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Messaggi - davintro

#421
dal punto di vista epistemico bisognerebbe preliminarmente chiarire il punto di partenza metodologico, il punto di vista del sapere positivo empirico (es. le neuroscienze) o quello più propriamente filosofico-fenomenologico. Questi due approcci sono complementari ma distinti, in quanto individuano un piano di indagine proprio. Infatti il metodo filosofico-fenomenologico non considererebbe la fattualità del rapporto mente-cervello, ma considererebbe i fenomeni in quanto tali, la coscienza non come emanazione di una causalità neurologica (senza però escludere la possibilità dell'esistenza di tale causalità), ma la coscienza come complesso di vissuti che l'Io avverte dentro di sé, riconducendolo a uno spazio interiore, definibile come "anima", mentre le scienze empiriche basta sull'osservazione esteriore non considerano i vissuti dell'esperienza interiore diretta, ma non può che ridurli e conseguenze secondarie del loro oggetto di ricerca, il cervello, inteso come oggetto da studiare appunto come "oggetto", dall'esterno. Ciò a cui tramite i due approcci si può pervenire non confligge con l'altro, proprio in quanto disegnano due distinti punti di vista non tra loro confliggenti, a cui corrispondono distinti dimensioni della realtà su cui investighiamo, attenzione, distinte, non sostanzialisticamente separate. Personalmente cerco di stare nell'approccio filosofico-fenomenologico, che è quello più vicino alla mia "formazione", nel rispetto dell'autonomia dell'altro punto di vista.

 

La visione metafisica classica dell'anima come "forma corporis" sviluppato in un certo modo può essere un efficace modello interpretativo sulla questione, in quanto da un lato supera il rigido dualismo cartesiano corpo-anima, che lascerebbe inspiegato il nesso tra esercizio delle nostre facoltà intellettive e specifici campi neuronali, dall'altro supera il riduzionismo che ricondurre la complessità della vita interiore tendente a elaborare nozioni trascendenti la mera particolarità degli oggetti fisici (idee astratte e concetti aventi forme intenzionali di universalità) ad una realtà che, nella misura in cui è osservabile dall'esterno, non può mostrare pienamente tale vita intima vissuta in prima persona, e sarebbe puramente fisica. cioè il cervello. La "strategia" corretta sarebbe quella da un lato di non porre l'anima come sostanza a se stante separata dal corpo, dall'altro di svincolare la nozione di cervello dalla mera materialità. Non nel senso che il cervello non sia composto di materia, ma considerando la materia, aristotelicamente come condizione insufficiente della determinazione esistenziale dei singoli oggetti materiali, del darsi differenziato del loro senso. La materia in sé, non  esiste,  è pura indeterminazione, esiste in quando materia formata, materia cioè che assume un proprio senso e proprietà in relazione alla natura della forma che la configura rendendola "una certa cosa invece che un'altra", attribuendole una essenza. Nello specifico, il cervello non è pura materia, ma materia formata dall'anima, che la rende materia di un certo tipo, materia vivente atta a sostenere e supportare i processi che la costituiscono come "anima razionale", cioè anima umana. Senza l'anima intesa come causa formale, essenza dell'umano il cervello non esisterebbe in quanto tale, la materia che lo compone non sarebbe organizzata come materia vivente e pensante. Ciò permette quindi di non pensare la mente come separata dal cervello, dato che l'anima razionale (forma) non potrebbe operare senza una materia su cui applicarsi, ma implica anche la necessità di ammettere un'irriducibilità dell'interiorità vivente (l'anima non è forma nel senso meramente geometrico, ma forma vivente, che muove la materia a formare a partire da un'interno, e la presenza di questo nucleo interno permette di vivere i processi mentali come vissuti in prima persona, su cui riflettere mediante l'introspezione. L'esperienza interna non può essere ricreata e rivissuta in laboratorio a partire da uno sguardo esteriore e oggettivante e ciò fissa i limiti delle scienze positive riguardo la conoscenza della mente umana, che resta così aperta allo sguardo fenomenologico che coglie la soggettività non come oggetto esterno, ma come attualità vivente, che non esclude la validità dei risultati delle scienze positive, ma li integra con quelli ricavabili dal suo approccio, autoriflessivo e autocoscienziale, e mirante a cogliere la struttura essenziale dei fenomeni coscienziali, e non la loro fattualità empirica
#422
rispondo ad Apeiron

l'esperibilità del trascendente non lo immanentizza negandolo in quanto tale e rendendo la nozione di "trascendenza" assurda. Ciò sarebbe cadere nell'errore dell'idealismo moderno che intende l'esperienza come atto fondativo della realtà dell'oggetto esperito da parte del soggetto esperiente. In realtà, l'esperienza andrebbe vista non come atto causativo-esistenziale dei suoi oggetti, ma come una "luce" coscienziale attraverso cui rispecchiamo in noi stessi il darsi dei fenomeni del mondo, del nostro complesso di relazioni tra il nostro Io soggettivo e il mondo oggettivo. Questa luce permette di cogliere come gli atti con cui facciamo esperienza del mondo sono sempre articolati all'interno di una polarità duale, attività-passività. L'immanenza comprende gli oggetti dell'esperienza nella misura in cui tali oggetti dipendono nel loro modo d'essere da noi,  cioè dal nostro essere attivi, la trascendenza ne considera il loro carattere di autonomia, per la quale noi possiamo solo restare passivi nell'apprensione dei fenomeni. Ma questa passività è un carattere interno alla relazione esperienziale, quindi non ha senso pensare che l'esperibilità di qualcosa ne contraddica l'autonomia, cioè la trascendenza. Trascendenza per me vuol dire "ulteriorità", ed anche la percezione, atto esperienziale prevalentemente (anche se non integralmente) passivo (dato che non è la nostra  libera volontà a decidere quali contenuti entrano nella mia percezione e quali no), mi offre il fenomeno di enti di cui non sono il creatore, ma con un modo d'essere indipendente dal mio arbitrio soggettivo. Quindi qui l'esperibilità non contraddice la trascendenza ma la rivela. La trascendenza come ulteriorità non è esclusivamente di tipo verticale-religioso, ma anche per questo tipo possiamo considerare una dinamica analoga a quella della trascendenza orizzontale che la percezione rivela. La mistica, nella sua autenticità, cioè nel suo porsi come autentico coglimento di Dio, non è la creazione arbitraria della fantasia del mistico, ma apertura dell'anima ad un rivelarsi che l'Io umano non può decidere autonomamente di produrre dentro si sé, ed anche la via razionale-speculativa delle prove dell'esistenza di Dio non sono finalizzate ad affermare che l'esistenza di Dio è prodotto della ragione umana che assorbe tutto nella sua immanenza totalizzante, bensì in questa via la ragione si limita a riconoscere uno stato di cose oggettivo non deciso da essa, cioè che l'esistenza di Dio è un'ipotesi adatta a dei rispondere a dei problemi insiti nella conoscenza della realtà. Sia la via mistica che la speculativa sono contrassegnati da un certo livello di passività, che. al di là del giudizio di validità che si può formulare su di esse, mostra come la pretesa di vedere nell'arbitrio creativo dell'Io umano la causa dell'esistenza delle realtà a cui le vie tendono sia una pretesa infondata
#423
Rispondo a Phil

 

l'intelligibilità dei concetti non è basata sul riscontro sensibile, ma sul loro significato non riconducibile a entità materiali, anche se sono riconducibili a proprietà appartenenti a cose materiali. L'esperienza sensibile non è l'origine della formazione nella mia mente di questi concetti, ma offre "solo" un contesto particolare entro cui formulare un giudizio costituito da quel concetto, il cui significato ho però già presente al di là dell'esperienza sensibile, oppure può offrire l'occasione e lo stimolo per focalizzare l'attenzione e la riflessione sul senso di quel concetto, ma va ricordato che la complessità della struttura mentale-coscienziale non coincide con ciò che è attualmente oggetto di attenzione, ciò in virtù dell'inadeguatezza di ogni sguardo riflessivo-introspettivo. Ciò che l'esperienza esterna può creare dal nulla può solo essere una sintesi, una combinazione di proprietà appartenenti a una molteplicità di enti, mentre se una proprietà viene esperita all'interno di una singola esperienza individuale, allora la sua apprensione non può essere la conseguenza di una sintesi, ma una scoperta che presuppone la presenza di una categoria mentale atta a recepirla. Quindi l'astrazione intesa come processo mentale di formazione di concetti presuppone sempre un movimento di unificazione, di sintesi dal particolare, mentre l'atto in cui si coglie una categoria da un singolo fenomeno dovrebbe piuttosto essere definito come "intuizione intellettuale", non costruzione di un nuovo concetto, ma emersione di una proprietà dal significato intelligibile facente parte di una realtà sensibile, da cui però non fa derivare il suo significato. Questa intuizione non forma concetti, ma lascia emergere qualcosa che già c'è, dunque non va confusa con l'astrazione. L'esempio del concetto dell'apertura della porta effettivamente è un po' ambiguo, perché se da un lato condivide con i concetti intelligibili come "caducità" un ben definito significato che possiamo cogliere già in una singola esperienza come può essere quella di una porta che si apre, dall'altro si riferisce pur sempre a un significato sensibile, osservabile dall'esterno, non intelligibile, quindi il fatto che l'apprensione di un tale concetto necessiti di un'esperienza esterna non indica in generale la non-innatezza dei nostri concetti in generale.

Non ho affatto mai sostenuto che tutti i nostri concetti siano innati, quello che volevo mettere in evidenza (che poi stava di base alla mia modestissima critica all'idea di religione come proiezione umana dell'ateismo) è la corrispondenza fra il significato dei nostri concetti al modo d'essere delle cose a cui quei concetti corrispondono. Dunque i concetti di enti sensibili sono originati dall'esperienza sensibile delle cose a cui quei concetti si riferiscono (del resto se non pensassi così dovrei solo ipotizzare metempsicosi o reincarnazioni, dove l'anima ha innate le idee di cose sensibili perché già esperite in vite precedenti, ma non sono platonico fino a sto punto), mentre i concetti intelligibili sono presenze originariamente presenti nella coscienza, che come complesso intelligibile non spazializzabile è sede adeguata della ricezione di tali idee. Poi potremmo anche ipotizzare una "terza classe" di concetti, quelli riferibili a vissuti psicologici come "gioia", "tristezza", "bellezza", che essendo riferiti a vissuti presuppongono per la loro formazione che il soggetto provi storicamente tali esperienze, e in ciò in parte incide anche l'esperienza del mondo esterno. Effettivamente anche la bellezza, come l'apertura della porta, è un esempio ambiguo, in quanto non la classificherei come "innata", dato che coincidendo con la sensazione di piacere di fronte all'apprensione di cose belle, la sua formazione in noi dovrebbe presupporre l'esperienza di queste cose belle. D'altra parte però la bellezza ha a che fare con qualcosa di innato in quanto riteniamo bello ciò che di sensibile cogliamo come riflesso simbolico dell'idea di bene in ciascuno di noi, cosicché un certo colore o una certa forma la troviamo bella perché in qualche modo scorgiamo in essa il simbolo di qualcosa di piacevole perché congruente con i nostri valori personali (capisco comunque che questo punto meriterebbe un approfondimento in una discussione a parte). Quindi la bellezza è un concetto di confine: presuppone l'esperienza esterna per formarsi in noi, ma al tempo stesso rimanda alla presenza di idee interiori, come i nostri valori morali personali che incidono in un certo senso nei nostri giudizi estetici.

Hai ragione sul fatto che affermare la presenza di una "latenza", inteso come livello di coscienza potenziale, ma ancora non attuale, possa apparire effettivamente un controsenso, in quanto si affermerebbe l'esistenza di qualcosa che dovrebbe essere al di fuori della coscienza attuale, cioè del concretamente pensabile. La latenza sarebbe assurdamente da un lato coscienza solo potenziale, e dall'altro presenza attuale della nostra riflessione su di essa. Ma non penso che la conseguenza di tutto ciò sia la caduta in un fideismo totalmente arbitrario che riguarderebbe l'esistenza di questa latenza: accanto alla via esperienziale-diretta si può arrivare al riconoscimento di un livello cosciente latente in cui si faccia esperienza di idee intelligibili attraversano un via indiretta-deduttiva: se gli oggetti fisici del mondo esterno sono inadeguati a formare in noi l'esperienza dei concetti intelligibili, e al contempo tali concetti come "caducità" o "eternità" non sono mai stati oggetti di riflessione e attenzione cosciente, allora l'unica soluzione è scindere il concetto di "coscienza" tout court da quello di attenzione attuale e far comprendere nella coscienza tout court uno strato profondo in cui i concetti non ricavabili dall'esterno "giacciono" come disponibili ad essere in futuro oggetti di un movimento attuale dell'Io verso tale interiorità profonda, movimento che può essere deciso alla luce della sua libertà
#424
Scrive Paul11

"Non penso Davintro che l'idea di Dio sia innata nell'uomo e nemmeno le categorie.
Semmai è innata "la spinta" a relazionare. E' come se noi avessimo già gli operatori logici per confrontare ,per costruire conoscenza, abbiamo quelle formule "pure" universali. Ma forse è proprio questo che volevi dire, e spero di essermi spiegato."


Se l'idea di Dio e le categorie con cui comunemente si descrive fossero provenienti dall'esterno occorrerebbe individuare nel complesso degli oggetti mondani della nostra esperienza esteriore un ente che possiede tali categorie, ma ciò non è possibile, dato che l'idea di trascendenza per definizione, indica ciò che è al di là di ciò che riscontriamo come immanente nella nostra esperienza, e che l'esperienza esterna ci mette sempre in contatto con cose imperfette, finite, manipolabili, nulla di "eterno", "onnipotente", "onnisciente"... Si potrebbe sostenere che l'idea di Dio ci sia comunicata tramite l'apprensione dei contenuti del nostro ambiente culturale di riferimento, famiglia, scuola... Ma la domanda che mi sorgerebbe spontanea in questo caso sarebbe: " e le persone (la società, la cultura al di là delle singole individualità personali che li costituiscono sono solo astrazioni) da cui apprendiamo l'idea di trascendente a loro volta da dove l'avrebbero ricavate?". La realtà è che l'apprensione delle categorie fondamentali della religione è un dato essenziale e strutturale della mente umana, ed è proprio questo che ne permette la possibilità di trasmissione intersoggettiva, la comunicazione e comprensione di senso. A mio avviso il pregiudizio antiinnatista poggia sull'errore di definire come "innato" solo ciò della cui innatezza siamo pienamente coscienti. Dunque se la conoscenza di Dio avviene in un certo momento della nostra vita siamo erroneamente portati a pensare che prima di quel momento in noi non ci fosse nulla. Occorre invece iniziare a familiarizzare con il concetto di "latenza", con l'idea che gli stimoli esterni non siano cause creative "ex nihilo" dei vissuti, ma solo condizioni del loro sviluppo e del loro emergere alla piena consapevolezza, ma alla luce di un emergere interiore proveniente da un nucleo latente e profondo da sempre presente in noi, ma di cui non se ne aveva originaria consapevolezza. Dunque il discrimine fra "innato" e "non innato" va posto non tanto in riferimento alla linea evolutiva temporale delle nostre prese di coscienza del mondo, ma all'ambito al cui interno riconoscere l'esistenza di quegli enti adeguati al significato delle idee che cerchiamo di classificare come innate o meno. Le categorie riferite alla trascendenza religiosa, nel loro riferirsi intenzionale a significati intelligibili e spirituali non hanno alcun corrispettivo negli oggetti dell'esperienza esteriore, che possono solo essere fisici, in quanto li apprendiamo a partire dalla sensibilità corporea. Queste categorie vanno ricondotte al piano dell'interiorità, cioè la dimensione spirituale dell'uomo, che in quanto spirituale è adeguata a comprendere i loro significati, a loro volta intelligibili e spirituali
#425
per Sariputra

in premessa mi scuso per la mia totale ignoranza di buddismo e spiritualità orientali. Provo come sempre a dire due cose in base alla logica

Penso che il punto sarebbe quello di chiarire meglio l'idea di questi "esercizi" (non so se il termine scelto è adeguato) mistico-trascendentali che permettono di raggiungere un'esperienza "totalmente altra" rispetto ai vissuti del vivere ordinario. Se le persone che hanno volontariamente approcciato questi percorsi erano coscienti (ovviamente in senso generico) del fine a cui tali esperienze erano finalizzate allora mi pare che la formazione dell'idea di trascendente non sia stata solo il risultato finale del percorso, ma qualcosa in un certo senso di già presente in partenza nella mente di questi iniziati. Altrimenti come avrebbero potuto prefiggersi uno scopo, se l'idea dello scopo, cioè il raggiungimento di un vivere "totalmente altro" non fosse già a-priori presente nella loro mente e nelle loro inclinazioni?. E se anche ipotizzassimo un'acquisizione del tutto "ex novo" di tale idea di trascendente al termine di queste esperienze, resterebbero ancora dei problemi. Il senso religioso è un dato comune a tutte le culture, a qualunque latitudine geografica si siano sviluppate, mentre la matrice buddista della tesi di esperienze mistiche-trascendentali, dovrebbe vincolare la possibilità di attingere il sommo livello di contemplazione maggiormente nel contesto geografico di diffusione del buddismo, mentre invece l'avvertimento dell' idea di Dio appare un dato piuttosto trasversale, al di là della molteplicità dei luoghi e delle epoche. Si potrebbe dire che i buddisti possono "pro domo loro" pensare di aver individuato un livello esperienziale più elevato degli altri, dove il vero trascendente si rivelerebbe, mentre altrove ci si fermerebbe a livelli inferiori. Tuttavia nel mio discorso ponevo il tema dell'origine della presenza dell'idea di Dio (o trascendente) nella mente umana intesa nella sua estrema generalità, al di là delle particolari determinazioni con cui le tradizioni spirituali storiche ritengono di poterlo descrivere e definire, per le quali ciascuna di esse ritiene di considerare più adeguata delle altre. E se ipotizzassimo che un nucleo di uomini abbia potuto apprendere a-posteriori e per via mistica l'idea di trascendenza per poi progressivamente comunicarla attraverso le epoche a tutto il resto dell'umanità, ciò ancora non escluderebbe l'originarietà e apriorità della presenza di trascendenza nell'uomo, a meno di considerare la mente come completa tabula rasa su cui si può riversare qualunque contenuto esteriore. Ma se è possibile insegnare a un uomo a leggere e scrivere, ma non lo si può con una pianta o un animale, è perché la mente umana è predisposta, e la conoscenza non è mai puro assorbimento passivo di nozioni, ma interazione tra un oggetto e una coscienza soggettiva che possiede in sé le strutture adeguate a cogliere il senso delle informazioni che riceve. Per poter comunicare, anche se in modo indiretto e imperfetto, l'esperienza del trascendente occorre che la mente che riceve la comunicazione possieda già in sé le categorie corrispondenti ai caratteri del vissuto che si vuole comunicare, cosicché si operi un raffronto fra il contenuto della comunicazione e le categorie interpretative in relazione a cui quel contenuto acquisisce un senso e un certo grado di comprensione di esso. Conoscere è sempre questa interazione, confronto soggetto-oggetto, il cui il primo termine della relazione non può mai essere del tutto passivo nell'urto con il secondo. E così si può salvare un livello trascendentale e aprioristico di senso religioso nella mente umana, che le permette di aprirsi alla ricezione delle rivelazioni, anche se non direttamente sperimentate. Poi magari nel pensare questo sono condizionato dal mio essere "occidentale" che mi porta ad ammettere al di là della via esperienziale-mistica verso la trascendenza, anche una via dialettico-concettuale, per cui anche in assenza di esperienza diretta del divino, è possibile un avvicinamento alla luce della spinta astrattiva dovuta al nostro sistema di concetti, struttura comune a tutte le menti


Per Phil

Credo che fondamentale sia non cadere nella confusione tra l'idea di "caducità" e l'esperienza di particolari cose caduche. Noi non abbiamo un'esperienza "ordinaria" della caducità. La caducità è l'idea generale che si riferisce a tutte le cose caduche, mentre noi abbiamo solitamente esperienza non di tale idea generale ma di singole cose caduche, non considerate in quanto tali. Un conto è avere un'esperienza di singole cose caduche, alberi, case, esseri umani, un conto pensare all'idea di caducità. L'esperienza esterna ci dà l'idea delle prime, formiamo il concetto di alberi, case ecc.  per astrazione sulla base dei singoli atti esperienziali dei singoli alberi e case. Diverso è il caso dell'idea di "caducità" non ricavabile per astrazione (come invece le particolari cose caduche), in quanto per astrazione si ricavano solo concetti di enti sensibili, mentre l'idea di caducità, pur riferibile a enti sensibili, ha un significato intelligibile. Infatti l'astrazione consiste nel passaggio da percezioni sensibili a concetti generali alla luce del progressivo rilevamento di somiglianze tra un molteplicità di singoli dati sensibili, fino ad individuare una forma comune riferita a tutti gli enti possedenti quel tipo di somiglianze. Ciò non può invece avvenire nel caso di concetti aventi significato intelligibile come "caducità". Il coglimento del significato unitario di questi concetti non può essere la conseguenza di un'approssimazione tra le somiglianze sensibili, perché, mentre nel caso delle immagini sensibili è possibile scorgere delle somiglianze nelle forme, nei colori, al punto di poter generalizzare formando concetti comprendenti una molteplicità avente in comune tali somiglianze, per quanto riguarda gli intelligibili, questi sono tra loro distinti in uno "stacco" qualitativo ben distinto dei loro significati. Un concetto intelligibile non è mai una generalizzazione di somiglianze, ciascuno di essi possiede un nucleo di significato ben definito che permane identico in ogni individuazione, senza che una individuazione "somigli" più o meno a un'altra.  Cioè, il concetto generale di "caducità" non è dato dal rilevamento di somiglianze tra le diverse forme di caducità, la caducità ha un proprio senso peculiare coglibile già in una propria singola determinazione individuale. L'astrazione è il passaggio da una molteplicità di percezioni alla generalità di un concetto. Nel momento in cui colgo la caducità di un ente finito come l'albero o la vita umana, io non sto solo percependo, ma già giudicando, ma il giudizio è una struttura costituita da concetti, dunque il concetto di caducità è già presente nella mia mente sin dall'inizio, avvertibile sin da una singolo atto esperienziale, senza bisogno di una molteplicità percettiva da cui astrarre. Dunque il concetto di caducità è originario, non il prodotto a-posteriori dell'astrazione, e non ha senso porlo come antecedente del concetto di eternità, o viceversa. Pensare un concetto implica anche pensare il suo opposto, dunque eternità-caducità sono una coppia semanticamente interdipendente che fa parte della struttura essenziale e originaria della mente umana
#426
una delle interpretazioni principali della religione da parte dell'ateismo è quella di intenderla essenzialmente come "proiezione", proiezione di attributi realmente umani, in una realtà trascendente superiore all'uomo. Esempio classico di tale impostazione è Feuerbach. Gli attributi che il teismo attribuisce a Dio, sarebbero proprietà umane, che l'uomo infinitizza collocandoli in una realtà trascendente, come necessità per fronteggiare i propri limiti nei confronti della natura esteriore, cioè la sua finitezza. Cioè, l'uomo cogliendo l'impossibilità, nell'immanenza mondana, di superare i limiti naturali delle proprie potenzialità (direi, prima di tutto, l'angoscia di fronte all'idea del nulla dopo la morte), chiede a un'entità trascendente di sostenerlo nel tentativo di superamento di tali limiti, e perché tale sostentamento sia efficace tale trascendenza dovrà essere da un lato sovrannaturale, trascendente cioè i limiti naturali, ma dall'altro la sua azione di trascendimento dovrà realizzare i valori tipicamente umani: amore, sapienza, potenza... Tale prospettiva mi ha sempre lasciato perplesso. La ragione di fondo del mio non convincimento è la pretesa del concetto di "proiezione" di risolvere alla questione dell'origine del concetto di "trascendenza" nella mente umana. La proiezione è un meccanismo mentale che necessita di essere fondata da ciò che, nella prospettiva atea, presume di poter fondare, cioè la formazione dell'idea di trascendenza nella mente umana. infatti la proiezione, ogni percezione, presuppone un soggetto che PRIMA di proiettare abbia già in mente lo "sfondo" entro cui proiettare le cose, cosicché la percezione dello sfondo, cioè l'idea di Dio, non può essere la conseguenza della proiezione, ma all'inverso, ciò che renderebbe possibile la proiezione stessa, in quanto costituisce l'oggetto verso cui il movimento proiettivo mira. Per proiettare sulla trascendenza determinati attributi ho bisogno di un'intuizione a priori dell'idea di trascendente, come substrato da "riempire" con tali attributi, e pretendere che la "proiezione" spieghi la formazione di tale idea sarebbe cadere in un circolo argomentativo vizioso, dove ciò che vi è da spiegare, l'idea di Dio, è al contempo ciò che fonda la possibilità stessa di ciò che viene introdotta come causa esplicativa (la proiezione). Dunque la proiezione non rende ragione della formazione in noi dell'idea di trascendente, cioè di Dio, al massimo può renderla riguardo le determinate proprietà che una certa tradizione religiosa, come il teismo cristiano, attribuisce a Dio. Non ha tutti i torti Feuerbach quando sostiene che l'idea di Dio, intesa come vuoto substrato al di là degli attributi che la specificano e concretizzano, ha davvero poco senso. In questo modo riteneva di squalificare l'idea di un residuo, l'idea di Dio, al di là degli attributi prodotti dalla percezione umana, cosicché l'individuazione degli attributi (a questo punto, secondo lui, riconosciuti come "umani solo umani") bastava a risolvere il problema teologico.  Eppure proprio l'indissolubilità tra substrato e accidenti può essere lo spunto non per negare, ma per approfondire le implicazioni della critica al proiettivismo ateo. Questo approfondimento va posto a questo punto in direzione opposta alle intenzioni feurbachiane e in generale atee: non, se gli attributi sono umani, anche il substrato di fatto lo è, ma, se l'idea di trascendente non è spiegabile con una proiezione psichica, neanche gli attributi fondamentali possono esserlo.

Tutto ciò riapre l'interesse circa il discorso cartesiano, poi perfezionato da Rosmini, riguardo il fatto che proprio il senso delle categorie con cui il teismo descrive Dio sono il miglior argomento per risalire razionalmente alla sua esistenza. O quantomeno la presenza alla mente umana di tali categorie resta irrisolta fintanto che le ragioni le ci ricercano nell'ambito della dimensione mondana e immanente, perché concetti come "eternità", "totalità", "perfezione" hanno un senso che non si identifica con nessuno degli oggetti della nostra esperienza mondana ordinaria. A mio avviso, occorrerebbe capovolgere l'assunto ateo di risolvere il tema dell'origine del senso religioso al tentativo umanissimo di rispondere psicologicamente a dei bisogni umani. Non sono cioè le categorie teiste a originarsi da dei bisogni, ma sono i bisogni a essere determinati dalla presenza nella nostra mente di tali categorie, non storicamente o psicologicamente derivate, ma originarie e strutturali nell'uomo, al di là delle sue proiezioni arbitrarie. Non sarebbe ad esempio la paura della morte a indurre l'uomo a immaginare un'anima immortale o un Regno di Dio eterno, bensì la paura della morte è solo l'altra faccia della medaglia della speranza della vita eterna, paura impossibile da provare senza la presenza nella sua mente di tale idea, l'idea dell'eternità, presenza dunque non spiegabile a partire da questa paura, ma che la precede, o quantomeno non la segue come conseguenza. Resta dunque intatta la questione della ragion d'essere di tale originarietà della presenza del senso religioso e delle sue categorie nell'interiorità umana come questione indipendente dai livelli dell'esperienza umana immanente a cui si fermerebbero psicologia, antropologia, sociologia, colte nei loro oggetti e metodi di ricerca empiristi e positivisti, questione che mantiene un solido e autonomo carattere metafisico, e dunque filosofico
#427
anch'io noto una generale sopravvalutazione, un'idolatria del viaggio. Mi viene da interpretare ciò come un effetto di una mentalità materialista che identifica la conoscenza con la conoscenza del mondo esteriore, che vede il sapere come una frenetica accumulazione di dati su dati, informazioni su informazioni, e tende invece a svalutare l'aspetto più importante e decisivo, quella della riflessione, dell' elaborazione soggettiva sui dati, riflessione che presuppone una condizione di calma, di silenzio, nella quale l'Io entra in se stesso, raffronta il mondo oggettivo a dei princìpi, dei criteri di giudizi riscontrabili nell'introspezione. Riflettere, operare collegamenti mentali fra pensieri e concetti diversi è un "viaggio" interiore che nulla ha da invidiare al viaggio esteriore. Ma chi ha una visione meramente materiale e quantitativa del sapere inevitabilmente vedrà la riflessione e l'introspezione come sterili perdite di tempo, che non aggiungono alcun dato alla conoscenza del mondo, perché per loro il sapere è pura collezione, sommatoria di dati ricavabili dall'esperienza esterna, mentre viene squalificato il momento della "forma", dell'analisi, della riflessione soggettiva, in cui la persona non assorbe passivamente i dati ma li interpreta sulla base delle categorie della propria mente, che nell'introspezione diviene l'oggetto a cui si presta attenzione. Ovviamente le due cose non sono sempre in conflitto, anche il viaggio esterno può essere utile e arricchente, fornendo al soggetto sempre nuovi stimoli per pensare, nuove fonti di ispirazioni con cui nutrire la propria vita mentale... d'altra parte uno stile di vita eccessivamente "giramondo" e frenetico priva l'uomo di quella lentezza, di quella quiete necessaria per la riflessione, lentezza difficile da conquistare quando occorre sbrigarsi per fare o disfare le valigie o correre per non perdere l'aereo o il treno
#428
Epicurus scrive

"Senza aprire il vaso di pandora sull'onnipotenza, che ci porterebbe all'offtopic estremo... mi limito all'osservazione: non necessariamente ogni concetto di divinità deve avere onniscienza e onnipotenza. Prima dei monoteismi, praticamente tutte le religioni politeistiche hanno divinità più limitate. Et voilà! Una dimostrazione valida per l'esistenza di almeno una divinità non assoluta.   "



Certamente si può ipotizzare una divinità non onnipotente, onnisciente ecc. In questo caso il politeismo sarebbe sicuramente un'opzione più ragionevole rispetto al monoteismo. Però a livello complessivo, volendo ammettere sia la possibilità dell' "onniscienza-onnipotenza" sia dell'assenza di questi attributi, la soluzione monoteista resterebbe estremamente più probabile rispetto a ciascuno delle innumerevoli opzioni interne al politeismo (2, 3, 4 dei...). Infatti nel caso della necessità che Dio non possa che essere senza limiti "vincerebbe" il monoteismo, se al contrario non potesse che essere limitato, vincerebbe il politeismo, ma comunque l'opzione "1 Dio" resterebbe qualitativamente più significativa delle varie opzioni interne al politeismo prese una per una. E conseguentemente l'ateismo resta un'opzione estremamente più forte a tutte queste singole opzioni politeiste, perché per eliminare in  colpo solo tutte le opzioni politeiste gli basterebbe mostrare la non-esistenza di un Dio, anche limitato, senza bisogno si smontarle una per una. Insomma, tutto dipende dal significato con cui intendiamo e poi definiamo il concetto in questione, nel nostro caso "Dio"
#429
premetto che non mi ritengo un esperto di nulla e che non posso onestamente dire di conoscere gli autori che indicherò nei minimi dettagli, ma che si sono rivelati degli spunti, delle fonti di ispirazioni, che poi però cerco di rielaborare soggettivamente, e amalgamare all'interno di un mio personale e modestissimo sistema di pensiero. Più che l'accuratezza filologica in questi autori cerco degli stimoli che però provo a sottoporre al vaglio del mio senso critico.

direi: le colonne della metafisica antica, Platone e Aristotele, il primo per aver colto il nesso tra intelligibilità e incorruttibilità e per aver compreso come un'autentica e razionale conoscenza non può che porre come oggetto le idee universali degli enti, mentre il contingente determina l'arbitrarietà di ogni discorso rivolto ad esso. Il secondo per aver corretto il rigido dualismo intelligibile-sensibile del primo, riferendo l'intelligibile all'immanenza degli enti, alla luce del concetto di "essenza" o "forma", cogliendo la verità del fatto che solo l'individualità esiste, e che tale individualità presuppone un principio unitivo, substrato degli accidenti, la sostanza. Inoltre per aver colto la dialettica potenza-atto, grazie a cui poter rendere ragione al tempo stesso del divenire delle cose, e al contempo del loro carattere di necessità sostanziale, senza il quale si violano i principi della logica cadendo nell'irrazionalità, superando così la contrapposizione eleatica tra essere e divenire

Poi Agostino e Tommaso, che hanno saputo rielaborare Platone e Aristotele mettendo in luce le implicazioni in chiave di spiritualità del loro pensiero, sotto l'impulso del clima culturale dominato dalla teologia cristiana. Tra i due dottori trovo più convincente Agostino, che conduce il platonismo alla coerente conclusione che la verità fondamentale ed evidente abita nell'interiorità dell'uomo, in quanto la dialettica tra intelligibili non produce conoscenze accidentali (esempio della matematica), e fornendo un validissimo contributo alla lotta contro lo scetticismo, nell'individuazione dell'autocoscienza come certezza da cui partire (si fallor sum): con Agostino l'interiorità non è qualcosa che chiude l'uomo nel soggettivismo solipsista, bensì lo apre alla relazione con l'Universalità. Inoltre la collocazione del rapporto uomo-Dio nell'interiorità, nonché il dualismo Città Celeste-Città Terrena,gettano i presupposti dell'idea moderna di laicità, in cui piano privato religioso-e piano politico pubblico, cominciano a poco a poco ad essere visti come divergenti, anche se ovviamente non credo che Agostino, figlio del suo tempo, potesse rendersi pienamente conto delle implicazioni politiche sociali della sua visione a lungo termine

Cartesio, che elabora un metodo filosofico che porta la razionalità ai suoi limiti radicali, dubitando di tutto, a ricavando la certezza del Cogito ergo sum, non in modo ingenuo, ma come conseguenza radicale di un dubitare portato alle estreme conseguenze, quindi davvero in modo critico. Il suo metodo è un inno alla libertà razionale dell'uomo, che non si sottomette alle autorità storiche, agli ipse dixit, ma valuta da sé, con la sua logica, il grado di evidenza o arbitrarietà delle convinzioni del senso comune, senza timori reverenziali. La prova dell'esistenza di Dio che parte dall'impossibilità che un ente imperfetto possa autonomamente produrre da sé l'idea di perfezione è forse l'impostazione delle prove che trovo più convincente ed a cui si ispirerà poi un grande filosofo sottovalutato come Rosmini, con la sua Idea dell'Essere, ponte tra uomo e Dio

Di Hume apprezzo la critica al concetto ingenuo di causalità, e alle fallacie logiche del metodo induttivo, che pretende di ricavare leggi generali dall'accumulo di osservazioni particolari (critica poi ripresa nel novecento da Popper e Russell), ma anche il principio della non deducibilità dei valori morali, del "dover essere", dalla mera constatazione fattuale delle cose "l'essere così come è". Di Locke il liberalismo politico, che vede lo stato non come un valore etico in sé, ma come funzione che trae la sua ragion d'essere dalla necessità degli individui di garantire i loro diritti fondamentali, l'idea che lo stato non debba imporre una religione, che resta fatto intimo, ma limitarsi a tutelare la libertà di ciascuno fintanto che non lede quella di altri

Husserl rivendica l'anelito della filosofia ad andare "alle cose stesse", a individuare un livello di evidenze universali ed essenziali delle cose, la sua "epoche" fonda l'autonomia e l'irriducibilità della filosofia rispetto alle altre scienze, in quanto il primo passo del filosofo è quello di "mettere tra partentesi" i risultati delle scienze empiriche, che possono solo limitarsi a una conoscenza che coglie contingenza fattuale delle cose, ma non i loro legami essenziali, che restano appannaggio della filosofia, che in questo modo mantiene un proprio ambito peculiare ed anzi fondativo rispetto alle altre scienze, la filosofia coglie il senso profondo delle cose, la qualità, in contrapposizione al positivismo. Husserl recupera il punto di partenza cartesiano dell'autocoscienza, approfondendolo e perfezionandolo, con l'idea di intenzionalità, con cui l'Io non è mai chiuso in se stesso, ma correlato alle oggettività noematiche. Con ciò la fenomenologia scardina il dualismo kantiano fenomeno-noumeno, in quanto l'essenza delle cose emerge proprio in quanto fenomeno oggettivo correlato degli atti soggettivi della coscienza, residuo indubitabile dell'esperienza del mondo. L'impossibilità di una conoscenza al di là della coscienza non porta al fenomenismo o solipsismo, ma ad una visione del reale più oggettiva, in quanto autocritica, nel quale l'Io invece di abbandonarsi ingenuamente al corso delle esperienze vissute, riflette sul senso della propria soggettività e trova la coscienza come dimensione trascendentale, dunque piano al cui interno individuare le varie evidenze

Edith Stein segue il metodo husserliano portandolo a conseguenze originali, un'immagine analitica e razionale dell'essere umano, sia nella sua individualità, che nella sua partecipazione ai contesti intersoggettivi (empatia, comunità, massa, società, stato) e finisce per integrare la sua ispirazione fenomenologica, razionale con il recupero dei classici del pensiero metafisico, Aristotele, Tommaso, Duns Scoto, nel contesto dell'analisi del rapporto anima-corpo, oppure di Agostino e dei grandi mistici nell'idea di un'anima che nei livelli più profondi di sé conduce l'uomo al riconoscimento della presenza di Dio e di una dimensione pienamente spirituale, che costituisce l'uomo come persona davvero libera, libertà che trova proprio nel rivolgimento dell'Io alla profonda interiorità della sua anima il suo momento fondante

Infine citerei autori italiani ingiustamente poco conosciuto come Carlini, Sciacca, Stefanini, che con molte importanti differenze fra loro, si sono impegnati nell'apprezzabile tentativo di svincolare l'Atto puro dell'idealismo gentiliano dalla sua condizione di immanenza soggettivistica, ancorandolo alla tradizione della metafisica agostiniana, cercando un'integrazione tra l'interiorità metafisica agostiniana e classica e le conquiste del pensiero moderno, cartesiano e kantiano, nel quale l'Io, più che relazione con Dio, viene posto come fondamento e garanzia della conoscenza del mondo storico, e in cui la filosofia richiede come dimensione preliminare la gnoseologia, l'analisi critica delle condizioni di conoscenza razionale. Risultato di questo tentativo di integrazione è l'idea di persona umana come dinamismo, elastico tra due polarità opposte ma complementari, finito e infinito, immanenza e trascendenza
#430
pur essendo a mio modo credente e convinto della possibilità di argomentare razionalmente l'esistenza di Dio, trovo questa prova scorretta, in quanto fondata su parametri di giudizio meramente quantitativi e non, come dovrebbe essere ben più importante, qualitativi. Non tutte le opzioni, identificabili con un certo numero di divinità, possono avere lo stesso peso probatorio, il peso deriva da un principio qualitativo, cioè quanto quell'opzione riesce a giustificare efficacemente un certo aspetto della realtà. Il concetto " esistenza di Dio" è un concetto con cui i credenti credono di poter spiegare alcune cose, (origine dell'Universo, della mente umana ecc., ci sono variazioni in base alle diverse modalità di impostare la dimostrazione). E in base al fatto che l'esistenza di Dio è ritenuta efficace per spiegare certe cose il concetto di "Dio" assume un determinato significato, quel significato che permette al concetto di essere esplicativo, significato che fissa un limite alla genericità dei modi in cui Dio può essere pensato e definito. Questa limitazione si impone necessariamente anche sul numero dei vari ipotetici dei. Un Dio dotato di determinate proprietà come l'onniscienza o l'onnipotenza esclude, o quantomeno rende fortemente problematico il politeismo, cosicché l'opzione monoteista non può essere "una fra le infinite opzioni", ma una con un carico probatorio ben più forte. Ma al tempo stesso anche la posizione atea, nella misura in cui riuscirebbe, a torto o a ragione, a sostituire l'idea di Dio, con alternativi principi che risponderebbero alle stesse domande a cui il credente crede di rispondere con Dio, diverrebbe molto qualitativamente più forte rispetto alle varie opzioni corrispondenti alle cifre con cui i vari dei si enumerano
#431
Non ricade sull'astrazione la responsabilità di illudere l'uomo di poter giungere un sapere perfetto e totalizzante. La responsabilità sta nella superbia dell'uomo, che disconosce la sua finitezza, presume di divinizzare se stesso e di poter eliminare la limitatezza dovuta al suo situarsi nello spazio-tempo dalla sua visione del mondo. Comunque io distinguerei l'incontrovertibilità di alcune verità dalla presunzione di totalità del sapere. Ammettere l'impossibilità umana di poter conoscere perfettamente e una volta per tutte tutti gli aspetti del mondo non implica necessariamente l'impossibilità di raggiungere delle certezze almeno parziali, che non pretendono di risolvere in se stesse tutte le questioni dell'universo. Pensando il sistema delle conoscenze come un edificio in costruzione, il carattere dinamico della conoscenza assume un senso positivo e costruttivo, se i nuovi mattoni, i nuovi dati e scoperte si aggiungono ad altri mattoni già presenti, e soprattutto se l'intero edificio poggia su fondamenta solide, che sappiano reggere la casa. Senza le fondamenta la casa crolla. Fuor di metafora, le fondamenta sono i principi primi del pensiero, quel nucleo di verità ontologiche e logiche, che sono i presupposti senza i quali nessun pensiero e conoscenza della realtà. Ovviamente, questo nucleo è dal punto di vista quantitativo limitato,  "piccolo", non esaurisce la totalità della possibile conoscenza, ma senza di esso nessun altra conoscenza è possibile, anche se poi il suo utilizzo può essere implicito e non pienamente consapevole da parte del soggetto conoscente (come accade naturalmente, nell'atteggiamento naturale-ingenuo dell'uomo, che in Husserl precede la conversione fenomenologica). La casa non si riduce certo alle fondamenta, ma sono le fondamenta a rendere possibile l'aggiunta di nuovi mattoni. Ovviamente è possibile anche che il costruttore ritenga sufficientemente solide le fondamenta quando invece non lo sono, ma questa è solo un'accidentalità, se fosse un condizione necessaria, non avrebbe senso continuare a costruire nulla. Che senso avrebbe continuare a ricercare e costruire una visione unitaria del sapere se ci rassegniamo a-priori che i punti di partenza sono davvero fondanti, e ogni volta occorre ripartire da zero, facendo e disfacendo la trama senza arrivare a costruire nulla di solido e positivo? Allora sì che la scienza e la filosofia diverrebbero solo un divertente gioco di società, in cui ci si diverte a teorizzare e a sollevare ipotesi, sapendo che però a un certo punto che i risultati a cui giungiamo dovranno essere abbandonati per far posto ad altri, che però subiranno la stessa sorta e così via, senza arrivare a nulla. Non c'è cioè alcun conflitto fra l'individuazione di un nucleo di verità incontrovertibili (le fondamenta) e il dinamismo storico della ricerca (il continuo aggiungere di mattoni su mattoni), anzi uno avvalora l'altro.
#432
L'idea di occuparmi, nei stretti limiti delle mie qualità, di filosofia, la vedo come un aiuto fondamentale a rigorizzare e legittimare le pretese di razionalità dei nostri discorsi e personali di visioni del mondo. Al di là ciò che molti possono pensare, il limitarsi ad avere delle opinioni soggettive sulle cose non è ancora filosofia, il momento filosofico subentra nel momento in cui la presunzione di oggettività di tali opinioni non è arbitrario, ma razionalmente fondato su argomenti che corroborano tale pretesa in modo radicale. La radicalità è data dal fatto che il compito della filosofia è l'individuazioni di quei princìpi e verità universali, valide al di là dei limiti e delle contingenze spazio-temporali, dunque fondamenti di tutte le altre verità. Utilizzare dei modelli, dei paradigmi ideali di leggi, relazioni fra concetti non vuol dire fuggire dalla realtà particolare empirica (a torto definita "concreta"), ma è indispensabile per interpretarla in modo il più possibile razionale e rigoroso. La filosofia è discorso, astratto, certo, nel senso che mira a individuare l'essenza, l'idea dei fatti reali, non i fatti in sé, ma questo è solo il primo dei due "momenti", il secondo momento consiste ne tornare al reale, ma nel senso di ricondurre l'esperienza dei fatti reali, politici, sociali, economici, all'interno dei concetti e delle categorie generali che lo sguardo trascendentale e "astratto" del filosofo ha permesso di elaborare, e le relazioni necessarie che collegano tra loro i concetti corrispondono alle reali relazioni che nella realtà legano i fatti empirici riconducibili ai concetti di quei fatti. Cogliere l'essenza delle cose e delle relazioni fra le cose, vuol dire individuare il senso generale delle cose, che nella loro totalità costituiscono quella visione d'insieme, impossibile da guadagnare fintanto che ci si limita alla ricezione ingenua e immediata dei singoli particolari. In sintesi, la filosofia è astrazione, ma non autoreferenziale, ma finalizzata alla formazione del senso critico rivolto all'esperienza del concreto. Almeno, ciò è questo è il modo con cui io nel quotidiano cerco, con alterne fortune, di intenderla e "applicarla"
#433
Rispondo a green demetr

 

gnoseologia e filosofia critica coincidono, in quanto, se il momento più radicale ed elevato della criticità sta nel mettere in discussione il soggetto stesso della critica, cioè l'autocritica, allora è la gnoseologia, il piano nel quale la filosofia non si limita ad affermare delle tesi sul mondo circostante, ma riflette sulla validità dei propri schemi e categorie soggettive di conoscenza e esperienza, delimitando kantianamente (a prescindere dal fatto che poi la critica kantiana sia stata effettivamente adeguata e coerente, e ho i miei dubbi), i limiti e possibilità dei nostri strumenti conoscitivi, l'ambito in cui la filosofia mostra pienamente la sua razionalità e criticità, cioè "pensa" nel senso radicale del termine. Ciò che fa sì che l'epistemologia sia una branca della filosofia, che la filosofia possa riflettere sullo statuto epistemico dei metodi di ricerca delle altre scienza, mentre un fisico o un chimico, in quanto tali, non avranno mai gli strumenti per definire i limiti e possibilità di un discorso metafisico, perché depositari di un sapere non davvero autocritico. Ma perché l'autocritica raggiunga il suo scopo occorre che riesca a distinguere nell'intreccio inizialmente caotico e indistinto dell'esperienza dei fenomeni ciò che è determinato dalla nostra soggettività particolare, col suo carico di tradizione storica che ci influenza, che ci porta a considerare come universalmente valido ciò che invece è il portato della tradizione culturale contingente in cui siamo situati, il carico dei pregiudizi che appanna la visione essenziale dei fenomeni, da ciò che invece sono gli aspetti necessari e universalmente validi riguardo ai fenomeni, che rientra nel campo di un'evidenza indubitabile, riferibile alla certezza della presenza dei nostri vissuti, considerati nella loro generalità, con cui facciamo esperienza del mondo. Il primo campo attiene alla soggettività particolare, la seconda a quella trascendentale. Il soggetto particolare (ciascuno di noi inteso come singolo) non può essere fondamento e garanzia autosufficiente della verità, se così fosse ciascuno di noi sarebbe Dio, in possesso permanente della verità, mentre in realtà la nostra conoscenza è imperfetta e si imbatte in un insieme di verità e falsità, cosicché il fondamento delle nostre verità parziali si identifica con un altro da noi, un modello di verità universali con cui la nostra mente entra in contatto seppur in misura imperfetta. L'uomo non è cioè misura della verità, ma può trovare scavando nella sua coscienza un più o meno lontano riflesso di essa. L'io trascendentale, il piano dell'evidenza piena dei fenomeni è il fondamento della verità , il problema è che nella nostra condizione storica questo Io si dà come astrazione, seppur epistemologicamente necessaria. 

 

A questo punto mi sentirei di dire qualcosa che potrebbe apparire provocatorio e scandalizzare qualcuno (temo tra l'altro di aver già abituato in ciò in questo forum...). Credo che la tecnica sia un problema che la filosofia del novecento abbia eccessivamente sopravvalutato. Non nego che la potenza, ciò a cui si può accedere tramite la tecnica, abbia un effetto incantante sull'uomo, ma tale effetto si attua sui suoi pensieri e sulle suoi azioni solo se l'uomo si lascia incantare, solo se in lui prevalgono le tendenze materialiste che conducono a porre nella scala valoriale personale i beni materiali che la tecnica può produrre ad un livello superiore rispetto ai beni spirituali. In particolare, porre la tecnica come fonte primaria di valore, fondamento etico in nome del principio che tutto ciò che è tecnicamente realizzabile di fatto è anche legittimo moralmente (e poi di conseguenza legalmente), si caratterizza come un' inversione nell'ordine che vede i mezzi come assiologicamente inferiori e subordinati ai fini. Tentazione, che certamente è spesso presente, per qualche esaltato che ritiene la cultura umanistica, la filosofia, la religione, antiquati impicci che impedirebbero all'uomo di esplicare in pienezza le sue potenzialità di conoscenza scientifica (nel senso empirista), tecniche. Ma tutto ciò non implica affatto che il corretto ordine tra mezzi e fine non possa essere riconosciuto, e considerare la tecnica per ciò che è, uno strumento, sia pur indispensabile, al conseguimento dei fini, che in un'umanità che realizza in pieno la sua natura di tipo contemplativa e razionale, sono di tipo spirituale e non direttamente raggiungibili dalla tecnica. Questa si limita a svolgere i compiti pratici necessari alla sopravvivenza, senza però fondare i fini in relazione a cui la vita assume valore e senso, tale fondazione resta demandata al libero arbitrio del soggetto. La considerazione della tecnica come fine e non come strumento, non va ricondotta alla tecnica in sé, ma a quella inalienabile componente umana di materialismo, prevista nello statuto ontologico dell'uomo, per il quale l'uomo non è puro spirito, ma mantiene in sé la tendenza a idolatrare e a considerare come unica realtà concreta gli oggetti sensibili, quelli su cui abbiamo tecnicamente potere, e squalificare come irrilevante astrazione i beni spirituali e intellettuali. Che un tempi gli uomini combattessero con le spade e ora con armi nucleari o batteriologiche è un problema storico, non filosofico. La filosofia si occupa di distinguere l'essenza qualitativa dei fenomeni, non le gradazioni quantitative interne allo stesso concetto, e il passaggio dalle spade alle atomiche è un passaggio certamente oceanico, ma pur sempre quantitativo, senza un salto di qualità. La qualità del fenomeno resta sempre la stessa, la violenza, l'impulso alla sopraffazione, che al di là del progresso quantitativo di efficacia dei mezzi a disposizione, possiede un nucleo unitario di senso che la filosofia, intesa qua come antropologia, è chiamata ad analizzare. Cioè, è la qualità stabile della natura umana, le sue zone d'ombra oggetto dell'analisi filosofica. Paradossalmente più che la tecnica in sé, sono proprio gli eccessivi allarmismi e problematizzazioni sulla tecnica ciò che compromette la filosofia, distogliendola dal suo ambito tradizionale, quello delle classiche questioni della metafisica e dell'ontologia, che le sono davvero peculiari, e che non condivide con alcuna sociologia o antropologia empirica, quelle sì, davvero intenzionate a indagare i processi e sviluppo quantitativi della storia umana

La filosofia non può dire "cosa dovrei essere", né quali dovrebbero essere i fini dell'agire politico. Questo in virtù della razionalità della filosofia, che non può individuare il valore etico dei fini, dato che a mio avviso i fini etici sono frutto di preferenze soggettive sentimentali. La mia idea di "bene" o "felicità" è mia e non necessariamente di altri. Tuttavia la razionalità filosofica porta a individuare i mezzi necessari e coerenti a perseguire una certa soggettiva idea di bene, e a distinguere un livello minimo di oggettività nel quale trovare delle condizioni necessarie per l'uomo per ottenere non la realtà, ma quantomeno la possibilità di un certo benessere e dignità materiale e spirituale. Ciò nella misura in cui la filosofia studia le strutture essenziale dell'essere umano. Come appare abbastanza ovvio, non si può stabilire in cosa possa consistere il bene di qualcuno senza conoscere quel qualcuno, il bene è la realizzazione armonica relativa alla determinata natura di un ente, esistono tanti beni quanti sono i tipi di enti nel mondo. Questo è il fondamentale apporto del momento teoretico da cui dovrebbe poi svilupparsi un discorso e un agire etico-politico, senza tale apporto si va alla cieca


Non ho ben capito come debba intendersi per "costruttivismo" in questo contesto particolare
#434
Citazione di: green demetr il 06 Giugno 2017, 14:59:34 PMx tutti e per nessuno :P cit paul ".......allora il problema è che la filosofia non lasci alla scienza politica il dominio del sociale e all'economia, ma che la filosofia si riappropri della filosofia politica della filosofia morale e del diritto, della filosofia economica, il che significa mettere in discussione i principi costitutivi delle scienze, come appunto insegna Preve. Si vuol capire Toni Negri? Bisogna capire chi lo ha influito nella formazione del suo pensiero e su cosa si fonda, vuoi capire Marx o Engels , si tenta di capire quali pensiero abbiano influito su di loro, ecc. Quindi bisogna ricostruire la genealogia della politica, della economia, della morale e del diritto, ecc. e la fenomenologia del pensiero. Significa ,daccapo entrare nelle origini dei pensieri delle prassi, ....... Infine, renderlo fruibile alla popolazione, renderlo democratico, trovare una via mediatica libera dal MINCULPOP delle dittature travestite di democrazia.: fare cultura politica, non politica culturale, vale a dire rendersi indipendenti dai poteri politici ed economici" No Paul, non ho scritto quello ;) Perdonami se non mi rapporto dialetticamente per una volta con te. Ci tengo a ri-sottolineare qualche punto, magari mi servirà a me stesso, come achtung futuro! Ho scritto che il compito della filosofia è quello anzitutto di tornare a dare giudizi sulla questione generale dello stato. Il ruolo della filosofia è quello critico, lo sporcarsi le mani, si intende a livello di quello che si sta parlando (che sia concreto e non astratto). I problemi da affrontare non sono relativi a chi debba andare il potere (economia. politica o filosofia), ma al ruolo dello stato. Ossia facendo una genealogia delle pratiche a come si è costituito uno stato. Ora lo stato si costituisce come garante della pace interna a fronte di un nemico e in nome di un qualcosa che chiamiamo morale. La filosofia si è battuta per abbattere la concezione di nemico e per la costituzione di una etica universale (a sinistra per lo meno). Ma ha fallito. Ha fallito perchè non esiste una etica che controlli una morale, perchè la morale è sempre stata falsa. (e dunque tutte le etiche costruite finora sono false). Solo grazie al postrutturalismo francese, ci si è accorti, che il problema è eminentemente psicologico. A questo punto la questione è intendibile solo da pochi. E' per questo che sono più ottimista che lo stato sia autodissolva in sè, in favore di una visione ultraconsumistica americana. Dove in nome del consumo, l'uomo può desiderare quello che vuole. Il problema è che tutto sarà legato in nome del consumo, e cioè a chi può consumare rispetto a chi non può. (a chi invera i propri desideri: i ricchi). La filosofia che ormai è diventata di nicchia rischia di sparire come pratica. Anzi per Sini è già sparita come l'abbiamo sempre intesa fin'ora. Lo ripeto la filosofia ha firmato la sua condanna, di sua mano. Ma rimane come capacità critica, la filosofia ha dato nella sua storia (300a.c-1900dc) una miriade di spunti che vengono oggi ricondotti a storia della filosofia. La filosofia è ormai monumento, non ha più nulla di vivo. Rimane cosa sarà del pensiero di pratica (l'utopia) della filosofia. Nel corso degli anni tra entusiasmi e attacchi paranoici stordenti, sono giunto alla conclusione che l'utopia si può solo inverare (come pensiero) nella comunità degli amici della filosofia. Ossia una compagnia per pochi visto l'andazzo e utopicamente per molti. L'altra strada di cui parli è quella politica. Ma io ci tengo a distinguere. Per tutto quello che ho scritto sopra (e ancora meglio nel mio penultimo intervento. ( https://www.riflessioni.it/logos/tematiche-filosofiche-5/la-filosofia-e-capace-di-sporcarsi-le-mani-di-attualita/msg12622/#msg12622) La filosofia che resiste, la resistenza deve essere SOLO politica. Non deve essere economia, non deve essere morale, non deve essere scienza. Il suo unico intento è di resistere (inutilmente), gratutitamente, acriticamente, come forza che frena il capitalismo. Il suo unico nemico è il capitalismo. Questo è per dare tempo alla comunità degli amici di poter formarsi. Ed è quello che intuì l'ultimo grande filosofo: Heidegger. La svolta non è mai stata una svolta, ma un sussulto, un prendere atto, che l'amico non era più disponibile, perchè non era più disponibile la sua carica positiva di giudizio. La lunga agonia del pensiero novecentesco (ma appunto la filosofia muore con la morte di Nietzche 1900) è stata questo prendere atto sempre più vivido, fino alle forme di pura astrazione formale, piena di dolore, e di sgomento, che è il post-strutturalismo francese. La filosofia analitica (i cani dell'impero) l'ha attaccatto a lungo, fino a rendersi conto ultimamente che forse ma forse, qualcosa di buono c'era. Ma sono solo fuochi fatui, per chi come me ha vissuto quello stesso sgomento. Per chi si rende conto di quanto è sola e senza amici la filosofia. La lotta di classe, non ha senso, perchè dovrebbe essere in nome di qualcosa. E il nome di qualcosa si chiama capitalismo, questa paradosso non l'hanno capito ancora! Fare qualcosa in nome di qualcos'altro. (è il grande insegnamento di freud e lacan). Il grande altro, il grande fratello, il grande inquisitore, sono figure dell'inconscio che partono dalla cortocircuitazione dell'impossibilità umana. (dall'assenza di amicizia) I grandi romanzi di Dostoevskj sono un testamento imperituro a questa verità. (una lunga carrellata di personaggi votati al nichilismo, all'autodistruzione). Per non parlare di quelli enigmatici Kafkiani. In cui la scepsi è evidente. Il castello da una parte e il villaggio dall'altra. Ma il villaggio vive IN NOME del castello, non parlano d'altro che del CASTELLO, ma nessuno va al castello. La condizioni di limbo schizoide in cui versano tutti mi terrorizza. Perchè se tutti la abitano alla fine la abitiamo anche noi. E già! il castello della filosofia è diventato l'episteme. Bizzarro, perchè la firma di condanna a morte della filosofia è proprio la scienza. Ma la scienza non pensa. Cari Davintro e Paul....NON PENSA!!! ma voi fate pure quello che volete ;)

Io direi che la filosofia, quando coltivata in modo serio e rigoroso, è una scienza, e una scienza che pensa, e lo fa in modo radicale. "Pensa" perché in grado di fare autocritica, mettere in discussione, stabilire i fondamenti, della conoscenza, della validità dei suoi metodi, dei limiti e possibilità di un certo metodo nell'elaborare una visione razionale della realtà. "Pensa" nel senso che mira a individuare i fondamenti, le strutture apriori e necessarie della mente soggettiva della conoscenza, e ciò permette di  criticare e rendersi conto degli aspetti dei fenomeni del mondo oggettivo riferibili alla nostra particolarità soggettiva, quindi non razionalmente fondati. Tale consapevolezza presuppone un approccio riflessivo, nel quale il soggetto della conoscenza riflette su se stesso, distaccandosi dal flusso dell'esperienza esteriore, esperienza esteriore, che delimita invece l'ambito delle scienze empiriche (compresa la psicologia, quando non segue un approccio fenomenologico, ma mutua i modelli epistemici delle scienze fisicaliste) e che impedisce loro di prenderne le distanze e valutarne criticamente i presupposti, che quindi impedisce loro di godere della radicalità del pensare. La riflessione sulle scienze è sempre una riflessione filosofica. E una volta individuati i fondamenti dei vari modi di relazionarsi dell'uomo alla realtà credo che il piano epistemologico-teoretico e quello dell'azione performativa rivolta al sociale non  possano essere scissi, dato che l'azione è sempre determinata anche dal tipo di razionalità attraverso cui pensiamo di legittimare la nostra visione del mondo. Non direi che una filosofia che voglia essere primariamente politica debba ripudiare il suo carattere teoretico e scientifico, ma porre tale carattere come guida dell'elaborazione di un dover essere" mirante al bene comune. Chiaramente, una volta che ci si rassegna all'impossibilità di un discorso razionale sulla metafisica (metafisica che secondo me coincide pienamente con la filosofia), rassegnandoci all'egemonia culturale degli orientamenti culturali improntati al nichilismo e allo scetticismo, la filosofia perde il suo tratto peculiare, e allora non ha più senso chiederle di intervenire nel sociale e nel politico. La filosofia ha il diritto-dovere di entrarci, ma restando se stessa, con i suoi fini, la sua metodologia, non imitando altri saperi o altre formae-mentis. Altrimenti è più sensato e coerente lasciar stare, ammettere la non costruttività della filosofia, lasciandola chiusa nella "torre d'avorio" e relegare la politica al pragmatismo che riduce tutto alla frenesia dell'azione, al "fare per il fare" precludendosi di godere di un'ispirazione teorica, che attribuisca al "fare" delle finalità ideali-regolativi e una razionale valutazione dei mezzi, non lasciandolo alla cecità, oppure al limitarsi a porre come obiettivi la spettacolarizzazione dell'azione e la conseguente acquisizione del consenso delle masse, sempre inevitabilmente effimera, cioè la demagogia.
#435
la filosofia, proprio in quanto tale, ha un rapporto privilegiato con l'attualità, in quanto rivolta a cogliere gli aspetti della realtà che restano stabili al di là del divenire temporale, coglie i princìpi primi, le verità sovratemporali e universali, che proprio perché non dipendenti dalla contingenza temporale, sono perennemente attuali. Un discorso avvero filosofico è sempre necessariamente attuale. L'accezione di "attualità" a cui si ci riferisce non è evidentemente quello della cronaca, della notizia del giorno, e tuttavia anche questa accezione non è affatto tagliata fuori dal discorso filosofico, perché la catena di eventi storica non è un caotico divenire, ma risponde a un complesso di leggi a  priori, che sono appunto l'oggetto della filosofia, che le permette di occuparsi anche in un certo senso del divenire. Non si tratta di "sporcarsi le mani" (espressione che non mi è mai piaciuta per nulla, che trovo retorica e demagogica, ma è solo un mio gusto...), ma di essere, per la filosofia, fedele a se stessa, al suo cogliere le essenze, il senso universale dei concetti e delle categorie da utilizzare per interpretare e ordinare i fatti in una visione coerente e razionale, costituita da un sistema di relazioni logiche, lavoro che non può essere alla portata del giornalismo, che si limita a raccogliere empiristicamente i dati senza ricondurli davvero a una visione globale. In questo senso, il ruolo della filosofia per la conoscenza dell'attualità diviene indispensabile e fondativo, in quanto l'individuazione dell'essenza, del senso universale dei concetti, che resta tal al di là delle forme in cui il concetto si storicizza nelle situazioni contingenti, è fattore necessario per l'utilizzo di tali concetti nel lavoro di intepretazione e sistematizzazione dei dati particolari nella visione globale. Ruolo necessario ma non sufficiente, in quanto la raccolta del "materiale" su cui applicare la concettualizzazione deve pur sempre essere svolto in virtù di una efficace applicazione del metodo delle scienze induttive-sperimentali, che osservano la realtà nel particolare, e che affiancano il giornalismo, mentre il metodo filosofico è di tipo deduttivo-dialettico; i due livelli vanno integrati. Per semplificare, rifacendosi alla gnoseologia kantiana, si potrebbe dire che la filosofia elabora le forme a priori della conoscenza dell'attualità, i saperi empirici, insieme al giornalismo, mettono  disposizione il materiale da ordinare tramite le forme, fermo restando che, fintanto che si resta sul piano della filosofia, quel complesso di "forme", diviene a tutti gli effetti "materia", peculiare contenuto di ricerca, la cui modalità di apprensione è specifica, e distinta da quella empirica, invece adeguata a raccogliere il materiale degli eventi particolari e storici