" (e a tutti gli altri), dopo che lo si è acquisito a posteriori, non si fa caso se, per esempio, si sta guidando in un traffico intenso e convulso che richiede grande attenzione e concentrazione nella conduzione del proprio veicolo; ma basta fermarsi e fare attenzione a ciò che si sa (avendolo imparato a posteriori), ai propri ricordi in proposito, per richiamarlo prontamente alla mente cosciente; se invece non lo si è previamente imparato a posteriori, allora non c' è attenzionamento, "spremitura delle meningi", per quanto poderosa, che tenga: non lo si ricorda. Se prima qualcuno non ce lo ha insegnato o non vi siamo arrivati autonomamente per astrazioni dalla e ragionamenti sulla nostra precedente esperienza (a posteriori!) non c' è alcun  modo di rendersi conto di conoscerlo.
La cosiddetta "maieutica socratica" che sarebbe in azione nei dialoghi di Platone in realtà non consiste affatto nel prestare attenzione a cose di già conosciute ma momentaneamente trascurate perché "non ci si fa caso", magari in quanto si sta pensando ad altro; è invece una forma di "insegnamento didatticamente non passivo" (cioè non di nozioni trasmesse verbalmente in quanto "già confezionate"), di "guida didatticamente attiva" all' elaborazione "in prima persona" a posteriori di nozioni e concetti attraverso il ragionamento su concetti astratti a partire da sensazioni particolari concrete (un far "ripercorrere" al discente il "cammino" dell' elaborazione dei concetti più astratti e "lontani" dall' esperienza quotidiana, anziché presentarglieli così come sono stati già in precedenza elaborati -sempre a posteriori- da altri prima di lui).

Ogni volta che "ci capita, anche attraverso un richiamo sensibile esterno, di sentire riemergere alla nostra attenzione un problema, un'idea che avevamo dimenticato, o creduto di aver rimosso completamente", allora contemporaneamente al "sovvenire" di tale idea, al rammentarla, all' esserne attualmente coscienti, inevitabilmente siamo coscienti anche del fatto che già la sapevamo, che già altre volte l' avevamo pensata: la "riconosciamo", non la "conosciamo"!
Non così quando leggendo un libro di filosofia o banalmente un vocabolario veniamo a conoscenza (per la prima volta: la conosciamo; e non: la riconosciamo) di un' idea (fosse pure quella di "infinito", di "Dio", di "nulla", ecc.); oppure quando qualcuno "con (pretesa) socratica maieutica" ci fa ripercorre il "cammino mentale", che a partire dai dati particolari concreti della nostra esperienza conduce all' elaborazione (a posteriori!) di essa: in questi casi ci rendiamo ben conto della novità di tale conoscenza, del fatto che essa è stata acquisita "ex novo" e (direttamente in prima persona o indirettamente per trasmissione linguistica da parte di altri) a partire da "stimoli esterni" (e da astrazioni, ragionamenti) a posteriori."


 

 
Il discorso delle rimemorazioni voleva essere un'esemplificazione della non coincidenza fra il raggio degli oggetti sottoposti alla nostra attenzione "attuale", il "rendersi conto" pienamente riflesso, e la totalità dei contenuti interiori della nostra mente, dell'idea per cui non sempre il "rendersi conto" produce dal nulla i suoi contenuti nel momento a-posteriori in cui si pone in atto. Non mi sfugge la differenza tra un procedimento a ritroso che consentirebbe di recuperare all'attenzione delle nozioni già presenti in noi ma comunque derivate da un'esperienza esterna ed un far riemergere contenuti davvero innati. Ma il punto è che per legittimare una posizione innatista (o "apriorista" come sarebbe preferibile dire dato che "innato" rimanda troppo all'idea di nascita, quindi ad un piano biologico di genetica, ereditarietà, riconducibile ad un'impostazione naturalista, certamente interessante e importante, ma che rischia di portarci troppo fuori dal piano strettamente filosofico-trascendentale), non c'è alcun bisogno di negare la necessità dell'esperienza sensibile per la formazione di ogni concetto: perché sia legittimata basta che tale esperienza esterna, pur necessaria, sia riconosciuta come insufficiente alla formazione di certi concetti. Non ho mai negato la necessità dello stimolo esterno, e non mi illudo di poter portare un bambino di 3 anni a fargli pensare a un'idea di infinito o di noumeno semplicemente spingendolo a prestare più attenzione. Ciò sarebbe impossibile, in assenza del raggiungimento della fase di uno sviluppo scandito da eventi esterni che formano le facoltà cognitive astrattive, come l'insegnamento scolastico, ma il punto è che lo "sviluppo" non va visto come creazione dal nullo, ma progressiva attualizzazione di strutture latenti, comunque già presenti in noi. Quando dico che l'esperienza esterna è un' "occasione" per il rinvenimento di nozioni latenti in profondità mica la voglio squalificare o denigrare... ne ammetto la necessità, ma anche l'insufficienza, perché se l'apprendimento esterno fosse sufficiente allora, qua mi ricollego all'osservazione di Paul 11, allora dovremmo porci il problema sul perché un animale non potrebbe raggiungere, a parità di stimolo esterno, gli stessi livelli di sviluppo di una persona. L'unica soluzione è ammettere nella persona un'interiorità distinta da quella degli animali che le consente di non limitarsi ad assorbire passivamente e meccanicamente lo stimolo sensibile, ma a trasformarlo in concetto, oltre che a elaborare idee non identificabili con oggetti dell'esperienza esterna, esperienza che li risveglia in noi ma senza crearli. La pura passività dall'esterno, l'idea della "tabula rasa" sarebbe ammissibile solo presupponendo che a parità di stimolo qualunque soggetto risponda necessariamente allo stesso modo, così non è. Lo stesso concetto di "guida didatticamente attiva" credo testimoni tutto ciò: L'attività è la condizione in cui un soggetto attivo interviene su un oggetto portando qualcosa di sé su di esso, svolge un'attività in un certo modo performativa, foss'anche a livello psichico nel far riafforare, seppur esternamente supportato, alcuni contenuti latenti. Una tabula rasa nella sua vuotezza non potrebbe essere in alcun modo soggetto attivo, anche se non autosufficiente, pura indeterminatezza.

 

 

 

 

Per Phil

la differenza fondamentale tra l'ammissione di contenuti ideale innati latenti nei livelli profondi della psiche e la pretesa che gli altri credano che ho un pappagallo invisibile sulla spalla consiste nel fatto che mentre l'idea del pappagallo invisibile, pur di per sé infalsificabile, non ha nemmeno alcuna ragione di essere creduta, per il semplice motivo che è una credenza del tutto inutile a risolvere dei problemi teoretici riguardo la realtà: Se conoscere vuol dire "conoscere le cause", allora il pappagallo invisibile è totalmente inutile all'ampliamento della conoscenza razionale del mondo, in quanto pur teoricamente non impossibile, non risolve alcuna questione, non risponde ad alcuna possibile domanda. Non è irrazionale, ma è certamente a-razionale. Diversa è la questione delle idee latenti innatamente. Tale idea di latenza trae una sua razionalità dall'essere una possibile soluzione ad una ben sensata questione gnoseologica: l'origine delle idee dal contenuto intelligibile che non troverebbe adeguazione nei contenuti sensibili dell'esperienza a-posteriori. Se l'esperienza esteriore appare, pur necessaria, insufficiente a produrre in noi contenuti qualitativamente distinti da quelli sensibili, cioè le qualità intelligibili, allora occorrerà rivolgersi all'interno. Messe così le cose non si può dire che la tesi innatista sia infalsificabile in assoluto: sarebbe falsificabile nel momento in cui si riuscisse a dimostrare che l'esperienza sensibile fosse condizione non solo necessaria ma anche sufficiente della forma di tutti i concetti (sensibili e intelligibili), e del contenuto di quelli intelligibili, e questo, nonostante le varie obiezioni, non lo vedo dimostrato, almeno per il momento
#396
"finitezza", "diversità" sono concetti intelligibili, anche se sono proprietà di enti fisici, che conosciamo tramite l'esperienza sensibile. Conoscere, e dunque concettualizzare un ente, non  implica la conoscenza di tutte le sue proprietà, motivo per cui io posso conoscere un albero, formare per astrazione il concetto di albero, senza necessariamente conoscere e concettualizzare le sue proprietà, la sua finitezza. Cioè un conto è conoscere cose finite, un'altra l'idea di finitezza. Gli strumenti della percezione sensibile, i campi sensitivi del corpo entrano in funzione quando vengono in contatto con degli oggetti fisici, dei contenuti sensibili che poi ("poi" non da intendersi nel senso di un prima-dopo cronologico), l'intelletto pone come contenuto di un concetto generale, mentre le idee riferite a contenuti intelligibili non avendo un corrispettivo fisico non possono essere appresi dai sensi del corpo, ma sono da sempre presenti nella componente spirituale, o immateriale, dell'intelletto, la cui immaterialità è adeguata all'immaterialità del senso di tali concetti. La conoscenza implica sempre l'adeguatezza del soggetto alla natura dell'oggetto, un soggetto materiale non può adeguarsi a qualcosa di qualitativamente distinto come un'oggettualità immateriale. Per questi motivi trovo inappropriato mettere  la formazione sintetica dei concetti riferibili a realtà fisiche (anche se non esistenti), come l'ippogrifo sullo stesso piano della formazione dei concetti intelligibili come l'infinito. L'ippogrifo, qualora esistesse, sarebbe una realtà materiale, cioè occupante uno spazio, divisibile in parti, quindi ha senso che la formazione di tale idea nella nostra mente sia il frutto della sintesi immaginativa, che unisce un corpo di cavallo con delle ali ( tutte immagini apprese nell'esperienza sensibile). Invece l'idea di infinito non può essere la somma di "finito" e "negazione" come se queste fossero delle ripartizioni spaziali, come nel caso delle parti che uniscono l'ippogrifo. L'infinito ha un senso immateriale, non ha spazialità, e quindi non ha parti che possano formarlo e delimitarlo, e la sua immaterialità lo rende una nozione semplice, primitiva, originaria, un'unità qualitativa sempre presente alla nostra mente. In breve, considero innati i concetti aventi un significato intelligibile come "infinito", "libertà", "giustizia", e come derivati dall'esperienza sensibile quei concetti riferibili a realtà materiali, che in quanto tali entrano in contatto con i sensi corporei, "albero", "tavolo" ecc. E il fatto che non tutti arrivino a rendersene conto della presenza in noi di concetti a-priori è un'obiezione che avrebbe una logica proprio non tenendo conto della distinzione tra "coscienza" e "rendersi conto", cioè tra coscienza e attenzione che ho provato a spiegare prima. La psiche è una realtà complessa e stratificata, di cui non possiamo in ogni momento avere una coscienza piena, la nostra attenzione si dirige un momento su un contenuto psichico, ora su un altro, lasciando sempre dei contenuti in ombra provvisoria, ma non per questo interiormente assenti. Quante volte ci capita, anche attraverso un richiamo sensibile esterno, di sentire riemergere alla nostra attenzione un problema, un'idea che avevamo dimenticato, o creduto di aver rimosso completamente? Eppure non ha senso pensare che tale contenuto mentale sia creato ex novo dallo stimolo esterno. Quest'ultimo è solo l'occasione in cui l'Io è stato stimolato a rivolgere l'attenzione su idee che però riconosciamo come già presenti nella nostra coscienza. Questo mostra la non coincidenza fra coscienza e "rendersi conto", in quanto come potrei riconoscere le idee come riemergenti dal nostro interno se queste non fossero già da prima trattenuti dalla coscienza anche se non oggetto di attenzione riflessa? Mostra cioè come il fatto che il "rendersi conto" di qualcosa accada in un certo momento della nostra esperienza non vuol dire che la sua presenza nella nostra mente si realizza in quel momento, ma che è già in atto in noi stessi precedentemente. Questa non è una petizione di principio che presuppone quel che dovrebbe spiegare, ma un dato fenomenologico che può normalmente manifestarsi nel corso dell'esperienza ordinaria, riconoscibile al di là delle varie opinioni che si possono avere sull'origine dei concetti, nelle varie rievocazioni di qualcosa che non ci appare provenire dall'esterno, anche quando si verifica un concomitante stimolo sensibile, ma da una profondità dei livelli psichici
#397
per Green Demetr



non mi pare di tradire la fenomenologia, che resta una delle mie principali fonti di ispirazione, soprattutto a livello epistemologico, ma che cerco sempre di integrare con degli spunti provenienti da altre impostazioni come la metafisica classica, che mi sembrano teoreticamente validi. La logica intesa come complesso di norme del pensiero necessariamente e universalmente valide, e non relative alla particolarità empirica di un certo tipo di mente, l'uomo di cui abbiamo esperienza, è il succo dell'attacco allo psicologismo nella prefazione delle Ricerche Logiche husserliane. Sarebbe azzardato dire che la deduzione PDNC-riconoscimento realista dell'autonomia delle cose oggettive dal pensiero sia effettivamente una strategia argomentativa usata da Husserl in piena consapevolezza, ma ritengo comunque significativo che proprio l'opera esordiente con la rivendicazione del valore aprioristico della verità degli assiomi logici coincidesse con la fase del pensiero in cui centrale era l'anelito al "ritorno alle cose stesse", che tanto aveva attratto pensatori e suggerito ritorni ad un realismo (addirittura una "nuova scolastica") che avrebbe rivendicato l'oggettività del vero in contrapposizione a epoche egemonizzate dall'idealismo o dal neokantismo storicista. Quello che mi pare si possa dire è che la fenomenologia individua una via di riconoscimento dell'autonomia dell'oggetto dal soggetto di tipo sintetico, che non si contrappone alla via analitica-deduttiva che ho provato prima a esporre (la deduzione dal principio di non-contraddizione al modo d'essere delle cose indipendente dalla loro pensabilità), ma la integra e in un certo senso la completa. Questa via sintetica è la sintesi passiva, il formarsi in noi di schemi e associazioni percettive non come arbitraria creazione dell'Io, ma a partire dalle affezioni che l'Io subisce passivamente ad opera di stimoli provenienti dall'esterno, provenienti da cose, che nel momento in cui mostrano di incidere sulla formazione degli schemi che regolano il corso della nostra esperienza, sono riconoscibili come indipendenti dal soggetto nel loro senso. Credo si tratti di due vie complementari: riconoscere che una cosa non può essere in un modo e nel contempo in modo opposto legittima l'indipendenza della causa che determina il senso delimitato delle cose rispetto al pensiero che comprende alternative ideali che però non le realtà non possono convivere, fonda l'autonomia del reale senza però ancora escludere la possibilità per il soggetto di giungere a un sapere assoluto che progressivamente si sviluppa come sapere cumulativo ottenuto di fronte a una realtà oggettiva ma passiva che man mano svela pienamente se stessa ad una coscienza. Invece la sintesi passiva introduce un'intenzionalità "al contrario" dall'oggetto al soggetto, per cui l'oggetto non è mai possesso definitivo di una sapere soggettivo, ma in quanto attivamente interagisce con l'azione conoscitiva del soggetto lascia sempre aperto un margine di provvisorietà, per la quale gli schemi e prospettive del soggetto sono sempre modificabili in relazione alla ricezione passiva di nuovi dati e informazioni, che escludono la presunzione di legittimare razionalmente di essere arrivati da parte della coscienza umana ad una conoscenza dell'oggetto totalizzante e definitiva, scevra da imperfezioni. Dunque, la via analitica giustifica il realismo nel senso dell'autonomia dell'oggetto dal pensiero nel senso della pura esistenza, la via sintetica, più specificatamente fenomenologica, dà a quest'autonomia un senso ancora più forte, anche gnoseologico, autonomia della realtà oggettiva dalla pretesa di un sapere totalizzante ed esaustivo da parte della coscienza umana finita. E proprio dalla rilevanza della costante possibilità di falsificazione dei risultati dell'esperienza del mondo trascendente, la fenomenologia con le sue riduzioni salva uno spazio di indubitabili evidenze nell'ambito della coscienza trascendentale, dei vissuti immanenti ad essa, che restano intatti anche dopo la messa in discussione della pretesa di verità dei giudizi riferiti al mondo dei fatti trascendenti
#398
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2017, 16:42:15 PMA Davintro (innanzitutto; e anche agli altri amici)  Mi sembra che la critica della credenza in Dio di Feuerbach (mi scuso per l' incertezza, ma l' ho letto molti anni fa, anche se con grande interesse ed arricchimento interiore) non consideri esclusivamente una divinità trascendente; anzi, le religioni più diffuse almeno in Europa ai suoi tempi e principalmente oggetto della sua critica consideravano divinità decisamente immanenti, decisamente "interventiste" ed "attive" nel mondo naturale, più o meno universalisticamente (Cristianesimo, Islam) oppure selettivamente e razzisticamente (Ebraismo) interessate a "redimere" l' umanità dalle sue pretese colpe e ad emendarle dai conseguenti mali a cominciare dall' "al di qua", anche se in un cammino di affrancamento che sarebbe stato portato pienamente a compimento nell' "al di là": divinìtà infatti da pregare, da temere, alle quali chiedere aiuto, financo "miracoloso", anche in "questa vita" naturale e mortale  Circa le argomentazioni centrali di Davintro, personalmente dissento in toto dalla pretesa che concetti che "trascendono" l' empiria dimostrino l' esistenza reale soggetti "extranaturali" (diversi dagli uomini reali), che soli sarebbero in grado di "confezionarli" e di "immetterli a priori" nella coscienza umana. Il pensiero umano nasce e si sviluppa a partire dai dati empirici (a posteriori), principalmente per distinzione ed astrazione. Dalla conta di numeri finiti di oggetti del tutto naturalmente sorge il concetto di "numerazione infinita", cioè di ipotetica continuazione senza fine della conta stessa, dalla constatazione della durata finita di eventi (come la vita umana) del tutto naturalmente sorge il concetto di "durata infinita" o di "eternità", cioè di ipotetica continuazione senza fine della durata degli eventi stessi; tutto questo senza alcun bisogno di un' impossibile reale esperienza concreta di fatto di conteggi infiniti di oggetti o di eventi di durata infinita, né dell' esistenza di soggetti di pensiero extraumani che li "stabiliscano" (o definiscano) e ce li comunichino, esattamente come non c' è alcun bisogno di vedere realmente un ippogrifo o che Dio o chi per esso ci descriva un ippogrifo: basta "confezionarne" il concetto "rielaborando" o "riassemblando" creativamente ma del tutto umanamente e naturalisticamente le naturalissime esperienze empiriche di cavalli ed uccelli e le rispettive nozioni a posteriori. Lo stesso vale, oltre che per tutte le altre caratteristiche del concetto di "divinità", anche per la sua eventuale "trascendenza": dalla constatazione empirica (o dalla facilissima immaginazione a partire da dati empirici a posteriori) di enti ed eventi reali non aventi di fatto alcun rapporto o interferenza con altri insiemi di enti ed eventi reali (per esempio ciò che sta dentro un contenitore ermeticamente chiuso e termodinamicamente isolato che sia sufficientemente lontano da altri oggetti massivi da escludere apprezzabili reciproci effetti gravitazionali con il suo contenuto) del tutto naturalisticamente a posteriori l' uomo generalizza e astrae il concetto di "trascendenza" senza alcun bisogno di (peraltro logicamente assurde e dunque impossibili) constatazioni empiriche dirette, ma nemmeno di "suggerimenti da parte di entità-soggetti di pensiero e comunicazione verbale extranaturali. Basta immaginare (a posteriori) qualcosa che sia con la realtà naturale da noi esperta e vissuta (ed ulteriormente esperibile e vivibile) in toto nelle stesse relazioni nelle quali sta qualcosa che sia separato e non comunicante, per nulla interferente, pur facendone parte, con il resto della stessa realtà da noi esperibile e agibile.  

l'astrazione generalizzante non ha il potere di creare nuovi concetti attraverso una qualitativa trasformazione di concetti preesistenti, ma semplicemente forma concetti universalizzando, o generalizzando da una molteplicità di fenomeni individuali, cioè osservati in un certo particolare spazio-tempo. Ma il senso a cui il concetto che se ne ricava si riferisce non può contenere nulla che non sia nei dati fenomenici da cui l'astrazione ha preso le mosse. Tutte le possibilità ideali di  significato a cui si può associare un concetto o una definizione, nella misura in cui si distinguono tra loro qualitativamente, sono apprese dalla mente umana come dati originari, non derivazioni secondarie da altri. Nessuna quantità di oggetti finiti può produrre in noi l'idea qualitativa di infinito, tra l'altro, come detto nella discussione di prima con Phil, il concetto stesso di "finitezza" non è ricavabile dall'esperienza di oggetti finiti, in quanto la finitezza è una proprietà appartenente a oggetti fisici, come alberi o case, ma il suo significato è intelligibile, quindi l'esperienza esterna può tranquillamente offrirmi il contenuto di concetti sensibili come alberi e case, senza darmi il concetto di finitezza, che resterebbe una proprietà di questi enti senza che la mente se ne accorga e formi ad hoc il concetto di "finitezza", se non fosse che la finitezza essendo intelligibile di per sé rientra nel novero delle idee innate nella mente. Per rendermi conto che qualunque (chiedo scusa per l'orribile gioco di parole) conta di oggetti finiti può essere prolungata in linea teorica senza fine io devo già possedere l'idea di "infinito" apriori, per poi applicarla nella situazione empirica nel rilevare come "senza fine" (cioè infinito) può essere il conteggio. In assenza di tale idea di infinito già in partenza dentro di me, io continuerei a contare all'infinito continuando a pensare che prima o poi il conteggio finirà, perché non avrei concezione di qualcosa che possa essere "senza fine". Una cosa infinita è certamente quantitativamente più grande di una cosa finita, ma non si distingue solo quantitativamente, ma anche qualitativamente: l'infinito è il massimo grado dell'estensione di qualcosa, ciò che esclude altro da se stesso, mentre il finito è sempre limitato da altro da sé. Questo scarto qualitativo non può essere colmato da nessuna quantità, quindi nessuna serie, sempre limitata, di esperienza di cose finite può arrivare a modificare qualitativamente il concetto di finito, l'aumento quantitativo dell'esperienza dei finiti può condurre all'idea di estensioni numeriche sempre più ampie, ma sempre finite, mai al punto di raggiungere l'idea limite, quella che esclude un'ulteriorità sopra di sé, cioè l'infinito. Dunque l'apprensione dell'idea di infinito è primitiva e originaria, non ricavata da concetti qualitativamente distinti da esso. L'errore di vedere l'infinito come idea derivata a-posteriori consiste nella confusione tra "coscienza" e "attenzione". L'esperienza esterna può essere lo stimolo, l'occasione che porta la mente a rivolgere l'attenzione su dei contenuti mentali prima ignorati, ma questo non vuol dire che tali contenuti non fossero già in noi presenti prima senza che ne avessimo piena consapevolezza. Il complesso dei contenuti coscienziali non coincide con ciò su cui riflettiamo rivolgendo l'attenzione, perché la coscienza va vista come un insieme di livelli psichici più o meno profondi, più o meno trasparenti o opaci, solo parzialmente "illuminata" dalla riflessione attuale dell'Io che può decidere di prestare o meno attenzione ai vari livelli. Quindi il fatto che un certo concetto divenga oggetto di attenzione in un certo contesto empirico non vuol dire che la sua presenza alla mente inizi in quel momento e non fosse già latente in noi originariamente.

Con tutto ciò non voglio ovviamente sostenere che tutto ciò di cui abbiamo un'idea sia davvero reale, perché dall'esperienza di cose reali dovrebbero derivare i corrispettivi concetti,, il che sarebbe ridicolo. Occorre distinguere. "infinito", "eternità, "perfezione" non possono essere messi sullo stesso piano dell'ippogrifo. Io posso avere un'idea dell'ippogrifo anche se non ho fatto esperienza di ippogrifi reali tramite l'immaginazione, che agisce sinteticamente. La rappresentazione dell'ippogrifo si riferisce a un essere sensibile, fisico, un insieme di parti, che la fantasia assembla fra loro, mettendo insieme l'idea di un corpo di cavallo con l'idea di ali. Un altro esempio può essere l'idea di fantasma, io ho il concetto di "fantasma" anche non credendo alla loro esistenza, perché, suppongo, la mia fantasia associa sinteticamente l'idea di "persona morta" con delle manifestazioni che il senso comune associa a persone ancora in vita. Concetti come quelli di infinito e di perfezione, proprio perché il senso a cui si riferiscono è immateriale, sono nozioni "semplici", prive di parti, originarie, dunque per comprendere la ragione del loro essere presenti alla nostra mente non basta chiamare in causa l'immaginazione sintetica, che è invece sufficiente a giustificare la formazioni di idee di enti immaginari, ma comunque materiali come l'ippogrifo o l'unicorno
#399
avevo dimenticato di aggiungere la risposta riguardante le verità assolute... Più o meno è così, con una precisazione: non solo gli assiomi logici, ma anche le conclusioni metafisiche che ne discendono consequenzialmente come quelle sull'autonomia del reale dal pensiero di cui prima ho provato a parlare le considero come verità assolute. Ma tra le premesse solide di tale deduzioni inserirei non solo gli assiomi della logica, ma anche il residuo fenomenologico del dubbio portato alle estreme conseguenze: vale a dire, l'esistenza dell'Io come soggetto pensante, le relazioni che legano le varie specie di atti di esperienza vissuta cosciente (percezione, ricordo, empatia ecc.) e le conseguenti ripercussioni a livello antropologico. Tutte cose che meriterebbero discussioni a parte
#400
non solo il principio di non-contraddizione è una verità evidente e inconfutabile, in quanto ogni pensiero che cercasse di metterlo in discussione dovrebbe ammettere l'ipotesi di contraddire se stesso e dunque squalificare la presunzione di verità della sua tesi, ma non credo che tale principio debba essere limitato a un piano iperformalistico e autoreferenziale, ma abbia implicazioni riguardo la realtà concreta, riguardo l'ontologia, ontologia che, come dovrebbe suggerire il suffisso, non dovrebbe essere del tutto scissa dalla logica, ma come un suo particolare campo di applicazione, campo "sui generis", in quanto la riflessione sull' "essere" mira a cogliere le strutture essenziali e necessarie dei fenomeni, dei vari aspetti del reale. Se il principio di non-contraddizione dice che una cosa non può essere se stessa e la sua negazione, mentre dal punto di vista del pensiero posso concepire entrambe le possibilità (seppur separatamente), allora bisogna concludere che la ragione per cui quella cosa è in un modo anziché in un altro non consiste nella sua pensabilità, nel suo essere oggetto della nostra mente, in quanto la nostra mente comprende entrambe la possibilità, ma nella realtà oggettiva della cosa stessa, indipendente dal pensiero soggettivo. Se io tramite l'immaginazione posso avere un'idea della neve bianca ma anche di un altro colore, allora la ragione per cui la neve è bianca e non di un altro colore, non sta nel mio pensiero, che ammette indifferentemente entrambe le ipotesi, ma in una causalità interna alla natura oggettiva della neve che seleziona un possibile modo d'essere attualizzandolo, ed escludendo le altre opzioni. Il PDNC così legittima la "vittoria" del realismo sull'idealismo, legittima l'esistenza di una realtà oggettiva il cui modo d'essere è autonomo dalle idee e opinioni soggettive, con la basilare precisazione che il realismo vincente non è quello volgare, ingenuo, che presume di legittimare l'esistenza di un mondo esterno sulla base della costanza delle nostre percezione su di esso, della fissazione arbitraria di una quantità di verifiche sufficienti che dovrebbe bastare a fondare la certezza dei nostri giudizi, sul dare per scontato l'efficienza dei nostri sistemi percettivi soggettivi nell'offrire una rappresentazione adeguata della realtà oggettiva, bensì un realismo critico e trascendentale

 

A questo punto mi pare di poter rispondere qui a ciò che Carlo Pierini mi aveva chiesto qualche giorno fa (mi scuso per il ritardo) nel topic sul relativismo a proposito della dualità mappa-territorio:  

"1 - Non ho capito se ammetti, o no, l'esistenza di verità assolute;
2 - non mi risulta che il relativismo sostenga l'inesistenza del "territorio";
3 - cosa significa: <<...l'esistenza di un territorio ... costituisce un livello seppur formale e trascendentale di certezza della nostra conoscenza>>?"





Il realismo critico e trascendentale individua la presenza di una realtà oggettiva a livello, appunto, formale, cioè generico, si limita (ma non mi pare poco...) a riconoscere l'esistenza di tale realtà come autonoma dal pensiero in senso generico, ma senza presumere di attribuirle determinati caratteri contenutistici-materiali, con cui cerchiamo tutti noi di "riempirla" nel corso ordinario delle nostre esperienze. Cioè, questo realismo non presume di affermare la certezza assoluta che la neve è bianca sulla base delle osservazioni sensibili, ma afferma che ciò che fa sì che la neve sia bianca o di un altro colore non è dato dal pensiero soggettivo, ma da una causalità reale e oggettiva. Afferma che non possiamo avere la certezza inconfutabile che la realtà sia in un modo invece che in un altro, ma che una realtà oggettiva in generale c'è. Questo livello trascendentale, trascendentale perché livello della realtà come implicazione non ricavata empiricamente, ma dedotta da un complesso di princìpi logici, tra cui rientra il PDNC, dall'evidente valore di verità, livello di realtà il cui modo d'essere non dipende dal pensiero, ma che si avvale delle norme fondamentali del pensiero come condizione di riconoscibilità, rende anche il suo riconoscimento davvero critico, in quanto l'argomentazione non muove dall'esperienza, sempre contingente e falsificabile da nuove successive verifiche, ma da una razionalità solida, che corrisponde alla salda evidenza della verità degli assiomi logici da cui questo realismo viene dedotto. Così realismo trascendentale è anche realismo critico
#401
concordo con Sgiombo

vorrei chiedere a Carlo Pierini, che mi pare ponga i giudizi fondati sull'osservazione sensibile come delle verità assolute e inconfutabili: quale dovrebbe essere il numero di verifiche sufficienti da svolgere prima di essere sicuri che i risultati ricavati rispecchino davvero la realtà oggettiva? Se Popper sostiene che l'osservare 100 cigni bianchi non basta ad essere certi che non possano esistere cigni di colore diverso, allora quale potrebbe essere il numero di cigni osservati dello stesso colore bastante a ottenere tale certezza? 1000? 10000? 1000000? Essendo i numeri infiniti, sarà mai possibile individuare una certa quantità di verifiche bastante a fondare qualcosa (la certezza) che invece è una proprietà qualitativa dei giudizi, qualcosa che non c'è "più o meno", ma che o è presente in modo pieno o non c'è? La quantità (il numero di verifiche) può fondare una qualità (l'inconfutabilità dei nostri giudizi)? Inoltre, si può essere aprioristicamente certi che gli osservatori che hanno scoperto quelle verità delle scienze che lui ritiene definitive e assolute non soffrissero a insaputa loro e delle persone che le stavano vicino di disfunzioni percettive, come il daltonismo che porta a vedere verde ciò che è rosso o viceversa, disfunzioni che getterebbero un'ombra sulle presunte evidenze dei loro risultati?

Il punto non è il relativismo o il tenere o meno conti dei fatti, ma l'errore di non ammettere la differenza o almeno la non-necessità dell'identificazione tra "fatti oggettivi" e nostre "rappresentazioni soggettive" rivolte a tali fatti
#402
Citazione di: Carlo Pierini il 27 Agosto 2017, 20:31:46 PM
Citazione di: davintro il 27 Agosto 2017, 19:01:28 PMl'esempio suggerito c'entra poco col discorso che intendevo fare sull'impossibilità di fondare attraverso verificazioni empiriche la pretesa di assolutezza delle verità dell'esperienza sensibile.
La tua affermazione: <<è impossibile fondare attraverso verificazioni empiriche la pretesa di assolutezza delle verità dell'esperienza sensibile>>, esprime una verità assoluta? Oppure è confutabile? DAVINTRO "Pecora" è una definizione, che sono libero di utilizzare o meno per classificare degli enti individuali, le singole pecore, ma nulla vieta in futuro di utilizzare la parola "pecora" anche per animali che non hanno quattro zampe, CARLO Lo stesso discorso vale anche per la tua definizione di "triangolo" o di "quadrato", quindi non usare due pesi e due misure. E, comunque, io non ti ho chiesto se "le pecore avranno in futuro 4 zampe....", ma ho declinato il verbo al presente: <<le pecore sane hanno 4 zampe>> è una verità confutabile? Attendo una risposta. E se questa ti sembra una domanda troppo difficile, te ne pongo una più facile. L'enunciato <> è una verità confutabile? DAVINTRO Volendo fare un esempio più attinente col tema potremmo chiederci: qual è il livello di nitidezza della percezione sensibile entro cui il pensiero di avere di fronte una pecora diviene una verità assoluta e certe, e non invece il frutto di un inganno percettivo come può essere l'aver bevuto un bicchiere di troppo o un'allucinazione? CARLO Sono io che lo chiedo a te: perché è assolutamente vero che tua madre non è una pecora?

credo di aver capito meglio l'equivoco. Nessun doppiopesismo da parte mia. Ho detto che la risposta alla domanda sulle quattro zampe della pecora dipende dalla definizione di "pecora" su cui comunemente conveniamo: nella misura in cui riempiamo il concetto di "pecora" con determinate proprietà che la definiscano in quanto tale, proprietà tra cui figurano l'avere quattro zampe, allora la deduzione per la quale tutte le pecore (sane) hanno 4 zampe è inconfutabile. La stessa cosa vale per le forme geometriche: nella misura in cui chiamiamo "quadrato" una forma geometrica con 4 lati e "triangolo" una con 3, è inconfutabile il fatto che il quadrato abbia sempre un lato in più del triangolo. L'equivoco sta nel pensare che questo implichi che la conoscenza intelligibile e quella sensibile siano allo stesso modo assolute e inconfutabili, perché in questi esempi avremmo parlato sia di realtà sensibili (pecore) che intelligibili (quadrati e triangoli) e in entrambi i casi abbiamo riscontrato conclusioni indubitabili. Ma non è così. Che deduzioni logiche perfettamente coerenti e indubitabilmente valide possano applicarsi sia nel campo di cose sensibili che immateriali non vuol dire che la conoscenza sensibile possa avanzare pretese di assolutezza pari a quelle dei rapporti logici, non c'entra il fatto che le pecore siano oggetti dell'esperienza sensibile, in ogni caso ogni giudizio in cui a un soggetto si attribuisce un predicato già implicito nella definizione del soggetto ha un valore di verità perfettamente evidente,di un'evidenza aprioristica, non fondata sull'esperienza sensibile, è la sfera che Kant individuò come "giudizi analitici a propri", verità sempre vere fondate sugli assiomi della logica classica, assolute. Non cambia nulla che tutto ciò si applichi a definizioni di realtà materiali (pecore) o a termini di linguaggio formale o enti ideali (A, B, C, triangolo...): l'importante è che la fondazione di tali verità sia sillogistica-deduttiva, cioè fondata sulla coerenza interna dell'inferenza, e non basata sull'osservazione "qui e ora" dei sensi. L'assolutezza della verità che tutte le pecore hanno 4 zampe non è fondata per via empirica come quella sulla rotondità della Terra, ma per deduzione logica, trascendentale, quindi va vista come un'applicazione del piano di verità intelligibili, riconoscibili come valide aprioristicamente, allo stesso modo del principio di identità e non-contraddizione. Diverso è il caso dei giudizi sintetici a-posteriori che cercano il fondamento nell'esperienza sensibile. Sono nato da una pecora? Se nella definizione di "pecora" introduciamo la proprietà di non poter che generare animali della stessa specie, allora il mio non derivare dalle pecore sarebbe una verità assoluta, in quanto analitica a-priori, dedotta dalla definizione di pecora, che le impedirebbe assolutamente di generare animali diverse da altre pecore. Se invece il fondamento gnoseologico del giudizio "mia madre non è una pecora" fosse l'induzione empirica, la forza psicologica dell' abitudine, per cui FINORA non si è mai vista una pecora generare un uomo, allora la qualifica di inconfutabilità o di assolutezza non è razionalmente attribuibile, per le fallacie della generalizzazione induttiva. Come ci ha insegnato Popper, nessuna verifica ripetuta di cigni bianchi potrà portare a escludere del tutto l'esistenza di cigni neri, senza contare la possibilità che i sistemi percettivi entro cui una serie di verifiche sperimentali vengono svolte possano essere difettose (l'esempio fatto prima dei daltonici). Cioè tutto dipende dalla base gnoseologica che fonda la presunzione di verità dei giudizi: una deduzione coerente da definizioni e assiomi porta a certezze assolute, le generalizzazioni dell'induzioni empiriche possono portare solo ad approssimazioni rivolte a questa evidenza piena, si fermano a fondare probabilità, che la forza dell'abitudine porta a scambiare per certezze assolute, e di cui il buon senso comune, non interessato a speculazioni scientifiche e filosofiche rigorose può tranquillamente essere appagato. Questo non è relativismo: se lo fossi dovrei essere d'accordo con Angelo Cannata, che mi pare estenda la dubitabilità sia all'esperienza sensibile che alla logica, mentre io pongo una distinzione fondamentale: l'esperienza sensibile può ingannare, principio di identità e non contraddizione no, pena la caduta nell'assurdità di ogni pensiero.
#403
Tematiche Spirituali / Re:spiritualità e ascetismo
01 Settembre 2017, 01:14:55 AM
Citazione di: Angelo Cannata il 30 Agosto 2017, 18:28:48 PMSi può porre la questione in questi termini: il corpo è in grado di far concorrenza ad altre attenzioni umane sia quando sta male che quando sta bene; quando sta male per risolvere il problema dello stare male, quando sta bene perché un ciliegia tira l'altra, cioè ogni piacere ha la capacità di attrarre a sé l'attenzione proprio perché è piacere. Da un punto di vista naturale non ci sono criteri perché un'attenzione debba valere più di un'altra: in natura le attenzioni si fanno libera concorrenza e vince quella più favorevole alla sopravvivenza in questo mondo. Io però non sono l'universo naturale, ma solo una sua parte; la mia storia personale non è la storia di tutto l'universo naturale. La mia storia personale mi ha dato una particolare inclinazione a riservare attenzione alla cultura, alle arti, alla spiritualità, e allora gestisco le attenzioni riservate al corpo in modo diverso. In questo contesto si pone poi anche il confronto con le altre persone, che hanno altre storie e quindi altri modi e criteri per gestire il rapporto tra le attenzioni. Nel fare il confronto, in base a quanto ho detto sopra sull'indifferenza della natura, non ho alcun diritto oggettivo di accusare alcuno di dedicarsi eccessivamente al corpo o di essere troppo egoista; posso solo presentare le mie particolari sensibilità e metterle a confronto con quelle altrui. Avrei qualche riserva sull'affermazione
Citazione di: davintro il 29 Agosto 2017, 02:14:28 AMEcco perché la spiritualità al suo massimo grado è razionalità
Magari una o certe spiritualità possono ritenere come massimo grado la razionalità, ma la razionalità è solo una minima parte di ciò che nell'uomo può essere chiamato spiritualità. Spiritualità significa vita interiore e la vita interiore non è fatta certo solo di razionalità, né c'è motivo di considerare la razionalità il suo massimo grado. Anzi, quest'affermazione si può considerare un sintomo di ciò che ho detto sopra sulla concorrenza tra le attenzioni: come il corpo, per benessere o per malessere, è in grado di accentrare su di sé le attenzioni della persona e distrarla da altre componenti che a mio parere ne meriterebbero di più, allo stesso modo la razionalità, nel momento in cui viene usata, è in grado di attrarre, farsi apprezzare, al punto da convincerci che essa sia il massimo della nostra spiritualità. Insomma, anche la razionalità è fatta di ciliegie, di cui una tira l'altra fino a distrarre dalla stima per l'irrazionale, il profondo, l'illogico, l'incontrollato, lo spontaneo. Questo forum, impostato come "riflessioni" o "Logos" può essere a rischio di iper razionalismo, ma ho visto non rari post impostati come poesie, narrazioni, libere espressioni di emozioni. Su questo poi nasce il problema del rischio di cadere nel superficiale, nella mancanza di qualità: come valutare la qualità di ciò che si pone come irrazionale? Possiamo pensare che un valido aiuto ci venga proprio da una buona gestione del rapporto con il corpo e da una razionalità che sappia ospitare in sé anche l'autocritica.

certamente la spiritualità è vita interiore che non si riduce alla razionalità, ma è proprio la razionalità quella facoltà che si incarica di permettere al soggetto di assumere un certo livello, sempre finito e imperfetto e provvisorio fintanto che si sta in questo mondo, di dominio di sé, non di cancellare la molteplicità di desideri, di  impulsi, di prese di posizioni volontarie, ma di comporle in un'armonia, un'unità che rappresenti il più adeguatamente possibile i valori profondi della nostra personalità, un'armonia nel quale i valori inferiori non siano negati, ma subordinati a quelle superiori senza confliggere con questi ultimi. La perdita di quest' armonia comporterebbe la lacerazione, la dispersione di tale vita interiore, che senza un'ordine, una gerarchia di valori vedrebbe annullata la sua sensibilità morale. Ogni sensibilità morale indica che per ciascuno di noi ci sono delle cose più importanti di altre, e che in caso di conflitto, di bivio esistenziale, quando occorre compiere scelte occorre comprendere bene quali sono le priorità, i valori superiori PER ME più importanti degli altri. Non penso sia la razionalità a giustificare in termini di oggettività una morale personale rispetto a un'altra, ma ha comunque un compito fondamentale, quello di chiarire a me stesso, tramite la riflessione profonda, l'introspezione ,quali sono per me i valori che maggiormente mi rappresentano e dunque quelli che la volontà autentica dovrebbe riconoscere come primari punti di riferimento delle sue scelte. La razionalità dunque approfondisce il senso di interiorità (dunque di spiritualità) della nostra vita, proprio in quanto è ciò attraverso cui l'Io tende criticamente a chiarire sé a se stesso, guardandosi dentro, in profondità, abbandonando i livelli superficiali della sua esistenza, nei quali resterebbe fermo continuando irrazionalmente a essere "sballottato" dal caotico, cioè privo di forma, ordine e unità, corso di impressioni sensibili, che dal mondo esteriore ci colpiscono nell'immediatezza irriflessa
#404
effettivamente la dualità "mappa-territorio" non potrebbe in alcun modo essere utilizzata per fondare l'idea dell'inesistenza di una verità assoluta, slegata dalla particolarità dei contesti. La mappa non è il territorio, ma non ha neanche la pretesa di identificarsi in esso, questa non-identità non toglie nulla della sua ragion d'essere, della sua essenza. La mappa esiste come linguaggio simbolico finalizzato non al pieno rispecchiamento del territorio, ma ad una rappresentazione simbolica che permetta all'osservatore di orientarsi in esso. Chi disegna la mappa non pretende che sia una fotocopia del territorio, le è sufficiente che i segni simbolici corrispondano simbolicamente a cose reali, ai reali luoghi del territorio, per svolgere la funzione per cui esiste. La mappa ha una ragion d' essere pratica, non teoretica, quindi la sua non-identità col territorio non giustifica per nulla l'inadeguatezza dei nostri sistemi  teoretici interpretativa. La mappa rientra tra gli strumenti del nostro agire pratico, che non è finalizzato a elaborare una visione scientifica del reale, ma ad agire performativamente su di esso sulla base dei nostri interessi. Però è anche vero che il piano pratico e quello teoretico sono distinti ma mai scissi completamente, l'agire pratico sulla realtà presuppone la convinzione riguardo un certo livello di conoscenza della realtà oggettiva. Chi disegna la mappa lo fa sempre in riferimento intenzionale alla percezione del territorio che la mappa è chiamata, simbolicamente, a rappresentare, e che la mappa sia più meno corretta a svolgere tale funzione di rappresentazione, qualunque giudizio circa tale correttezza porta comunque con se implicitamente l'idea dell'esistenza di un territorio reale di fronte a cui la mappa può essere più o meno adeguata. Dunque non solo la non identità mappa-territorio non corrisponde ad una presunta necessaria inadeguatezza di ogni nostro pensiero sulla realtà, ma l'esistenza stessa di mappe presuppone l'ammissione dell'esistenza di un territorio che è il termine di raffronto a cui la validità della mappa è intenzionata, in quanto questa intenzionalità è la ragion d'essere della sua esistenza. La mappa non è il territorio, ma senza il territorio non ci sarebbe alcuna mappa, e l'esistenza di un territorio al netto di ogni possibile imperfezione della mappa, un territorio "X", genericamente inteso, costituisce un livello seppur formale e trascendentale di certezza della nostra conoscenza. Ecco perché personalmente mi ritengo sostenitore di un realismo che ammette la possibilità di errori dei nostri sistemi concettuali, ma che lascia intatta la certezza dell'esistenza di una realtà oggettiva in generale, la cui esistenza è indipendente dalle nostre opinioni soggettive, condizione indispensabile di ogni pensiero su di essa, un realismo non ingenuo, ma critico e trascendentale
#405
Tematiche Spirituali / Re:spiritualità e ascetismo
30 Agosto 2017, 16:06:09 PM
il mio voleva un discorso generale, che lascia certamente un margine di eccezioni, di spiriti magni che hanno potuto trovare nelle privazioni un ambiente favorevole alla loro creatività artistica e intellettuale. Volendo fare una battuta mi verrebbe da dire che se Nietzsche avesse lavorato senza mal di testa avrebbe scritto cose migliori, più lucide e convincenti (non sono un grande estimatore di Nietzsche, pur riconoscendogli spunti geniali, lo considero un pensatore sopravvalutato, che ha ottenuto una visibilità dovuta più che alla validità e rigore logico-argomentativi per la grande brillantezza e l'evocatività della prosa). Il percorso spirituale è sempre personale, si  differenzia in base alla personalità individuale, non è mai una "procedura", un metodo standardizzato e omologante, nessuna sorpresa che un Gautama possa aver trovato l'illuminazione nelle privazioni piuttosto che in un lussuoso palazzo. Ma se si vuole individuare una tendenza dominante mi pare di cogliere che almeno per quanto riguarda i fondamenti della cultura occidentale, su cui posso dire qualcosa, i grandi intellettuali, letterati provenivano da famiglie nobili o comunque benestanti, che avevano la possibilità di delegare i compiti inerenti la sopravvivenza ad un gruppo di servitori, potendo così dedicarsi a delle attività "inutili" dal punto di vista della sopravvivenza fisica, ma costruttive dal punto di vista spirituale,cioè culturale. Ecco perché si parlava di "otium", otium nel senso di disimpegno dal "negotium", dagli affari, dal profitto materiale ed economico, in favore della cura dei piaceri dell'anima, dell'intelletto. I grandi intellettuali della classicità erano tali anche perché potevano permetterselo, la loro nobiltà spirituale era data non dalla privazione dei beni materiali, che possedevano in gran misura, ma dal loro non occuparsene in prima persona per potersi dedicarsi ad altro. Se Platone, Leopardi, Cartesio, Mozart avessero dovuto dedicare gran parte del loro tempo ed energia nelle faccende pratiche di casa o negli affari economici avrebbero dovuto dirottarle dai loro studi, riflessioni, esercizi, il loro talento sarebbe stato molto meno sviluppato, e chissà se sarebbero divenuti i campioni della cultura che oggi conosciamo, oppure stando nell'attualità: se oggi nascesse una persona, dal talento musicale per poter essere il nuovo Mozart, anche sorretto da una grande passione per la musica, ma in una famiglia dalle scarse risorse economiche, che ha difficoltà ad iscriverlo al Conservatorio, che per sbarcare il lunario è costretto a svolgere lavori che non hanno nulla a che fare con la musica, che occupano gran parte della sua giornata, cosa resterebbe del tempo per i suoi studi, esercizi, composizioni? In pratica un talento viene sprecato, e il nuovo potenziale Mozart andrebbe perso all'interno di un sistema di ruoli che non lo rappresenta e non gli consente di emergere, oppure, quante persone oggi rimpiangono di non aver studiato lettere o filosofia all'Università pur avendone una forte passione, perché bisognosi per motivi economici di inserirsi in percorsi accademici-professionali molto più vantaggiosi per trovare in breve tempo un lavoro remunerativo come ingegneria o economia e commercio? Molti purtroppo. Insomma, per me la vera spiritualità non è affatto disprezzo per i beni materiali, ma il dedicare alla loro preservazione e al loro utilizzo un tempo della vita limitato, che non impedisca di concentrare una parte se non totale almeno significativa alla coltivazione dei beni spirituali, godere dei beni materiali senza pensare che l'orizzonte delle esigenze esistenziali si fermi lì. Sono d'accordo sulla solitudine intesa come fattore positivo e necessario della vita intellettuale, ma mi pare che questo sia proprio un ulteriore riprova del mio discorso: la solitudine è un bene che non sempre ci si può permettere, quando si è gravati dalle difficoltà e privazioni materiali le persone sono costrette a legarsi, entrare in relazioni con persone che sappiano supportarci nelle necessità primarie, mentre solo quando si ha la serenità di poter con facilità accedere a ciò di cui si ha bisogno si ha la possibilità di concederci momenti di solitudine, autosufficienza, necessari alla riflessione intellettuale e all'ispirazione creativa.

i nostri desideri sono infiniti nel senso generico che finché si vive non si può smettere di desiderare, ma non tutti i desideri si riferiscono a oggetti materiali e ricchezze, non è affatto detto che l'appagamento dei desideri materiali porti a desiderarne altri della stessa natura, bensì il desiderio può orientarsi al soddisfacimento dei beni spirituali, oppure alla preservazione dei beni materiali che si possiedono già. Comunque dal mio punto di vista il problema non è affatto neutralizzare il desiderio, neutralizzazione che renderebbe sterile la vita, staticizzandola, privandola della spinta verso nuove realizzazioni, materiali o spirituali che siano, ma di differenziare quelli materiali e quelli intellettuali fermando l'intensità dei primi ad un livello che non sia talmente elevato da occupare interamente lo spazio della coscienza o portando la persona a confliggere con i secondi. Sono goloso, mi piace la nutella e la mangio ogni tanto e non c'nulla di antispirituale in ciò, ma se la golosità arrivasse ad un livello maniacale tale a spingermi a rubare i vasetti ad altri, allora si creerebbe un conflitto interiore da cui la dimensione spirituale, la mia coscienza morale, ne uscirebbe sconfitta a sovrastata dagli impulsi materiali, ed è questo il materialismo che un'autentica spiritualità dovrebbe condannare, non il godere della nutella in generale