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Messaggi - davintro

#436
Percorsi ed Esperienze / Re:contro la gratitudine
04 Giugno 2017, 21:20:18 PM
certamente, come scrive Angelo Cannata, il modo in cui mostriamo di rispondere a degli atti di generosità altrui sono un fattore determinante per future possibili amicizie. Tuttavia per quanto riguarda l'amicizia vale lo stesso discorso dell'amore: dal mio punto di vista le condizioni fondamentali dell'amicizia sono la stima reciproca e comuni interessi (e le due cose sono sempre in qualche modo fortemente legate). Le azioni dettate da generosità certamente contribuiscono a dare un'immagine della persona positiva, ma non sono necessariamente sufficienti a costituire un'immagine tale da pensare di investire tempo ed energia nell'amicizia. Come l'amore, anche l'amicizia nasce dalla spontaneità soggettiva che porta a simpatizzare con qualcuno, indipendentemente dalla necessità di ricambiare un gesto benefico nei miei confronti. Il fatto di ringraziare anche quando si esce dal ristorante, al di là del fatto che non ha razionalità, dato che i pasti mi vengono offerti non certo per affetto, ma in cambio di soldi, rientra in una convenzionalità di cortesia e di educazione che una volta non seguita conduce, nella nostra cultura, ad esprimere un segno di ostilità, ragion per cui, pur constatandone l'illogicità del gesto, sto sempre attento uscendo da un negozio, un bar, una pizzeria a ringraziare, perché non desidero mostrare ostilità a persone verso cui non ho nulla contro. Ma la cortesia e l'etichetta sono bel lontane dall'identificarsi con l'amicizia, con la vera amicizia, per quanto possano contribuire in una certa misura a favorirla. Resto convinto che la sopravvalutazione del valore positivo della gratitudine consiste in un fraintendimento dell'idea di amore, che viene visto come ciò che conduce chi ama a privarsi di qualcosa che viene offerto a chi si ama. Una visione in fondo materialistica, che considera la vita interiore come pervasa da un'energia finita, che si perde ogni volta che si spende, come fosse l'energia elettrica che si consuma fino a esaurirsi quando viene in atto, e non coglie il carattere spirituale, che conduce ad una sorta di "autoricaricamento psichico",  a una creazione di nuove forze, l'amore porta energia motivazionale che viene espressa nelle azioni conseguenti verso il destinatario del sentimento, ma che non svuotano l'amante, perché il fatto che l'amore rispecchi la  sua sensibilità valoriale ripaga interiormente di piacere il tempo, le energie spese, per il bene dell'amato. Questa è la conseguenza del carattere libero e spontaneo dell'amore. In questo contesto un "dovere etico" della gratitudine ha davvero poco senso. Sia in quanto inutile, dato che non c'è nulla da ripagare quando chi ci beneficia li fa per amore o affetto, sia perché se la nobiltà dell'amore sta nella spontaneità, nel suo rispecchiare una libera sensibilità interiore, un forzato dovere oggettivo di ricambiare un affetto al di là del suo presentarsi in modo spontaneo, produce solo una degradazione del sentimento
#437
Percorsi ed Esperienze / contro la gratitudine
01 Giugno 2017, 00:53:37 AM
topic, se si vuole, un po' provocatorio

Siamo abituati a pensare alla gratitudine come un sentimento sempre lodevole e positivo, ma siamo sicuri che sia sempre così? Si potrebbe anche pensare che la gratitudine non sia propriamente una virtù,piuttosto una forma "commerciale", dunque degradata, di amore. Ragioniamo un attimo. Tizio mi fà un favore. Ci sono due casi. Caso 1: lo fà in modo disinteressato, per affetto. Nessuno lo ha obbligato, per lui è stato un piacere. Bene, in questo caso io non gli devo nulla, non c'è nulla da ricambiare perchè di fatto egli non ha perso nulla, non c'è alcun debito da ripagare, perchè non c'è alcuna perdita. o meglio, ciò che ha sacrificato di sè è dal suo punto di vista inferiore, rispetto a ciò che ha ottenuto, cioè il mio bene. Contento lui. Ha fatto ciò che gli è piaciuto fare così come io resto libero a mia volta di fare ciò che voglio. Non c'è alcun obbligo morale di amare chi ci ama. L'amore è un sentimento spontaneo, non posso forzarmi ad amare chi non mi piace solo perchè io piaccio a lui. L'amore è libertà, non "do ut des". Anzi, se io spinto dalla gratitudine, sacrificassi parte della mia felicità per Tizio, renderei vano il suo gesto, il cui obiettivo era appunto la mia felicità. Caso 2) non lo ha fatto per affetto nei miei confronti, ma per ottenere qualcosa in cambio. Benissimo, in questo caso non c'è alcun affetto da ricambiare, ma solo fissare un patto, in cui mi impegno, liberamente, a risarcirlo materialmente di ciò che fà per me. Al di là del rispetto dei termini del "patto" finisce qualunque coinvolgimento affettivo-morale. Al ristorante in cui vado a mangiare non interessa il mio affetto, la mia gratitudine. Vuole i miei soldi. Una volta pagato il conto qualunque interesse legato al luogo non è più necessario. Spesso la gratitudine è solo un ricatto morale che avvelena l'anima di sensi di colpa, guastando il godimento di ciò che si ottiene da parte delle persone di cui dovremmo essere grati. "Dopo tutto quello che ho fatto per te..." è qualcosa di bruttissimo da dire, chi parla di così è un violentatore dell'anima che toglie all'affetto la sua libertà riducendolo a scambio e commercio, l'amore come restituzione di un debito. Identificare la gratitudine come una forma d'amore a mio avviso rischia di squalificare l'aspetto dell'amore inteso come una libera attribuzione di valore da parte di chi ama verso il destinatario del sentimento, finendo con lo scambiare come "amore" un sentimento di gratitudine che, nel momento in cui viene sopravvalutato, pretende di obbligare moralmente ad amare qualcuno solo perché ha fatto qualcosa per noi. Ignorando il fatto che ciò che si prova per una persona è sempre determinato da un'immagine globale di essa, che non può essere ridotta ad un singolo o singoli gesti, pur apprezzabili, con cui quella persona ci ha in qualche modo favorito. Insomma, un'esasperazione del valore positivo della gratitudine rischia di compromettere il carattere di libertà che dovrebbe sempre caratterizzare l'amore, non si è più liberi di amare chi si vuole, in nome di una segreta corrispondenza interiore tra amante e amato, ma l'amore si sottomette alla regola oggettiva del "amare chi ha dimostrato di amarci, a prescindere dal fatto di provare davvero qualcosa verso quest'ultimo". E quando un sentimento soggettivo si sottomette a una regola oggettiva, dal mio punto di vista, è sempre una gran perdita per l'umanità.
#438
Tematiche Filosofiche / Re:Divenire in Aristotele
22 Maggio 2017, 00:55:58 AM
a quel che ne so e che credo di aver compreso, nell'ontologia aristotelica l'aspetto di permanenza degli enti non è dato dalla materia indeterminata, ma al contrario dalla forma, dalla causa formale che costituisce l'essenza dell'ente. La materia proprio perché determina il carattere di indeterminazione, non può costituire l'aspetto di permanenza, la qualità determinata che resta tale al di là del divenire, ma determina l'essere-in-potenza dell'ente, ciò che rende possibile il divenire, in quanto il divenire c'è fintanto che restano delle potenzialità, che non sono indeterminate, ma definite, ma definite non grazie alla materia, ma alla forma, l'essenza, ciò che rende qualcosa "questo e non altro". Gli enti divengono nella misura in cui hanno una connotazione materiale, mentre nella misura in cui sono forma, possiedono un'essenza immutabile, ed ecco perché la pura forma senza materia, Atto puro, non è toccato dal divenire. Questo è l'aspetto fondamentale per il quale l'aristotelismo conserva l'ispirazione platonica che identifica la forma intelligibile delle cose con la loro incorruttibilità e permanenza, mentre la materia resta principio di disgregazione e mutamento. Certamente, Aristotele opera rispetto a Platone una "riforma" fondamentale nel non considerare le forme come cose a sé stanti separati dalle realtà fisiche, ma considerandole come immanenti ad esse. Così, la forma, l'essenza degli enti non è inalienabile dal "sinolo", un ente può mutare forma, un uomo dopo la morte perde la sua forma umana divenendo nella decomposizione cenere, tuttavia fintanto che la forma continua a essere presente impone al divenire un certo ordine, un processo di attualizzazione in cui non tutte le possibilità sono realizzabili, ma solo una serie limitata prevista da quella forma, un senso determinato che resta COSTANTEMENTE implicato in una determinata forma. E questo nesso tra intelligibilità della forma e permanenza del senso delle cose, eredità platonica conservata in Aristotele e quindi colonna portante della metafisica classica, è ciò su cui farà leva nel medioevo il tomismo, che di Aristotele preserva l'idea che l'analogia tra Atto puro e gli enti sintesi di atto e potenza è resa possibile dalla presenza negli enti della componente formale, dunque intelligibile e spirituale, dunque quanto più un ente è spirituale tanto più somiglia al Principio delle cose, l'Atto causa del divenire, ma ad esso impermeabile, tanto più è materia quanto più cade nel non-essere, nel potenziale non attuale, nell'indeterminazione. "Semplicemente" (si fa per dire...) questa dialettica viene riformulata alla luce delle categorie cristiane creazioniste, sconosciute ad Aristotele e ai greci, con l'Atto puro incorruttibile che diviene principio creatore, "causa sui", e i sinoli materia-forma che divengono enti creati, con la loro spiritualità che li avvicina a Dio, e la loro materia corruttibile e diveniente che li porta a non poter mai realizzare la perfezione divina
#439
condivido con convinzione l'identificazione della spiritualità con la vita interiore. La spiritualità è proprio questa componente di libertà della persona che porta il soggetto ad agire, pensare, sentire alla luce di sé stesso, in autonomia. Ma perché l'identità spiritualità-libertà-vita interiore conservi il suo senso e valore è necessario svincolare il concetto di "interiorità" dalle accezioni con cui spesso viene inteso nel senso comune, nel senso nel quale "interiorità viene identificata unicamente con il complesso degli stati d'animo soggettivi, passioni, impulsi più o meno irrazionali che movimentano la vita dell'anima. Ma nella misura in cui l'Io si lascia passivamente travolgere da tali impulsi e stati d'animo, aderendo ad essi ciecamente, non si può parlare davvero di libertà, dunque neanche di spiritualità. Vita interiore è sinonimo di spiritualità quando diviene razionalità, dominio di sé, autocoscienza. In questo caso l'Io non si lascia più trascinare passivamente dagli impulsi, bensì li oggettiva, li valuta alla luce di modelli, criteri regolativi di ordine teoretico, estetico o morale cui attribuisce un valore di universalità, in relazione a cui dare significato alla molteplicità delle situazioni contingenti della nostra vita, e ricondurre gli aspetti della nostra personalità ad un "nucleo" stabile, che l'Io elegge come il proprio autentico sé. Spiritualità è questo interrogarsi  attivo dell'Io riguardo le proprie tendenze che porta a chiedersi " quanto seguire questo impulso è coerente con i miei valori, con la mia autentica identità? Quanto questa percezione delle cose si armonizza con il modello di visione di verità oggettiva a cui aderisco? Cioè spiritualità vuol dire capacità di oggettivazione, e per questo è necessario che la vita interiore sia intenzionalmente rivolta al trascendimento del proprio particolarismo soggettivo, e sempre in correlazione con l'oggettività. L'interiorità non è mero soggettivismo, ma direbbe Sciacca, "interiorità oggettiva", luogo di partenza da cui l'Io si apre all'ulteriorità del reale
#440
Il dubbio è un metodo, lo strumento imprescindibile, per ricercare in modo critico e razionale la verità. Quanto più si lascia in sospeso tutto ciò che non è evidente dell' esperienza del mondo, tanto più giungono a manifestarsi gli aspetti essenziali e universalmente veri delle cose. La nostra finitezza esistenziale ci impedirà sempre di giungere a una visione esaustiva e totalizzante di tali aspetti, il nostro essere in divenire, in ricerca fa sì che la condizione del dubbio sia una condizione inaggirabile in quanto costitutiva del nostro essere. Ma non è detto che seppur in misura parziale non sia possibile individuare e distinguere delle certezze sebbene conviventi con le incertezze. Non è necessario, per riuscire a isolare delle particolari certezze, di poter giungere a un sapere globale  e assolute in cui tutte le possibili questioni sono risolte. Ecco perché personalmente sono critico verso gli atteggiamenti pseudo-intellettuali che idolatrano il dubbio identificando il dubitare con l'essere intelligenti e l'avere certezze con l'essere degli stupidi dogmatici. Non è così, o comunque non è sempre così. Esiste l'atteggiamento ingenuo di chi non si pone mai domande e di chi ha certezze che ha non sono la conseguenza di una ricerca, ma dal mero assorbire passivo e acritico di un condizionamento dettato dall'ambiente in cui si vive, l'educazione familiare, le autorità scolastiche e accademiche ecc., ma esistono anche le certezze che sono il risultato del dubbio, della sua radicalizzazione, le certezze delle persone che hanno portato all'estremo il dubbio, e proprio in questo modo sono riusciti ad isolare degli aspetti evidenti, identificabili in particolare con l'avvertimento autocoscienziale della nostra soggettività pensante e vivente (penso in particolar modo alla triade Agostino-Cartesio-Husserl). E non per questo tali persone sono dogmatici o presuntuosi, non dogmatici perché se le certezze sono state ricavate dall'esercizio del dubbio nulla impedirà in futuro di poter tornare sui loro passi, e mettere in discussione ciò che in un primo momento appare evidente. Non presuntuosi, perché come detto sopra, l'avere individuato delle particolari certezze non vuol dire negare il riconoscimento dei limiti della nostra conoscenza, che ci portano a restare in dubbio su molti aspetti delle cose. Il momento analitico della conoscenza è ciò che permette proprio di scomporre la complesso delle questioni sulla realtà in delle questioni "semplici", nel senso di non ulteriormente scomponibili, che pur sempre in relazione con l'intero, possono essere superate con delle certezze, senza pretendere che la certezza si estenda alle altre. E come esiste un dogmatismo della certezza, esiste un dogmatismo del dubbio, nel momento in cui un'evidenza oggettiva contrastante con i nostri valori soggettivi ( conflitto fra "realtà così come è" e "realtà come vorrei che fosse") e tale evidenza viene rigettata, restando con l'atteggiamento del dubbio, mentre si reprime la consapevolezza che la questione è risolta, perché la risposta non ci piace, allora a mio avviso si può parlare di "dogmatismo" nella stessa misura di chi ha certezze senza esser passato per il filtro del dubbio. La differenza tra criticità e dogmatismo sta cioè nell'onesta o disonestà intellettuale del ricercatore. Onestà che è un tratto caratteriale psicologico dell'individuo, non elemento determinato dal contenuto teoretico o ideologico che si sostiene. Si piò affermare in modo critico e onesto intellettualmente la possibilità di raggiungere delle certezze, così come affermare dogmaticamente che si deve dubitare di tutto
#441
Tematiche Filosofiche / Re:essere e divenire
09 Maggio 2017, 02:24:56 AM
rispondo a Green Demetr

 

Provo a dire due cose, sulla base di come credo di aver compreso alcune tue obiezioni
Quantificare non implica necessariamente numerare e dunque mercificare. La necessità di quantificare numerando vi è quando il giudizio di quantificazione raffronta degli oggetti inseriti in una "serie continua", nella quale ognuno di essi possiede le stesse proprietà qualitative dell'altro, differenziandosi solo per possederne in una quantità minore o maggiore. Nel mio ultimo messaggio avevo precisato: "seppur alla luce di una scansione qualitativa e discreta tra le varie forme di esistenza". Cioè, le differenze quantitative tra i gradi degli enti sono determinate da differenze qualitative, l'uomo è maggiormente adeguato all'ideale dell' Essere pieno alla luce della razionalità che lo differenzia dalle piante e dalle pietre. La razionalità permette di tutelare la propria identità e natura in forma più qualitativamente efficiente rispetto agli enti che non la possiedono, sia a livello fisico, che mentale. La forma razionale della nostra natura non cancella la molteplicità degli istinti centrifughi costituenti la nostra materia, ma la governa riconducendola a un'unità individuale, l'unità della personalità interiore in relazione a cui l'Io sa indirizzare la sua via sulla base di valori stabili e coerenti. Un'unità pur sempre parziale e imperfetta in quanto l'uomo non è puro spirito e forma, ma sintesi di forma e materia, razionalità e irrazionalità. La differenza quantitativa diviene numerica nel momento in cui gli enti sono riferiti ad un "continuum" senza cesure qualitative, dove le differenze si riferiscono alle stesse proprietà che sono semplicemente presenti negli enti in misura maggiore o minore. Tra due gelati, uno appena tirato fuori dal frigorifero e un altro tirato fuori da dieci minuti, non ci sono differenze qualitative, solo la stessa proprietà, il calore posseduto da uno e più di un altro, e per precisare il giudizio quantitativo che indica un gelato come più caldo dell'altro occorre necessariamente rifarsi a convenzioni come unità di misura e numeri, stabilendo che uno dei due gelati ha un tot gradi e dunque è più caldo rispetto all'altro che misura tot gradi. Ma non è il nostro caso. Nel caso dei gradi di adeguazione degli enti all'idea dell'Essere pieno quantificare numerando è inutile e fuori luogo. Inutile in quanto ci sono differenze qualitative che scandiscono i livelli, come il fatto di essere dotati o meno di razionalità, fuori luogo in quanto la serie dei gradi ontologici è finita e limitata da due estremità concettualmente ben determinate: da un alto il puro non-essere, dall'altro l'idea dell'Essere pieno, quell'ente che possiede l'essere in modo massimamente stabile, senza alcun limite esterno, perché il suo essere coincide con la sua essenza. Ora questo puro Essere, (e conseguentemente tutti gli altri livelli) non possono essere numerati e misurati, perché la serie dei numeri è infinita, non esiste numero che non rimandi a cifre più grandi oltre di sé, mentre l'Essere pieno, essendo la massima determinazione possibile dell'Essere, non potrebbe essere associato ad alcun numero, che invece dovrebbe essere sempre inferiore ad altri possibili. Quindi mi sento di tranquillizzare riguardo l'impossibilità di una mercificazione dell'Essere. A impedirne la mercificazione vi è il suo carattere di universalità: comprendendo l'Essere ogni ente possibile, non può essere oggetto di una misurazione, che è sempre e solo riferibile a quantità potenzialmente limitate e finite, ma comprende ogni possibile misurazione senza essere compreso in nessuna di esse. La mercificazione presuppone la finitezza del suo oggetto. Quando mercifico io strumentalizzo qualcosa, in vista di qualcosa di più grande da conquistare, come è nel gioco del mercato, ma non vi è nulla di più grande dell'Essere, dato che oltre esso c'è il Nulla


La gerarchia di cui parlavo non è da intendersi necessariamente come gerarchia di valore morale, per la quale quanto più si sale di livello quanto più gli enti dovrebbero essere depositari di un valore morale, ma mi limitavo a tratteggiare un sistema di gradi di adeguazione e somiglianza degli enti con l'idea regolativa dell'Essere pieno, Essere non attraversato da nessun divenire, e in relazione a tale idea l'uomo, in virtù della razionalità occupa un posto superiore alle piante e alle pietre, perché maggiormente simile all'idea dell'Ente immutabile e autosufficiente rispetto alle cause esterne ad esso, ma questo non esclude che a livello morale si possa prescindere dalla gerarchia e provare maggiore affetto e simpatia per una pianta e per una pietra rispetto che per un uomo (indipendentemente dal fatto che io condivida o meno tale orientamento affettivo personalmente). Ovviamente so che nella storia della filosofia l'elaborazione di sistemi metafisici di tale tipo non era mai guidato da un'intenzione meramente teoretica, ma andava di pari passo con l'elaborazione di un sistema morale per cui nella vetta della gerarchia non c'era solo l'ente sommamente infinito e autosufficiente, ma anche il Sommo Bene, modello di imitazione per gli enti inferiori, da cui dedurre inevitabili corollari etici prescrittivi, e inevitabilmente anche di natura politica e sociale. Ma non è detto debba essere così per forza, che si debba dedurre un maggiore o minore sentimento morale dal maggiore o minore grado di adeguazione degli enti all'Essere pieno. Questo perché per me i giudizi morali nascono dal sentimento soggettivo, non dalla conoscenza dei fatti oggettivi. Del resto, ogni sentimento di ripulsa o ribellione contro le gerarchie storicamente realizzatesi sta a testimoniare che tale rifiuto convive con il riconoscimento oggettivo di tali gerarchie: eticamente le rinnego e le combatto, ma ne riconosco l'esistenza come dato fattuale oggettivo. Così come la stessa individuazione dell'ente connotato come "desiderante", conscio delle sue mancanze, presuppone la percezione di un'ideale dell'Essere pieno come orizzonte finalistico del movimento mosso dal desiderio: come potrei accorgermi delle mie mancanze, e del mio conseguente desiderio se non raffrontando la mia condizione di ente limitato con l'idea regolativa di Essere pieno e assoluto a cui cerco di adeguare la mia condizione attuale? Tutto ciò presuppone la gerarchia costituita da livelli di pienezza e vuotezza, in quanto senza l'avvertimento di livelli superiori a quello mio attuale, la mia attuale condizione sarebbe appagante e legittimante una staticità senza tensione. Anzi, proprio il tema del desiderio riveste di un certo valore etico, assiologico e sentimentale, non solo teoretico, la gerarchia, dato che qui la pienezza diviene non solo un oggetto di riflessione intellettuale, ma oggetto di desiderio, nei cui confronti desiderare di adeguarsi per sopperire alle nostre mancanze, e lo riveste in modo molto più esplicito di come era posto dal mio discorso! Io mi limitavo a una neutra descrizione senza prescrizioni o giudizi etici disorta...
#442
Tematiche Filosofiche / Re:essere e divenire
05 Maggio 2017, 21:05:36 PM
ridurre le essenze a concetti linguistici senza un ancoraggio alla realtà, non tiene conto del fatto che il linguaggio, pur essendo una costruzione convenzionale, non è mai puro arbitrio, ma tentativo di raffigurazione simbolica delle cose reali in vista dello scopo di comunicare in un sistema di segni uniformemente interpretabili, le intuizioni di tali cose, quindi il linguaggio deve necessariamente tenere conto della percezioni della realtà oggettiva. Ogni definizione presuppone il rilevamento delle proprietà comuni a una molteplicità di enti individuali, che poi dovranno essere sussunti nella definizione, la definizione "sasso" è resa possibile dalla percezione di qualcosa presente in tutti i sassi, la "sassità", e la possibilità che abbiamo di decidere di eliminare tale definizione dal dizionario (convenzionalità del linguaggio), consisterebbe nel cessare di considerare le proprietà comuni  come un criterio sufficiente per stabilire l'opportunità di un termine. Possiamo decidere di inventare due nuovi termini per definire due diverse specie di sassi, al posto di un termine unico, perché ci sembrerà che le proprietà che differenziano le due specie siano più rilevanti valorialmente che le proprietà comuni a tutti i sassi. Ma non per questo tali proprietà comuni cesserebbero di essere reali e di continuare a far sì che il modo d'essere dei sassi sia determinato in un modo invece che in un altro. Se le essenze fossero riducibili alle definizioni invece ciò non sarebbe possibile, esse dovrebbero adeguarsi all'arbitrarietà del linguaggio, mentre ovviamente così non è, dato che il linguaggio non è (almeno direttamente) strumento performativo sulla realtà e le parole non sono le cose. Le essenze immanenti alla realtà delle cose sono indipendenti dalle definizioni, mentre le definizioni presuppongono la rilevazioni delle essenze, dato che sono "imitazioni" arbitrarie, sensibili, mutevoli della natura delle essenze, che hanno invece un carattere di tipo formale e intelligibile. Proprio in quanto le definizioni dipendono dalle essenze (ma non viceversa) sono un fattore di riconoscimento a-posteriori di queste ultime, ma non ne determinano la realtà. E le essenze costituiscono il carattere di permanenza nella misura in cui indicano un determinato senso in cui il divenire delle cose realizza, cioè attualizza, delle potenzialità circoscritte dalla natura originaria e propria delle cose. La crescita della pianta è certamente un divenire, ma un divenire che non modifica la sostanza, ma attualizza una inclinazione insita già nel seme, inclinazione che costituisce l'essenza della pianta, la sua forma che progressivamente si realizza, realizza un senso determinato e permanente, e questo è un dato naturale che va al di là del fatto che il nostro linguaggio può arbitrariamente decidere di eleminare la definizione di "pianta": in ogni momento della crescita, il suo essere "pianta" permane come inclinazione che porta a realizzare progressivamente le potenzialità insite nel suo concetto, e questa è un'inclinazione reale.


Sgiombo scrive:

"Ma perché mai essere e divenire dovrebbero essere contingenti, non autosufficienti, ovvero richiedere l' esistenza o l' accadimento di qualcosaltro di necessario per poter accadere realmente?
 
Nella realtà si dà solo l' essere/accadere o il non essere/non accadere di qualsiasi cosa (ente o evento).
Contingenza e necessità di enti e/o eventi sono solo considerazioni del pensiero circa la realtà
 
Perché mai dovrebbe esserci bisogno di altro (preteso necessario) oltre a ciò che di fatto é/accade (preteso contingente)?
Come si dimostra questa affermazione?
Forse col fatto che si potrebbe anche pensare (in maniera logicamente corretta, come "ipotesi sensata") che ciò che é/accade non é/non accade e invece é/accade qualcosaltro (compresa l' ipotesi sensata del nulla, del non essere/accadere di alcunché)?
Questa non mi sembra affatto una dimostrazione: il fatto di potere (anche) pensare che ciò che é/accade non è/nonaccade non "scalfisce" minimamente, non ha alcuna conseguenza o implicazione per, non "c' entra per nulla" con il il fatto dell' essere/accadere di ciò che é/accade; non implica affatto alcuna necessità che sia/accada qualcosaltro di necessario ovvero di non pensabile (sensatamente, in maniera logicamente corretta, non autocontraddittoria) non essere/non accadere. Anche perché (con buona pace di sant' Anselmo d' Aosta) non vi è nulla di (pensabile e di) determinato che necessiti di essere/accadere, ma è necessario che sia/accada unicamente ciò che è/accade qualsiasi cosa sia, cioè del tutto indeterminatamente, inidiscriminatamente."



Trovo questa obiezione molto valida. Condivido questa idea secondo cui la distinzione tra essere contingente e essere necessario non può essere fondata nella realtà delle cose, ma solo nel pensiero umano. Infatti la realtà in quanto sempre espressione di una causalità è sempre necessaria, e la contingenza intesa come "ciò che sarebbe potuto accadere altrimenti" esiste solo come ipotesi elaborabile di un pensiero immaginativo che elabora delle alternative, "sarebbe anche stato possibile che...", sulla base del fatto che l'essere ideale, pensabile è estremamente più ampio dell'essere reale. Tutto questo mi costringe a riformulare il mio discorso, o almeno ci provo. Più che parlare di "contingenza"  e "necessità" sarebbe opportuno parlare di una distinzione tra "autosufficienza" e "dipendenza da altro". L'ente in cui essere e divenire convivono è un essere che diviene in quanto non ha in se stesso la ragione del suo essere, ma da un altro essere, più che "contingenza" si può parlare di "necessità derivata", e il divenire è la progressiva attualizzazione della propria essenza, o natura, che però abbisogna di tempo, in quanto l'essere che riceve la propria esistenza dall'esterno è un'esistenza finita e limitata e dunque per realizzare il proprio fine deve superare una resistenza esteriore, mentre quell'esistenza che ha in se stessa la propria ragion d'essere non ha alcun limite da superare, e dunque realizza il proprio fine immediatamente, rendendo insensato un mutamento interno, un proprio divenire, è una pura Attualità che realizza istantaneamente al di là di ogni limite temporale le sue potenzialità
#443
Tematiche Filosofiche / Re:essere e divenire
04 Maggio 2017, 00:43:25 AM
essere e divenire convivono nel piano dell'essere contingente, piano che però non può essere assolutizzato, perché ciò che è contingente richiede per render ragione di sé, di ciò che esiste come necessità, mentre se la contingenza fosse l'unica realtà possibile, allora sarebbe autosufficiente, quindi necessaria, senza derivare il proprio essere da altro da sé, perché di altro oltre la "contingenza" (le virgolette a questo punto sono decisive...) sarebbe nulla. Ma in questo caso la contingenza si negherebbe in quanto tale. Questa convivenza si costituisce come la presenza di un mutamento che in ogni ente sviluppa la natura, l'essenza propria dell'ente, che lo costituisce come tale e permette al linguaggio di poter definire in tal modo tale ente, essenza che può essere considerata come l'elemento che permane. Il punto è che questa dialettica tra mutamento e permanenza si costituisce in modo diverso sulla base dei gradi gerarchici della realtà: quanto più si sale nella gerarchia, ci si avvicina all'essere nel senso pieno del termine, tanto più prevarrà l'elemento di permanenza, tanto più ci si riferisce all'essere in senso vuoto, tanto più prevarrà l'aspetto del divenire, ma fintanto che si esiste si resta sempre in qualche modo legati a un'idea di permanenza. La pietra, la pianta, l'animale, l'uomo partecipano tutti dell'Essere, in quanto tutti possiedono una loro natura, l'essenza in base a cui attribuiamo loro certe proprietà, ma occupano livelli diversi dell'ordine, l'uomo possiede un carattere di permanenza maggiore della pietra e della pianta, in virtù della sua essenza di razionalità e libero arbitrio, che permette all'uomo di resistere con maggior forza ai tentativi dell'esterno di manipolarlo, non solo con il suo corpo, ma anche con la ragione, che lo porta a criticare e rifiutare di dare l'assenso a opinioni ritenute false, perché l'essenza permanente che costituisce l'uomo come "uomo" è l'anima razionale. La pietra o la pianta possono reagire al tentativo di operare in loro manipolazioni solo in virtù della loro materialità, nella pietra l'essenza è data dalla forma intesa solo come forma geometrica che unifica una materia, la pianta occupa un livello superiore alla pietra, in quanto in essa la forma è vivente e non solo contorno geometrico, ma è priva di razionalità, come la pietra può offrire come resistenza a tentativi esterni di manipolazione solo la sua massa, massa che la tecnologia umana può facilmente piegare. La permanenza, lungi dall'essere solo un'astrazione, è in realtà ciò che vi è di più concreto nell'ente, perché costituisce quell'elemento che porta un ente a partecipare, ad essere adeguato all'idea dell'Essere puramente in atto, necessariamente esistente, mentre il divenire presuppone la componente di "potenza", cioè di indeterminazione, di irrealtà, qualcosa diviene fintanto che possiede delle potenzialità insite nella propria natura non ancora realizzate. l'uomo non è atto puro, infatti diviene, ma è adeguato all'idea dell'essere immutabile in misura maggiore della pianta e della pietra (ma la pianta in misura maggiore della pietra).

Questo discorso presuppone qualcosa che sembra controintuitivo, più che altro alla luce del nostro linguaggio nel quale è insensato dire che qualcosa è "più essere" di un'altra, l'essere è solo una copula, non una categoria che una cosa possiede più o meno. Invece il fatto che il rapporto essere-divenire muti alla luce dei diversi gradi di adeguazione all'idea di Essere pieno, implica che l'essere sia anche una categoria giudicabile in rapporti quantitativi (seppur alla luce di una scansione qualitativa e discreta tra le varie forme di esistenza), e qui l'ontologia si lega alla logica modale: quanto più l'esistenza di qualcosa è necessaria tanto più si può che dire che possiede l'essere in misura maggiore, tanto più qualcosa è contingente, cioè diviene, tanto più è privo di essere, e il massimo grado della contingenza dovrebbe coincidere con il Non-essere. Il mancato rilevamento del carattere quantitativo dell'essere è stato forse l'errore di fondo dell'eleatismo. Il fondo di verità dell'eleatismo è il nesso tra divenire e non-essere, quanto più qualcosa diviene si riconduce al non-essere, ma l'errore sta nel confondere un'opposizione logico concettuale, essere-non essere, con un'incompatibilità ontologica, escludendo che il divenire possa porsi come fenomeno interno all'essere che però rimane tale, tagliando fuori il nulla. Caldo e freddo sono certamente opposti così come essere e non-essere, ma ciò non impedisce che una cosa sia più o meno calda e più o meno fredda, caldo e freddo si escludono reciprocamente, ma convivono come elementi, concetti che introducono una tensione polare all'interno di uno stesso ente, e allo stesso modo, essere e non-essere convivono in ogni ente contingente, producendo mutamento, il non-essere fa sì che in ogni cosa resti una potenzialità e quindi il divenire, l'essere mantiene l'essenza permanente della cosa, seppur non pienamente reale. Parmenide confonde "essere" e "realtà", (e cade nel monismo) e non tiene conto del carattere ideale dell'essere, carattere che fa si che l'essere sia presente in ogni ente, che però non può pretendere di esaurire in sé stesso la pienezza dell'essere. Uomo, pietra, pianta, partecipano dell'essere, ma nell'uomo la maggior somiglianza all'Essere totalmente Attuale e immutabile, costituita dalla sua spiritualità, cioè la razionalità, fa sì che l'uomo sia "essere" in misura maggiore della pianta e della pietra, e la pianta lo sia nei confronti della pietra, tutti possiedono l'essere, ma nessuno è "l'essere"
#444
Tematiche Filosofiche / Re:Che è l'uomo?
29 Aprile 2017, 01:41:02 AM
la difficoltà maggiore insita in ogni tentativo di considerare l'uomo sta nel porre come punto di partenza della riflessione un'idea dell'uomo inteso come unità che emerge dall'esperienza immediata, che non considera l'uomo come realtà semanticamente complessa, quale è, ma come una semplicità che non tiene conto delle singole componenti che costituiscono il suo essere. E questa semplificazione conduce ad un'immagine dell'uomo confusa che dà il destro ai tentativi dei vari dogmatismi, delle varie ideologie, di interpretarlo non alla luce di una critica razionale, ma esasperando l'importanza di certi aspetti a scapito di altri, a seconda della visione ideologica che si vuole sostenere. Così avremo il materialismo che esaspera la centralità del corpo a discapito dell'autonomia della dimensione psichica e spirituale, o all'opposto, posizioni che tenderanno a sminuire il corpo, e ad offrire un'immagine dell'uomo eccessivamente "angelicata". La complessità semantica del concetto "uomo" richiede che la domanda "che è l'uomo" non possa essere la domanda inziale e fondativa dell'indagine, ma debba essere fondata e preceduta dalle domande  riguardanti l'essenza delle singole componenti dell'uomo: "che è la coscienza", "che è il corpo", "che è la psiche", "che è la percezione". "che è la volontà", "che è la razionalità", "che è lo spirito". Cioè occorre proceduralmente "scomporre" la complessità dell'uomo negli elementi primitivi e semplici che lo compongono, questo non per spirito pedante analitico, per poi ricomporre i singoli elementi, una volta chiaritone il senso, nell'unità dell'idea di "uomo", a questo punto nitida nella sua immagine. Fondamentale è che l'evidenziazione dei singoli aspetti (non uso mai il termine "parte", dato che rimanda ad una divisione spaziale, mentre qua si sta parlando di entità, che seppur necessitate ad essere isolate concettualmente, si relazionano e si compenetrano in un'unità organica) comporta il loro essere considerati al di là della contingenze del loro esistenziarsi fattuale in una certa realtà, compresa l'uomo. Occorre cioè applicare la riduzione fenomenologica, che considera i fenomeni nella loro essenza, non limitando le loro possibilità d'essere a quelle di cui ne abbiamo una certa esperienza spazio-temporale in un certa realtà, compresa la realtà umana. L'uomo cioè va posto non come punto di partenza dell'indagine su di esso, ma come l'unità conclusiva di un processo di analisi nel quale ogni sua componente va studiata al di là dei modi in cui agisce nella realtà umana, che non è mai il solo teorico contesto esistenziale in cui tali componenti agiscono. La coscienza ad esempio non va considerata come "coscienza umana", ma coscienza in generale, ciò che della coscienza è affermabile in qualunque realtà si trovi ad essere presente, indipendentemente se tali realtà esistano effettivamente o meno, è sufficiente che possano esistere in linea teorica, dato che alla riduzione fenomenologica non interessa la posizione di esistenza, ma l'essenza che comprende ogni possibilità, anche ciò che di fatto non esiste, ma in linea teorica potrebbe esistere. La sintesi conclusiva produrrà un'idea di essere umano più razionalmente fondata, perché ogni elemento che la compone viene riconosciuto come un proprio senso, un'invariante valida in ogni possibile modo d'essere, e tali possibili modi d'essere sono ora presi in considerazione, e l'uomo stesso potrà, in relazione a tutti i possibili modi d'essere dei suoi elementi, a sua volta essere visto come aperto a delle possibilità, che nell'esperienza immediata, ancora gravata dalle contingenze empiriche, sembrano essergli precluse.
L'uomo non deve essere più concepito come il primario metro di giudizio delle possibilità ontologiche degli elementi che lo compongono, la sua unità sintetica deve essere posta al termine della ricerca, non all'inizio.

Sembra aprirsi una singolare dialettica tra filosofia e antropologia. Da un lato una filosofia critica, intenzionata a superare il realismo ingenuo, che accetta come reale e oggettivo il contenuto dell'esperienza percettiva immediata, chiaramente necessita di analizzare la prospettiva soggettiva della mente che conosce la realtà, valutare i limiti e le possibilità delle nostre strutture soggettive mentali, pena il non tener conto del fondamentale incidere della nostra soggettiva sulla rappresentazione delle cose oggettive. Dunque sembra che la filosofia debba porre l'antropologia come suo momento metodologicamente primario e fondamentale, dato che le nostre strutture mentali sono sempre schemi di una mente umana. Tuttavia, come provato a spiegare sopra, occorre porre non l'uomo inteso nella sua complessità concettuale  come punto di partenza, ma le singole funzioni e dimensioni conoscitive, intese al di là del loro realizzarsi nell'uomo, in una visione trascendentale. Si potrebbe cioè sciogliere la problematicità di tale dialettica distinguendo un'accezione di antropologia analitica e trascendentale, che studia gli aspetti dell'umano al di là del loro umanità, che va posta come fondazione critica e metodologica di ogni filosofia, e l'antropologia nel senso più comune del termine, discorso sull'uomo inteso come tutt'uno, sintesi complessiva, che va posa come conclusione critica della ricerca filosofica. Tutto sta nella distinzione tra un livello di esperienza ingenua, allo stadio grezzo e ancora gravato dalle contingenze della nostra posizione storica, e un'esperienza vissuta su cui si applica la razionalità, che cerca di isolare gli aspetti necessari ed essenziali nei fenomeni dell'esperienza, portando la conoscenza umana ad un livello il più possibile trascendentale
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#445
Tematiche Filosofiche / Re:Che è l'uomo?
18 Aprile 2017, 16:06:00 PM
intanto direi che io ci provo sempre ad argomentare ciò che scrivo, ad essere il più chiaro possibile,  ma inevitabilmente, per evitare di dilungarmi troppo e rendere ulteriormente difficoltoso il dialogo sono costretto a lasciare nell'implicito parecchi punti e collegamenti. Mi spiace molto se risulto dogmatico o eccessivamente assertivo, ma non è assolutamente mia intenzione

sì, io lego il concetto di libertà ad "in sé" interiore della persona, ma la contraddizione fra la presenza di tale interiorità come presupposto della libertà e il fatto che poi la libertà si esprima nello spazio pubblico è contraddizione reale solo se si considera questo "in sé" come "res", sostanza autosufficiente dualisticamente separata da una sostanza superficiale, non libera, che sarebbe il nostro corpo, secondo la prospettiva del rigido dualismo antropologico cartesiano. Se le cose stessero così sarebbe certamente corretto pensare che ogni agire pubblico, ma non solo politico, anche sociale, estetico... comporti uno snaturamento dell'interiorità che uscendo, disperdendosi fuori di sé, smarrisce se stessa, e con l'Io si nega come soggetto libero. Ma io non la intendo così, così come non lo intende così, almeno credo non lo intenda così, il personalismo cristiano, al di là delle sue varie differenti sfumature. Il pensiero cristiano in questo recupera la lezione aristotelica, (tramite Tommaso, ma non in opposizione con Agostino) che vede l'essenza dell'individuo non come un'entità del tutto trascendente e separata, ma come immanente all'individuo stesso, e si determina più propriamente come "forma", elemento costitutivo dell'individualità intesa come tale. Individuo, cioè "non-diviso", implica un fattore unificante, che non può identificarsi con la materia, estensione indeterminata, che però riceve dalla forma una determinazione unitaria, un senso, un modo d'essere che le appartiene.  L'interiorità è il luogo dove nasce il movimento teso formare la materia alla luce delle proprietà che sono intrinseche alla forma del movimento, cioè non è separata dalla materia, perché noi non siamo né pura forma, né pura materia, ma sintesi dei due elementi, e se la materia conduce l'individuo alla relazione con lo spazio esterno, allora inevitabilmente la libertà, intesa come condizione in cui il processo formativo della personalità nasce dall'interno, ma non si chiude in sé, ma si esprime seppur non in piena trasparenza, all'esterno, cerca un'espressione pubblica, cioè la forma ha bisogno di una materia su cui agire. Non necessariamente l'oggettivazione, la spazializzazione si pone come dispersione dell'interiorità, al contrario quest'ultima trova in ciò un canale di comunicazione, un "riscatto" nei confronti di un mondo che può apparirle come pura alterità ad essa indifferente, adeguando la materia esteriore alla sua libertà, alla qualità che costituisce il modo d'essere profondo dell'individuo. Tutto ciò emerge chiaramente nella creazione artistica, dove l'artista trasfigura un'insensata materia, un insensato spazio, un blocco di marmo, una tela bianca, imprimendo ad essa la traccia della sua interiorità, del suo stile che caratterizza la sua irripetibilità inconfondibile, e la riprova di ciò è la critica artistica che riesce a risalire all'autore di un quadro sulla base degli elementi pittorici, quasi come fossero impronte digitali. Eppure la politica stessa condivide, anche se in misura meno profonda e meno evidente, con l'arte questa idea di espressione di libertà, quando un politico agisce nella società in base ai suoi valori interiori, al suo modello di "società giusta", interviene nello spazio pubblico, esterno, modellandolo sulla bade delle sue idee, così come l'artista trasfigura la percezione della realtà oggettiva sulla base del suo sentire interiore, l'impegno politico (quando è coerenza ideale e non lotta per il potere e tutela dell'interesse economico) condivide così con l'arte questa idea di attività tesa ad adeguare l'esterno all'interno, l'idea della libertà, cioè l'umanità, che cerca una manifestazione, un'oggettivazione seppur parziale

spero di aver ora chiarito meglio, anche a me stesso, il mio pensiero
#446
Tematiche Filosofiche / Re:Che è l'uomo?
18 Aprile 2017, 01:33:57 AM
io partirei dalla definizione aristotelica di uomo come "animale razionale". La razionalità determina una relazione dell'uomo con il mondo che non è di passivo assorbimento degli stimoli esterni, ma come presenza di un "filtro" critico per il quale l'uomo si interroga e giudica su tali dati sulla base di criteri intellettivi, morali, estetici presenti nella sua soggettività mentale; buono, vero, giusto... se questo giudicare esprime un'attività, per cui l'uomo attribuisce un senso ai dati dell'esperienza, un senso, che tali dati, nella loro mera fattualità oggettiva non possiederebbero (un panorama non può essere bello se non per una coscienza estetica formata che prova piacere nell'osservarlo), allora occorre attribuire a tale soggetto giudicante e interpretante un'autonomia interiore, che consente di introdurre nella propria esperienza oggettiva, un elemento di soggettività, di "novità", esiste qualcosa di "creativo" anche in ogni giudizio o interpretazione, anche se in accezione diversa rispetto alle forme dell'agire performativo. In poche parole, la razionalità coincide con la libertà, che porta il soggetto razionale ad una certa autonomia soggettiva nell'attribuire significato a un dato dell'ambiente circostante, dato che non può determinare nella sua oggettività una reazione univoca ed esteriormente prevedibile. Le conseguenze epistemologiche consisterebbero nell'ammissione dell'impossibilità di una conoscenza piena e autentica dell'uomo sulla base di forme di sapere oggettivanti che studiano l'uomo osservandolo dall'esterno, cioè considerandolo come una realtà statica, la cui realtà profonda dovrebbe coincidere con l'apparenza con cui si manifesta all'esterno, non tenendo conto di quello scarto, che porta l'uomo ad agire liberamente nel mondo esterno (quando per "agire" in questo contesto andrebbe considerato anche il pensare e giudicare"), mentre solo un sapere che pone come base fondativa l'introspezione, la riflessione in prima persona su di sé, può davvero avvicinarsi alla conoscenza del nucleo di questa soggettività libera, la cui libertà sta proprio nell'essere irriducibile a qualcosa di totalmente indagabile dall'esterno, un puro oggetto passivo. Questo tipo di sapere vede il suo soggetto come immanente al proprio oggetto, un pensiero che si riconosce come presente nell'esistenza che cerca di indagare, sebbene anche l'autocoscienza non può pervenire ad un sapere compiuto, in quanto nella condizione umana, non c'è piena coincidenza tra soggetto ed oggetto, e la realtà dell'uomo lascia spazi di oscurità anche per un soggetto che coincide con il suo stesso pensiero con le sue categorie. Dal punto di vista politico credo che attestare la libertà come carattere fondamentale dell'uomo debba coerentemente condurre all'idea che il bene dell'uomo non possa mai essere realizzato in forme di società totalitarie o dittatoriale dove uno o più uomini si arrogano il diritto di decidere su tutti, di regolare ogni aspetto, anche il più intimo, della vita umana, cioè togliendogli la libertà, ma che invece solo una liberaldemocrazia, dove lo stato interviene il minimo necessario a garantire i diritti fondamentali dell'individuo, lasciandolo libero di compiere le sue scelte, può garantire il massimo benessere possibile dell'uomo, agendo nel rispetto del tratto fondamentale della sua natura, la libertà, implicato nella razionalità: se garantire il bene dell'uomo vuol dire rispettare la sua libertà non è per un irragionevole permissivismo relativista, ma perché l'uomo è razionale, cioè ha in se stesso i criteri per giudicare le proprie azioni rivolte a garantire il suo bene
#447
Citazione di: Eutidemo il 15 Aprile 2017, 19:21:04 PMCaro Davintro non mi sembra affatto che scindere i due poteri, riferendo la rappresentatività popolare solo al primo (parlamento), rischi di diventare un discorso che cade nel formalismo; secondo me, invece, la separazione dei due poteri (e del terzo) costituisce uno dei pilastri dello Stato di Diritto, come insegnava Montesquieu. *** Ed infatti, in un sistema parlamentare (come detta giustamente la nostra Costituzione), ai cittadini non spetta di eleggere il GOVERNO, bensì i componenti del PARLAMENTO; il quale sarà lui, poi, in un certo senso, ad "eleggere" il GOVERNO. Come ho già detto, i nostri "rappresentanti" sono i parlamentari, e NON i membri del Governo; i quali, come pure avevo già detto, non solo possono benissimo non essere nostri rappresentanti eletti (Renzi non lo aveva eletto nessuno), ma, anche qualora lo fossero, non agiscono in rappresentanza degli elettori, bensì di quelle che ritengono le esigenze del Paese. *** Il lavoro del parlamento, cioè del POTERE LEGISLATIVO, sta nel VARARE LE LEGGI, mentre il lavoro del POTERE ESECUTIVO, cioè del GOVERNO, sta nell'ESEGUIRLE; è vero che è principalmente il Governo a presentare i "disegni di legge", ovvero ad emettere direttamente i "decreti legge" (e, su delega, i D.lgs), ma, questo, non deve e non può cambiare il principio della DIVISIONE DEI POTERI. Sussidiariamente, il lavoro del Parlamento consiste anche nel sostegno e nel controllo all'attività di governo tramite lo strumento delle fiducie o sfiducie; a cui si ricorre fin troppo spesso, per "bypassare" il potere deliberativo del parlamento nell'emanare le leggi. *** Ovviamente, occorre che ci sia una coerenza tra il lavoro delle due strutture; ma, secondo me, non è affatto necessario che un elemento più forte di rappresentanza popolare sia presente anche nell'indicazione di governo. Per cui, da parte mia, non sono affatto favorevole ad introdurre l'obbligo, per ogni lista elettorale, di indicare nel simbolo il nome del candidato premier che la lista si impegnerà nel futuro parlamento a sostenere; anzi, la cosa mi sembra anche un po' incostituzionale, perchè, essendo vietato il vincolo di mandato, secondo me gli elettori non possono vincolare gli eletti a nominare un determinato premier. Quest'ultimo lo devono liberamente scegliere i parlamentari, affinchè il Capo dello Stato lo nomini. *** E non si tratta solo di mero "formalismo", perchè , a mio avviso, l'indicazione in lista del premier, soprattutto nell'attuale fase storica, aggrava il rischio di una "democratura" leaderistica, fondata sull'istrionismo carismatico del demagogo di turno. Ed invero, una volta che il nome del Premier venisse CONSACRATO nella scheda dal popolo, potrebbe risultare più difficile, per la maggioranza parlamentare, di cambiare eventualmente idea riguardo il sostegno a tale Leade, nel caso ritenesse che il governo devia in modo troppo netto dal programma elettorale: la "piazza" potrebbe insorgere. *** E' vero, peraltro, che quando eleggo un parlamentare non eleggo solo un individuo, ma eleggo anche un progetto, un programma di governo; per cui i parlamentari dovrebbero mirare ad un governo che manifesti di voler seguire tale progetto. Però, se io voglio votare un partito perché ha in programma la legalizzazione dell'eutanasia, secondo me, mi deve bastare di sapere che quel partito ha effettivamente in programma quel punto, ma non ho diritto alla garanzia che gli eletti di quel partito (che contribuisco a mandare in parlamento) non facciano alleanze di governo con partiti conservatrici contrari alla legalizzazione; perchè, altrimenti, tale garanzia, si sostanzierebbe in una violazione del divieto dell'obbligo di mandato. Ed invero, se gli eletti di quel partito (che contribuisco a mandare in parlamento) faranno disdicevolmente alleanze di governo con partiti conservatrici contrari alla legalizzazione, la volta prossima non li voterò più; e questa sarà la sanzione per il loro ondivago comportamento. ll tradimento della fiducia elettorale è all'ordine del giorno; ma, purtroppo, non vedo altro rimedio se non quello sopra enunciato. Altri rimedi, secondo me, sarebbero peggiori del male! BUONA PASQUA!

Non mi sogno assolutamente di negare la centralità della divisione dei poteri in un sistema liberaldemocratico, ma credo che essa possa essere correttamente interpretata come divisione di ruoli finalizzata però ad un obiettivo comune che è quello della realizzazione dei valori e delle esigenze che la comunità popolare esprime eleggendo a maggioranza un determinato programma elettorale, che inevitabilmente si fa programma governativo. Mi viene in mente l'analogia con un'azienda, un luogo di lavoro dove il ruolo dell'operaio manovale e quello di un impiegato e di un capo-reparto sono evidentemente molto diversi tra loro, ma entrambi partecipano ad un unico sistema rivolto ad unico obiettivo, il successo economico dell'azienda, e all'interno del sistema i diversi ruoli devono collaborare. Il lavoro del parlamento è efficace nel raggiungimento dei suoi obiettivi, tutelare le esigenze popolari, se coordinato con quello del governo, e se dobbiamo definire l'idea di maggior rappresentatività possibile allora la rappresentatività del parlamento è più forte se accompagnata, entro certi limiti, ad un più forte tasso di rappresentatività nel governo. Per quanto riguarda il discorso della costituzionalità, mi limito a dire che in questo luogo stiamo speculando su un ideale "dover essere", quindi il rischio dell'incostituzionalità, se è un ostacolo alla realizzazione effettiva di tale "dover essere", non andrebbe necessariamente posto come elemento per un giudizio di valore circa il "dover essere" in questione , tanto più che la costituzione non è statico dogma (per volontà degli stessi padri costituenti), e nulla dovrebbe impedirci di teorizzare delle modifiche che possano renderla più valida e politicamente efficiente. Non necessariamente l'indicazione di una determinata maggioranza governativa nel voto costituisce un vincolo di mandato nel senso rigoroso del termine. Io penso che andrebbero distinti due elementi: lo "spirito" e la "lettera" in un programma elettorale. Dal punto di vista dello spirito, delle indicazioni generali, fondamentali, delle priorità di valore, un programma dovrebbe essere rispettato fedelmente, ed è necessario che da questo punto di vista si formi una maggioranza di governo coerente e coesa capace di tradurre in concreto tutto ciò, e l'elettore ha diritto di sapere prima di votare che questa maggioranza possa formarsi realmente, dal punto di vista della "lettera", gli eletti resterebbero liberi di cercare autonomamente i strumenti per applicare efficacemente i punti generali del programma, strumenti riferibili  agli aspetti più tecnici della politica, il cui utilizzo presuppone una certa conoscenza specialistica che la gran parte degli elettori non possono avere, e che, si presume, un esperto politico possa avere, ed in questo ambito sono legittime anche limitate deviazioni rispetto al programma originario (dal punto di vista, appunto, della "lettera") rese necessarie a mutamenti di circostanza nel corso della legislatura, nonché eventuali decisioni impopolari. Certamente il confine tra i due piani, lo spirito, le indicazioni generali dell'elettorato da un lato, e la lettera, gli strumenti tecnici appannaggio di un sapere specialistico spesso è labile e incerta, ma proprio qui sta l'autonomia del politico, la sua capacità interpretativa discrezionale per distinguere i piani. Infine, il punto non è che la volta successiva che vedo un partito proporre la legalizzazione dell'eutanasia e poi andare al governo assieme a forze conservatrici che impediscono l'attuazione di quel punto posso non votare più quel partito. Il problema è un problema di sistema, non è che gli eletti di quel partito vanno puniti perché avrebbero tradito gli elettori, perché sono stati cattivi. Il punto è che in un sistema puramente proporzionale dove si vota solo il partito senza indicare fin da subito un certa maggioranza di governo capace di realizzare il programma, quel partito probabilmente si è trovato COSTRETTO ad allearsi con forze ideologicamente distanti da esso, (a meno di non riuscire da soli a raggiungere il 50 più 1% dei voti...) per formare un governo. E il rischio che ciò accada di nuovo si ripresenterà, non solo per quel partito ma per tutti gli altri, anche la tornata successiva, fintanto che resterà in piedi un sistema che costringe di fatto l'elettore a votare alla cieca, votare un partito con il rischio che i punti fondamentali del programma (che sono le ragioni per cui quel partito viene votato) non siano realizzabili perché quei punti sono osteggiati dagli altri partiti con cui quello si trova costretto a coalizzarsi per governare. Non c'entra la buona o cattiva volontà del singolo partito, è proprio il sistema elettorale che è difettoso!

Anche se leggermente in ritardo auguro a te e a tutti gli utenti del forum una buona pasqua! (è circa un anno che sono iscritto e devo dire che per me è stata e continua ad essere una bella esperienza, scusate la parentesi personale!)
#448
sono d'accordo con l'ultimo post di Paul 11

so benissimo che nella nostra democrazia parlamentare si elegge il parlamento e non il governo, ma scindere i due poteri riferendo la rappresentatività popolare solo al primo rischia di essere un discorso che cade nel formalismo. Nella concreta sostanzialità delle cose il lavoro del parlamento sta proprio nel sostegno e nel controllo all'attività di governo tramite lo strumento delle fiducie o sfiducie. Occorre che ci sia una coerenza tra il lavoro delle due strutture ed è necessario che un elemento più forte di rappresentanza popolare sia presente anche nell'indicazione di governo. Personalmente sono favorevole ad introdurre l'obbligo per ogni lista elettorale di indicare nel simbolo il nome del candidato premier che la lista si impegnerà nel futuro parlamento a sostenere. Questo non sarebbe per forza in contrasto con la centralità del parlamento, non sono per l'obbligo di sciogliere le camere ed indire elezioni anticipate quando cade un governo, la maggioranza parlamentare resterebbe cioè libera nel corso della legislatura di cambiare idea riguardo il sostegno ad un governo nel caso ritenesse che il governo devia in modo troppo netto dal programma elettorale. Ma il punto è che quando eleggo un parlamentare non eleggo solo un individuo, ma eleggo anche un progetto, un programma di governo, cose da applicare in sede governativa. Ed è del tutto astratto pensare che si possa scindere l'indicazione consapevole di un programma dall'indicazione di una maggioranza di governo fatta di forze disponibili a sostenere quel programma, dalla seconda dipende la realizzazione della prima, non si può realizzare un programma senza una coerente maggioranza governativa. Se io voglio votare un partito perché ha in programma la legalizzazione dell'eutanasia non mi basta sapere che quel partito ha effettivamente in programma quel punto, ma ho diritto alla garanzia che gli eletti di quel partito che contribuisco a mandare in parlamento non facciano alleanze di governo con partiti conservatrici contrari alla legalizzazione, altrimenti c'è un chiaro tradimento della fiducia elettorale. Questo non è demagogico leaderismo, io penso che la democrazia parlamentare sia il modello politico migliore possibile, ma vorrei che la rappresentatività sia più consapevole in senso concreto, e questo vuol dire consapevolezza dei modi con cui il parlamento andrà ad agire in reale coordinamento con il governo, rappresentatività nella applicazione di un programma di governo
#449
Citazione di: Eutidemo il 14 Aprile 2017, 07:14:00 AMCaro Davintro, non c'è dubbio che il "partito" inteso come entità collettiva, sia di fatto un'astrazione, ma, secondono me, non è necessariamente vero che chi prende le decisioni debbano necessariamente essere dei singoli; ed invero, per certi tipi di decisione, il partito potrebbe e DOVREBBE esprimersi per il tramite di una "votazione interna", che, sebbene non rappresenterebbe la volontà unanime del partito, rappresenterebbe comunque la volontà della MAGGIORANZA dei suoi componenti. E' ovvio, tuttavia, che se tale "votazione interna" è condizionata dal potere dei Capibastone che formano le "liste", restano pur sempre di fatto dei singoli ducetti ad orientare le scelte del partito; ma questa è patologia, e non fisiologia, della politica. *** Quanto al fatto che dei "non eletti" decidano della sorte di "eletti" (come è accaduto), questo è ancora più grave. *** Quanto al fatto che il vincolo di mandato ha senso solo all'interno di un sistema elettorale proporzionale, a dire il vero, non sono riuscito a seguire bene il tuo ragionamento; anche perchè bisognerebbe prima capire bene di che tipo di sistema elettorale proporzionale o maggioritario stiamo parlando. Comunque, in generale, a mio parere: - il sistema elettorale maggioritario tende a consentire una maggiore "governabilità" del Paese, a scapito della "rappresentatività"; - il sistema elettorale proporzionale, al contrario, tende a consentire una maggiore "rappresentatività" del corpo elettorale, a scapito della "governabilità"del Paese. Per cui non capisco proprio perché la piena rappresentatività, secondo te, sarebbe meglio garantita dal maggioritario, che "stabilirebbe un legame diretto tra elettore ed eletto"; ed infatti, è il sistema elettorale proporzionale a garantire tale legame diretto (con tutti i vantaggi e gli svantaggi che la cosa comporta), mentre il sistema elettorale maggioritario tende a "bypassare" tale legame, per favorire (anche tramite ballottagi) il partito di maggioranza relativa, rendendola assoluta. Ovviamente, stiamo parlando delle elezioni politiche, e non di quelle dei sindaci. *** Infine, per quanto riguarda la possibilità che nel corso del mandato emerga la necessità di modificare alcune parti del programma iniziale, sono pienamente d'accordo; anche se, in pratica, non è molto semplice discriminare tra situazioni in cui ci siano reali fattori che determinano davvero la necessità di aggiornamento del programma, e situazioni in cui, invece, tali fattori siano soltanto soggettivamente supposti.

Avevo già pensato all'idea di votazioni interne a maggioranza all'interno del partito per decidere di esautorare parlamentari considerati non in linea col programma di governo. Tuttavia anche questa soluzione comporta anch'essa parecchi problemi. La maggioranza che all'interno di un partito sostiene il leader potrebbe usare questa possibilità come arma per silenziare il dibattito e il confronto con l'opposizione interna, minacciando esponenti della minoranza di indire plebisciti per rimuoverli, finendo con l'instaurare una sorta di dittatura della maggioranza. Senza contare la possibilità che a tradire il patto programmatico con gli elettori non siano singoli parlamentari isolati, bensì la stessa linea maggioritaria del partito espressa dal leader, che coincidendo con la maggioranza nella votazione interna, finirebbe sempre con l'autoassolversi, e questa sarebbe una situazione più pericolosa dal punto di vista della rappresentatività democratica rispetto al caso nel quale ad essere "infedeli" fossero qualche isolato parlamentare. Inoltre il lavoro ordinario dei parlamentari consiste nello studiare, discutere, rifinire, votare, proporre i disegni di legge, ed è un lavoro di grande responsabilità, e non credo lasci molto tempo a compiti egualmente difficili come il controllo dei comportamenti di ogni singolo parlamentare. Non si può ridurre un partito in una sorte di "grande fratello" dove ci si guarda in cagnesco, si innescano fenomeni di gelosia, invidia, minacce, ricatti, delazioni, tutti fenomeni che la possibilità di poter cacciare chi si ritiene non essere fedele al programma non potrebbe che esaltare, un partito ha bisogno di concordia, armonia tra diversità. No, la strategia più efficace per il controllo da parte del popolo dei propri eletti è quella di lasciare che sia il corpo elettorale stesso a valutare il rispetto delle esigenze dei parlamentari nelle elezioni ordinarie, dando un tempo limitato ai parlamentari per poter lavorare in tranquillità, lavoro che comprende anche la possibilità di alcune eventuali deviazioni del programma se le contingenze le richiedessero come necessarie

Per quanto riguarda il discorso maggioritario-proporzionale, ritengo che il maggioritario sia più rappresentativo da un certo punto di vista (diverso da quello che tu hai esposto e che comunque comprendo), in quanto un sistema in cui un candidato vince prendendo anche un solo voto in più dell'avversario stimola ogni candidato a presentarsi agli elettori con un'idea di maggioranza di governo già concordata con degli alleati, cosicché l'elettore sa già PRIMA delle elezioni che il voto che da contribuirà a formare un determinato governo e non un altro, è già consapevole del tipo di governo che contribuisce con il voto a creare, e il suo voto sarà certamente più consapevole. Il sistema è più rappresentativo perché con il maggioritario l'elettore non sceglie solo il parlamentare, ma anche la maggioranza di governo, chi vince governa, chi perde sta all'opposizione, e non a caso dal '94 in poi grazie ad una legge elettorale prevalentemente maggioritaria gli elettori scegliendo una coalizione già delineata, Polo, Ulivo, sceglievano anche il governo (anche se l'avvento dei 5stelle, che ha interrotto la logica bipolare ha di molto complicato le cose). Invece con il proporzionale si indicano solo i partiti, che dopo le elezioni sono liberi di formare maggioranze di governo in molti casi impreviste e malvolute dagli elettori che a quei partiti hanno espresso consenso. cioè la formazione della maggioranza di governo viene determinata dai partiti e non più direttamente dagli elettori come invece è nel maggioritario. Nella prima repubblica (proporzionale) accadeva che un cattolico antifascista, che in linea coi suoi valori votava DC, vedeva DOPO il voto il suo partito costretto ad accordi di governo con i neofascisti del MSI, oppure un uomo di destra che votava PLI, vedeva il suo partito entrare in una maggioranza di governo comprendente partiti di sinistra  come quello socialista. Non solo nel maggioritario la volontà popolare si esprime oltre che nel programma anche nella scelta della persona chiamata ad interpretarlo (invece delle liste bloccate dei partiti), ma di fatto anche nell'indicazione della maggioranza di governo
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rispondo a Fharenight

lungi da me pensare che  il popolo sia una massa di imbecilli, se lo pensassi non avrei aggiunto che il suffragio universale ogni 4 5 anni è un buon equilibrio, che anche la tecnocrazia è un errore, avrei sostenuto che tutto il potere dovrebbe essere lasciato in mano ad un'elite di presunti esperti. Il popolo non è una massa di imbecilli, è una comunità di individui DIVERSI TRA LORO, dotati di differenti inclinazioni, interessi, talenti, e la conseguenza di tale diversità è l'impossibilità per tutti di fare tutto, il fatto che non tutti sono naturalmente portati per occuparsi al meglio delle stesse cose, esiste anche chi non ha tempo e voglia di approfondire al meglio gli argomenti politicamente più rilevanti. Ovviamente informarsi è sempre meritorio, ma non si può realisticamente pensare che sia sufficiente per permettere a tutti di poter svolgere al meglio attività che non corrispondono alle nostre qualità, ai nostri studi. Esiste cioè il diritto a non voler diventare esperti di politica, perché si preferisce dedicare il proprio tempo ad altre cose, così come si è liberi di non essere interessati a diventare esperti di arte, ingegneria, medicina ecc. senza per questo dover essere considerati esseri inferiori. Noi viviamo in una società fondata sulla delega, e sulla divisione di ruoli e compiti, ed è giustissimo che sia così, perché è l'unico modo per garantire il bene di tutti rispettando le diversità, si delega cioè ad altri che sulla base di certi criteri razionali sono reputabili più bravi di noi a svolgere certe funzioni quei ruoli, così come questi altri delegheranno a loro volta ad altre persone dei compiti per cui questi sono meglio di loro ecc. Se ho mal di denti non mi curo i denti da solo, ma delego ad un professionista con alle spalle studi ed esperienze il compito di curarmi e mi fido di lui. Applicare il vincolo di mandato sarebbe come se durante un intervento ai denti io stressassi ogni 3 secondi il mio dentista lamentandomi con lui perché magari mi fa un po' male, minacciandolo di andare da un dentista concorrente, intralciando il suo lavoro, quando invece la cosa più razionale è pazientare un po' e valutare i risultati al termine dell'operazione dando tempo a un professionista per esprimersi al meglio. In politica più o meno è lo stesso, si presume che chi si candida lo faccia a ragion veduta, perché ritiene di avere in testa un programma di governo valido e razionale, poi come è ovvio e giusto che sia la delega non è assoluta, ma condizionata, e temporalmente limitata, se al termine di un mandato ritengo che l'eletto non ha svolto correttamente il suo lavoro per garantire i miei interessi, io elettore ho la piena libertà di non rivotarlo, esattamente  come se, anche dopo l'operazione, i denti continuassero a farmi male sono libero di rivolgermi a un altro dentista. Nella gran parte dei casi nella politica i candidati non sono davvero capaci di elaborare dei programmi validi e ad applicarli con coerenza, ma è un problema che si risolve attraverso un'opera di rinnovamento della classe politica, che deve diventare più razionale e competente, credo andrebbero valorizzati su scala sistematica istituti di cultura politica, i cosiddetti "think tank", scuole di partito, corsi di formazione politica, su base sociologica, economica, filosofica, geopolitica. Ma ridurre tutto al demagogico "uno vale uno", come se il mio dentista  ne sapesse come me di denti o il mio avvocato ne sapesse come me di codici penali non può essere la soluzione, affidarsi a chi ha maggiori competenze ed esperienze di noi non è elitarismo, ma umiltà e rispetto della professionalità altrui



rispondo a Eutidemo

le tue domande mettono a fuoco le problematiche e difetti del vincolo di mandato. Inevitabilmente sarebbe il partito di appartenenza il titolare per valutare il rispetto da parte di un singolo parlamentare del programma elettorale. Ma il "partito" inteso come entità collettiva  di fatto è un'astrazione, chi prende le decisioni son sempre dei singoli. Ora, il singolo o i singoli che si prendono la responsabilità di decidere se rimuovere un parlamentare sulla base del  "vincolo", o sono a loro volta dei "non eletti", e allora emerge un vulnus al principio di rappresentanza popolare, in quanto dei "non eletti" decidono della sorte di "eletti", oppure questi titolari ( ad esempio può essere il segretario, o il consiglio nazionale...) sono degli eletti come gli altri, ma allora si verificherebbe un chiaro cortocircuito, perché chi deve decidere sulla eventuale rimozione di un parlamentare sarebbero esso stesso parlamentare, e potrebbero trovarsi a giudicare loro stessi, e come è ovvio, chi avrebbe l'onestà intellettuale da autorimuoversi dalla propria carica? Il punto è che il vincolo di mandato ha senso solo all'interno di un sistema elettorale proporzionale, e le aporie in cui cade finiscono con l'essere responsabilità del proporzionale, un sistema che frappone fra elettore ed eletto un medium, il partito che diviene per gli elettori anche più importante  dei singoli parlamentari, determinando una situazione l'eletto vede la sua libertà d'azione limitata da gerarchie, che o non sono elette, oppure sono elette, ma che assumono un potere decisionale che li rende più importanti degli altri, e quindi anche meno controllabili. Ecco perché la piena rappresentatività secondo me è meglio garantita dal maggioritario, che stabilisce un legame diretto tra elettore ed eletto. Per quanto riguarda la possibilità che nel corso del mandato emerga la necessità di modificare alcune parti del programma iniziale, io mi riferivo a situazioni in cui ci sono reali fattori che determinano davvero questa necessità, è un'ipotesi che non può essere tralasciata, ed è il politico razionale che sa interpretare i mutamenti e considerare i casi di aggiornare i programmi in corso d'opera la persona più titolata a valutare la necessità, sempre per il principio delle differenti competenze tra un politico e un non-politico, sul quale mi pare fossimo più o meno d'accordo