Ritengo che una delle più forti critiche all'idea che il cervello, inteso nella sua connotazione meramente materiale, oggetto delle scienze della natura, possa essere condizione sufficiente a rendere ragione del fenomeno della coscienza, della sua origine, stia nella constatazione dell'irriducibilità del darsi dei vissuti psichici a livello interiore, nell'esperienza interiore in prima persona, rispetto ai vissuti nelle forme fisiche con cui si manifestano per un occhio che osserva dall'esterno. Questa irriducibilità esprime la dualità tra i vissuti nell'accezione della loro manifestazione fisica e nella manifestazione spirituale, e considera tutta la problematicità di un passaggio causale che porterebbe la prima accezione a determinare pienamente la seconda. Se quest'ultima, la coscienza intesa nell'esperienza interiore del flusso dei vissuti, fosse solo u derivato secondario, un epifenomeno, del cervello, noi dovremmo vivere i nostri pensieri e sentimenti come localizzati in determinato luogo del corpo, allo stesso modo di quando proviamo dolore a una gamba se qualcuno ci dà un calcio in quel punto. Dolore, caldo, freddo sono sensazioni prodotte dal corpo manipolato da uno stimolo esterno fisico, mentre, personalmente, a me non è mai capitato di provare paura nel braccio o gioia o serenità alla ...nuca. Questi sentimenti non sono spaziali perché a mio avviso non provengono dal corpo, che subirebbe l'urto di uno stimolo esterno, ma da una realtà spirituale che la tradizione filosofica identifica nell'anima, intesa come "forma corporis", fattore di unificazione dello spazio corporeo, e che può svolgere tale "compito" di unificazione proprio perché non è di per sé ente spaziale, ma sistema di configurazione dello spazio corporeo, che in tale modo riceve un'unità, un'individualità, l'Io personale. Questo Io, con la sua struttura di motivazioni e valori interiori, è il luogo da dove provengono le mie paure e le mie speranze. Ho paura perché vedo nella realtà minacciati i miei valori, provo gioia se li vedo esaltati e confermati. In ciò consiste l'irriducibilità tra una mera causalità fisica, che accade sempre all'interno di uno spazio, e una causalità motivazionale, che pone come luogo di origine un livello della psiche non percepibile spazialmente. Il cervello è "solo" (si fa per dire...) uno strumento, umanamente necessario, con cui la coscienza interagisce tramite il medium del corpo con il mondo esterno, permettendogli di esprimere delle sue funzioni cognitive, e conseguentemente delle azioni. Ma la coscienza di per sé, non è un complesso di "funzioni", qualcosa che utilizziamo in vista di un fine, uno strumento, ma proprio quella condizione ontologica che ci permette di porre liberamente dei fini per il nostro agire, e dunque è una "luce" che può illuminare il corso della nostra esperienza vissuta anche a livelli psichici oscuri e profondi, nascosti ai nostri strumenti di osservazione superficiali che la coglierebbero solo come "funzioni" in vista dell'agire nel mondo esterno. A questo punto il riduzionismo materialista potrebbe provare a difendere le sue tesi dicendo che la non-spazialità dei pensieri è solo un'illusione dualista dell'Io, squalificando in linea con l'impostazione cartesiana e galileiana, l'esperienza dei dati qualitativi, rispetto a ciò che della realtà è possibile quantificare sulla base di un substrato spaziale: in realtà questa difesa non la ritengo valida, in quanto la coscienza non è un ente come un altro, per il quale sarebbe sempre legittimo quantomeno ipotizzare una "autentica realtà" al di là delle apparenze fenomeniche, in essa al contratio non c'è dualismo tra verità e apparenza, l'essere della coscienza coincide con i nostri vissuti, con il loro darsi come fenomeni, essere e apparenza nella coscienza coincidono.La coscienza è la condizione ontologica che comprende in sé la totalità dei modi con cui un Io fa esperienza del mondo, quindi non ha alcun senso pensare ad una verità della coscienza al di là del complesso dei vissuti esperienziali, perché proprio tali vissuti la costituiscono. Ecco perché l'unico modo a mio avviso di analizzare la coscienza nella sua struttura essenziale è l'approccio fenomenologico, che coglie i vissuti in loro stessi, nelle qualità essenziali del loro darsi come fenomeni alla nostra esperienza interiore in prima persona, non riducendola a misure quantitative, non per svalutare la validità delle scienze che su tali misure fondano i loro risultati, ma per contestualizzarle all'interno di qualcosa di più ampio, il complesso delle qualità della nostra esperienza vissuta, il cosiddetto Lebenswelt, Mondo della vita, di cui le scienze positive sono solo una componente particolare non totalizzante