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Messaggi - 0xdeadbeef

#406
Ciao Davintro
Naturalmente non c'è bisogno che io ti spieghi come il liberalismo politico emerga dal sostrato filosofico
anglosassone; un sostrato che già da G.d'Ockham pone al centro della riflessione l'importanza della singolarità
(tanto che non è peregrino pensare che il celebre "rasoio" rappresenti la prima enunciazione di "economia" nel
senso moderno di questo termine).
In sostanza, tutta la storia del mondo anglosassone, e più in generale del mondo protestante, è la storia del
progressivo emergere dell'individuo. Un individuo, fra l'altro, non "libero" nel senso della filosofia "continentale"
e del cattolicesimo (l'individuo anglosassone è un individuo fortemente necessitato, cioè privo di quel libero
arbitrio che connota la visione cattolica).
In forza (o in debolezza...) di ciò l'individuo così come inteso dalla tradizione anglosassone è un individuo
sostanzialmente "buono" (tranne che in rari casi, come ad es. in Hobbes); un individuo che la "simpatia" lega
agli altri individui (in definitiva l'uomo è, come in Spinoza, "homo homini, deus").
Questa scandalosa sintesi per illustrare che già sono presenti tutti quegli elementi che Adam Smith adopererà
nella sua teoria filosofica ed economica; una teoria che ancor oggi rappresenta il fondamento assoluto del
"liberismo" e che è così riassumibile: l'utile individuale coincide con l'utile collettivo.
Sono questi gli elementi che F.A.Von Hayek usa nella sua grandiosa costruzione teoretica (da fiero avversario
ne riconosco comunque il valore). Questi e molti altri, naturalmente...
Von Hayek sostiene che le "entità collettive", semplicemente, non esistono. E' chiara l'influenza della negazione
ockhamiana degli universali come di tutta la tradizione filosofica anglosassone; esse esistono solo negli individui
che le pensano; perciò sono loro, gli individui, le solo entità che possiedono una esistenza "reale".
Ogni "entità collettiva" è il frutto del continuo relazionarsi degli individui; è dall'intescambio fra questi che
nascono gli stati, le leggi ed ogni corpo di intermediazione.
La seconda tesi fondamentale di Von Hayek è, dicevo, lo "spontaneismo". Ogni cosa che nasce "spontaneamente" dall'
interscambio fra gli individui è la migliore possibile (naturalmente perchè, come in Smith, l'utile individuale
coincide con l'utile collettivo), per cui bisognerà adoperarsi affinchè questo sorgere spontaneo delle cose non
sia disturbato da pretese "costruttiviste" (la filosofia continentale, per Von Hayek, è appunto "costruttivista").
Insomma, ho cercato in poche righe di sintetizzare la radice filosofica di quegli elementi che oggi ritroviamo
nell'ideologia mercatista e liberista.
I "corpi intermedi", come ad esempio i sindacati, vengono sempre più tagliati fuori da una contrattazione che è
sempre più fra parti "private" (vedasi come i contratti nazionali di lavoro sono sempre meno importanti). Le stesse
leggi e gli stessi stati, in quanto "entità collettive", sempre più vengono sopravanzati da politiche deregolative
e globali.
Il "mercato" ha ormai assunto connotati ontologici e, direi, totalitari. La tendenza a che esso sempre più sia
"libero" trova la sua evidente radice nella convinzione che ciò che emerge spontaneamente dall'interscambio
fra individui sia la sintesi migliore fra quelle possibili.
Francamente trovo inquietante come un pensatore del calibro di Von Hayek, che non esito a definire come il padre
della modernità, sia così poco conosciuto.
Tutto ci parla di lui, dai programmi di insegnamento delle più prestigiose facoltà di economia ai toni sussiegosi
dei più alti dirigenti economici e politici mondiali. Ma molto altro ci sarebbe da dire...
saluti
#407
Citazione di: Federico Mey2 il 19 Gennaio 2019, 05:12:55 AM
Io propongo un altro concetto, definibile come si vuole, che indica colui che va sia verso il Bene che verso il Male (o meglio: verso il Bene o verso il Male).
Esso è utile per porsi la grande questione filosofica, quasi per nulla posta nella storia della filosofia occidentale, di andare al di là del Bene e del Male.

Faccio un esempio: ci sono 3 individui:
C è il signor Mario Rossi, timido cittadino italo svizzero che vive nei boschi cibandosi di bacche e radici.
A propone: amate immotivatamente tutti C!
B propone: odiate immotivatamente tutti C!
A si può definire morale, moralista, perchè rispetta sia il Bene della società (che "ammette" che qualcuno proponga di amare un altro), sia qualsiasi altro concetto di Bene.
B si può definire immorale, perchè propone odio immotivato, che non rispetta nè il Bene della società, nè l'altra idea di Bene definita prima "etica".

La mia proposta è di mettere sia l'atteggiamento di A sia quello di B in una stessa categoria, io l'ho chiamata, se si vede il mio articolo introduttivo, moralismo di tipo 3,

Ciao Federico
Scusami ma a questo punto sono curioso...
Premesso che la morale E' la "scienza della condotta" (Dizionario Filosofico - N.Abbagnamo, tanto solo per
chiarirci su quale "lingua" vogliamo usare...), è chiaro che definiremo "morale" la condotta verso il "bene"
ed "immorale" quella verso il "male". Ma ti voglio fare anch'io un esempio...
C'è un tale di nome Adolf che ritiene sia "bene" lo sterminare gli Ebrei...
Vi sono altri che invece lo ritengono un "male": chi ha ragione?
Se dovessi giudicare io, direi che da un punto di vista "oggettivo" ed aprioristico (che è il punto di vista
della filosofia continentale; oltre che il mio) Adolf ha torto marcio. Ma dal punto di vista "soggettivistico";
utilitaristico e relativistico; non posso dire che Adolf abbia torto. Cioè, ce l'ha "per me", ma non in assoluto,
visto che ho espunto l'assoluto dal mio metro di giudizio.
A parer mio, con "al di là del bene e del male" Nietzsche intendeva proprio questo (intendeva cioè il bene e il
male come categorie oggettive, aprioristiche e perciò assolute).
saluti
#408
Ciao Sgiombo
No, ricordi proprio bene...
In effetti Stuart Mill, ma non solo, rappresenta un pò una visione singolare nel panorama della filosofia
anglosassone (una visione alla fin fine che risente molto delle influenze della filosofia "continentale").
Anche in politica ebbe posizioni non proprio "ortodosse" (vedi il mio ultimo intervento in: "Cos'è il
populismo?").
Diciamo che la filosofia anglosassone si struttura su posizioni soggettiviste (e relativiste) almeno a partire
da G.d'Ockham e dalla sua critica agli "universali". Ciò che qui voglio dire è ben esplicitato nel pensiero di
Adam Smith: all'uomo basta seguire il proprio utile/bene individuale, perchè la somma di questi costituirà
l'utile/bene della collettività (per tramite della celeberrima "mano invisibile").
Il "bene" dunque (quindi implicitamente la moralità, che è la condotta rivolta al "bene") come perseguimento
utilitaristico delle proprie pulsioni soggettive, in chiara antitesi alla visione della filosofia "continentale",
per la quale il "bene" è un qualcosa di oggettivo, di aprioristico; di non legato al perseguimento dei desideri
individuali.
saluti
#409
Tematiche Filosofiche / Re:Leopardi e il Nulla.
18 Gennaio 2019, 14:02:52 PM
Citazione di: Socrate78 il 09 Gennaio 2019, 20:39:49 PM
Ho sempre considerato (sia pur non condividendolo o forse comprendendolo del tutto....) affascinante il pensiero del poeta Giacomo Leopardi, soprattutto ritengo che la sua statura filosofica sia da approfondire e sia stata sottovalutata.

Ciao Socrate
A me sembra (lo dice esplicitamente nelle Operette Morali) che Leopardi abbia inseguito eccome il successo
nella vita, quindi che non abbia pensato al piacere che esso evidentemente procura come ad una illusione...
Mi pare di poter dire che per lui il successo (la fama letteraria come il successo con le donne...) fosse
la sola consolazione ad una vita altrimenti priva di qualsiasi senso o significato.
Dicendo che tutte le cose provengono dal Nulla ed al Nulla ritornano Leopardi tratteggia l'essenza stessa
del nichilismo (come afferma anche E.Severino).
Un Nulla che Leopardi intende sia come "non-essere" che come "male". Non vi trovo nulla di ambiguo, visto
che il "non-essere" anch'io lo intendo come "male" (non vedo come non lo possa essere).
saluti
#410
Ciao Federico
Ritengo non di aver, come dire, "sdoppiato" il punto 2; ma di aver dato di questo una rappresentazione oggettiva
di morale laddove ho invece inteso dare al punto 3 una rappresentazione soggettiva.
Affermavi al punto 3: " Atteggiamento filosofico che focalizza l'attenzione dell'individuo sul fatto che il suo
pensare e comportarsi sia necessariamente Bene o Male, o meglio sulla necessarietà della loro esistenza".
Ora, io interpreto tutto questo in senso soggettivo (cioè relativo), e lo ricollego con l'immagine classica che
del termine "moralità" dà la filosofia anglosassone, per la quale il "bene" è ciò che il soggetto pensa sia bene.
Ora, è da questa premessa che la filosofia anglosassone arriva a definire come "morale" qualsiasi condotta volta
a perseguire il proprio desiderio o utile (per cui si arriva sinteticamente a definire il "bene" come l'oggetto
dell' utile individuale).
A mio parere, con "al di là del bene e del male" Nietzsche si riferisce proprio alla visione della filosofia
anglosassone. Se l'uomo persegue la "volontà di potenza", allora la persegue in quanto crede che quella sia
il suo utile, il suo "bene" (vedi anche il mio: "La volontà di potenza da un altro punto di vista", a pag.2).
saluti
#411
Ciao Federico
Se ho ben compreso (mica facile...) la tua idea della morale è quella individuale, tipica della filosofia
anglosassone.
Cioè, se con quel termine, "morale", noi indichiamo la "condotta verso il bene", la specificazione si sposta
su questo secondo termine, "bene", del quale sono dati essenzialmente due significati.
Il primo è quello classico, che intende il "bene" come un qualcosa di "in sè" (in sostanza di assoluto); il
secondo è appunto quello della filosofia anglosassone, che lo intende come "bene per me che lo penso" (relativo).
In quel che scrivi, a me sembra appunto di rilevare questa tua preferenza per un "bene" come "ciò che tu pensi
sia bene".
Quanto a Nietzsche io non penso affatto che egli intendesse "andare verso il male". Penso invece che la sua idea
della moralità sia equivalente alla tua.
saluti
#412
A Davintro
Perdonami la schiettezza ma quest'idea così, "naive", che tu hai del liberalismo sarebbe andata bene per un
opuscolo di propaganda anticomunista degli anni 50...
Di poco posteriore a tale data (mi sembra 1962) è l'idea dell'"imposta negativa", che M.Friedman formulò
probabilmente proprio per motivi politici e propagandistici (spero si ammetterà che quella fu un'idea ben
singolare sulla bocca di chi pronunciò il celebre: "in economia non esistono pasti gratis").
Il liberalismo che tu tratteggi è quello tipico dei J.Stuart Mill, dei F.D.Roosevelt, cioè un liberalismo nel
quale il potere politico è ancora preminente su quello economico (esemplare, dicevo in un intervento precedente,
è l'idea di J.Stuart Mill di uno stato che redistribuisce secondo criteri di giustizia sociale la ricchezza
prodotta dal mercato secondo criteri economicistici), ma non è più così ormai da un pezzo...
Con ogni evidenza il liberalismo, oggi, è profondamente cambiato. Ed è cambiato essenzialmente da quando si
è avuta una commistione fra la teoria classica (Smith, Spencer etc.) e la teoria della Scuola Marginalista.
All'interno della Scuola Marginalista infatti abbiamo quello che a parer mio è il "cantore massimo" del
liberalismo moderno, quel F.A.Von Hayek che pubblicò quell'opuscolo, "Liberalismo", cui G.Urbani curò la
traduzione in italiano in occasione della nascita di "Forza Italia" (1994).
La tesi (filosofica) centrale di Von Hayek è lo "spontaneismo", cioè il movimento di interscambio fra
individui che crea, esso, il diritto, quindi la "politica" e le istituzioni statuali.
Su questa base, Von Hayek teorizza un "laissez faire" radicale, che deregola ogni cosa e tutto lascia
alla contrattazione privata, con lo "stato" ridotto a garante della sola sicurezza e validità dei contratti
(come nello "stato minimo" teorizzato dal filosofo del diritto R.Nozick).
Queste, in breve sintesi, sono le basi da cui sorge l'esigenza di eliminare qualsiasi statualità (con la
globalizzazione); qualsiasi corpo sociale intermedio (ad esempio il sindacato) che potrebbe frapporsi
nella contrattazione privata fra individui.
Ma, soprattutto, questa è la base per cui oggi sempre più è l'economia che detta le regole alla politica...
Non comprendere la mutazione cui è andato incontro il liberalismo dalla fine della Guerra Fredda vuol dire
non comprendere lo stesso liberalismo e, per quel che qui ci interessa, non comprendere perchè è sorto
il "populismo" come movimento di reazione all'estremismo liberale.
saluti
#413
A Davintro
La tua è una immagine fra le tante del populismo; una immagine che certamente possiede una propria legittimità
(mi sento di condividere alcune tue osservazioni) ma che non esaurisce di certo la tematica.
Alla tua immagine potrei, ad esempio, opporre quella di Chomsky che dicevo in apertura, così come diverse altre
(compresa immodestamente la mia, che sostituisce il termine "popolo" alla "popolazione" di Chomsky).
Naturalmente, e lo dicevo, non mi sfugge che il cosiddetto "populismo" possa avere delle pericolose derive
(soprattutto xenofobe), come del resto le possono avere tutte le forme che la politica può assumere.
Da questo punto di vista, più che polemizzare sterilmente per le uscite di Salvini o di Di Maio (sulle quali
il mio giudizio non è certamente molto difforme dal tuo), riterrei fruttuoso un confronto sul come il populismo
sia potuto riemergere così prepotentemente; ed allora, forse, ad affiorare potrebbero essere certe pesantissime
responsabilità delle classi dirigenti "liberali"...
Affermi: "Per competenza andrebbe intesa la capacità di una adeguata classe dirigente politica di saper sviluppare
in modo più razionale ed efficace possibile una sintesi che tenga conto il più possibile della molteplicità delle
differenti esigenze in seno al popolo".
Io non vedo affatto "competenze" che vanno in tal senso. Vedo invece "competenze" che con il liberalismo classico
non hanno più o quasi nulla a che vedere (vedi anche il mio post: "Il sistema - capitalismo e mercatismo").
Nel liberalismo classico il potere statuale aveva ancora un ruolo (tanto che J.Stuart Mill poteva parlare di uno
stato "redistributore" della ricchezza prodotta dal mercato); nella dimensione ontologica e totalizzante assunta
oggi dal mercato lo stato, e con esso la società o la comunità, non hanno alcun potere di reindirizzare le orrende
storture che la selvaggia competizione mercatistica globale produce.
Oggi non esiste (diciamo...almeno per alcuni paesi) una classe dirigente politica che tiene conto delle differenti
esigenze in seno al popolo. Oggi esiste una classe dirigente politica che serve solo ad attuare le direttive che
altri prendono (in genere i potentati economici e finanziari). E queste direttive consistono essenzialmente nell'
eliminazione progressiva di qualsiasi statualità (globalizzazione) e di qualsiasi corpo sociale intermedio (ad
esempio il sindacato), riducendo la società ad un insieme di individui le cui relazioni interpersonali sono
regolate da un "contratto" di tipo privatistico.
Così come ad esempio ha fatto il governo di A.Tzipras in Grecia, che ha ridotto in braghe di tela il proprio paese
per permettere ai colossi tedeschi di mangiarselo.
Oggi persino Juncker recita il "mea culpa" ributtando indietro molte responsabilità sul Fondo Monetario
Internazionale; ma era evidente a tutti che quei provvedimenti erano irrazionali e sbagliati prima ancora di essere
socialmente ingiusti.
Con ciò non intendo certamente aprire una discussione in merito (la situazione Greca è molto complessa ed articolata),
ma intendo almeno un attimino far riflettere su questi "competenti" e sul come essi gestiscono la "cosa pubblica".
Oggi, parlare di liberalismo nei termini classici è come parlare di comunismo senza avvertire che c'è stata la fine
dell'URSS e il crollo di tutti i regimi nell'Europa dell'est...
saluti
#414
Citazione di: everlost il 15 Gennaio 2019, 19:48:31 PM
Caro Oxdeadbeef,
mi sa che le tue domande cadono nel vuoto. Forse non si può o non si vuole rispondere perché farlo comporterebbe per molti un esame di coscienza con relativo mea culpa, troppo duro da digerire quando si è convinti di aver agito sempre bene e nell'interesse della patria. Errare è umano, un concetto sgradevole e difficile da accettare, soprattutto quando si agisce con ottime intenzioni.
D'altra parte, se i governanti e i vari analisti/commentatori politici in auge si fossero posti un bel po' di tempo prima le tue domande, non saremmo arrivati a questo punto.

Il populismo infatti non nasce oggi e non sarebbe giusto darne tutta la responsabilità ai neopolitici, come se l'avessero tirato fuori dal cappello per intortare gli elettori sprovveduti.

Secondo me nel nostro Paese c'è sempre stato, nell'aria e nella cultura.
C'entra anche molto la religione, nel senso che il cattolicesimo ha sempre avuto un forte connotato populista, malgrado la Chiesa temporale abbia formato una solida struttura antidemocratica  simile a quella feudale.


Ciao Everlost
Diceva (giustamente) G.Sartori che il potere politico o è democratico o è autocratico: non vi è una "terza via" (in
realtà sulla scia di Machiavelli: "nella storia si son visti o repubbliche o principati").
Per cui io questa storia dei "competenti" non solo non la capisco; ma non capisco come facciano persone
indubitabilmente intelligenti ed acute a tirarla sempre in ballo (assieme ad una presunta "complessità" di cui questi
"competenti" sarebbero i soli sacerdoti possibili...).
Evidentemente siamo al platoniano "governo dei filosofi", una espressione che la storia ha ben dimostrato essere
null'altro che un ossimoro.
Perchè il filosofo, come il competente, non governa; ma governa il "potente" (come diceva quel tale: "è necessario
rendere giusto il forte, perchè rendere forte il giusto è molto più difficile").
In realtà questa storia dei "migliori"; dei "filosofi"; oggi dei "competenti" è servita e serve per tener buono il "popolo",
ed asservirlo con le buone ai propri scopi particolari.
Bisogna dunque sempre e comunque andare dietro ai mal di pancia del popolo? No, nel tempo abbiamo "inventato" la democrazia
rappresentativa proprio per ovviare a questo. Ma prendo atto che neppure più questo basta ai sostenitori della
"competenza"...
Mi permetto allora un suggerimento: si dica chiaramente che da domattina non si vota più, che avendo trovato la "scienza"
definitiva ed indubitabile della politica e dell'economia il "debolismo" del voto "popolare" risulta ormai superfluo.
Sarà un passaggio magari crudo, ma ci eviterebbe tutto questo mare di ipocrisia.
saluti
#415
Citazione di: Jacopus il 15 Gennaio 2019, 08:55:27 AM
Questo intervento si occuperà del populismo esclusivamente dal lato della storia delle idee, tralasciando il campo delle applicazioni pratiche, avendo però a mente che il campo delle idee, se ben analizzato ci permette di capire più a fondo proprio le applicazioni pratiche.


Ciao Jacopus
Condivido molti aspetti del tuo intervento (che trovo brillante). Però a mio parere manchi di approfondire un
passaggio che trovo dirimente...
"Se il nostro cervello più arcaico è tribale (pur se il nostro pensiero culturale ha scoperto il logos isonomico)",
come affermi, allora il tentativo di creare una società mondiale sotto l'egida del mercato equivale ad innescare
una bomba.
Non sfugga, da questo punto di vista, il completo fallimento della società "multiculturale" (o per meglio dire
il tentativo di annullare le diversità culturali nell'abbraccio della cultura dei fast food e dei centri commerciali).
saluti
#416
Citazione di: davintro il 14 Gennaio 2019, 16:40:22 PM
il populismo lo intendo come atteggiamento direttamente implicato e implicante con il totalitarismo.

Ciao Davintro
A parere mio analisi come la tua non tengono nel debito conto di quella crisi della democrazia che è cominciata ben
prima dell'apparire dei partiti cosiddetti "populisti".
Che bisogno c'è di appellarsi al popolo, alla popolazione o all'insieme dei votanti che dir si voglia se già si
sa qual'è la politica da perserguire? Non appare forse spesso anche qui, sulla pagine di questo forum, la figura
(inquietante, se permettete) del "competente"? E chi è che decide della "competenza" quando i legittimi eletti
vengono rimossi con autentici colpi si stato (seppur "soft", come nel caso di Berlusconi)?
Lo decide forse quella "scienza economica" che ha eletto, in quel caso, il "competente" rettore dell'Università Bocconi?
Era forse necessario attendere Salvini e Di Maio per accorgersi dell'indistinguibilità di quelle che una volta erano
la destra e la sinistra? E perchè mai quelle forze politiche sono diventate, nel tempo, indistinguibili?
Qualcuno vuol chiedersi il perchè, prima dell'avvento dei partiti "populisti" (su molti aspetti dei quali il mio
giudizio non differisce molto dal vostro), la gente era schifata dalla politica e non votava più?
Per il momento (per il momento, certo, perchè come dicevo anch'io penso che certe derive siano possibili) a me sembra
che il "totalitarismo" riguardi più la politica cosiddetta "liberale" che il populismo.
Il tentativo c'è stato, molto serio ed ancora in corso, di "pacificare" (nel senso "romano" del termine...) il mondo
sotto l'egida del "mercato"; qualcuno fra gli "intellettuali" ha addirittura profetizzato la "fine della storia" sotto
quel patrocinio.
A volte però la storia replica "duramente" e inaspettatamente, come diceva Hegel...
saluti
#417
Ciao Sariputra
Se non possiamo più parlare di "popolo" allora rassegniamoci al trionfo del mercatismo globale e delle elites
che da esso emergono (e che non vi emergono certo in maniera democratica...).
Certo, vedo bene anch'io che non vi è più un'etica; che non vi sono più valori e principi condivisi; che il
trionfale risultato elettorale dei partiti "populisti" è stato causato più dalla paura e dall'insicurezza che da
"profonde" considerazioni filosofico-politiche, ma qual'è l'alternativa?
Affermi: " non possiamo parlare di 'popoli' ormai , ma di popolazioni che vivono in un medesimo territorio,
sottoposte alle stesse leggi, ma che non condividono etiche e valori comuni".
Ti chiedo quali possano mai essere queste "leggi", visto che la "legge" nasce e trae autorità dall'etica e dal
valore comunemente intesi...
Nel mio intervento d'apertura dicevo che quello che sorge dalla "popolazione" (l'insieme dei residenti) non è
il "diritto" così come inteso dalla filosofia "continentale", ma la "libertà" così come intesa dalla filosofia
anglosassone (pur se sarebbe opportuno fare importanti distinguo).
Ecco, le "leggi" di cui parli non possono essere che quelle di cui la filosofia anglosassone parla come di
"naturali evidenze" (per essa, in origine, erano il diritto alla vita, alla libertà ed alla proprietà, con
tutto il resto del "diritto" lasciato al perseguimento dell'utile individuale).
In parole povere, le "leggi" che sorgono all'interno di una popolazione che non è "popolo" sono quelle della
classica visione utilitaristica ed individualistica (ma ancor peggio, visto che bene o male in quella visione,
quella anglosassone, si sono sedimentati nei secoli degli "anticorpi" che ne hanno limitato i devastanti effetti).
saluti
#418
Tematiche Culturali e Sociali / Cos'è il "populismo"?
13 Gennaio 2019, 12:57:30 PM
Al termine "populismo" sono stati attribuiti diversi significati.
Per me la definizione più semplice e diretta è quella del lingusta Noam Chomsky: "populismo significa
appellarsi alla popolazione. Chi detiene il potere vuole invece che la popolazione venga tenuta lontana
dalla gestione degli affari pubblici". Una buona definizione, ma per me ancora insufficiente.
Con questa accezione infatti il termine "populismo" è indistinguibile dalla specifica forma politica
della democrazia, per cui ritengo occorra un altro "passaggio" esplicativo.
Questo passaggio ulteriore è per me ravvisabile proprio a partire dal termine "popolazione", che in teoria altro
non significa che: "insieme delle persone viventi in un dato territorio" (Treccani). E che è molto
diverso dal significato del termine "popolo", che invece significa (o dovrebbe significare): "collettività
culturalmente omogenea".
Ecco, quindi per me "populismo" significa propriamente: "appellarsi al popolo (chi detiene il potere vuole
invece che il popolo venga tenuto lontano dalla gestione degli affari pubblici)".
Ma perchè questa distinzione, a mio avviso dirimente, fra "popolazione" e "popolo"?
Per un motivo che non ha nulla a che vedere con rigurgiti nazionalistici o xenofobi che, comunque, sempre
sono possibili e che sempre il "populista" dovrà temere come estremizzazione della sua idea originaria
(su questo punto occorre essere onesti e riconoscere la possibilità di questa deriva).
Il motivo fondamentale è che un "diritto", come complesso di norme giuridiche, può sorgere solo e soltanto
all'interno di una collettività culturalmente omogenea, cioè di un "popolo".
Non può sorgere all'interno di una "popolazione", cioè di un insieme di residenti, perchè quello che nella
"popolazione" sorge non è il "diritto", ma è semmai la "libertà" così come intesa dalla filosofia anglosassone.
Perchè succede questo? Essenzialmente perchè all'interno di un insieme di residenti non viene condivisa
nessuna etica comune. Non vi è. ovvero, un "sostrato" culturale comune che permette il sorgere di regole etiche
comuni (vi è solo e soltanto il perseguimento dell'interesse, che porta appunto alla "libertà anglosassone").
Il fallimento delle società "multiculturali" (questo termine sarebbe da specificare) è lì a dimostrarlo.
Questo non significa necessariamente che il "populismo" debba prendere posizioni politiche "escludenti" (non
significa cioè che si debbano necessariamente innalzare muri).
Significa però che il "residente", se vuol diventare parte del "popolo", deve necessariamente e tassativamente
condividerne gli aspetti etico/morali più importanti.
saluti
#419
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Il neo-politico
12 Gennaio 2019, 19:07:54 PM
Ciao Jacopus
Personalmente non ne farei una questione riguardante "questo" governo" (l'ho votato; ne sono parzialmente
soddisfatto ma su alcuni punti la penso sostanzialmente come te), ma riguardante la "competenza" in
generale.
Scusa la provocazione, ma dove hai sentito dire che in democrazia il requisito di un governante dev'essere
la competenza? Da quando in qua è uscita fuori questa novità? Mica da tanto...
A me risulta che, in democrazia, l'unico requisito richiesto dev'essere (notare il verbo, prego) la
legittimazione espressa con il voto.
Non sembri un'affermazione banale o scontata: è l'essenza stessa della democrazia.
E questa affermazione ci rimanda ad una domanda che ritengo capitale: cos'è la democrazia? Siamo poi
proprio tanto sicuri di saper rispondere a questa domanda?
Siamo forse ancora al : "il popolo non sa cosa è meglio per lui" di illuministica memoria? Siamo forse
ancora al platonico "governo dei filosofi"?
A me una cosa sembra certa: che quando comincia a tirare quest'aria la dittatura non è lontana...
saluti
#420
Attualità / Re:La giustizia è misura
12 Gennaio 2019, 17:46:39 PM
Io non la vedo così semplice...
Innanzitutto, mi sentirei di notare come nel caso in questione il discorso si sposti sulla "regola", per cui
mi sembrerebbe il caso di parlare di licenziamento per giusta o ingiusta causa.
Prendo atto che la Corte d'Appello ha annullato la precedente sentenza e reintegrato la lavoratrice. Mi fa
personalmente piacere ma non è questo ad essere dirimente, quanto la sentenza "in sè".
Fra parentesi, mi sembrerebbe il caso di notare come la cancellazione dell'Art.18 toglie al lavoratore
la possibilità di rivolgersi ad un giudice (non era evidentemente questo il caso in questione; forse
la lavoratrice non era neo-assunta o altro), ma non divaghiamo.
Dicevo che nel caso in questione il discorso si sposta sulla "regola"; sulla norma giuridica; ma a ben
vedere l'intero discorso sulla giustizia è, in sè, un discorso sulla "regola".
E' infatti essa, la "regola", che deve contemplare la "misura" (concetto centrale della filosofia greca;
mai indagato a sufficienza nella sua abissale profondità), non la "giustizia", che è tutt'al più legata all'
osservanza di detta regola.
saluti