PHIL
Le due realtà, convenzionale e "ultima" (che sarebbe poi "prima", sia onto-logicamente che crono-logicamente), sono due prospettive che comportano uno strabismo quasi schizofrenico (il rischio c'è
), ma che, in fondo, secondo me, non si escludono necessariamente: pur avendo intuito la realtà ultima, posso attenermi alle regole del "gioco di società" che mi circonda, secondo il quale esistono cose, identità, valori, il mio "io", etc.
Non sono convinto che intravvedere la realtà ultima sia un punto di non ritorno, anzi... non scommetterei che una volta compresa la realtà ultima, il mio corpo debba sublimarsi in un raggio di luce o ascendere nel paradiso dei Budda
e anche le presunte verità assolute (non parlo da buddista!) risultano plausibilmente tali solo nella realtà convenzionale, poiché in quella "ultima" la categoria di verità o di contraddizione non potrebbero (im)porsi; il karma, i piani dell'esistenza, etc. fanno parte della narrazione convenzionale che invita ad orientarsi verso l'altra realtà, tuttavia costituiscono, sempre secondo me, l'ultimo bordo della zattera da lasciarsi alle spalle quando si tratta di scendere...
Per mediare fra le due realtà. si tratterebbe piuttosto di (re)installarsi nel "mondo" da cui si è partiti (vedi "parabola del bue"), seppur con una consapevolezza profondamente differente, che ci faccia tenere a mente che la convenzionalità per cui ci affaccendiamo, è una sovrastruttura artificiale che si erige a picco sulla realtà ultima (forse non c'è altra alternativa all'affaccendarsi... anche in un monastero avremmo faccende convenzionali da sbrigare, seppur con serafica serenità
).
Risposta di APEIRON
Penso che almeno certi buddhisti Mahayana sarebbero d'accordo con te! E anzi su questo è nata la controversia tra i Mahayana e le altre scuole del "primo buddhismo", Theravada compreso. Nel Theravada una volta "raggiunto" il Risveglio, una volta che si è compresa la "verità ultima", non c'è più nient'altro da fare: il monaco continua la sua esistenza enll'imperturbabilità fino alla morte fisica. Alla morte cessano tutte le sensazioni ecc e "rimane" solo l'incondizioato, il nirvana (lo status del monaco risvegliato come forse avrai sentito è indescrivibile). L'idea è però che ottenere la verità ultima corrisponde alla cessazione. Già però prima dell'anno zero alcuni gruppo ritenevano che in realtà i monaci discepoli non avevano finito "il cammino", visto che, secondo loro, esso finisce con la "Buddhità". In sostanza questi monaci erano in disaccordo sul fatto che la cessazione fosse permanente - quasi che fosse un "reame" altro da quello nostro. E nacque l'idea del "nirvana non permanente": in questo "stato" è possibile ritornare nel samsara per aiutare gli esseri senzienti. Ergo l'idea che dici tu del fatto che nemmeno la verità ultima è definitiva ha un riflesso anche dal punto di vista - diciamo - esistenziale. Se niente è fisso, d'altronde, non c'è nemmeno il concetto di "irreversibilità" (ovviamente il "beato" che ritorna non è lo stesso di quello che è "partito", non è differente ecc). In fin dei conti N. (il nostro amico Nagarjuna) diceva che l'obbiettivo della dottrina della "vacuità" non era quello di creare una nuova visione delle cose, ma di liberare la mente da ogni visione delle cose. Da qui la famosa (e malcompresa) equazione samsara=nirvana. Ovviamente un Theravada che si rifà al buddhismo più "antico" tutto questo è problematico: alla morte fisica del "risvegliato" vi è la "fine". Se le ho sparate grosse sul "nirvana non eterno" ( apratisthita-nirvana) spero che il @Sari mi bacchetti a dovere. Comunque lo stesso N. dice chiaramente che "l'obbiettivo è liberarsi da ogni visione delle cose", quindi non mi sorprenderebbe se anche il suo testo va letto in quest'ottica (in fin dei conti a livello di verità ultima ci dice che non possiamo dire né che le cose nascono né che vengono distrutte né che non esistono né che non non-esistono né che sono permanenti ecc)
Per quanto mi riguarda concordo con te. Secondo me voler "scappare" dal mondo "convenzionale" ha senso fino ad un certo punto. La cosa da cui dobbiamo scappare sono le illusioni, i modi sbagliati di vivere ecc, non dobbiamo scappare dalla vita. In sostanza non dobbiamo "essere schiavi" delle convenzioni ma dobbiamo vederle per quello che sono, strumenti per noi. Ma dimenticare le convenzioni secondo me porta fuori strada. Su questo direi che sono d'accordo. Ma come forse hai capito, secondo me le concettualizzazioni sono più di convenzioni
Il problema che ho con i relativismi "occidentali" è che in realtà rimuovendo le gerarchie delle convenzioni finiscono per andare dritti nel nichilismo. Ma i "relativisti", gli scettici del mondo antico (Pirrone, N. ecc) erano ben consapevoli dell'importanza delle gerarchie e infatti non a caso molto spesso erano anche molto "moralisti" (nel senso che avevano un fortissimo codice etico). Di certo per quanto convenzionale fosse la morale, questi filosofi seguivano codici rigidissimi, ben diversi dalla "vita aldilà del bene e del male" di Nietzsche &co. Purtroppo questo è un punto che vedo poco sottolineato quando si fanno confronti tra il "postomodernismo", Nietzsche ecc da una parte e Pirrone, N. & co dall'altra. C'è una differenza sottile ma cruciale e per la sua sottigliezza a maggior ragione deve essere rimarcata con molta enfasi
Le due realtà, convenzionale e "ultima" (che sarebbe poi "prima", sia onto-logicamente che crono-logicamente), sono due prospettive che comportano uno strabismo quasi schizofrenico (il rischio c'è

Non sono convinto che intravvedere la realtà ultima sia un punto di non ritorno, anzi... non scommetterei che una volta compresa la realtà ultima, il mio corpo debba sublimarsi in un raggio di luce o ascendere nel paradiso dei Budda

Per mediare fra le due realtà. si tratterebbe piuttosto di (re)installarsi nel "mondo" da cui si è partiti (vedi "parabola del bue"), seppur con una consapevolezza profondamente differente, che ci faccia tenere a mente che la convenzionalità per cui ci affaccendiamo, è una sovrastruttura artificiale che si erige a picco sulla realtà ultima (forse non c'è altra alternativa all'affaccendarsi... anche in un monastero avremmo faccende convenzionali da sbrigare, seppur con serafica serenità

Risposta di APEIRON
Penso che almeno certi buddhisti Mahayana sarebbero d'accordo con te! E anzi su questo è nata la controversia tra i Mahayana e le altre scuole del "primo buddhismo", Theravada compreso. Nel Theravada una volta "raggiunto" il Risveglio, una volta che si è compresa la "verità ultima", non c'è più nient'altro da fare: il monaco continua la sua esistenza enll'imperturbabilità fino alla morte fisica. Alla morte cessano tutte le sensazioni ecc e "rimane" solo l'incondizioato, il nirvana (lo status del monaco risvegliato come forse avrai sentito è indescrivibile). L'idea è però che ottenere la verità ultima corrisponde alla cessazione. Già però prima dell'anno zero alcuni gruppo ritenevano che in realtà i monaci discepoli non avevano finito "il cammino", visto che, secondo loro, esso finisce con la "Buddhità". In sostanza questi monaci erano in disaccordo sul fatto che la cessazione fosse permanente - quasi che fosse un "reame" altro da quello nostro. E nacque l'idea del "nirvana non permanente": in questo "stato" è possibile ritornare nel samsara per aiutare gli esseri senzienti. Ergo l'idea che dici tu del fatto che nemmeno la verità ultima è definitiva ha un riflesso anche dal punto di vista - diciamo - esistenziale. Se niente è fisso, d'altronde, non c'è nemmeno il concetto di "irreversibilità" (ovviamente il "beato" che ritorna non è lo stesso di quello che è "partito", non è differente ecc). In fin dei conti N. (il nostro amico Nagarjuna) diceva che l'obbiettivo della dottrina della "vacuità" non era quello di creare una nuova visione delle cose, ma di liberare la mente da ogni visione delle cose. Da qui la famosa (e malcompresa) equazione samsara=nirvana. Ovviamente un Theravada che si rifà al buddhismo più "antico" tutto questo è problematico: alla morte fisica del "risvegliato" vi è la "fine". Se le ho sparate grosse sul "nirvana non eterno" ( apratisthita-nirvana) spero che il @Sari mi bacchetti a dovere. Comunque lo stesso N. dice chiaramente che "l'obbiettivo è liberarsi da ogni visione delle cose", quindi non mi sorprenderebbe se anche il suo testo va letto in quest'ottica (in fin dei conti a livello di verità ultima ci dice che non possiamo dire né che le cose nascono né che vengono distrutte né che non esistono né che non non-esistono né che sono permanenti ecc)
Per quanto mi riguarda concordo con te. Secondo me voler "scappare" dal mondo "convenzionale" ha senso fino ad un certo punto. La cosa da cui dobbiamo scappare sono le illusioni, i modi sbagliati di vivere ecc, non dobbiamo scappare dalla vita. In sostanza non dobbiamo "essere schiavi" delle convenzioni ma dobbiamo vederle per quello che sono, strumenti per noi. Ma dimenticare le convenzioni secondo me porta fuori strada. Su questo direi che sono d'accordo. Ma come forse hai capito, secondo me le concettualizzazioni sono più di convenzioni

Il problema che ho con i relativismi "occidentali" è che in realtà rimuovendo le gerarchie delle convenzioni finiscono per andare dritti nel nichilismo. Ma i "relativisti", gli scettici del mondo antico (Pirrone, N. ecc) erano ben consapevoli dell'importanza delle gerarchie e infatti non a caso molto spesso erano anche molto "moralisti" (nel senso che avevano un fortissimo codice etico). Di certo per quanto convenzionale fosse la morale, questi filosofi seguivano codici rigidissimi, ben diversi dalla "vita aldilà del bene e del male" di Nietzsche &co. Purtroppo questo è un punto che vedo poco sottolineato quando si fanno confronti tra il "postomodernismo", Nietzsche ecc da una parte e Pirrone, N. & co dall'altra. C'è una differenza sottile ma cruciale e per la sua sottigliezza a maggior ragione deve essere rimarcata con molta enfasi
