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Messaggi - davintro

#406
Tematiche Spirituali / spiritualità e ascetismo
29 Agosto 2017, 02:14:28 AM
siamo abituati solitamente a pensare di riconoscere le persone più attente alla spiritualità come quelle che tendono a rinnegare il valore dei beni materiali, delle comodità offerte dalla tecnologia, della ricchezza, che tendono a inneggiare al "ritorno alla natura", al "si stava meglio quando si stava peggio", al mito del "buon selvaggio", di chi rinuncia al superfluo e tende moralisticamente a giudicare le persone troppo attaccate a beni materiali ritenuti (in base al proprio metro soggettivo" superflui. Quella mentalità oggi incarnata ad esempio, per intenderci da uno come Mauro Corona (tempo fa il "cantore" poteva essere Celentano...). Ma è davvero così? Spiritualità vuol dire ascetismo? Ho forti dubbi. Non siamo puri spiriti, siamo unità di spirito e materia, anima e corpo, e la coltivazione dei talenti, delle esigenze spirituali, l'arte, la conoscenza, la politica, in generale tutto ciò che non rientra nel vivere intellettuale, è qualcosa che viene reso possibile solo nel momento in cui le esigenze meramente biologiche di pura sopravvivenza sono soddisfatte, quando i bisogni corporei sono tacitati e la mente può con tranquillità dedicarsi ad attività miranti a fini intellettuali. Si può filosofare mentre si ha mal di denti? Si possono scrivere romanzi o dipingere quadri mentre si è assillati dal bisogno economico, dalle difficoltà di trovare da mangiare e bere, avere un tetto sopra la testa? In realtà la vera spiritualità apprezza e ringrazia i beni e le comodità materiali, che consentono di risolvere facilmente i problemi pratici, legati al "sopravvivere", per potersi dedicare in tutta tranquillità all' otium, alla vita contemplativa, alle esigenze spirituali vere e proprie il proprio tempo ed energie. Tutto l'opposto dell'ascetismo, della mortificazione della carne. Per paradossale che possa sembrare il flagellante medioevale che percuoteva con la frusta il suo stesso corpo per mostrare il suo disprezzo per la materia non era meno materialista del fanatico salutista, del tizio che passa giornate intere in palestra per avere una forma fisica perfetta, o del tipo che giudica il valore delle persone per come si vestono, per quanti soldi hanno, dell'apparenza esteriore. Entrambi, in negativo o in positivo che sia, pongono il corpo in primo piano e l'attenzione verso la dimensione spirituale è quasi del tutto rimossa. Ma la spiritualità autentica a mio avviso non può essere né una demonizzazione, né una glorificazione del corpo, ma la coscienza della non risolvibilità completa della realtà e delle esigenze umane (ma in forme diverse, direi, di qualunque esistenza) nel corpo, ma che è nobile godere anche e soprattutto di una scoperta scientifica, del modo in cui un personaggio letterario viene descritto nella sua interiorità, e non solo nel buon sapore del cibo o nell'attrazione erotica nei confronti di un bel corpo. Sta nella coscienza che il corpo non è tutto ma comunque c'è , e non si può far finta che non ci sia, che non di solo pane vive l'uomo, ma senza pane muore. Il corpo continuamente pone delle esigenze che continuano a occupare l'attenzione della mente fintanto che non sono esaudite, che vanno dai bisogni fisiologici primitivi, fame, sete, sonno, ai piaceri dei 5 sensi, e la persona dotata di profondità spiritualità non li reprime, perché per far ciò dovrebbe negare una parte fondamentale della propria vita, ma li asseconda quel che basta per calmare gli istinti legati a tali bisogni e preservare quella condizione di serenità per andare "oltre" a seguire gli "appetiti" dell'intelletto. In definitiva spiritualità non è ascetismo, ma armonia: equilibrio nel concedere al corpo quelle soddisfazioni necessarie a "calmarlo" e indurlo a mettersi efficacemente al servizio del valori spirituali che ogni persona trova come costitutivi della sua anima, e che pone guida del suo agire, senza produrre conflitti. Ecco perché la spiritualità al suo massimo grado è razionalità: attività di dominio di sé, di composizione della molteplicità delle tendenze psichiche un'ordine unitario della personalità, dunque armonia tra le differenze. Ovviamente la preservazione di tale armonia presuppone da parte dell'Io un grande livello di autocoscienza, di conoscenza delle tendenze psichiche per poterle gestirle in modo equilibrato e costruttivo senza lacerazioni, intuizione della propria sensibilità spirituale e anche della propria sensibilità corporea.
#407
per Angelo Cannata

che la Terra sia piatta o tonda non stiamo comunque parlando di giudizi autocontraddittori, quindi nulla dal punto di vista logico razionale impediva che l'immagine della Terra, ritenuta vera in un certo contesto storico potesse essere superata in favore di immagini supportate da strumenti di osservazioni più efficaci. Altro è il discorso se si parla di leggi del pensiero che una volta smentite renderebbero assurdo ogni pensiero, e dunque lo stesso giudizio teso a smentire tali leggi. L'errore è confondere due piani ben distinti, l'ordine dei pensieri che non sono autocontraddittori, e che quindi potrebbero in linea teorica essere associati a fatti reali, anche se magari il corso delle esperienze ordinarie ci porta a ritenerli assurdi (tipo una pioggia d'oro), che è l'ordine riferito alle realtà sensibili, al mondo esterno, e l'ordine di quelle verità che reggono, anche implicitamente, la possibilità di qualunque atto di pensiero possibile, il principio di identità o di non-contraddizione, ed è scorretto riferire la dubitabilità delle verità del primo ordine anche a quelle del secondo. L'idea della pioggia d'oro rientra pur sempre nelle possibilità del pensiero, tramite l'immaginazione, l'idea che "piove e non piove" è inaccettabile, non è nemmeno immaginabile, è evidentemente assurda, la sua possibilità finirebbe con lo squalificare la validità di qualunque ragionamento. Il discorso sull'oppressione lo trovo fuori luogo. In che modo il principio di identità e di non contraddizione sarebbero strumentali ad una violenza politica-sociale? Le pretese di verità che hanno una rilevanza politica e hanno senso che possano essere contenuti di una propaganda riguardano  aspetti estremamente "materiale" e concreto della realtà ("il nostro partito è fatto solo di gente onesta", "questo sistema economico è migliore possibile"...). Le verità della logica formale non toccano questi aspetti, quindi sono inutilizzabili a giustificare una propaganda di tal genere. Con il principio di identità non puoi certo fondare la pretesa di validità del giudizio riguardo un certo leader politico o riguardo una politica economica. Anzi, se proprio volessimo toccare il discorso politico direi che l'oppressione avrebbe molto più da guadagnare nell'idea che tutto, anche le verità fondamentali come quelle della logica possono essere messe in discussione, cosicché paralizzando di fatto la razionalità, che non ha più fondamenti solidi su cui poggiare, la si impossibilita a ricercare la verità utilizzando il senso critico come disvelamento degli inganni propagandistici delle forme di potere. La razionalità ci rende liberi, ma per farlo ha bisogno di basi solide e inattaccabili.

per Carlo Pierini

l'esempio suggerito c'entra poco col discorso che intendevo fare sull'impossibilità di fondare attraverso verificazioni empiriche la pretesa di assolutezza delle verità dell'esperienza sensibile. Il tuo esempio, nella forma in cui è proposto, riguarda il problema del rapporto linguaggio-realtà attraverso le definizioni, che è un tema ben distinto da quello dell'inconfutabilità dell'esperienza sensibile. "Pecora" è una definizione, che sono libero di utilizzare o meno per classificare degli enti individuali, le singole pecore, ma nulla vieta in futuro di utilizzare la parola "pecora" anche per animali che non hanno quattro zampe, cosicché la confutabilità della tua affermazione dipende dal sistema di definizioni con cui comunichiamo. Ma questo non ha nulla a che fare con quello di cui stavamo discutendo, cioè la legittimità dell'osservazione sensibile di poter fondare verità assolute, nel senso di inconfutabili. Volendo fare un esempio più attinente col tema potremmo chiederci: qual è il livello di nitidezza della percezione sensibile entro cui il pensiero di avere di fronte una pecora diviene una verità assoluta e certe, e non invece il frutto di un inganno percettivo come può essere l'aver bevuto un bicchiere di troppo o un'allucinazione?
#408
vedo che sono preso tra due fuochi... cercherò di non bruciarmi troppo!

Per Carlo Pierini

condivido l'affermazione per la quale la conoscenza reale deve avere di mira la riproduzione fedele delle cose oggettive, ma scorgo il tuo errore di prospettiva nel momento in cui tra le righe identifichi il piano delle cose oggettive con il "mondo esterno", affermando, in linea con le posizioni del realismo ingenuo, che la riproduzione fedele delle cose si attui alla luce di una certa quantità di verifiche empiriche, senza che sia chiaro fino a che punto tale quantità sia sufficiente a legittimare la pretesa di aver raggiunto risultati inconfutabili e non più smentibili. In realtà la riproduzione fedele del reale prevede come momento fondativo proprio una modalità gnoseologica alternativa alla verificazione diretta dell'esterno, cioè la conversione dello sguardo all'interno, alle categorir soggettive, estetiche e intellettuali, della mente. Dal punto di vista scientifico, cioè razionale, non basta la raccolta di dati, ben più importante è la critica, l'autocritica, l'analisi degli strumenti soggettivi di esperienza, di cui occorre valutare l'adeguatezza, i limiti e le possibilità di ciò a cui il loro utilizzo può portare. Questo non è solipsismo, autismo o pedanteria: solo nel momento in cui rifletto su me stesso, mi rendo conto dei filtri che mi impediscono di acquisire un'immagine della reale davvero adeguata alla sua oggettività, e cerco di metterli "fuori circuito" per lasciar manifestare i fenomeni nella maggior "purezza" possibile, nella loro autentica essenzialità. Anche a costo di formalizzare e astrarre maggiormente il discorso. Se un daltonico, sempre vissuto accanto ad altri daltonici, fondasse la sua immagine del mondo limitandosi ad avere acritica fede nelle continue verifiche della sua esperienza sensibile, non si renderebbe mai conto dei suoi errori, scambiando ciò che è rosso con ciò che è verde e viceversa. Solo nel momento riflessivo-autocritico egli prende coscienza del suo difetto percettivo e si rende conto della non-scientificità delle sue rappresentazioni. E chi ci dice i "daltonici" siano una minoranza? Chi ci dice che l'efficienza dei sistemi percettivi sia riconoscibile, in modo meramente quantitativo, solo nelle rappresentazioni della maggioranza degli osservatori o della maggioranza delle verifiche empiriche compite nel tempo? Chi ci dice che ciò che etichettiamo come "allucinati", "paranoici" non siano quelli che davvero vedono le cose così come sono, e i malati siamo invece no "normali"i? Ce lo suggerisce, l'abitudine, il buon senso comune, ma non una solida razionalità scientifica. Non si tratta di svalorizzare l'esperienza del mondo esterno, ma solo rilevarne la sua non-autosufficienza a fondare una scienza che legittimi la qualifica di "assoluto" alle proprie verità (di questo stiamo discutendo), la necessità di integrarla con l'analisi della validità degli schemi soggettivi della coscienza, dei loro limiti e possibilità. Del resto questo mi pare in linea con il senso del tuo topic su "Tematiche spirituali", che hai qui citato, al rifiuto di pensare la conoscenza come passivo assorbimento dell'oggetto da parte del soggetto, all'affermazione di una corrispondenza tra categorie logiche intelligibili riferibili al mondo concettuale del soggetto, e proprietà fenomeniche del mondo reale, punto che dovrebbe far pensare alla necessità di chiarire prima di tutto il punto di vista su noi stessi, per rendere la nostra immagine del mondo oggettiva e adeguata al reale e coglierne la corrispondenza con la nostra dimensione spirituale-mentale.

Anche ammesso e non concesso che le verità assolute della logica formale o della matematica siano astratte dall'esperienza sensibile, ciò non implicherebbe il loro relativizzarsi sulla base della contingenza spaziotemporale sulla base della quale le osservazioni empiriche si svolgono. Occorre cioè distinguere un piano "genetico-psicologico" che spiega il meccanismo fattuale del formarsi nella mente di determinati concetti e riconoscimenti a-posteriori di verità, con la qualità (assoluta o relativa) del loro valore di verità. Anche ammettendo la necessità dell'esperienza sensibile per riconoscere le verità della logica tale necessità sarebbe fondativa del loro riconoscimento nella nostra mente, ma non del fatto che la loro verità sia applicabile solo nel particolare contesto empirico da cui abbiamo fatto astrazione. Confondendo i due piani si cadrebbe nell'idea per cui qualunque affermazione sulla realtà, sia formale che materiale, astratta o concreta, non possa mai essere oggettiva in quanto soggettivistico prodotto dell'esperienza umana, in pratica dovremmo cadere in quell'assoluto scetticismo e relativismo che tu, giustamente, rigetti. Basta solo distinguere l'esperienza sensibile, per la quale resta sempre un dualismo di fondo tra rappresentazione soggettiva del reale e oggettività reale, verso cui la nostra rappresentazione soggettiva tende, ma senza mai arrivare a raggiungerla del tutto, in quanto resta trascendente, cioè distinta dall'immanenza della nostra coscienza, e un sapere intelligibile come quello della logica formale, in cui l'assolutezza della verità è data dal superamento del dualismo soggetto-oggetto, dato che il soggetto pensante pone i propri oggetti (immateriali, non fisici) non come esterni e trascendenti, ma come immanenti al piano delle idee, cioè immanenti a se stesso. Questo è il fondamento dell'indubitabilità della coscienza trascendentale, residuo che emerge nella messa tra partentesi delle presunzioni di verità del mondo sensibile, come messo in luce, in forme diverse da S.Agostino, Cartesio, Husserl. Le verità intelligibili traggono la qualifica di assoluto ed evidenza dalla coincidenza nella coscienza tra "essere" e "apparire".

per Angelo Cannata

anche ammesso che chi dubiti di qualcosa possa dubitare prescindendo dal proporre positivamente alternative, egli dovrebbe dal punto di vista razionale argomentare le ragioni del perché l'asserzione oggetto del dubbio non appare del tutto convincente. Nessuno impedisce di fatto che si possa dubitare di tutto, anche del principio di non-contraddizione, infatti molti lo fanno, ma se siamo in un contesto di discussione filosofica e razionale è necessario porsi le motivazioni del dubbio. Il dubbio è un atto razionale nella misura in cui riesce a individuare zone d'ombra nei suoi oggetti, valide opzioni che coerentemente seguite e sviluppate possono produrre argomenti che mettono in crisi l'evidenza di ciò verso cui si dubita. Dove sarebbero queste zone d'ombra o opzioni che mettono in crisi l'evidenza dei principi logici di identità e non contraddizione? Dubitare solo per il gusto di farlo, dubitare per partito preso è lecito, nulla di male, ma senza motivazioni razionali resta solo un impuntarsi un po' infantilistico che gode nel distruggere senza porsi il problema di creare qualcosa di migliore (anche perché io resto convito che ogni negazione porti sempre con sé implicita un'affermazione positiva, cosicché distruggere senza costruire oltre che inutile sarebbe di fatto anche impossibile). Ripeto, lecito, ma del tutto sterile dal punto di vista di una ricerca razionale della verità.
#409
Citazione di: Angelo Cannata il 25 Agosto 2017, 15:31:29 PM
Citazione di: davintro il 25 Agosto 2017, 13:48:59 PMsotto ai miei occhi, cioè nell'esperienza sensibile dei triangoli e quadrati disegnati, posso dubitare di aver di fronte davvero dei triangoli e quadrati, e non invece cerchi e pentagoni, posso cioè legittimamente mettere in dubbio l'efficienza dei miei sistemi percettivi, ma questo non tocca minimamente l'evidenza assoluta del fatto che il quadrato ha sempre e comunque un lato in più del triangolo. Questa resta un verità assoluta, in quanto perfettamente coerente con le definizione essenziale dei concetti in questione, che resta tale indipendentemente dalla dubitabilità riguardo al fatto che una certa realtà empirica, che osservo in un certo spazio-tempo (un certo disegno di triangolo o quadrato) possa esistere davvero come triangoli e quadrati. Il giudizio di comparazione tra il numero dei lati di una forma geometrica rispetto a un'altra è indipendente dal fatto che gli oggetti che mi stanno ora di fronte corrispondano davvero a quelle forme geometriche in questione. Questa è la distinzione fondamentale fra il piano delle essenze ideali, e quello dei fatti esistenziali
Aggiungerei che è possibile dubitare non solo della percezione, ma anche delle definizioni stesse che ci siamo dati. Io posso pensare di aver stabilito per definizione che un quadrato ha quattro lati, ma non accorgermi che nel processo di definizione, da me posto in essere, possono esserci comunque errori, incoerenze, sviste. In altre parole, l'illusione, l'errore, può verificarsi non solo riguardo alla percezione, ma anche riguardo a qualsiasi azione che implichi il funzionamento del cervello. Detto più in generale, non è possibile verificare alcuna coerenza dei nostri ragionamenti, perché l'unico modo per verificarla sarebbe applicare essa stessa, cioè applicare proprio il criterio di coerenza che intendiamo sottoporre a verifica. In altre parole ancora, non abbiamo alcuna possibilità di verificare la coerenza, l'assenza di errori, la correttezza, di alcuna informazione fornitaci dal nostro cervello, perché qualsiasi tipo di verifica non potrebbe fare a meno di dover passare comunque attraverso il nostro cervello e quindi essere inevitabilmente inquinata dalla sua intromissione.

non sono d'accordo. Le definizioni non sono mai errate o corrette, perché corretto o errato può essere un giudizio, che cerca di rispecchiare la verità di uno stato di cose, ed è corretto se lo rispecchia, scorretto se non lo rispecchia. Le definizioni del linguaggio non sono giudizi, ma segni creati dell'uomo per comunicare ad altri delle idee, che altrimenti resterebbero nell'incomprensibilità della soggettività individuale chiusa in se stessa. Non ha alcun senso dubitare di una definizione, perché in essa non vi è alcuna pretesa di verità su cui convenire o dissentire, sono al di là del vero e del falso, una convenzione umana. Se ciò che comunemente chiamiamo ora "quadrato" decidessimo di chiamarlo in un altro modo, "pincopallino", la sua essenza, il suo senso resterebbe cosi come è, una figura dotata di quattro lati, un'idea, una possibilità logica che resta tale a prescindere dall'essere associato a una certa parola o a un'altra. Il linguaggio non è il pensiero, solo un convenzionale tentativo di rappresentarlo simbolicamente per l'esigenza pratica di comunicare. Non è possibile mettere sullo stesso piano le pretese di verità dell'esperienza sensibile e le pretese delle relazioni logiche intelligibili. La nitidezza della percezione si dà in un'infinita molteplicità di gradi quantitativi, e non ci sarà mai un grado così elevato da poter pensare che la rappresentazione giunta a quel livello possa darmi l'evidenza assoluta della corrispondenza col reale. Invece la coerenza logica interna di un discorso non presenta gradi quantitativi di manifestazione. C'è o non c'è. E quando il discorso è incoerente mostra la sua assurdità in un'evidenza assoluta, che non può essere smentita da gradi di evidenza superiori, perché la coerenza, che determina l'evidenza, non presenta variazioni interne. L'evidenza della falsità del giudizio: "piove ma non piove" non può essere scalfita, perché nel momento in cui si cerca di farlo si cade nell'assurdità dell' autocontraddizione che rende insensato ogni pensiero, compreso quello di chi contesta la validità della logica. Tutto ciò  non impedisce che qualcuno, per amor di disputa e discussione, possa affermare che il principio di identità o di non-contraddizione siano fallibili e dubitabili, ma si tratta solo di un mancato riconoscimento, di un "mentire a se stessi"
#410
Citazione di: Carlo Pierini il 25 Agosto 2017, 02:39:30 AM
Citazione di: davintro il 25 Agosto 2017, 01:18:10 AMproprio per evitare fraintendimenti simili avevo aggiunto una precisazione nella seconda parte del post. Sono convinto che la Terra sia tonda, che si muova, che giri e che il Sole stia fermo... ma non posso esserne certo con la stesso livello di sicurezza che ho nella convinzione che il quadrato abbia un lato in più del triangolo, perché le verità sensibili, probabilistiche, e quelle intelligibili certe, appartengono a due piani diversi di verità. La distinzione tra evidenza piena ed elevata probabilità che all'evidenza piena può solo approssimarsi senza raggiungerla del tutto è uno dei fondamenti di qualunque discussione seria di epistemologia
Quindi, se costruisco un triangolo e un quadrato reali sotto i tuoi occhi, tu non sei certo che quel quadrato reale abbia un lato in più del triangolo reale? E cosa manca al triangolo e al quadrato reali rispetto agli equivalenti della tua mente? E come fai a dimostrarmi che il quadrato della tua mente ha un lato in più del triangolo della tua mente?

sotto ai miei occhi, cioè nell'esperienza sensibile dei triangoli e quadrati disegnati, posso dubitare di aver di fronte davvero dei triangoli e quadrati, e non invece cerchi e pentagoni, posso cioè legittimamente mettere in dubbio l'efficienza dei miei sistemi percettivi, ma questo non tocca minimamente l'evidenza assoluta del fatto che il quadrato ha sempre e comunque un lato in più del triangolo. Questa resta un verità assoluta, in quanto perfettamente coerente con le definizione essenziale dei concetti in questione, che resta tale indipendentemente dalla dubitabilità riguardo al fatto che una certa realtà empirica, che osservo in un certo spazio-tempo (un  certo disegno di triangolo o quadrato) possa esistere davvero come triangoli e quadrati. Il giudizio di comparazione tra il numero dei lati di una forma geometrica rispetto a un'altra è indipendente dal fatto che gli oggetti che mi stanno ora di fronte corrispondano davvero a quelle forme geometriche in questione. Questa è la distinzione fondamentale fra il piano delle essenze ideali, e quello dei fatti esistenziali
#411
proprio per evitare fraintendimenti simili avevo aggiunto una precisazione nella seconda parte del post. Sono convinto che la Terra sia tonda, che si muova, che giri e che il Sole stia fermo... ma non posso esserne certo con la stesso livello di sicurezza che ho nella convinzione che il quadrato abbia un lato in più del triangolo, perché le verità sensibili, probabilistiche, e quelle intelligibili certe, appartengono a due piani diversi di verità. La distinzione tra evidenza piena ed elevata probabilità che all'evidenza piena può solo approssimarsi senza raggiungerla del tutto è uno dei fondamenti di qualunque discussione seria di epistemologia
#412
Citazione di: Carlo Pierini il 24 Agosto 2017, 22:09:49 PM
Citazione di: davintro il 24 Agosto 2017, 20:47:13 PM
Citazione di: Carlo Pierini il 24 Agosto 2017, 02:31:41 AM
Citazione di: davintro il 23 Agosto 2017, 23:33:15 PMLa questione se la scienza sia in grado di giungere a verità assolute presuppone il chiarire di quale scienza stiamo parlando. La scienza che si fonda sul metodo induttivo-sperimentale non può raggiungerle
Stai usando in modo inappropriato il termine "verità assoluta" (o "legge assoluta"). Se ti interessa, a metà della pag. [3] di questa stessa sezione, commento proprio questo argomento.
ho riletto il punto e mi pare di aver compreso meglio la tua posizione. Mi pare che, di fatto, tu finisca col far coincidere l' "assolutezza" con la "certezza", in quanto vedi l'assolutezza come l'impossibilità di vedere confutata la pretesa di verità del giudizio.
Sicuro di aver letto il mio post? Te lo copio incollo: Come ho già scritto altrove, "ab-soluto" deriva da "ab-solvere", cioè significa "sciolto da-", "liberato da-"; quindi la verità di un enunciato è "assoluta", NON quando esprime la somma di tutte le verità possibili riguardanti gli enti che compaiono nell'enunciato, ma, molto più semplicemente: 1 - quando ciò che si dice corrisponde ai fatti osservati (verità): 2 - quando tale corrispondenza, o verità, è "sciolta da-" ogni condizione che possa confutarla (verità ab-soluta). Esempio: affinché l'enunciato <> esprima una verità assoluta, non è necessaria una conoscenza capillare-onnicomprensiva dei termini "Terra", "piatta", "rotonda", ma è necessario aver fornito le prove della sua rotondità (per esempio delle foto satellitari). E sono quelle prove che la "sciolgono da-" ogni possibilità di essere contraddetta-confutata. A questo punto, l'obiezione tipica dei relativisti: "...Ma la Terra non è perfettamente sferica" è solo una inutile pedanteria, perché è sottinteso che "rotonda" sia una approssimazione; infatti, se l'enunciato dicesse: <>, allora l'obiezione di cui sopra avrebbe pieno valore di confutazione essendo essa stessa una verità assoluta (la Terra non è perfettamente sferica). Insomma, quando l'approssimazione è dichiarata (o sottintesa) nell'enunciato, la assolutezza della verità che esso esprime si riferisce SOLO alla validità delle prove fornite, non all'onniscienza riguardo agli enti che vi compaiono. DAVINTRO non è vero che sia aprioristicamente impossibile confutare l'osservazione della rotondità: posso pur sempre ipotizzare dei difetti nei sistemi percettivi soggettivi, che impedirebbero loro di determinare una visione adeguata all'oggettività del reale, siano essi naturali, i 5 sensi corporei, o artificiali come può essere un telescopio. CARLO Questo commento non ha niente (o molto poco) a che vedere con quanto stavamo discutendo. In discussione c'era la tua affermazione: << La scienza che si fonda sul metodo induttivo-sperimentale non può raggiungere alcuna verità assoluta>> Per cui dovresti spiegarmi perché, secondo te, l'affermazione (ormai condivisa da cani e porci): <> non sarebbe una verità assoluta.

è proprio questo il tuo post a cui facevo riferimento. Se per "assolutezza", come mi sembra di aver capito, tu intendi l'inconfutabilità di un'asserzione allora l'affermazione circa la rotondità della Terra non può rientrare nella categoria, proprio perché la possibilità di errori dei sistemi percettivi non ci offre mai la certezza che la rappresentazione soggettiva del reale coincida con la realtà oggettiva delle cose. Eppure proprio l'osservazione percettiva sensibile è proprio la base sui cui il metodo induttivo presume di fondare le sue generalizzazioni e la costituzione di leggi universali. La fallacia dell'induzione non si limita all'arbitrarietà del passaggio dal particolare all'universale, ma sulla stessa pretesa di certezza della corrispondenza tra percezione sensibile e realtà oggettiva in ogni singolo caso particolare.

Per scansare ogni possibile equivoco voglio precisare che non sono un pazzo fanatico complottista ecc. che non è convinto della sfericità della Terra. Ma se si sta su un piano di discussione critica epistemologico-filosofico, e non su quello del buon senso comune,  la distinzione tra certezza assoluta delle verità della logica formale o dei rapporti geometrici come nel mio esempio del quadrato e del rettangolo e l'elevatissima probabilità a cui si ferma l'esperienza sensibile non può essere un elemento da non tenere in considerazione
#413
Citazione di: Carlo Pierini il 24 Agosto 2017, 02:31:41 AM
Citazione di: davintro il 23 Agosto 2017, 23:33:15 PMLa questione se la scienza sia in grado di giungere a verità assolute presuppone il chiarire di quale scienza stiamo parlando. La scienza che si fonda sul metodo induttivo-sperimentale non può raggiungerle, in quanto i risultati di una certa sperimentazione valgono in relazione a quel determinato e limitato orizzonte spazio-temporale in cui si è osservato, e porre una certa legge scientifica come assoluta, cioè valida per tutti i tempi e luoghi implicherebbe andare al dei limiti dell'osservazione empirica. Se affermo che in base alle osservazioni svolte la legge di gravità causa solo fino a questo momento presente la caduta dei gravi questa non è definibile come verità assoluta, in quanto se "assoluto" vuol dire "sciolto dai legami", allora il fatto che il valore di verità dell'affermazione sia limitata ad un certo contesto ambientale mutevole, che domani potrebbe cambiare, la rende una verità relativa.
Stai usando in modo inappropriato il termine "verità assoluta" (o "legge assoluta"). Se ti interessa, a metà della pag. [3] di questa stessa sezione, commento proprio questo argomento.

ho riletto il punto e mi pare di aver compreso meglio la tua posizione. Mi pare che, di fatto, tu finisca col far coincidere l' "assolutezza" con la "certezza", in quanto vedi l'assolutezza come l'impossibilità di vedere confutata la pretesa di verità del giudizio. Ma pur essendo d'accordo sulla coincidenza tra certezza e assolutezza, non credo che l'esempio della rotondità della Terra, in quanto riferibile al piano dell'esperienza sensibile, possa essere un'applicazione di tale coincidenza. Infatti non è vero che sia aprioristicamente impossibile confutare l'osservazione della rotondità: posso pur sempre ipotizzare dei difetti nei sistemi percettivi soggettivi, che impedirebbero loro di determinare una visione adeguata all'oggettività del reale, siano essi naturali, i 5 sensi corporei, o artificiali come può essere un telescopio. la verità è che ogni esperienza sensibile è sempre un ambito in cui è impossibile avere la certezza di aver raggiunto un livello di nitidezza tale da poter escludere la possibilità di livelli superiori, nei quali i risultati ricavati nei livelli inferiori possano essere smentiti. E ciò vale per ogni presunzione di verità riferita al mondo sensibile. In breve, ogni conoscere fondato sulla sensibilità fisica può dare solo risultati provvisori e probabilistici, anche se fondamentali per il buon senso comune e punti di riferimento dell'agire pratico nel mondo. E il "poter essere altrimenti" dell'esperienza sensibile riflette a livello soggettivo-gnoseologico la condizione di non-assolutezza degli oggetti di tale esperienza, il loro margine di opacità, che rende impossibile escludere una realtà alternativa alle nostre rappresentazioni. Ecco perché, invece, nel momento in cui lascio l'esperienza sensibile e faccio riferimento a una conoscenza dell'intelligibile, del piano delle pure idee, allora la certezza è raggiungibile: se affermo che il quadrato ha più lati del triangolo posso davvero esserne certo, nessuna osservazione sensibile-empirica potrà mai essere smentirla, perché per farlo dovrebbe smentire l'essenza invariabile dei concetti di "triangolo" e "quadrato", che ne definiscono il numero dei loro lati. Qui certezza e assoluto coincidono, la certezza soggettiva gnoseologica del giudizio corrisponde all'immutabilità del senso delle idee geometriche, che essendo idee e non oggetti materiali sono sempre come appaiono, il loro essere coincide con la presenza alla mente, e sono immuni dalla possibilità di una scissione tra verità e apparenza che invece caratterizza gli oggetti materiali, di cui non possiamo escludere una realtà diversa da ciò che di loro ci appare in modo sensibile. Da qui deriva anche il valore universalistico del valore di verità del sapere dei concetti, degli assiomi della logica, delle relazioni matematiche, il loro restar valido in ogni contesto possibile immaginabile, ed ecco che "certezza", "assoluto", "universale" restano distinti sul piano concettuale-semantico (non vanno certo trattati come sinonimi), ma reciprocamente implicati nell'attualità concreta dell'esperienza di verità delle relazioni fra intelligibili. A meno di modificare il nostro linguaggio, smettendo di definire "quadrato" "forma geometrica con 4 lati" o triangolo "forma geometrica con 3 lati". Ma anche in questo caso la situazione resterebbe immutata: le parole non sono le idee, sono simboli sensibili che cercano di rappresentarle in modo convenzionale per scopi pratici comunicativi, e il mutare storico dei linguaggio non tocca il senso delle possibilità ideali che possiamo pensare
#414
Citazione di: Carlo Pierini il 23 Agosto 2017, 01:45:16 AME' vero. Ma l'idea solo intuita, seppur presente in qualche modo in noi, è sfocata, nebulosa. E per coglierne la profondità, l'estensione e la ricchezza ci si deve lavorare sopra, dobbiamo frequentarla e diventarne amici (riflessione). Altrimenti facciamo come gli atei: la crediamo un'illusione, un fantasma irreale, e la neghiamo. Tradotta in linguaggio junghiano questa stessa riflessione suonerebbe più o meno così (come scrissi successivamente all'interlocutore di cui sopra): <> Quindi, tornando all'argomento del thread, non è l'uomo che proietta un'immagine illusoria di Dio, ma è Dio che proietta nell'anima umana un'immagine di sé; e questa immagine sarà tanto più "vera" quanto più "lo schermo" dell'anima sarà "teso" o privo di "macchie" o "strappi".

credo che nelle ultime due righe tu abbia ben sintetizzato il senso della tesi che volevo sostenere
#415
La questione se la scienza sia in grado di giungere a verità assolute presuppone il chiarire di quale scienza stiamo parlando. La scienza che si fonda sul metodo induttivo-sperimentale non può raggiungerle, in quanto i risultati di una certa sperimentazione valgono in relazione a quel determinato e limitato orizzonte spazio-temporale in cui si è osservato, e porre una certa legge scientifica come assoluta, cioè valida per tutti i tempi e luoghi implicherebbe andare al dei limiti dell'osservazione empirica. Se affermo che in base alle osservazioni svolte la legge di gravità causa solo fino a questo momento presente la caduta dei gravi questa non è definibile come verità assoluta, in quanto se "assoluto" vuol dire "sciolto dai legami", allora il fatto che il valore di verità dell'affermazione sia limitata ad un certo contesto ambientale mutevole, che domani potrebbe cambiare, la rende una verità relativa. Sempre una verità, una rappresentazione adeguata alla realtà oggettiva, ma circoscritta a determinate condizioni storiche, cioè relativa. L'assolutezza richiede sia "estensionalità" (il fatto che una certa verità resti valida per tutti i contesti possibili), sia "intensionalità", cioè certezza del valore di verità. E non sono due proprietà estrinseche, ma correlate, perché di qualcosa possiamo esserne certi nella misura in cui la verità in questione risulta stabile e autonoma da circostanze contingenti, che fissano condizioni al suo porsi come "verità", cioè autonoma da variabili. Dunque il livello di certezza coincide con quello di universalità Ed ecco perché le verità della logica classica sono indubitabili, lo sono perché non si fondano sull'empiria, sulla corrispondenza pensiero-mondo esterno, ma sulla coerenza interna del discorso, che rileva come autocontradditori tutti i tentativi di confutazione. Il valore di verità degli assiomi della logica classica sono sia certi che assoluti. Il costo di queste conquiste è però una pensate formalizzazione del discorso. A=A è una verità certa e assoluta, ma non mi dice praticamente nulla riguardo le caratteristiche concrete e materiali del mondo di cui ho esperienza, che poi è quello che mi interessa nella quotidianità dell'agire pratico. E le scienze induttive si riferiscono proprio a questo ambito, dove possiamo ricavare al massimo probabilità, ma mai certezze, e conseguentemente mai verità assolute. Ma tra la Scilla delle verità apodittiche e universali ma astratte, e Cariddi delle verità probabilistiche e contingenti, ma aventi rilevante valenza concreta e pratica del sapere empirico, credo ci sia un margine di manovra, una "terza via" in cui cerca di incunearsi la filosofia, che cerca di conciliare il carattere universalistico e apodittico dei suoi sistemi con il suo riferirsi alla concreta realtà esistenziale, senza rintanarsi nei linguaggi formali, in quella terza via in cui Kant aveva provato a collocare il complesso dei "sintetici a-priori".


Il materialismo può essere una posizione scientifica solo attribuendo alla scienza un metodo diverso da quello induttivo ed empirico, cioè identificando la scienza con un sapere trascendentale e metafisico come la filosofia, in quanto non è un dato empirico il fatto che non possa esistere nessun ente non materiale. Identificare la materia con la realtà intesa come totalità è una pretesa di verità che si pone come assoluta e onnicomprensiva, quindi impossibile da fondare su un'osservazione empirica, che si limiterebbe a darci una conoscenza del "qui e ora", di particolari enti materiali, ma non certo la materia intesa come totalità del reale. E proprio qui sta l'autocontraddizione e direi anche la disonestà intellettuale di ogni forma di materialismo presuma di essere scientifico, nel senso empirico e non metafisico del termine "scientifico" (perché in genere in base a tale prospettiva tutto ciò che a che fare con la metafisica dovrebbe essere rigettato come superstizione oscurantista e anticaglia spazzata via dalla modernità ecc.). Il materialismo è uno dei possibili modelli metafisici, che però nella gran parte dei casi ritiene erroneamente di essere figlio del metodo dell'osservazione empirica e dell'esperienza sensibile, quando invece nessuna verificazione sensibile potrà mai riconoscere l'impossibilità di una realtà irriducibile alla materia. Cioè il materialismo presume di fondarsi su basi epistemologicamente impedite a legittimare le sue conclusioni
#416
Citazione di: Carlo Pierini il 22 Agosto 2017, 17:46:03 PM
Citazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PMDirei che il punto fondamentale sia che, se si parla di concetti, se ci si pone il problema di ammettere una presenza originaria dei concetti nella nostra mente, ci si pone su un piano in cui parlare di "inganno" o di "fede" non ha senso. I concetti non sono mai ingannevoli, perché ingannevole può essere una percezione, che porta a motivare un giudizio erroneo sulla realtà, ma mai un concetto.
Tu stai parlando di quelli che Jung chiama "archetipi". Scrivevo qualche tempo fa a un interlocutore: <<...Una cosa è la similitudine tra gli individui, che rende possibile la comunicazione, e cosa ben diversa è la similitudine dei CONTENUTI delle idee. Infatti gli archetipi, se sono autentici (non distorti o mutilati) sono tutti rigorosamente complementari tra di loro e MAI contraddittori, proprio come tutte le verità che sono autenticamente tali. Mentre le "idee ordinarie" sono prevalentemente conflittuali, spesso anche quando appartengono ad un medesimo pensiero individuale (la coerenza è un bene tanto prezioso quanto raro).>> Conosci Jung?

per la verità non pensavo agli archetipi junghiani, volevo solo sottolineare come "verità" e "illusione" siano categorie che hanno un senso solo se riferite a giudizi, mentre l'intuizione di idee è un dato fenomenologico antepredicativo, non un giudizio. L'intuizione dell'idea di eternità, trascendenza ecc. non è un giudizio, un atto tetico, posizionale nei confronti della realtà oggettiva, nei cui confronti si può essere d'accordo o in disaccordo, ma un vissuto soggettivo che fintanto che resta nell'immanenza della coscienza è una presenza al di fuori della dubitabilità. Infatti anche l'ateo, come il credente, non può negare di avere nella sua mente un'idea di Dio, di eternità, perfezione... altrimenti a cosa riferirebbe il suo giudizio di non-esistenza? Ciò che cambia non è il riconoscimento della presenza dell'idea, ma solo il giudizio di corrispondenza tra idea ed esistenza fattuale, ed in certi casi, la causalità che determina la presenza, appunto l'idea della "proiezione" è un modello esplicativo solitamente comune nel campo ateo.

Jung è tra gli autori che maggiormente mi piacerebbe approfondire in futuro. Attualmente mi sto concentrando sulla sua teoria dei Tipi psicologici e dell'individuazione delle funzioni cognitive, che prende le mosse dalla fondamentale distinzione tra introversione ed estroversione, teoria che poi ha ispirato la classificazione delle personalità dell'MBTI, molto diffusa negli Usa (specie nell'ambito dell'orientamento professionale), ma che comincia ad attecchire un po' anche da noi
#417
mai sostenuto disfattisticamente l'impossibilità di una verità assoluta, sostengo solo che tale verità sono appannaggio non delle scienze empiriche, ma della filosofia. Fondare aposteriormente ed empiricamente una conoscenza assoluta è un controsenso, in quanto assoluto è proprio ciò che trascende la particolarità dei contesti in cui facciamo esperienza sensibile delle cose. Si potrebbe aprioristicamente escludere che in futuro, utilizzando nuovi e più efficienti sistemi di osservazione, riusciremmo ad avere un'immagine più adeguata alla verità delle cose stesse riguardo la forma della Terra, o dell'anatomia del corpo umano? Escluderlo è impossibile, il che non vuol dire che occorra essere folli e mettersi a pensare che la Terra sia piatta o che non sia davvero il cuore a pompare sangue, ma che si debba fare affidamento sul complesso dei risultati di osservazione, ma fino a prova contraria, lasciando cioè aperta la possibilità che nuovi dati futuri possano migliorare l'immagine del mondo correggendo errori, che inizialmente non erano ritenuti tali. Il riferimento poi ali fulmini e a Giove Pluvio poi è inappropriato, perché presuppone un conflitto tra scienze naturali e metafisica che invece non sussiste, in quanto si occupano di piani distinti del reale, non sovrapponibili. Le cause che il naturalista riesce ad individuare non escludono le spiegazioni (al di là del mitologico Giove Pluvio) metafisiche. Le cause fisiche cioè esistono ma non sono le cause prime, ma a loro volta sono derivate da causalità metafisiche riconoscibili per via filosofica, il che non vuol dire tale causalità debbano necessariamente identificarsi con concetti religiosi. Importante invece il tuo precedente riferimento alla tecnologia: progresso tecnologia e scoperte delle scienze empiriche appaiono andare di pari passo, ma proprio questo svela il carattere non puramente teorico, ma anche pratico della credenza di tali scoperte. Se sono in California e desidero recarmi in Giappone, lascerò da parte la remota ipotesi che la Terra possa smettere di essere tonda e di finire nello spazio e prenderò con tutta tranquillità l'aereo per Tokio. Le certezze assolute e definitive non sono necessarie per la vita pratica, per prendere decisioni, è sufficiente un'elevata probabilità nella previsione delle conseguenze per decidere. Ecco perché le nuove scoperte delle scienze empiriche sono sempre utilizzabili in relazioni allo sviluppo di nuove tecnologie. Al contrario le certezze assolute, non fondabili per via empirica (A è sempre uguale ad A, se A è uguale a B e B è uguale a C allora A è uguale C), pur soddisfando l'esigenza teorica di assolutezza e conclusività della scienza, costituiscono un sapere formalistico di per sé inspendibile nel vivere pratico. Ma se "scienza" vuol dire "sapere", teoresi pura slegata da preoccupazioni pratiche, allora solo i saperi deduttivi come la logica e la filosofia possono definirsi pienamente "scienza". Tutto sta nel saper distinguere le certezza teoriche assolute, dalle "certezze" empiriche, di fatto probabilità più o meno vicine al livello massimo di certezza, di cui tutti noi, più o meno consapevolmente, facciamo uso nella quotidianità delle nostre azioni
#418
Citazione di: Carlo Pierini il 15 Agosto 2017, 21:32:23 PM
Citazione di: davintro il 15 Agosto 2017, 17:29:58 PMCome ben evidenziato dalla citazione di Einstein riportata da Donquixote, basta un singolo fatto per smontare una teoria, mentre un'infinità di fatti non è sufficiente a porla come verità assoluta
Questa, come al solito, è un'estremizzazione di stampo relativista. Vattimo ha colpito ancora! :) La scienza è pervenuta a centinaia di verità definitive e ha cancellato altrettante superstizioni, sebbene sia vero che NON TUTTE le verità scientifiche siano assolute e definitive. Il colossale progresso scientifico-tecnologico dell'ultimo secolo e mezzo non si è costruito su opinioni soggettive (sulle opinioni non si costruisce alcun progresso conoscitivo-tecnologico), ma su verità accertate, definitive, assolute. Naturalmente, per "verità assoluta" non intendo la somma di tutte le verità possibili su un un determinato oggetto, ma semplicemente la corrispondenza tra ...le chiacchiere e i fatti, tra un enunciato e gli eventi osservati che lo riguardano; una corrispondenza che tuttavia sia - come suggerisce il termine "ab-solutus" (ab-solvere = sciogliere da-, liberare da) - "liberata da"-lla possibilità di essere contraddetta o smentita.

non mi ritengo affatto un relativista pensierodebolista, anzi... solo che occorre intenderci riguardo quale metodologia scientifica si debba fare riferimento. Fondare la validità razionale dei risultati sulla bade dell'induzione dall'osservazione empirica porta all'impossibilità della certezze definitive, in quanto l'immagine della realtà fondata sull'esperienza resta limitata alla contingenza spazio-temporale, che non garantisce che in un tempo futuro non si possano ricavare dati che smentiscano l'assolutezza della verità di quell'immagine, e anche fermandoci all'ipotesi di una verità limitata al tempo in cui è stata osservata resterebbe sempre la possibilità che la percezione soggettiva dell'osservatore non sia adeguata all'apprensione della cosa stessa oggettiva (ipotesi del genio maligno, o allucinazioni), Insomma, l'assoluto e la certezza non sono caratteri della conoscenza ricavabili per via empirica. Il che non vuol dire cadere nello scetticismo, ma riconoscere che la via per ottenere una conoscenza certa ed assoluta non è induttiva ma deduttiva, il percorrere con correttezza e coerenza i passaggi logici a partire da un nucleo di verità da un lato piuttosto ridotto, ma dall'altro ben saldo. Cioè gli assiomi della logica classica che nella loro formalità si svincolano dal riferimento alla realtà empirica (identità, non-contraddizione...), e il residuo fenomenologica dell'Io cosciente, residuo della "messa tra parentesi" delle asserzioni dubitabili riferiti al modo d'essere fattuale ed esistenziale del mondo esterno, fattuale ma contingente
#419
il punto credo sia quello di stabilire l'aporeticità delle risposte scientifiche sia un carattere che rientra negli obiettivi ideali della scienza, oppure è il portato dei limiti, e dunque dell'imperfezione, del suo metodo in relazione all'ideale di conoscenza a cui essa tende. E la soluzione di questo quesito sta in cosa andrebbe definita come "scienza". La scienza è una cosa diversa dalla filosofia? No, se si ci rifacciamo all'accezione greca della scienza come "episteme", contrapposta alla doxa, l'opinione arbitraria, si potrebbe definire scienza come discorso razionale, che non si limita all'esposizione della tesi, ma ne argomenta e legittima la presunzione di oggettività alla luce di prove e dimostrazioni. Questo vuol dire che l'immagine scientifica del mondo concepisce la realtà come un complesso di leggi causali per i quali da un evento ne deriva necessariamente un altro, e questa concatenazione ontologica rispecchia quella logica costituita da passaggi di inferenza deduttiva "se...allora...", la rispecchia e la legittima dandole un fondamento reale-oggettivo e non solo astratto-formalistico. Ora, intesa la scienza in questo modo, appare come l'aporeticità, la non conclusività dei risultati della ricerca non possa che essere un deficit di razionalità, dunque di scientificità. Cioè, non ha senso che un certo metodo scientifico provi ad autogiustificarsi allargando le braccia e dicendo "eh, ma tanto la scienza non cerca risposte definitive...". La mancanza di fondamenti logici-ontologici squalifica la pretesa di razionalità del discorso, in quanto se la validità di un fondamento può essere smentito da esperienze successive, allora esso mostra la sua non-autolegittimazione, la sua contingenza, la sua inadeguatezza nel fondare la coerenza e validità di un discorso, che è tanto più razionale, quanto più si fonda su premesse aventi valore di verità il più possibile definitivo e stabile. Ecco perché la scienza, intesa come tesi razionale non arbitraria deve porre come orizzonte finalistico della sua ricerca i princìpi primi e assoluti della realtà, ecco perché tutte le scienze particolari sono in realtà declinazioni della filosofia, che nasce come ricerca razionale, non più mitologica, di individuazione della cause prime, come base per elaborare un discorso razionale e coerente sul reale.

Fatta questa lunga premessa, non direi che il materialismo è una fede, ma che è incoerente con la base metodologica su cui ritiene di fondarsi, cioè si spaccia come teoria scientifica, ma per farlo dovrebbe escludere l'esistenza di qualunque forma di realtà spirituale, cioè porre la realtà materiale come realtà assoluta e totalizzante, mentre la base metodologica sui esso fa leva, il metodo induttivo-sperimentale non può pretendere di porre come esaustivi i risultati della ricerca. Come ben evidenziato dalla citazione di Einstein riportata da Donquixote, basta un singolo fatto per smontare una teoria, mentre un'infinità di fatti non è sufficiente a porla come verità assoluta, cioè l'esperienza sensibile è un campo potenzialmente e infinitamente aperto a smentite, e l'esperienza sensibile, i 5 sensi corporei a cui il materialismo desidera fondarsi non può pensare che la totalità del reale sia materiale, dato che "totalità" è un concetto intelligibile, non sensibile, e che non può essere racchiusa nei limiti spazio-temporali  su cui si applica l'induzione e l'osservazione empirica. Noi vediamo con i sensi cose materiali, non il fatto che ciò che è materiale è la sola realtà.. Quindi il materialismo coerente dovrebbe per giustificare se stesso, rinunciare al metodo empirico e porsi come "metafisica", discorso sulla "totalità", lontano dunque dall'idea di metodologia scientifica a cui presume di appellarsi, per il quale le categorie metafisiche sarebbero solo superstizione, anticaglia che la rivoluzione scientifica basata sulla verificazione empirica dovrebbe spazzar via
#420
rispondo a Phil

 

intanto volevo dire che apprezzo molto il considerare seppur a livello ipotetico come valida la mia sgangherata e ancora confusa (anche per me) posizione. Al di là dei normali dissensi che inevitabilmente sorgono in queste questioni, la volontà di capire provando a entrare in sistemi di pensieri anche differenti da quelli che riteniamo essere i più convincenti è sempre un ammirevole segno di apertura mentale

 

Direi che il punto fondamentale sia che, se si parla di concetti, se ci si pone il problema di ammettere una presenza originaria dei concetti nella nostra mente, ci si pone su un piano in cui parlare di "inganno" o di "fede" non ha senso. I concetti non sono mai ingannevoli, perché ingannevole può essere una percezione, che porta a motivare un giudizio erroneo sulla realtà, ma mai un concetto. I concetti, tutti i concetti, non sono mai validi o invalidi, veri o falsi, la loro presenza è un dato di fatto che è assurdo negare, al di là dei giudizi circa la corrispondenza di tali concetti con realtà effettivamente esistenti. I concetti ascrivibili al discorso religioso sono necessariamente utilizzabili da tutti, atei e teisti, anche l'ateo per negare l'esistenza di Dio deve pur sempre partire da una certa definizione, da un'idea di Dio che ha in mente, e ritenere quell'idea di Dio valida in relazione al suo giudizio circa la non-esistenza di una realtà corrispondente a quell'idea. I concetti di qualcosa sono sempre il punto di partenza necessario per discutere e speculare sul loro riferimento alla realtà concreta ed esistenziale. Le categorie della trascendenza sono utilizzabili perché di fatto lo sono anche da chi nega loro un correlato reale, senza alcun bisogno di fede. il compito della ragione filosofica sarebbe appunto quello di provare a dedurre alcune implicazioni logiche a partire da questo dato, la presenza mentale di tali categorie. L'ipotesi che ritengo più ragionevole si fonda sul principio della proporzionalità tra soggetto e oggetto della conoscenza. Per conoscere qualcosa occorre possedere a livello soggettivo le potenzialità, delle categorie corrispondenti all'oggetto conosciuto, conoscere in fondo è sempre un "riconoscere" nel quale l'oggetto ha un senso in relazione al senso che intuiamo negli schemi soggettivi che corrisponde all'oggetto. Mi pare si possa dedurre che quanto più sarà alto il livello di corrispondenza tra categorie interpretative soggettive e dati oggettivi tanto più soggetto ed oggetto della conoscenza finiranno con il coincidere o comunque l'oggetto sarà dipendente nel suo modo d'essere dal soggetto. Non si può dire che nell'uomo la corrispondenza tra i suoi concetti sia piena e perfetta. Possiamo avere un'idea generica e formale del senso dell' "eternità" o della "perfezione" ma l'esperienza concreta e autentica di qualcosa di eterno o di perfetto, dato che poi di fatto la nostra spinta a perfezionarsi o ad aspirare ad una vita eterna provando angoscia al pensiero della morte sono sempre raffrontabili con la nostra esperienza mondana di cose caduche e imperfette. Se le categorie della trascendenza fossero non solo innate ma anche strutturalmente immanenti l'uomo credo che quest'ultimo potrebbe averne un sapere perfetto e pieno, in quanto lui stesso sarebbe il soggetto produttore di tali idee in modo autosufficiente. Queste idee invece pur presenti in noi restano nascoste da un velo di opacità che mi fa pensare che la ragione di tale presenza nell'uomo non sia l'uomo stesso (altrimenti ci sarebbe proporzione e corrispondenza piena tra soggetto pensante e idee pensate), ma conseguenza di un atto di ricezione da parte di una mente che può "produrre" da sé quei concetti essendo pienamente adeguata ad essi, cioè una mente divina, a sua volta eterna e perfetta come le idee di eternità e perfezione che comunica in noi 

Stando così le cose, la via mistica, nel suo elitarismo, non è l'unica forma di relazione immanenza-trascendenza, ma si pone accanto alla via razionale, quella appunto impegnata ad argomentare sulla base della dialettica tra limiti della mente umana e presenza all'interno di essa di concetti riferibili a cose senza limiti, come ho maldestramente provato a sintetizzare sopra in due righe, e la razionalità del procedimento starebbe non in un atto di fede circa l'esistenza di qualcosa, ma dall'innegabile presenza  mentale di concetti, presenza che è presupposta anche da chi ne nega ipotetici correlati esistenziali. Del resto gli stessi mistici non erano privi di ragione e linguaggio, già solo il fatto che ne stiamo parlando deriva dal fatto che tanti di loro non si sono limitati a vivere una certa esperienza, ma le hanno trascritte e narrate in testi e memorie. Ciò consente un certo livello di comunicabilità anche per quanto riguarda noi e loro, che permette di distaccarci da un elitarismo estremo. Comunicabilità enormemente limitata e inadeguata, ovviamente, ma non a causa di uno speciale elitarismo che caratterizzerebbe la mistica, ma dovuta alla strutturale inadeguatezza del linguaggio sensibile, che resta, nella sua convenzionalità simbolica, sempre "un passo indietro" rispetto alle cose stesse, alla qualità dei modi in cui si manifestano concretamente nella nostra esperienza vissuta cosciente, siano tali "cose stesse" attinenti ad un livello di trascendenza "teologico-verticale"  oppure orizzontale