Menu principale
Menu

Mostra messaggi

Questa sezione ti permette di visualizzare tutti i messaggi inviati da questo utente. Nota: puoi vedere solo i messaggi inviati nelle aree dove hai l'accesso.

Mostra messaggi Menu

Messaggi - Eutidemo

#4381
Al riguardo, per comprendere bene il nocciolo della questione, per prima cosa occorre avere ben presenti tre diverse disposizioni di legge (sebbene non solo quelle, come vedremo più avanti).

1)
CODICE CIVILE

Il principio generale è molto chiaro, ed è enunciato dall'art.1463 c.c., il quale recita: "Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta (*) non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito".

2)
CODICE DEL TURISMO

Tale principio generale enunciato dall'art.1463 c.c., assume dei connotati speciali in materia turistica, in quanto l'art. 41 del Codice del Turismo stabilisce che: "In caso di circostanze inevitabili e straordinarie verificatesi nel luogo di destinazione o nelle sue immediate vicinanze e che hanno un'incidenza sostanziale sull'esecuzione del pacchetto o sul trasporto di passeggeri verso la destinazione, il viaggiatore ha diritto di recedere dal contratto, prima dell'inizio del pacchetto, senza corrispondere spese di recesso, ed al rimborso integrale dei pagamenti effettuati per il pacchetto, ma non ha diritto a un indennizzo supplementare".

3)
ART.28 DEL DECRETO "EMERGENZA COVID" DI MARZO 2020.
L'art.28 del D.L.9 del 2/3/20, intitolato "Rimborso titoli di viaggio e pacchetti turistici", a differenza delle due precedenti norme, che sono molto brevi e semplici da comprendere, contiene una prescrizione "speciale" molto più articolata prolissa e difficile da sintetizzare.
Comunque ci proverò, sforbiciando dove e come posso.

***
La norma inizia con una "omologazione ex lege"; la quale, cioè, stabilisce che alcune specifiche ipotesi devono ritenersi "per presunzione assoluta" di "sopravvenuta impossibilità della prestazione".
Recita, infatti, il disposto: "Ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1463 c.c., ricorre la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta in relazione ai contratti di trasporto aereo, ferroviario, marittimo, nelle acque interne o terrestre, qualora stipulati:
a)
Dai soggetti nei confronti dei quali è stata disposta la quarantena, se il viaggio si sarebbe dovuto tenere nel medesimo periodo di quarantena.
b)
Dai soggetti con divieto di allontanamento nelle aree interessate dal contagio (le "zone rosse").
c)
Dai soggetti contagiati per i quali è disposta la quarantena con sorveglianza attiva ovvero la permanenza domiciliare fiduciaria, se il viaggio si sarebbe dovuto tenere nel medesimo periodo di quarantena.
d)
Dai soggetti che hanno programmato soggiorni o viaggi con partenza o arrivo nelle aree interessate dal contagio; che, ritengo, sia il caso più frequente.
e)
Dai soggetti che hanno programmato la partecipazione a concorsi pubblici o a manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, a eventi e a ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico, annullati, sospesi o rinviati dalle autorità competenti; che, ritengo, sia anche questo un caso molto frequente.
f)
Dai soggetti intestatari di titolo di viaggio, acquistati in Italia, avente come destinazione Stati esteri, dove sia impedito o vietato lo sbarco, l'approdo o l'arrivo in ragione della situazione emergenziale epidemiologica da COVID-19; caso anche questo molto frequente.

***

In tutti i casi di "sopravvenuta impossibilità della prestazione" sopra elencati, i clienti devono comunicare al "vettore" il ricorrere di una delle situazioni di cui sopra, allegando il titolo di viaggio e, nell'ipotesi di cui alla lettera e), la documentazione attestante la programmata partecipazione ad una delle manifestazioni, iniziative o eventi indicati nella medesima lettera.
Tale "comunicazione" deve essere effettuata entro trenta giorni decorrenti:
a) dalla cessazione delle situazioni di cui alle lettere da a) a d) ;
b) dall'annullamento, sospensione o rinvio del corso o della procedura selettiva, della manifestazione, dell'iniziativa o dell'evento, nell'ipotesi di cui alla lettera e);
c) dalla data prevista per la partenza, nell'ipotesi di cui alla lettera f).

***
Interrompo un attimo la mia faticosa "sintesi" della norma, per sottolineare un aspetto molto importante.
Per a), b), c) (e in alcuni casi, forse, d) ed e)), capisco che possa spettare al "cliente" di comunicare al "vettore" il ricorrere di una delle delle situazioni di impedimento; però, nel caso di cui alla lettera f), mi sembra che, invece, il ricorrere della specifica causa di impedimento dovrebbe essere comunicata dal "vettore" al "cliente" e non viceversa.
Ed infatti, nell'ipotesi di Stati esteri, dove sia impedito o vietato lo sbarco, l'approdo o l'arrivo in ragione della situazione emergenziale epidemiologica da COVID-19, mi pare logico che la causa di impedimento dovrebbe essere comunicata dal "vettore" al "cliente", e non viceversa.
Come, infatti, mi pare che accada, in quanto, in tale caso:
- non è il cliente a recedere in quanto personalmente "impedito" da malattia o altro motivo (a, b, ecc.);
- è il vettore, invece, a recedere in quanto è "impedito" lui ad effettuare il trasporto.
Ma, per adesso, sorvoliamo sul punto, sul quale torneremo in seguito.

***
Dopo il laborioso elenco di "clienti" impossibilitati a viaggiare, e/o di "vettori" impossibilitati a trasportarli a destinazione, la prolissa norma prevede che il "vettore", anche nei casi in cui il titolo di viaggio sia stato acquistato per il tramite di un'agenzia di viaggio, entro quindici giorni dalla comunicazione di cui sopra, debba procedere:
- al rimborso del corrispettivo versato per il titolo di viaggio;
<<ovvero>>
- all'emissione di un voucher di pari importo da utilizzare entro un anno dall'emissione.
Quindi la scelta è rimessa irrevocabilmente a lui!

***
A questo, segue un comma un po' oscuro, il quale stabilisce che:
a)
I soggetti di cui al comma 1 possono esercitare, ai sensi dell'articolo 41 del decreto legislativo 23 maggio 2011, n. 79 (vedi sopra), il diritto di recesso dai contratti di pacchetto turistico da eseguirsi nei periodi di ricovero, di quarantena attiva ovvero di durata dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 nelle "zone rosse";
b)
In tal caso l'organizzatore "può" (cioè, è sua esclusiva facoltà):
- procedere al rimborso nei termini previsti dai commi 4 e 6 dell'articolo 41 del citato decreto legislativo 23 maggio 2011, n. 79;
- oppure può offrire al viaggiatore un pacchetto sostitutivo di qualità equivalente o superiore;
- oppure può emettere un voucher, da utilizzare entro un anno dalla sua emissione, di importo pari al rimborso spettante.

Non mi è ben chiaro come tale comma si coordini con il precedente; ma poco male!

***

Seguono alcune disposizioni secondarie (relative alle gite scolastiche ed altro), e poi, conclusivamente, si sottolinea che: "...le disposizioni dell'intero art.28, ai sensi dell'articolo 17 della legge del 31 maggio 1995, n. 218 e dell'articolo 9 del regolamento (CE) n. 593/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 giugno 2008, costituiscono <<norme di applicazione necessaria>>."
Cosa significa?

***
Significa quanto segue:
a)
Ai sensi dell'articolo 17 della legge del 31 maggio 1995, n. 218: "E' fatta salva la prevalenza sulle disposizioni che seguono delle norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera."
b)
Ai sensi dell'articolo 9 del regolamento (CE) n. 593/2008 le norme di applicazione necessaria sono disposizioni il cui rispetto è ritenuto cruciale da un Paese per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici, quali la sua organizzazione politica, sociale o economica, al punto da esigerne l'applicazione a tutte le situazioni che rientrino nel loro campo d'applicazione, qualunque sia la legge applicabile al contratto secondo il regolamento di diritto internazionale.

***
Cioè, se non ho capito male, il senso è che l'art.28 pur contrastando con il Dlgs 79/2011 (Codice del turismo), che ha recepito la direttiva 2008/122/CE e viene richiamato dallo stesso Dl 9/2020, che richiama nell'articolo 41, proprio i casi di impossibilità a effettuare il viaggio causati da emergenze sanitarie, stabilendo che il consumatore ha diritto al rimborso senza "penalità"; mentre, essere obbligati a cuccarsi un "voucher" invece di un "rimborso" in soldoni, a mio avviso costituisce senz'altro una "penalità" (sebbene indiretta).
Però, appellandosi alle due norme sopra citate, il nostro Stato, in buona sostanza, ha ritenuto che, per sostenere il comparto del turismo (che è indubbiamente in crisi), nella specifica contingenza è preferibile tutelare le agenzie di viaggio, piuttosto che i consumatori.

***

A mio parere, però, fermo restando che se un viaggio turistico è andato a monte per colpa del COVID19, non è sicuramente colpa nè dei clienti nè dell'Agenzia di viaggio, tuttavia mi pare che la mera restituzione dei soldi anticipati dal cliente non costituisce per il "tour operator";
- nè una "spesa";
- nè una "penalità".
Si tratta semplicemente della restituzione di denaro che non appartiene all'agenzia; trattenendo il quale, a mio avviso, potrebbe realizzarsi una sorta di appropriazione indebita.

***
Sostenere che il "voucher" dovrebbe comunque costituire un "ristoro" per il cliente, a mio parere è come sostenere che, essendo andato a monte un contratto per l'acquisto di un immobile, all'agenzia immobiliare fosse concesso di trattenere in deposito la caparra, con la promessa che essa potrà essere utilizzata dal cliente per il prossimo eventuale acquisto di un altro immobile.
Non è proprio la stessa cosa, ma quasi!

***
Concludendo, comunque, nel caso in cui non sia stato affatto il cliente a "recedere" formalmente dal contratto di viaggio, bensì, invece, il viaggio sia stato annullato dallo stesso "tour operator" per ragioni connesse al COVID19, a mio avviso l'art.28 dovrebbe risultare inapplicabile; ed infatti, da una attenta lettura di tale disposizione, a me sembra che essa si applichi esclusivamente all'ipotesi del "recesso del viaggiatore", e non anche all'annullamento del pacchetto di viaggio da parte del stesso "tour operator" (uso qui il termine genericamente, per indicare anche l'agenzia di viaggio, il vettore ecc., con cui si è stipulato il "contratto").
In tal caso, il cliente, una volta edotto dai "media" o dallo stesso "tour operator" che il viaggio non si farà più, a mio avviso  non dovrebbe assolutamente inviare alcuna "comunicazione di recesso", bensì dovrebbe inoltrare al "tour operator"  una pura e semplice "istanza di rimborso" di quanto anticipato; guardandosi bene dall'intestarla erroneamente "comunicazione recesso", nel qual caso innescherebbe il meccanismo dell'art.28, e, se offertogli, non potrebbe più rifiutare il "voucher" sostitutivo.

* NOTA
Quanto allla "sopravvenuta impossibilità della prestazione", l'art. 1256 Codice civile precisa che "L'obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile. Se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento. Tuttavia l'obbligazione si estingue se l'impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla."












#4382

Prima di recarvi nuovamente in un ristorante o in una pizzeria, vi consiglio di leggere attentamente quanto segue; e poi, prima ordinare un tavolo,  vi consiglio di sbirciare dentro il locale e di vedere come si è regolato il ristoratore.


***
Nelle "Linee di indirizzo per la riapertura delle Attività Economiche" risultanti dalla Conferenza delle Regioni prot. 20/81/CR01/COV19 del 17 maggio 2020, ed approvate dal Governo (sebbene non divulgate), si precisa che le misure da garantire, in relazione alle distanze che dovranno essere assicurate nei ristoranti, sono le seguenti:
"I tavoli devono essere disposti in modo che le sedute garantiscano il distanziamento interpersonale di almeno 1 metro di separazione tra i clienti, ad eccezione delle persone che in base alle disposizioni vigenti non siano soggette al distanziamento interpersonale (cioè, in pratica, i commensali seduti ad uno stesso tavolo)."


***
A quanto mi risulta, quasi tutte le Regioni lo hanno interpretato nel senso che il metro di distanziamento tra le persone, deve misurarsi "schiena a schiena"; il che, pur essendo la prima interpretazione  logica che viene in mente (presupponendo i tavoli in parallelo), non mi sembra, però, una soluzione molto intelligente.


***
Ed infatti:
1)
La distanza "schiena a schiena" dei futuri clienti, è difficilmente predeterminabile dal ristoratore nella sistemazione dei tavoli e delle seggiole, in quanto essa dipende molto anche dallo "spazio di seduta" dei singoli clienti; il quale può essere più o meno ampio, come, ad esempio, nel caso delle donne incinte.
2)
In ogni caso, un metro di distanza tra gli schienali delle sedie, disponendo i tavoli in parallelo, potrebbe esporre i clienti:
- ai "droplet" dei camerieri di passaggio, che devono transitare in stretti corridoi, a meno di mezzo metro dalle terga di ciascuno dei due clienti;
- ad eventuali "ingorghi" quando ci si alza contemporaneamente dalle proprie sedie.


***
Ciò premesso, o il ristoratore prevede un maggior margine di sicurezza tra i tavoli (facendo perdere spazio al locale), oppure deve ricorrere agli orribili "divisori" in plexliglass (facendo perdere "appeal" al locale).
Però, se è furbo, secondo me potrebbe ricorrere ad un'altra soluzione; che eviterebbe entrambi gli inconvenienti.
E, se è furbo anche l'avventore, nel suo interesse, prima di sedersi dovrebbe sbirciare dentro e vedere come si è regolato il ristoratore.


***
Ed infatti, un tavolo quadrato, di 85 cm di lato e con quattro sedie, posto in parallelo occupa uno "spazio di rispetto" di circa 225 cm x 225 cm; se, invece, viene disposto in diagonale,  necessita di uno "spazio di rispetto" di circa 200 cm x 200 cm, con un notevole risparmio di area utile.
Ne consegue che, geometricamente, i tavoli in diagonale occupano meno spazio, grazie al migliore sfruttamento degli angoli, e, a causa della posizione delle sedie dei clienti, non li espone ai "droplet" dei camerieri di passaggio, nè ad eventuali ingorghi quando ci si alza contemporaneamente dalle proprie sedie.
L'immagine del seguente link, mi sembra molto eloquente:
http://bayimg.com/bANheaAGP


***
#4383

Un mio amico, che stamattina ha riaperto la propria attività commerciale, mi ha telefonato per chiedermi disperato che differenza ci sia tra "pulizia", "igienizzazione", "disinfezione" e "sanificazione" dei locali; io gli ho risposto che non ne avevo la benchè minima idea, ma gli ho promesso che avrei controllato se c'era qualche legge che chiarisse il significato di tali concetti.


***
Mantenendo la promessa, ho visto che nell'allegato 5 del DPCM 18/5/20/, riguardante le "Misure per gli esercizi commerciali", si parla dell'obbligo per il titolare dell'esercizio, di assicurare:
- la "pulizia" e l'"igiene" ambientale con frequenza di almeno due volte giorno ed in funzione dell'orario di apertura;
- l'"aereazione naturale" ed il "ricambio d'aria";
- la disponibilità e l'accessibilità a sistemi per la "disinfezione" delle mani.
Anche per gli esercizi commerciali, peraltro, in forza della lett.d) dell'art.1 dello stesso DPCM, sono obbligatorie le operazioni di "sanificazione" dei luoghi di lavoro.
Altrove nello stesso DPCM, in modo specifico per i cantieri e luoghi assimilati, viene ribadito l'obbligo del datore di lavoro di assicurare la "pulizia giornaliera", l'"igienizzazione" e la "sanificazione" periodica degli spogliatoi e delle aree comuni, limitando l'accesso contemporaneo a tali luoghi; e molto altro ancora.
Però non viene spiegato il "significato" preciso di tali concetti; che, in alcuni casi, sembrebbe quasi sinonimico.


***
Dopo qualche ulteriore ricerca, ho trovato il DECRETO MINISTERIALE 7 luglio 1997, n. 274 "Regolamento di attuazione degli articoli 1 e 4 della legge 25 gennaio 1994, n. 82, per la disciplina delle attivita' di pulizia, di disinfezione, di disinfestazione, di derattizzazione e di sanificazione", il quale, testualmente, spiega quanto segue:
a)
Sono attivita' di "pulizia" quelle che riguardano il complesso di procedimenti e operazioni atti a rimuovere polveri, materiale non desiderato o sporcizia da superfici, oggetti, ambienti confinati ed aree di pertinenza.
b)
Sono attivita' di "disinfezione" quelle che riguardano il complesso dei procedimenti e operazioni atti a rendere sani determinati ambienti confinati e aree di pertinenza mediante la distruzione o inattivazione di microrganismi patogeni.
c)
Sono attivita' di "sanificazione" quelle che riguardano il complesso di procedimenti e operazioni atti a rendere sani determinati ambienti mediante l'attivita' di pulizia e/o di disinfezione e/o di disinfestazione ovvero mediante il controllo e il miglioramento delle condizioni del microclima per quanto riguarda la temperatura, l'umidita' e la ventilazione ovvero per quanto riguarda l'illuminazione e il rumore.
Tale ultima attività, può essere necessaria:
- per decontaminare interi ambienti, richiedendo quindi attrezzature specifiche per la diffusione dei principi attivi e competenze professionali;
- oppure aree o superfici circoscritte, dove gli interventi sono alla portata anche di soggetti non professionali.


***
Quanto alla "igienizzazione", salvo che la cosa mi sia sfuggita, non ho trovato una specifica definizione legale, ma ho trovato altrove che essa consisterebbe nella pulizia a fondo con sostanze in grado di rimuovere o ridurre gli agenti patogeni su oggetti e superfici; però deve trattarsi di sostanze igienizzanti (es. ipoclorito di sodio o candeggina) che sono, sì, attive nei confronti degli agenti patogeni, ma non sono considerate disinfettanti in quanto non autorizzati dal Ministero della Salute come presidi medico chirurgici.


***
Spero che tali informazioni possano risultare utili anche ad altri, oltre che al mio amico; per questo le pubblico anche qui.


***
Buone pulizie a tutti! ;)
#4384
Citazione di: Ipazia il 18 Maggio 2020, 10:33:53 AM
La causalità nel caso di infezioni virali o batteriche (ad es. brucellosi, negli allevamenti) è assimilata all'infortunio perchè non si tratta di esposizioni prolungate nel tempo ad un agente patogeno che solitamente produce lesioni permanenti (ad es. rumore vs. ipoacusia), ma di fenomeni che, analogamente all'infortunio, hanno un'induzione "istantanea" ed anche gli eventuali postumi sono equiparabili ai postumi di un infortunio invalidante.

La opposizione dei ddl a tale interpretazione, peraltro in linea con tutti i precedenti INAIL, penso sia dovuta al fatto che nel caso di indagine per malattia professionale è più facile sfruttare le aree grigie procedurali e accertative del dolo o colpa e anche i tempi si allungano rispetto all'inchiesta infortuni.

Resta comunque difficile anche l'accertamento dell'"infortunio" da contagio coronavirus in ambito lavorativo, vista la intrusività sociale del virus. Semmai è più perseguibile il comportamento del ddl dopo un primo accertamento di un caso all'interno dell'azienda, rispetto alle bonifiche da effettuarsi e alle azioni di prevenzione e diagnostica nei confronti degli altri dipendenti.



Argomentazioni tutte molto sensate; però, secondo me, equiparare la "virulenza" alla "violenza" resta pur sempre una forzatura ermeneutica (benchè indubbiamente sostenibile, almeno sotto il profilo dell'art.12 delle preleggi).

Quanto all'accertamento "in concreto" dell'"infortunio" da contagio coronavirus in ambito lavorativo, vista l'importanza del tema, ho aperto al riguardo un topic "ad hoc"; dimmi cosa ne pensi, visto che, in materia, mi sembra che tu abbia una notevole competenza (quantomeno molto maggiore della mia, considerato che questo non è certo il mio campo).
https://www.riflessioni.it/logos/attualita/covid-19-contagio-sul-lavoroe-davvero-una-'probatio-diabolica'/
#4385

COVID 19 - Contagio sul lavoro: è davvero una "probatio diabolica"?
Ho già trattato, in generale, la questione dei "rischi" che corrono gli imprenditori, in quanto responsabili civilmente e penalmente degli eventuali  contagi da COVID 19 contratti dai propri dipendenti sul luogo di lavoro.
https://www.riflessioni.it/logos/attualita/covid19-contagio-responsabilita-del-datore-di-lavoro-onere-della-prova/new/#new
Qui, però, ritengo opportuno focalizzare l'attenzione un aspetto particolare, sul quale non mi ero particolarmente soffermato; cioè sulle modalità "concrete" della prova di una eventuale "colpevolezza" dell'imprenditore.


***
Ed infatti, nel mio precedente TOPIC, sulla scorta della  Circolare n. 13/2020 dell'INAIL, avevo ricordato  che, "astrattamente", la problematica della "prova" del "nesso causale" si articola differentemente a seconda di:
- attività lavorative che comportano una condizione di specifico ed elevato rischio di contagio da COVID19 (personale sanitario ed altre categorie elencate nella circolare), per le quali vige la "presunzione semplice"  di averlo contratto sul luogo di lavoro;
- attività lavorative che, di per sè, non comportano una condizione di specifico ed elevato rischio di contagio da COVID19 (ad esempio, personale impiegatizio ecc.), per le quali non vige la "presunzione semplice" di averlo contratto sul luogo di lavoro, per cui sul dipendente grava l'"onere della prova" di aver effettivamente contratto il contagio sul luogo di lavoro, e non altrove.
Trattando la questione in generale, non mi ero particolarmente soffermato su tale aspetto concreto; cosa che, quindi, mi accingo a fare adesso.


***
Al riguardo, nei dibattiti, sento dare per scontato che, nel secondo caso, si sarebbe in presenza di una vera e propria ""probatio diabolica", in quanto risulterebbe "impossibile" dimostrare che il contagio non sia stato contratto altrove; magari sull'autobus per raggiungere il luogo di lavoro, o, al limite, anche a casa propria.
Il che, invece, non è affatto vero.


***
Ed infatti:


1)
Uno studio pubblicato su 'PNAS' da ricercatori dell'università di Cambridge nel Regno Unito e da loro colleghi tedeschi, ha dimostrato che, analizzando i genomi virali completi, sequenziati dopo essere stati isolati da malati di COVID19, si  possono ricostruire i passaggi dell'epidemia, identificando diverse varianti genetiche del virus;  per cui, "entro certi limiti", si può capire "dove" è stato contratto il contagio.


2)
In ogni caso, a livello meramente "logico", solo per fare un esempio:
- se un operaio è l'unico ad ammalarsi in un reparto di cento persone, mentre, invece, si sono verificati parecchi casi di contagio nella palestra dove si reca dopo il lavoro, è ragionevole presumere che il virus se lo sia preso in palestra, e non sul luogo di lavoro (anche se su tale luogo le misure ANTICOVID19 risultassero carenti);
- se, invece, in un reparto di cento persone, più della metà contraggono il contagio, è ragionevole presumere che il virus se lo siano preso sul luogo di lavoro, e non altrove (anche se su tale luogo le misure ANTICOVID19 fossero tutte perfettamente regolari).
Non ci vuole mica Sherlock Holmes!


***
In nessuno dei due casi, secondo me, il datore di lavoro risulterebbe necessariamente responsabile delle lesioni subite dal dipendente, in quanto:


a)
Nel primo caso il contagio è stato presumibilmente contratto altrove (in palestra), per cui, visto che esso non è dipeso dalla carenza delle misure ANTICOVID19 dell'azienda:
- il titolare potrà sicuramente essere sanzionato per il mancato rispetto dei protocolli di sicurezza:
- ma non potrà essere ritenuto responsabile di un contagio contratto al di fuori del luogo di lavoro.


b)
Nel secondo caso, invece, il contagio è stato presumibilmente contratto in azienda, ma, se esso non è dipeso dalla carenza delle misure ANTICOVID19:
- il titolare non potrà essere sanzionato per il mancato rispetto dei protocolli di sicurezza, avendoli scrupolosamente rispettati tutti:
- non potrà neanche essere ritenuto responsabile di un contagio contratto sul luogo di lavoro, essendo esente da colpa.


***
Al riguardo, invero, occorre sempre ricordare che la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 20364 del 26 luglio 2019:
- in primo luogo ha ribadito la portata  dell'art. 2087 c.c., il quale prevede che: "L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro";
- in secondo luogo, però, a scanso di equivoci o fraintendimenti,  ha chiarito che l'articolo 2087 c.c. non pone affatto un'ipotesi di "responsabilità oggettiva" del datore di lavoro, ovvero una norma portatrice di un "obbligo assoluto" di rendere l'ambiente di lavoro "del tutto privo di rischi"; il che sarebbe ovviamente "impossibile", soprattutto nel caso di un virus "insidioso" come il COVID19.


***
Allora il datore di lavoro non risulterebbe mai responsabile delle lesioni subite dal dipendente in conseguenza del contagio di COVID19 contratto in azienda?
Certo che sì!


***
Ed infatti, occorre considerare una terza ipotesi, e, cioè:
- che in un reparto di cento persone, più della metà contraggono il contagio, per cui è ragionevole presumere che il virus se lo siano preso sul luogo di lavoro, e non altrove (salvo prova contraria);
- che su tale luogo le misure ANTICOVID19 non erano affatto tutte perfettamente regolari, il che aggrava l'indizio che che il virus se lo siano preso sul luogo di lavoro.


***
In tale caso, invero, la "probatio", almeno ai fini "civili" ex art.2729 c.c., non sarebbe affatto così "diabolica" come molti vanno dicendo, in quanto il datore di lavoro potrà essere abbastanza facilmente ritenuto responsabile del contagio contratto dai suoi dipendenti sul luogo di lavoro:
- sia per il rilevante numero dei contagiati nello stesso reparto dell'azienda, che lascia presumere che si siano contagiati lì;
- sia perchè il mancato rispetto delle misure di sicurezza in tale reparto,  lascia presumere che il contagio sia appunto addebitabile proprio a tale carenza.


***
In  ai fini "penali", invece,
- il titolare potrà sicuramente essere sanzionato ex art.650 del Codice Penale, per non aver osservato un protocollo legalmente prescritto dall'Autorità per ragione d'igiene, essendo tale infrazione facilmente verificabile (anche se nessuno dei suoi dipendenti si ammalasse).
- risulterà invece molto difficile per il PM fornire la prova "al di là di ogni ragionevole dubbio" della sua colpevolezza "penale" (art. 533 c.p.p.).


CONCLUSIONE
Concludendo, quindi, la prova della colpevolezza dell'imprenditore, non è affatto necessariamente  "diabolica"; ma, come per qualsiasi altro onere probatorio, la sua facilità o difficoltà dipende dalle circostanze.
Ed invero:
- se una vergine contrae l'HIV al suo primo rapporto sessuale, è abbastanza facile individuare il colpevole;
- se, invece, a contrarre l'HIV è una prostituta, individuare il colpevole diventa un tantino più difficile.
E così è per tutte le cose, COVID19 compreso.


***
In ogni caso  se gli imprenditori seguiranno scrupolosamente tutte le prescrizioni ANTICOVID19, è quasi impossibile che possano venire perseguiti:
- sia penalmente;
- sia civilmente.
Per cui, secondo me:
- non dovrebbero affatto soverchiamente preoccuparsi;
- dovrebbero invece alacremente occuparsi a predisporre tutte le misura di sicurezza previste (a tutela loro e dei loro dipendenti.


***




































#4386

Ciao Anthony. :)
Approfondendo ulteriormente la questione, ho visto  che l'INAIL ha assimilato l'infezione da COVID19 ad altre malattie infettive e parassitarie connotate da "causa virulenta" (quali epatite, Aids etc.); le quali sono state anch'esse ricomprese nella categoria degli infortuni.
Però, come già avevo scritto, secondo me, la lesione derivante da una malattia, per quanto essa possa essere "virulenta", difficilmente può dirsi derivante da una "causa violenta" e "traumatica"; ed infatti si tratta di concetti diversi, assimilabili solo analogicamente ricorrendo ad una "interpretazione estensiva" molto forzata. 
Tuttavia, vedo che con una propria nota la Direzione centrale rapporto assicurativo e della Sovrintendenza sanitaria centrale INAIL del 17 marzo 2020, seguita dalla Circolare del 2 aprile 2020, ha chiarito che "...l'infezione da nuovo Coronavirus va trattata come infortunio sul lavoro (malattia-infortunio). Il presupposto tecnico-giuridico è quello dell'equivalenza tra causa violenta, richiamata per tutti gli infortuni, e causa virulenta, costituita dall'azione del nuovo Coronavirus.
Qualora venga accertato che l'infezione da Coronavirus sia stata contratta in ambienti di lavoro o in itinere, ossia nello spostamento abituale tra casa e lavoro, le prestazioni a tutela dell'infortunato sono di competenza INAIL e sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell'infortunato".
Credo che varrebbe la pena aprirci un TOPIC a parte.


Un saluto. :)

#4387

Ciao Anthony. :)
Al riguardo, per prima cosa, "sine ira ac studio", esaminiamo un po' meglio i due concetti.

1)
INFORTUNIO SUL LAVORO
Giurisprudenza a parte, sotto il profilo amministrativo, per "infortunio sul lavoro" si intende ogni lesione originata, in occasione del lavoro, da causa violenta che determini la morte della persona o ne menomi parzialmente o totalmente la capacità lavorativa.
Per cui, in sintesi, secondo il Ministero del Lavoro (ed anche, sostanzialmente, secondo la giurisprudenza) gli elementi integranti l'"infortunio sul lavoro" sono:
a)
La "lesione", cioè un danno fisico e/o psichico subito dal lavoratore; ed il contagio da COVID19  può sicuramente considerarsi tale, in maggiore o in minor misura.
b)
L'"occasione di lavoro", e, cioè, che vi sia un nesso causale tra il lavoro e il verificarsi dei rischio cui può conseguire l'infortunio; e, nel caso del COVID19, tale nesso causale indubbiamente sussiste nella misura in cui esso si possa ragionevolmente presumere (infermieri, medici ecc.), ovvero nella misura in cui esso si possa adeguatamente dimostrare (altri tipi di lavoratori).
c)
La "causa violenta", invece, secondo me, nel caso del contagio da COVID19, è un elemento la cui giuridica ricorrenza è molto controvertibile; salvo a voler omologareil concetto di "violenza" con quello di "virulenza". Ma sul punto tornerò più avanti.

2)
MALATTIA PROFESSIONALE
Giurisprudenza a parte, sotto il profilo amministrativo, per "malattia professionale" si intende una patologia la cui causa agisce "lentamente" e "progressivamente" sull'organismo (cioè, una causa diluita e non una causa violenta e concentrata nel tempo, come nel caso dell'infortunio);  deve, peraltro, trattarsi di una "causa diretta ed efficiente", cioè in grado di produrre l'infermità "in modo esclusivo o prevalente".
Come, ad esempio:
- l'"antracosi", che è una malattia polmonare di tipo cronico (pneumoconiosi), tipica di chi lavora nelle miniere di carbone;
- l'"asbestosi", che è una malattia polmonare cronica conseguente all'inalazione di fibre di asbesto (amianto), che è stato molto utilizzato in passato come materiale in campo prevalentemente edilizio, soprattutto per le sue caratteristiche refrattarie.
ecc.
In altre parole, nella "malattia professionale", diversamente che nell'"infortunio", l'influenza del lavoro nella genesi del danno lavorativo deve risultare "specifica"; ciò, in quanto la malattia deve essere contratta proprio nell'esercizio ed a causa di quell'attività lavorativa o per l'esposizione a quella determinata forma patogena.

***
CONCLUSIONI
Ciò premesso, a mio parere, a parte il fatto che l'incubazione del COVID19 è un po' troppo rapida per poterla equiparare al "lento" e "progressivo" decorso delle classiche "malattie professionali", tuttavia, in determinati casi, penso che la si potrebbe anche classificare come tale; ad esempio, nel caso dei chimici, dei biologhi, dei virologhi ecc., i quali passano la maggior parte del loro tempo a stretto contatto con tale virus, per studiarlo e trovarne una cura.
Ed infatti, in tal caso, non c'è dubbio che, se si ammalano di COVID19, la malattia sarebbe stata contratta proprio:
- nell'esercizio ed a causa della loro "specifica" attività lavorativa;
- con conseguente "specifica" esposizione a quella determinata forma patogena.

Nel caso degli altri lavoratori, invece, almeno "strictu iure" tali circostanze non mi sembra che ricorrano quasi mai; in quanto, se, per esempio, il COVID19 se lo becca un impiegato nel suo posto di lavoro, non si può certo dire che se lo sia preso:
- nell'esercizio ed a causa della sua "specifica" attività lavorativa;
- con conseguente "specifica" esposizione a quella determinata forma patogena.

Diciamo allora che il COVID19 costituisce senz'altro un "infortunio sul lavoro"?
Può darsi, ma, come ho scritto sopra, mi sembra un po' arduo considerare il contagio da COVID un "infortunio" (cioè provocato da un "evento traumatico" o da "una causa violenta"), perchè, in ogni caso, si tratta di una "reazione morbosa" di carattere non traumatico (come, invece, sarebbe uno "shock anafilattico"); ed infatti, a nessuno verrebbe mai in mente di dire che una vittima del COVID19 abbia fatto una "morte violenta".
E, come premesso, la "causa violenta" è uno dei tre requisiti necessari per poter parlare, a pieno titolo, di "infortunio sul lavoro"!

***
Semmai, in base a quanto sopra detto, salvo che nel caso dei chimici, dei biologhi, dei virologhi ecc., che passano la maggior parte del tempo a stretto contatto con tale virus, per studiarlo e trovarne una cura, nella maggior parte degli altri casi il  COVID19 sarebbe da definirsi  una "malattia comune", piuttosto che una "malattia professionale".

***
Se così fosse, paradossalmente, nel caso del COVID19, non si tratterebbe nè di un "infortunio sul lavoro", nè di una "malattia professionale", mancando sia i requisiti dell'uno, sia (in genere)i requisiti dell'altra, bensì risulterebbe semplicemente un generico "evento dannoso"; che, in quanto tale, sarebbe eventualmente risarcibile dal datore di lavoro, nel caso in cui tale danno risultasse a lui imputabile (come nel caso in cui costui avesse contagiato di HIV una dipendente, avendo omesso di usare il preservativo).

***
Ma, ovviamente, non penso proprio che questa sarebbe una soluzione soddisfacente per nessuno, nè sotto il profilo giuridico, nè sotto quello logico; per cui, salvo che non intervenga una interpretazione autentica, per il momento, come già ti avevo scritto la volta scorsa, mi riservo di rifletterci meglio.

***
Un saluto! :)
#4388

Ciao Bob :)
La statistica è solo uno degli strumenti razionali che possono aiutarci a mettere in discussione di tanti pregiudizi che ci condizionano; spesso ci è sufficiente anche il semplice "buon senso" (da non confondere mai con il "senso comune").

***
Quanto all'utilità del "pregiudizio", almeno nel senso in cui ne parli, sono d'accordo anche io; ed infatti, di norma, noi guidiamo in modo "automatico", senza stare a riflettere tanto sulla strada da fare ogni giorno per tornare a casa.
Sarebbe un inutile stress mentale!
Però può anche capitare di accorgersi, verificando meglio dopo anni di guida automatica, che, in realtà, c'era una strada migliore; per cui, se avessimo impiegato un po' di tempo a rifletterci prima, forse avremmo perso meno tempo a percorrere per anni, ogni giorno, la strada meno conveniente.
A me è capitato!

***
Quanto alle "coincidenze", e, cioè, alla propensione ad attribuire la coincidenza di eventi, altrimenti inspiegabile, ad una qualche forza soprannaturale o al caso, secondo me è un discorso molto interessante, che meriterebbe un TOPIC a parte; cosa che forse farò

***
Grazie per il suggerimento! :)
#4389
Citazione di: Ipazia il 16 Maggio 2020, 15:20:06 PM
Per l'esperienza acquisita in decenni di cause per infortuni sul lavoro posso assicurare che le preoccupazioni per le inesistenti toghe rosse sono del tutto infondate se il ddl ha adottato correttamente le procedure di prevenzione prescritte, fornito i dpi necessari e formato i lavoratori. In altro caso non si tratta di toghe rosse ma di comportamenti criminali asseverati da prove oggettive. In dubbio pro reo o, al massimo: concorso di colpa.


Condivido, in quanto, anche secondo me, gli imprenditori onesti ed in buona fede  non hanno alcun motivo di preoccuparsi.
Ed infatti, come da me argomentato, se seguiranno scrupolosamente tutte le prescrizioni ANTICOVID19, è quasi impossibile che possano venire perseguiti:
- sia penalmente;
- sia civilmente.
#4390

Ciao Athony :)
Quanto al fatto che gli imprenditori siano preoccupati per il fatto che l'infezione da COVID sia considerata "infortunio sul lavoro" e non "malattia professionale" (detta anche "tecnopatia"), occorre tener presente che, con la Sentenza n.20774 del 17/08/2018 la Cassazione ha ribadito che la malattia professionale deve rientrare nell'ambito del degli artt. artt. 3 e 1, 3 0 comma T.U. 1124, per cui  il "rischio rilevante" deve essere comunque connesso, anche se indirettamente, con le lavorazioni di cui all'art. 1 del d.p.r. n. 1124 del 1965.
D'altra parte (come rilevava pure il tribunale di primo grado), mentre "l'infortunio" è oggetto di tutela assicurativa se avvenuto "in occasione di lavoro", la "malattia professionale" in base all'articolo 3 è tutelabile a condizione che sia stata contratta "nell'esercizio ed a causa delle lavorazioni"; e quindi deve essere causalmente collegata alla "specifica attività" svolta dall'assicurato, mentre nessun rilievo può essere attribuita all'organizzazione del lavoro.
Peraltro, a proposito dell'art.3 TU e delle malattie professionali, nella sentenza n. 3227/2011, sempre della stessa Cassazione,  la protezione assicurativa, è stata estesa anche alla malattia riconducibile all'esposizione al fumo passivo di sigaretta subita dal lavoratore nei luoghi di lavoro; la quale è stata ritenuta meritevole di tutela ancorché, certamente, non in quanto dipendente dalla prestazione pericolosa in sé e per sé considerata (come "rischio assicurato"), ma soltanto in quanto connessa al fatto oggettivo dell'esecuzione di un lavoro all'interno di un determinato ambiente.
Considerazione, questa, che, forse, potrebbe essere estesa per analagia anche all'ipotesi del contagio da COVID19.
Tuttavia, sul punto, per adesso preferirei non pronunciarmi, perchè dovrei rifletterci meglio!
Un saluto! :)
#4391
Citazione di: Jacopus il 16 Maggio 2020, 08:41:13 AM
Sui tassi di criminalità e la loro non-oggettività va anche tenuto conto del diverso livello di ricorso alla giustizia ufficiale.  Se io non denuncio un reato, quel reato non finirà mai nelle statistiche.
Un paese altamente criminogeno, dove però nessuno denuncia, come ad esempio qualche regione controllata da un cartello della droga, risulterà per le statistiche come un tranquillo paese della val Brembana.


Esatto. ;)
Su questo REPORT ISTAT, è possibile vedere, a pagina 7 un interessante PROSPETTO delle VITTIME DI REATI INDIVIDUALI PER MOTIVI DELLA NON DENUNCIA E TIPO DI REATO.
https://www.istat.it/it/files/2019/02/Reati-contro-la-persona-e-contro-la-proprieta.pdf
#4392

Circa i "rischi" che correrebbero gli imprenditori, in quanto responsabili civilmente e penalmente degli eventuali  contagi contratti dai propri dipendenti sul luogo di lavoro, vedo che sui giornali si scrivono un sacco di sciocchezze "terroristiche", amplificate dalle TV e dai "social network"; per cui, nei limiti delle mie possibilità, ritengo opportuno fare un po' di chiarezza al riguardo.
Ed invero, almeno secondo me, gli imprenditori in buona fede  non hanno alcun motivo di preoccuparsi; se costoro seguiranno scrupolosamente tutte le prescrizioni ANTICOVID19, è quasi impossibile che possano venire perseguiti:
- sia penalmente;
- sia civilmente.
Vediamo perchè.
;)


***
PREMESSE NORMATIVE


1)
ART.2087 c.c.
La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 20364 del 26 luglio 2019, ha ulteriormente  ribadito la portata  dell'art. 2087 c.c., il quale prevede che: "L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
Tuttavia, a scanso di fraintendimenti,  la Corte di Cassazione, è stata ben lontana dal ritenere l'articolo 2087 c.c. un'ipotesi di "responsabilità oggettiva", ovvero una norma portatrice di un "obbligo assoluto" di rendere l'ambiente di lavoro del tutto privo di rischi (il che sarebbe ovviamente impossibile); per cui, in ogni caso, va dimostrata la responsabilità dell'imprenditore.


2)
D.Lgs. n. 81/2008.
Il D.Lgs. n. 81/2008 (T.U. Salute e Sicurezza sul lavoro) coordina, all'interno di un unico testo, tutte le norme in materia di salute e di sicurezza dei lavoratori nel luogo di lavoro e stabilisce una serie di interventi da osservare per il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori.


3)
Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 cd "Decreto Cura Italia" all'art. 42 comma 2 nonché la circolare Inail n. 13 del 3 aprile 2020.
Ovviamente, anche l'infezione da coronavirus deve essere fatta rientrare nell'alveo delle malattie infettive e parassitarie previste dal D.Lgs. n. 81/2008 sopra citato, e, come tale, è senza dubbio meritevole di copertura INAIL per gli assicurati che la contraggono "in occasione di lavoro"; lo stabilisce, oltre che il più banale buon senso, anche iI Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 cd "Decreto Cura Italia" all'art. 42 comma 2 nonché la circolare Inail n. 13 del 3 aprile 2020.
La copertura INAIL, tuttavia, non implica necessariamente una responsabilità del datore di lavoro per l'infezione da coronavirus contratta da uno o più dei suoi dipendenti.


4)
Art. 2, comma 6, del DPCM 26 aprile 2020.
Premesso quanto sopra, restava solo da stabilire quali fossero le "norme di sicurezza anticovid19" a cui ciascun imprenditore si sarebbe dovuto attenere; violando le quali, sarebbe potuta scattare la sua responsabilità (civile e penale).
A tal fine, l'art. 2, comma 6, del DPCM 26 aprile 2020,  impone a tutte le imprese che non hanno sospeso o hanno ripreso la propria attività di osservare il " protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro" sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali ed aggiornato lo scorso 24 aprile 2020".
Tale norma, impone:
- in primo luogo, in capo al datore di lavoro un obbligo di informazione, attraverso le modalità più idonee ed efficaci, circa le disposizioni delle Autorità e l'obbligo della rilevazione della temperatura corporea dei dipendenti;
- in secondo luogo, il datore di lavoro  deve prevedere una serie di misure relative alla protezione individuale, alla igiene e sanificazione dei luoghi di lavoro (mettendo anche a disposizione degli erogatori di disinfettante) nonché alla gestione di eventuali persone sintomatiche e sulla sorveglianza sanitaria.



***
ONERE DELLA PROVA
Ciò premesso, però, come ho detto all'inizio, occorre comunque dimostrare la responsabilità del datore di lavoro; e l'onere della prova, ovviamente, non ricade su di lui, bensì su chi intende imputargli detta responsabilità.
Al riguardo la Circolare n. 13/2020 dell'INAIL sostiene due differenti linee guida:

a)
"Nell'attuale situazione pandemica da COVID19, l'ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la <<presunzione semplice>> di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus. A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l'utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all'interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della <<presunzione semplice>> valido per gli operatori sanitari."
Al riguardo, rammento che le "presunzioni semplici" sono quelle previste dall'art.2729 cc., cioè quelle definite "gravi, precise e concordanti".
Le stesse:
- non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni;
- contro di esse è sempre ammessa la prova contraria.
Tuttavia, a leggere bene la la circolare n. 13/2020 dell'INAIL  (che, comunque, non è vincolante per nessuno, a parte l'INAIL), credo se ne possa desumere che nei casi elencati :
- si presume che il contagio derivi dall'attività lavorativa, in quanto è in sè stessa a rischio;
- non si presume affatto, però, che tale inevitabile rischio "naturale" sia stato aggravato dall'inosservanza delle norme ANTICOVID da parte del datore di lavoro.
Tale inosservanza, infatti, non può essere "presunta", ma deve essere "provata" a parte, ai fini dell'addebito di responsabilità!

b)
"Per tutti gli altri lavoratori, la copertura assicurativa è riconosciuta a condizione che la malattia sia stata contratta durante l'attività lavorativa stabilendo l'onere della prova a carico dell'assicurato."
Tale seconda parte della circolare, addossa al lavoratore una "probatio diabolica":
- sia per quanto concerne la prova che la malattia sia stata contratta durante l'attività lavorativa;
- sia per quanto concerne la prova che la malattia sia stata contratta durante l'attività lavorativa...a causa dell'inosservanza delle norme ANTICOVID da parte del datore di lavoro.
Che, come già detto, non sono esattamente la stessa cosa.


***
In generale, comunque, per il lavoratore infettato, è ben difficile poter escludere altre possibili cause di contagio, quali la vicinanza ad altre persone positive nei luoghi di aggregazione necessaria come supermercati o mezzi pubblici o altrimenti il contatto con familiari conviventi contagiati.


***
Al riguardo, comunque, occorre tenere ben distinte:
- le ipotesi per le quali il dipendente ha diritto al risarcimento INAIL (meramente collegato al fatto che il contagio sia stato contratto sul lavoro)
- le ipotesi per le quali il dipendente avrebbe diritto anche ad un risarcimento dei danni da parte del datore di lavoro, in quanto costui ha colposamente omesso di rispettare le norme ANTICOVID.
Ed infatti può accadere:
- che sia dimostrato che il contagio è stato contratto sul lavoro, ma non che il datore di lavoro abbia colposamente omesso di rispettare le norme ANTICOVID.
- che sia dimostrato che il datore di lavoro abbia colposamente omesso di rispettare le norme ANTICOVID, ma non che il contagio sia stato contratto sul lavoro, in conseguenza del mancato rispetto di tali norme.


***
In ogni caso, al datore di lavoro potrebbe essere sufficiente:
- dimostrare di aver adottato tutti i presidi indicati dalla legge per escludere in capo a sé ogni responsabilità;
- ovvero dimostrare che nei giorni precedenti l'ipotizzato contagio, il dipendente non abbia sempre e con rigore osservato le precauzioni imposte quali l'uso della mascherina o dei guanti, in aperta violazione di quanto prescrittogli in azienda.


***
Per cui, secondo me, quantomeno ai fini penali:
- risulterà molto difficile per il PM ed il lavoratore costituitosi parte civile, fornire la prova "al di là di ogni ragionevole dubbio" (art. 533 c.p.p.) e corroborare la tesi della colpevolezza del datore di lavoro escludendo con sufficiente certezza l'esistenza di altre cause di contagio esterne alla responsabilità del datore di lavoro;
- risulterà molto facile per il datore di lavoro difendersi penalmente, se costui ha scrupolosamente osservato tutte le prescritte norme ANTICOVID;  e, purtroppo, secondo me anche se non l'ha fatto.


***
Ai fini civili ovviamente, l'eventuale contagio da coronavirus all'interno del luogo di lavoro non esenta il datore di lavoro dal risarcimento del danno ai sensi dell'art. 2043 cc; però, anche in questo caso,  l'onere della prova resta a carico del danneggiato il quale deve provare il nesso di causalità fra l'evento dannoso di cui chiede il risarcimento e la condotta attiva o omissiva dei datore di lavoro, sebbene non "al di là di ogni ragionevole dubbio", come, invece, prevede l'art. 533 c.p.p.


CONCLUSIONE
Alla stregua di quanto sopra, come già anticipato in premessa, a me sembra che gli imprenditori, almeno quelli in buona fede, non abbiano alcun motivo di preoccuparsi; ed infatti, se costoro seguiranno scrupolosamente tutte le prescrizioni ANTICOVID19, è quasi impossibile che essi possano venire perseguiti:
- sia penalmente;
- sia civilmente.
Capisco che le misure ANTICOVID19 abbiano un costo (così come ce l'hanno i caschi e le ringhiere sulle impalcature); ma la tutela della salute e della vita, sia degli imprenditori che dei loro dipendenti, ha un inevitabile prezzo, che non ci si può esimere dal dover pagare.
Se tale prezzo verrà pagato, il lavoratore correrà meno rischi di ammalarsi, e l'imprenditore, pur gadagnando un po' meno, correrà meno rischi di doverlo risarcire (oltre che di ammalarsi anche lui).
;)
#4393

Quasi sempre ci fermiamo alla prima impressione, basandoci sul nostro "intuito" (e sui nostri pregiudizi) senza soffermarci ad analizzare meglio un determinato fenomeno; il quale, invece, se lo si esaminasse meglio, si rivelerebbe alquanto differente da come noi supponevamo che fosse.
Qui di seguito riporterò alcuni esempi, sebbene se ne potrebbero fare molti di più.


***
1)
COMPLEANNI
La probabilità "effettiva" che almeno due persone in un gruppo compiano gli anni lo stesso giorno è largamente superiore a quanto ci potrebbe suggerire l'intuito ed il cosiddetto "senso comune": ed infatti già in un gruppo di 23 persone la probabilità è circa 0,51 (51%); chi mai lo direbbe , "a naso"?
Con 30 persone la probabilità supera lo 0,70 (70%), con 50 persone tocca addirittura lo 0,97 (97%), anche se per arrivare all'evento certo occorre considerare un gruppo di almeno 366 persone (367 se si considera l'anno bisestile).
http://bayimg.com/ianGMAAgp


***
2)
SPEREQUAZIONE DI GENERE
A parte tale semplice effetto statistico "controintuitivo", si deve ad Edward H. Simpson, la messa a fuoco del ricorrente  "sviamento" che si manifesta quando la relazione tra due o più fenomeni appare modificata, o perfino invertita, guardando a diversi "gruppi di dati"; ed infatti, prendendo un gruppo di dati piuttosto che un altro, riferiti entrambi allo stesso fenomeno, è possibile che questi conducano a conclusioni non solo fra loro differenti ma addirittura apparentemente incompatibili.
Ad esempio, nel 1973, presso la sede dell'Università della California di Berkeley, venne effettuato uno studio sulla possibile  "discriminazione di genere" nelle ammissioni ai corsi universitari.
A tale scopo, venne considerato un campione di 8442 ragazzi e 4321 ragazze che avevano fatto domanda di ammissione per i master post-laurea; e risultò che circa il 44% dei richiedenti di sesso maschile aveva ottenuto l'ammissione, contro il 35% delle donne richiedenti.
http://bayimg.com/JaNGlaaGp
La differenza tra le percentuali di ammissione di uomini e donne sembrava costituire una forte prova empirica della preferenza, da parte dell'università, per i candidati maschi; però, per avere un ulteriore riscontro, vennero analizzati singolarmente i differenti dipartimenti dell'Università, che si erano occupati delle candidature, in base al campo di specializzazione.
Paradossalmente, analizzando i singoli dipartimenti, apparve che non c'era stata alcuna discriminazione nei confronti delle donne; anzi, in complesso, gli uomini sembravano in posizione di leggero svantaggio.
http://bayimg.com/JangMaAgp
La spiegazione del paradosso  stava nella "variabile" nascosta, in principio non presa in considerazione, che consisteva nella preferenza delle domande per ciascun tipo di  specializzazione; ed infatti le percentuali mostrano che era più facile essere accettati nei dipartimenti A e B, al contrario che in quelli  C, D, E ed F.
Per cui, visto che:
- ai primi due (A,B), aveva fatto domanda
più della metà degli uomini ;
- agli ultimi quattro (C, D, E, F) la domanda era pervenuta dal 90% delle donne totali;
si era manifestato un "effetto di distorsione" a causa della diversa scelta del dipartimento da parte degli uomini e delle donne.
Se non risultasse chiaro, detto in termini più elementari, se, ad una sessione universitaria, 10 uomini scelgono di dare un esame universitario più facile, mentre 10 donne scelgono di dare un esame universitario più difficile, non c'è poi da stupirsi se, su un totale complessivo di 15 promossi, 9 sono uomini e 6 sono donne; un risultato del genere, invero, non sarebbe affatto indicativo di una sperequazione di genere.


***
3)
TASSI DI DISOCCUPAZIONE
Si ipotizzi una situazione nella quale:
- a parità di età, la percentuale di disoccupati tra i diplomati sia la metà rispetto alla popolazione di chi non ha conseguito il diploma.
- per motivi storici, tra le generazioni più anziane i diplomati siano in numero molto minore e che, per motivi legati al mercato del lavoro, tra i giovani il tasso di disoccupazione sia più elevato che tra gli anziani.
Partendo dalle seguenti due statistiche ipotetiche:
http://bayimg.com/IaNGNaAgP
dove abbiamo che in entrambi i casi la disoccupazione è circa doppia tra i non diplomati, rispetto ai diplomati, si può calcolare il numero di disoccupati:
http://bayimg.com/IaNgoAAgP
Questi valori assoluti permettono ora di calcolare il tasso di disoccupazione per i non diplomati e per i diplomati senza tenere conto dell'età.
In tal modo si ottiene:
http://bayimg.com/jAnGaAagp
Così si scopre che, differentemente di quanto ci sembrava "ovvio", tra i diplomati il tasso di disoccupazione invece che essere la metà è maggiore di un quarto che tra i non diplomati; cioè, proprio il contrario di quello che si era ipotizzato di primo "acchito".
Questo paradosso è dovuto al fatto che il tasso di disoccupazione è nettamente maggiore nel gruppo che ha una maggiore percentuale di diplomati; trascurare l'esistenza di due relazioni fondamentali (quella tra disoccupazione e età, nonché quella tra età e titolo di studio) fa giungere a conclusioni errate.


***
4)
TASSI DI CRIMINALITA'
Alla stesso modo, trascurare l'esistenza di due relazioni fondamentali, quella tra i differenti tassi di criminalità (soprattutto contro la persona e la proprietà) tra italiani e stranieri,  e tra i differenti rapporti di età tra italiani e stranieri, fa giungere a conclusioni errate anche riguardo alle cause di tali differenze.
Ed invero risulta che gli stranieri sono responsabili del 30% circa dei reati che si commettono in Italia (soprattutto contro la persona e la proprietà)  a fronte di una presenza di stranieri residenti del solo 8,5%; c'è dunque una indubbia sproporzione fra presenza degli stranieri e reati commessi dagli stessi che indica sicuramente la presenza di un diverso tasso di criminalità fra italiani autoctoni e stranieri.
Però, se leggiamo con attenzione il "Rapporto sulla criminalità del Ministero dell'Interno", nel paragrafo 5 troviamo scritto che: "Gli studiosi che si occupano di criminalità concordano con l'osservazione che tra  "età" e "frequenza con cui vengono commessi reati" esiste una "relazione sistematica", e ne hanno fatto da tempo l'oggetto di osservazioni, ricerche e analisi criminologica. Adolescenti e giovani (a prescindere dalla loro etnia), infatti, commettono proporzionalmente più reati di quanto si registri nella popolazione appartenente ad altre classi di età."
https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/14/0900_rapporto_criminalita.pdf
Si vedano, al riguardo, anche le seguenti tabelle:
http://bayimg.com/iAnGlAaGp
Ovviamente, i diciottenni incriminati per falso in bilancio o "insider trading", reati già di per sè numericamente insignificanti, sono praticamente inesistenti.
Ciò premesso, occorre considerare che:
- l'età media della popolazione straniera residente in Italia è di circa 35 anni;
- l'età media della popolazione di italiani autoctoni, è di circa 46 anni.
Per cui, se si mettono in relazione le due statistiche, ne consegue che la maggior percentuale di crimini attribuibili agli stranieri, è in gran parte imputabile al fatto che in tale fascia di popolazione la percentuale di giovani è molto più elevata rispetto a quella che c'è nella popolazione italiana autoctona.
Se, infatti, l'età media degli Italiani fosse più bassa rispetto a quella degli stranieri, il rapporto sarebbe sicuramente diverso; sebbene, al riguardo, oltre all'età, occorrerebbe fare riferimento anche alle statistiche relative al "tasso di povertà", al "tasso di istruzione" ecc.; tutte analisi, queste, che non possono neanche essere sfiorate in questa sede.


***
MORALE DELLA FAVOLA
La morale della favola è che, prima di esprimere dei giudizi, dovremmo analizzare meglio i singoli fenomeni, e non arrestarci "mai" solo alla prima impressione; soprattutto quando essa compiacentemente corrobora le  convinzioni che già abbiamo.
Ed infatti presumo che:
- tutti abbiano accettato senza particolare resistenza o compiacimento psicologico, il "paradosso dei compleanni", che, di per sè, è ideologicamente neutro e "anodino";
- qualcuno, invece, abbia psicologicamente reagito agli altri esempi, in materia di "sperequazione di genere", di "tassi di di disoccupazione", e di "tassi  criminalità", perchè si tratta di temi ideologicamente "sensibili".


Al riguardo, però, bisogna evitare di pensare che la realtà di uno "specifico" fenomeno debba necessariamente suffragare o inficiare le nostre convinzioni "generali"; semprechè, beninteso, esse siano fondate anche su altri ben più fondati elementi.
Ad esempio:
a)
Per quanto riguarda 2) (SPEREQUAZIONE DI GENERE), il caso molto particolare da me riportato, significa solo che in quel caso "specifico" non ci fu alcuna sperequazione tra donne e uomini; il che, però, ovviamente, non toglie che, almeno a mio parere, in molti altri ambiti, soprattutto lavorativi, sussista una indubbia sperequazione tra donne e uomini, come altre inequivoche statistiche dimostrano.
b)
Per quanto riguarda 3) (TASSI DI DISOCCUPAZIONE), l'esempio da me riportato non considera altri aspetti più generali; come, ad esempio, che chi possiede un titolo di studio, poichè, giustamente, ambisce ad un lavoro più gratificante e remunerativo, trova una più ristretta gamma di offerte a tale livello.
c)
Per quanto, infine, riguarda 4) (TASSI DI CRIMINALITA'), il mio esempio, a ben vedere, non dovrebbe neanche definirsi veramente "paradossale", in quanto non intende minimamente contestare l'indubbia circostanza che il tasso di criminalità  degli stranieri (soprattutto contro la persona e la proprietà) sia più elevato di quello degli italiani autoctoni, ma vuole solo evidenziare una delle ragioni di tale fenomeno, di cui, secondo me "paradossalmente", non si tiene mai conto; la quale, in quanto l"età" è una condizione che riguarda indifferentemente italiani e stranieri, appare "neutra" rispetto alla condizione di "immigrato" ed all'etnia di provenienza.
Come pure ho scritto, peraltro, oltre che all'"età" del campione statistico, occorrerebbe fare riferimento anche alle statistiche relative al "tasso di povertà", al "tasso di istruzione" ecc.; tutte analisi, queste, di cui si dovrebbe sempre tenere conto in una valutazione "ceteris paribus" della propensione a delinquere o meno di determinate fasce della popolazione a prescindere dalla loro "etnia", ma che non possono neanche essere sfiorate in questa sede.
Senza considerare che, a parte l'"effetto anomia" che influisce su qualsiasi tipo di immigrato, da qualsiasi parte del mondo esso provenga, non si può tuttavia negare che non tutte le provenienze siano "omologabili",  in quanto determinati stranieri immigrati in Italia, potrebbero teoricamente avere una maggiore o minore propensione alla criminalità rispetto ad altri immigrati, e/o agli italiani autoctoni, a seconda del cosiddetto ICN (Indice Criminalità Nazionale); che è una stima del livello generale di criminalità in una determinata città o nazione, come si evince dal seguente LINK:
https://it.numbeo.com/criminalit%C3%A0/graduatoria-per-nazione
N.B. Lungi da me, comunque, riaprire in questa sede il tema dell'immigrazione e dei relativi problemi, per cui vi invito a non riaprirlo qui, perchè lo considerò OFF TOPIC.

***
Un saluto a tutti! :)

#4394

Ciao Anthony. :)
Ovviamente non si tratta di individuare le singole persone dalle quali quell'RNA potrebbe provenire, bensì di mappare la minore o maggiore percentuale di presenza di RNA virale nelle varie condotte;  ciascuna delle quali raccoglie le deiezioni escrementizie delle varie zone della città, tutte identificabili dalle piante cartacee e dall'interferometria radar satellitare delle reti fognanti (come nell'immagine di Milano di cui al link sottostante).
http://bayimg.com/jANghAAGp

***
L'ipotesi che singoli virus possano finire in condotte lontane, in quanto, come tu scrivi, sono stati trasportati dal vento per centinaia di chilometri:
- è altamente improbabile, perchè il virus del COVID19 trasportato dal dal vento per centinaia di chilometri, si disgrega prima di arrivare a destinazione (anche a livello molecolare);
- è, comunque, irrilevante, perchè la stragrande maggioranza delle deiezioni raccolte da una condotta, sono imputabili ad una zona della città determinabile con notevole approssimazione.


***
Già dal 2016, infatti, come ben spiegato nell'articolo da me citato, Carlo Ratti, Direttore del "Senseable CityLab" del MIT di Boston,  con il progetto "Underworlds", realizzò una mappatura biologica nelle fogne di alcune città, "per un controllo delle epidemie"; e lo studio condotto dal gruppo guidato da Giuseppina La Rosa del Reparto di Qualità dell'Acqua e Salute Del Dipartimento Ambiente e Salute dell'ISS, considera l'analisi dei residui fognari un "sicuro indicatore dei focolai epidemici di Covid-19".


***
Un saluto. :)

#4395

Molti, giustamente, osservano che i dati dei contagi da COVID19 "rilevati" non ci danno un'idea della "reale" diffusione del contagio; il quale, ovviamente, è molto più esteso di quanto non risulti dal limitato numero di tamponi eseguiti ogni giorno.
Però, secondo me, se si desse ascolto alla "voce" delle fogne, l'effettiva (benchè pur sempre approssimativa) entità del contagio non sarebbe più un mistero per nessuno; e vi garantisco che la mia non è una semplice metafora! ;)


***
Nei primi anni del corrente secolo, dopo l'attentato alle Torri Gemelle, tra gli altri, si temeva anche un possibile attentato terroristico di carattere "biologico"; che, però, fortunatamente, "pare" che poi non ci sia mai stato.
Ricordo che, all'epoca, io prospettai l'ipotesi di un "monitoraggio delle fogne", per prevenirne le prime eventuali avvisaglie; ma la mia fu solo una bizzarra idea personale, senza il benchè minimo seguito.


***
Molti anni dopo, però, su un articolo apparso a pag.19 della rivista FOCUS dell'Ottobre 2016, apparve un articolo cartaceo che ancora conservo (vedi immagine sotto):
http://bayimg.com/JanggaAGP
In tale articolo si riportava l'esito di una iniziativa di Carlo Ratti, Direttore del "Senseable CityLab" del MIT di Boston,  che, con il progetto "Underworlds", mirava ad una mappatura biologica nelle fogne delle città, "per un controllo delle epidemie"; ed infatti, le acque reflue contengono moltissime informazioni sulla salute (o le malattie) della sovrastante popolazione, che possono avere una rilevante importanza statistica.


***
Tale iniziativa ebbe qualche seguito anche in Italia; ma, a quanto mi risulta, solo per monitorare i consumi di droga da parte degli abitanti delle principali città.
Dal tale monitoraggio, nel 2016, risultò quanto segue:
- Roma è in testa per tutti i tipi di droga;
- Milano per l'eroina e l'amfetamina;
- Napoli per la cocaina;
ecc.


***
Per quanto, invece, concerne il famigerato coronavirus, dopo Parigi, anche a Milano ed a Roma tracce del materiale genetico del SarsCov2 (Rna) sono state ritrovate nelle acque di scarico; le quali, quindi, possono essere considerate un "sicuro" indicatore dei focolai epidemici di Covid-19.
Lo dimostra uno studio condotto dall'Istituto Superiore di Sanità (ISS), che , però, era precipuamente finalizzato a rassicurarci come in ogni caso non vi sia alcun rischio per la salute umana; salvo che a qualcuno non venga il ghiribizzo di farsi il bagno nelle fogne.
Ai fini epidemiologici, però, per monitorare la diffusione del Covid-19 attraverso l'analisi capillare delle acque reflue, mi sembra che, finora, si sia fatto un po' poco.


***
Ed infatti l'RNA del virus SarsCov2 rintracciato nelle fogne, spiega l'ISS, permette di usare questo tipo di campionamenti come "spia" della presenza di un focolaio epidemico; però mi pare che non si parli ancora di una vera e propria rilevazione statistica ai fini epidemiologici.


***
Il pregevole studio è stato condotto a Roma e Milano dal gruppo guidato da Giuseppina La Rosa del Reparto di Qualità dell'Acqua e Salute Del Dipartimento Ambiente e Salute dell'ISS, e sarà pubblicato a breve.
L'unica anticipazione dei ricercatori che sono riuscito a trovare, dice: "Abbiamo selezionato e analizzato per la ricerca del virus, un gruppo di 8 campioni di acque di scarico raccolti dal 3 al 28 febbraio a Milano e dal 31 marzo al 2 aprile a Roma - spiega La Rosa -. In 2 campioni raccolti nella rete fognaria della zona Occidentale e Centro-orientale di Milano è stata confermata la presenza di RNA del nuovo coronavirus. Nel caso di Roma, lo stesso risultato positivo è stato riscontrato in tutti i campioni prelevati nell'area orientale della città. Stiamo ora estendendo la ricerca ad altri campioni di acque di scarico provenienti da una rete di raccolta in diverse regioni, costruita negli anni nell'ambito di un progetto finanziato dal Centro Nazionale di prevenzione e Controllo delle Malattie (CCM) del Ministero della Salute".


***
Secondo me, sebbene si tratti di una campionatura ancora molto limitata ed eseguita con un certo ritardo, potrebbe però costituire un primo passo per un monitoraggio molto più esteso e capillare della "reale" diffusione del contagio sia nell'intera Italia, sia (quantomeno) nelle principali città.


***