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Messaggi - donquixote

#46
Citazione di: baylham il 30 Ottobre 2019, 11:23:30 AMMi riconosco nella cultura occidentale, di cui apprezzo moltissime cose, in primo luogo la democrazia come regime politico, il mercato come regime economico, la scienza e la filosofia come regime culturale. Che l'Occidente sia destinato a finire come tutte le cose è naturale, qualcos'altro prenderà il suo posto. Se il virus nichilista mi ha infettato, allora il mio sistema immunitario è stato efficace. Non mi riconosco affatto nel nichilismo, non condivido la filosofia nichilista, attiva o passiva che sia, un riflusso idealistico. Trovo respingenti, distorcenti le visioni della storia o delle civiltà o culture alla luce del nichilismo.

Trovo molto significativo questo messaggio perchè dopo aver elencato alcune caratteristiche basilari della cultura occidentale moderna (e solo di questa) che si dichiara di condividere si afferma di essere immuni dal nichilismo e lo si rifiuta non riconoscendocisi affatto.

Mi appare evidente che il nichilismo è talmente diffuso e pervasivo da non riconoscerlo nemmeno più e cadere in tal modo in una contraddizione assai palese; d'altronde se una malattia si trasforma da eccezione in regola tanto da infettare un popolo intero questa non verrà più riconosciuta come patologia ma come "normalità".
Le caratteristiche elencate sono infatti riconosciute in occidente come "principi", come "valori" (fra cui vi è da aggiungere la libertà di pensiero, la tecnica, e più in generale i "diritti umani universali") mentre non lo sono affatto. Sono infatti tutti solamente strumenti, mezzi, non fini; sono forma, non sostanza; sono contenitori, non contenuto. Dentro questi strumenti e questi contenitori non vi è nulla (il nichilismo appunto), e ognuno potrà riempirli di quello che crede più opportuno o utilizzarli nella maniera che ritiene più consona alla propria visione della vita che avrà probabilmente essa sì principi e valori, ma nella quasi totalità dei casi coincideranno con i propri sogni, i propri desideri, le proprie aspirazioni, nel complesso con tutto ciò che potrà fornire soddisfazione al proprio ego e condurre ogni individuo verso l'anelata "felicità".

Non esistendo fini sociali da perseguire, poichè questi coinciderebbero con "principi" che fossero veramente tali, appare evidente che l'attuale cultura occidentale ha elevato, sia pur non esplicitamente, il nichilismo a "principio unico", soprattutto nell'attuale fase post-ideologica che segue  il fallimento delle ideologie che hanno animato l'occidente nel XIX e nel XX secolo. La visione materialistica della vita secondo la quale il "paradiso terrestre" a misura d'uomo poteva essere costruito già su questa terra ha portato alla elaborazione di utopie che viste poi all'opera hanno ottenuto i risultati che abbiamo visto, dopo di che si è preferito adottare una soluzione che consentisse ad ognuno di immaginare e costruire il suo proprio personale "paradiso terrestre", e la cultura attuale altro non fa che tentare di mettere a disposizione dell'uomo una serie indefinita di strumenti che gli consentano di farlo. Sarà vera gloria? Ai posteri (se ve ne saranno) l'ardua sentenza.
#47
Tematiche Filosofiche / Re:Nietzsche
24 Ottobre 2019, 16:18:01 PM
Diceva Ermente Trismegisto:
 
«La conoscenza universale può essere rivelata solo ai nostri fratelli
che hanno affrontato le nostre stesse prove.
La verità va dosata a misura dell'intelletto,
dissimulata ai deboli, che renderebbe pazzi, nascosta ai malvagi,
che solo potrebbero afferrarne qualche frammento di cui farebbero arma letale.
Racchiudila nel tuo cuore, e che essa parli attraverso le tue opere.
La scienza sarà la tua forza; la fede la tua spada;
e il silenzio la tua corazza impenetrabile»
 
Seguendo questo ammonimento di una delle più grandi saggezze della storia umana l'interpretazione di tutti i testi sacri dell'umanità è sempre stata riservata ad una èlite intellettuale in grado di comprenderli e adattarne le spiegazioni alle diverse (e inferiori) capacità intellettuali occultando (o dissimulando, o ammorbidendo) magari i passi che più avrebbero potuto essere ambigui o pericolosi, e ad esempio nel nostro mondo la lettura della Bibbia era proibita al "volgo" fino a che arrivò Lutero che il suo "libero esame" sdoganò l'interpretazione individuale della medesima che adesso si può adattare tranquillamente al pensiero di chiunque voglia strumentalizzarla, a cominciare dai massimi livelli della gerarchia ecclesiastica.

 
Tale monito (riscontrabile ovunque in altre forme come nella famosa frase di Gesù sulle perle ai porci e nella storiella zen intitolata "una tazza di té") è perfettamente applicabile anche nel caso del pensiero di Nietzsche perché egli si è sforzato, ultimo (e forse unico) fra i filosofi moderni, di "pensare la verità". Cosa significa infatti la frase «La conoscenza universale può essere rivelata solo ai nostri fratelli
che hanno affrontato le nostre stesse prove.»? Che il pensiero di uno come Nietzsche può intenderlo solo chi ha compiuto lo stesso percorso, ovvero chi ha messo in dubbio tutti i pregiudizi e i valori della propria epoca per ripensarli alla luce della verità, e interpretare e giudicare il suo pensiero attraverso i propri pregiudizi e le proprie categorie morali e culturali è il modo più indicato e praticamente infallibile per non capirci nulla.
 
Dunque per comprenderlo è necessario essere "pensatori", o forse meglio "ri-pensatori", pensatori ex-novo, possibilmente illuminati da un'ispirazione simile a quella descritta da Nietzsche in "Ecce homo" a proposito di ciò che gli ha consentito di concepire ed esprimere il suo capolavoro;  ma essere pensatore è cosa totalmente differente dall'essere un mero assimilatore, o commentatore, o sincretista del pensiero altrui, come di fatto sono tutti gli interpreti, titolati o improvvisati, del pensiero di Nietzsche: in filosofia il metodo "scientifico", ovvero l'accumulazione di una gran massa di informazioni per trarne una possibile sintesi, è quello più sbagliato per comprendere un pensiero se tale è, come lo è in effetti quello di Nietzsche.
Nel discorso di Zarathustra intitolato "Dei dotti" Nietzsche afferma: "Perché questa è la verità: io sono uscito dalla casa dei dotti, e ho sbattuto la porta dietro di me. [...] loro siedono freddi all'ombra fredda: in ogni cosa vogliono esser solo spettatori, e si guardano bene dal sedersi là dove il sole arde i gradini. Simili a coloro che stanno sulla strada e guardano a bocca aperta la gente che passa, anch'essi attendono e stanno a guardare a bocca spalancata i pensieri che altri hanno pensato. [...] che mai può la mia semplicità a petto della loro complicatezza!. [...] provate a gettar loro la vostra semenza! Essi sanno come ridurla in polvere bianca. [...] E quando io abitavo presso di loro, in realtà stavo sopra di loro. Perciò me ne vollero. [...] e chi peggio mi ha udito sono stati finora i più dotti. Tuttavia io vago coi miei pensieri al di sopra delle loro teste; e perfino volendo camminare sui miei errori, mi troverei pur sempre al di sopra di loro e delle loro teste.
Perché gli uomini non sono uguali: così parla la giustizia.
E a loro non dovrebbe essere lecito volere ciò che io voglio."
 
Chiunque abbia perlomeno tentato di pensare la verità (e questo è un compito che dura tutta la vita) si rende conto di come il pensiero evolva, si trasformi, e le stesse cose che si affermavano con sicurezza anni prima non si condividono più alla luce di tale evoluzione. Sono già state citate le tre metamorfosi: la destinazione della metamorfosi finale è il fanciullo, la stessa di Gesù che diceva «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli», e non si può negare che l'animo di un fanciullo sia quanto di più distante da quello di un "dotto" che porta il bagaglio della "erudizione", della "scienza", che non essendo quasi mai la sua è sempre pesante da sostenere come è difficile portare un fardello altrui; allo stesso modo è difficile sostenere l'interpretazione di un pensiero che non è frutto di riflessione ma mera mediazione di interpretazioni già espresse. Pensare da "filosofo" è totalmente diverso dal pensare da "scienziato della filosofia", e siccome il mondo attuale (e anche quello del secolo scorso) è zeppo di scienziati ma avaro di filosofi anche il pensiero di Nietzsche, come la Bibbia, finirà polverizzato in una infinita miriade di opinioni come del resto aveva lui stesso anticipato nelle parti del discorso citato in precedenza.
#48
Citazione di: baylham il 25 Settembre 2019, 14:50:19 PMLa spiegazione logica dell'inesistenza degli assoluti è semplice se si accetta la premessa che esistano le cose, gli enti. Se Dio esiste significa che è semplicemente una cosa fra le altre, con la stessa importanza ai fini di questo ragionamento di un granellino di sabbia. Granellino di sabbia di cui io, tu paul11 e molti altri non dubitiamo dell'esistenza, come non dubitiamo del carattere "a" posto alla fine della parola esistenza. "l'Universo è opera di "dio"" è un sistema formato da almeno tre cose: l'universo, l'opera e Dio. Inoltre ci sono il testo, le parole, i caratteri. Manca l'assoluto, che è il sistema, che infatti non ha esistenza proprio perché ci sono le cose, le parti, almeno tre. Quindi o mi tengo l'assoluto, che non ha esistenza, da cui il mio ateismo, ma di cui non so che farmene o mi tengo le cose, a cui invece sono molto affezionato. Ovviamente tutto ciò vale logicamente se si accetta la premessa. A ciascuno la sua premessa. Molte discussioni fa argomentavo che l'ateismo era la fede più irrazionale, sostenere l'inesistenza di qualcosa era una missione impossibile; oggi sono convinto del contrario, che l'ateismo sia una fede molto razionale.  

A livello di mera spiegazione logica mi pare ci sia innanzitutto e a mo' di premessa una lacuna gigantesca: infatti parlando rigorosamente non può esservi nulla che non esista. Se qualcosa non esistesse non si potrebbe nemmeno parlarne poichè per poter affermare o meno la sua esistenza bisognerebbe perlomeno sapere che cosa è, e se si puo dire "che cosa è" di un qualcosa, una cosa qualsiasi, significa che questa esiste ed ha delle caratteristiche che un gruppo di persone che ne vuole discutere deve a priori condividere. Dunque la proposizione "questa cosa non esiste" detta così non ha senso, e lo può avere solo se preventivamente si condivide il livello di esistenza in cui quella cosa andrebbe collocata. Infatti la frase "questa cosa non esiste" è perlomeno incompleta, e bisognerebbe precisarla meglio. Se io affermo che i cavalli volanti non esistono devo aggiungere "a livello fisico-terrestre" perchè Pegaso esiste eccome a livello di mitologia, di letteratura, di immaginazione, di simbologia, insomma a  livelli diversi rispetto a quello materiale dominato dalle leggi fisiche terrestri. Una volta chiarita questa questione si potrà allora discutere a quale livello Dio esiste partendo dalla descrizione del termine che nei secoli ne sono state date e capire se effettivamente è "una cosa fra le altre", un "granellino di sabbia" oppure no.
#49
@Eutidemo

Perdona se non rispondo punto per punto alle tue obiezioni ma siccome sono convinto che, come diceva Nietzsche, "Tutte le cose sono incatenate, intrecciate, innamorate" non ha senso dividere un argomento in parti e discuterle ad una ad una senza tenere costantemente presente la cornice in cui tali parti sono inserite che deve giustificarle in funzione di un equilibrio complessivo.
Per questa ragione tentavo di porre questa questione dal punto di vista culturale, poiché la cultura è il contesto che determina la collettività e deve giustificare ogni eventuale "soluzione".

Dopo aver letto, in varie parti del tuo messaggio,  quel che mi sembrano essere i concetti da cui partono i tuoi ragionamenti e i principi che li animano, mi pare che tu condivida in larga parte i presupposti della modernità (egualitarismo, legalitarismo, individualismo, umanitarismo), e per questa ragione mi appare logico chiarire da subito la conclusione del mio messaggio che a te era apparsa oscura: Aristotele diceva, nell'incipit della sua "Metafisica", che "Ogni uomo per natura tende al sapere" e gli archeologi ci raccontano che le più antiche iscrizioni umane che sono state trovate finora sono simboli del sacro, che è una forma astratta, concettuale e quindi elevata del sapere umano; l'uomo è dunque per natura un essere culturale, ed essendo anche, come diceva sempre Aristotele, "zoon politikon" ovvero un animale sociale, è semplice dedurre che l'uomo è tale (in generale) se si associa con altri suoi simili e condivide con loro una cultura, un "sapere" intorno alle cose del mondo e del sovramondo. Il concetto di "umanitarismo" moderno invece esclude dal suo orizzonte tutto ciò che è connesso alla cultura per definire "essere umano" ogni animale che abbia il pollice opponibile e cammini su due zampe, riducendolo ad un mero concetto biologico e relegando la cultura, come fa appunto l'era moderna, ad un orpello dipendente dalle preferenze e dai gusti di ognuno, alla stregua di un paio di pantaloni o un taglio di capelli che si "sceglie" perché ci piace in quel dato momento e si può cambiare quando ci è venuto a noia. Come racconta Claude Levi Strauss vi sono (o vi erano sino a circa un secolo fa) popoli che nella loro lingua definiscono con il termine "uomo" solo gli appartenenti alla propria comunità, mentre gli altri sono in qualche modo "non umani"; questo significa che loro avevano lo stesso concetto di "umanità" come lo intendeva Aristotele e tutti gli intellettuali di un certo livello, intimamente legato a ciò che caratterizza la nostra specie (la cultura appunto) e la differenzia dalle altre. Questo non significa però, e qui anticipo l'ovvia obiezione degli occidentalisti moderni, che a tutti coloro che erano considerati "non umani" fosse lecito fare ciò che ognuno voleva, anzi in qualità di "ospiti" erano trattati con maggiore riverenza rispetto agli appartenenti alla comunità stessa, dato che in tali comunità non esistevano gerarchie di "perfezione" o "evoluzione" come già esistevano da secoli nelle nostre terre e l'ospite rivestiva una particolare "sacralità", diversamente dall'occidente moderno in cui sono state stilate delle gerarchie di "civilizzazione" per cui coloro che lo erano meno (rispetto a noi che eravamo ovviamente  al vertice della "civilizzazione") dovevano essere "educati" oppure eliminati. Dunque umanità è sinonimo di cultura, e prescindere da questo concetto assimilando tutti gli esseri umani sulla base di mere esigenze biologiche (comuni a tutti gli organismi viventi di qualunque tipo) più o meno strutturate significa far trionfare la più pura disumanità.

La cultura occidentale attuale, caratterizzata dalle contraddizioni connaturate ad una società che assegna pari dignità a tutte le possibili visioni del mondo (a meno che non contrastino con il credo intangibile del consumo e del mercato) e dunque di fatto priva del concetto di "bene comune" che è di volta in volta declinato in base alle esigenze di individualità più o meno organizzate  e più o meno potenti, non può di fatto risolvere alcun problema per il semplice fatto che anche la nozione  stessa di "problema" varia  sull'onda dell'emotività collettiva che qualcuno riuscirà a sfruttare meglio di altri per acquisire consenso e quindi potere, e anche se un "problema" fosse tale per tutta la collettività lo si inserisce ad un livello superiore o inferiore della gerarchia di "problemi da risolvere" determinando di fatto la sua esaltazione o la sua scomparsa dalla linea d'orizzonte collettiva.
L'unica alternativa possibile sembra dunque quella di affidarsi alle "leggi" (nazionali e sovranazionali), che non essendo però tarate su di una cultura condivisa tendono a proteggere le individualità e quindi saranno fra di loro contraddittorie, e non traendo ispirazione da alcun principio di giustizia la loro rigorosa applicazione creerà gravi ingiustizie (summum ius, summa iniuria).
Se dovessimo ad esempio applicare rigorosamente l'art. 10 della nostra Costituzione, che appare quantomai chiaro, allora tutti i cittadini cinesi (oltre a quelli di almeno un altro centinaio di paesi del mondo) avrebbero il diritto di ottenere asilo in Italia: ti pare una cosa non dico possibile, ma anche solo teoricamente sensata?

L'assegnazione di "diritti" a chiunque, non limitata dalla cultura di appartenenza che li elabora e li distribuisce in modo razionale in funzione della persona e del ruolo ricoperto nella comunità, non è altro che un metodo per "disumanizzare" il mondo dichiarando l'obiettivo opposto.
Per questa ragione mi sembra un inutile esercizio discutere nel particolare di leggi nazionali e internazionali poiché queste  dovrebbero gestire le eccezioni ad una normalità che ognuno a casa propria dovrebbe riconoscere e istintivamente adeguarvisi; se invece l'eccezione è talmente diffusa da costituire essa stessa la normalità allora le leggi non hanno più alcuna funzione se non quella di alimentare l'ingiustizia. Se, come affermi, "La libera circolazione internazionale, infatti, è un diritto di tutti gli essere umani, in quanto CITTADINI DEL MONDO, e non solo del loro Paese", che senso avrebbe tracciare confini entro i quali ogni istituzione statale si organizza in modo diverso dalle altre? Tanto varrebbe abolire confini e istituzioni e ripristinare la legge del più forte che, quanto meno, è da che mondo è mondo più naturale e più semplice di tutti gli altri arzigogoli normativi che sono stati inventati in seguito per giustificarla razionalmente.
#50
Vorrei, se mi è consentito, chiosare su questo argomento considerando però un altro punto di vista, diciamo culturale e non strettamente politico (o perlomeno non nel senso in cui si intende oggi il concetto di "politico" che pare sganciato da quello culturale).

Partiamo dal titolo: "Migrazioni: una responsabilità collettiva"; che cosa significa? per poter caratterizzare tale responsabilità bisogna da principio definire  cosa si intende con "collettività". Ogni gruppo di persone più o meno numeroso può essere definito tale, e il termine può includere anche l'ambiente dove esso vive e le istituzioni che lo regolano. Collettività è dunque una famiglia più o meno allargata, una tribù, un clan, un villaggio, una città e così via fino ad includere, teoricamente, l'intera umanità passando per provincie, regioni, stati ed entità sovrastatuali.

Le più comuni "collettività" riconosciute da chiunque nei tempi moderni sono le entità statali, dato che sono le uniche che detengono un più o meno effettivo "principio di sovranità" ed hanno il compito di fare le leggi che riguardano tutti i cittadini e quindi in altri termini la "collettività", oltre ad essere depositarie di un non meglio identificato "principio di cittadinanza" che dovrebbe distinguere in termini morali, legislativi, di costume e di abitudini gli appartenenti di una nazione rispetto a quelli di un'altra. Tenendo presente questo semplice dato di fatto la responsabilità collettiva si genera dunque nei confronti di un agente esterno agli stati, che solitamente è percepito come una minaccia che sfida il normale corso vitale di una collettività, nei confronti della quale l'intero corpo sociale (se fosse veramente tale) dovrebbe avere il medesimo atteggiamento che le leggi dovrebbero condividere e normare.

Ogni collettività (o meglio ogni comunità rimandando alla definizione di Tonnies e riferendomi a tempi meno degenerati di quegli attuali) ha sempre ritenuto sacro lo straniero, l'ospite, il pellegrino che per qualche ragione si trovava a transitare sul suo territorio e per l'ospite si era disponibili a qualunque sacrificio, ma con il limite invalicabile del rispetto di due condizioni: la prima è che la sua sosta fosse temporanea, e la seconda era che mostrasse rispetto nei confronti delle leggi, dei costumi e delle usanze della comunità ospitante. Coloro che volevano trattenersi più a lungo o addirittura indefinitamente dovevano diventare parte della comunità, accettarne e condividerne le regole, gli usi e i costumi e a loro volta essere accettati dalla medesima.

Dunque la responsabilità collettiva (e di conseguenza quella dei governanti di tale collettività) rispetto ad un fenomeno come quello migratorio è quella di salvaguardare la propria collettività sotto tutti i punti di vista possibili, impedendo che dall'esterno della medesima vengano introdotti elementi che possano creare conflitti sociali che minino l'equilibrio e l'armonia interni. Nella pratica si tratterà quindi di accogliere un numero limitato di migranti valutando la loro compatibilità con le usanze e i costumi vigenti e fare in modo che questi vengano assimilati nel tessuto sociale nel modo più naturale possibile, e non accoglierne altri finché l'assimilazione dei primi non sia andata a buon fine. L'idea che si debbano accogliere persone che hanno storie, culture e abitudini diverse (e possono mantenerle) solo perché "servono" a imprenditori di un qualche genere come mano d'opera a buon mercato è completamente sballata perché da un canto questi (o la stragrande maggioranza di loro) non saranno mai "cittadini" di fatto ma solo "schiavi salariati" e saranno costretti a creare dei ghetti in cui si uniranno solo  con i propri simili, e dall'altro la collettività che li accoglie si troverà a dover gestire una serie indefinita di cortocircuiti sociali perché avendo costoro (come recita il paradigma moderno) i medesimi diritti dei cittadini pur non essendoli di fatto (ma solo di diritto) verranno sempre visti come "barbari" e "usurpatori". Quantomeno il mondo antico era più coerente poiché non concedeva agli schiavi (che erano in gran parte "stranieri" importati come bottino di guerra) gli stessi diritti dei cittadini e li teneva chiaramente separati, mentre quello attuale importa schiavi a scapito dei cittadini ove a guadagnarci è solo il ricco borghese che abita nella ztl mentre tutti i problemi conseguenti sono ribaltati sulla collettività periferica.

Poi c'è la realtà attuale delle società decadenti europee e in particolare quella italiana, con un calo costante delle nascite e un numero sempre maggiore di giovani che non avendo (non certo per colpa loro) alcuna istanza sociale (o collettiva) da perseguire ed essendo mossi solo dalle necessità del proprio ego inseguono i propri "sogni" in ogni parte del mondo ritengano possano essere realizzati, non diversamente da quel che fanno, magari con ambizioni più modeste, i giovani del Senegal o del Niger. In tale situazione ed in assenza di ogni aspirazione  diversa dal soddisfacimento del proprio ego e della ricerca del benessere identificato con il possesso di beni materiali è impossibile non solo risolvere ma nemmeno affrontare  il problema migratorio, poichè come dimostrano i messaggi di Eutidemo ogni tentativo effettuato sulla base di "norme" (nazionali o internazionali) si scontra con le sue contraddizioni interne e, soprattutto, con il problema della realtà che non si fa rinchiudere in nessuna legge elaborata dall'uomo.

Un'ultimo appunto: qualunque "soluzione" che tenda a limitare il flusso migratorio tende ad involvere, in ultima analisi, il problema della "umanità" o delle "questioni umanitarie" o dell' "umanitarismo"; vorrei solo notare che l'umanità concepita in tal modo è esattamente il suo opposto, ovvero la disumanità.
#51
Tematiche Culturali e Sociali / Re:La volgarità
16 Maggio 2019, 14:14:25 PM
A me risulta invece che infimo derivi dal latino "infimus" che è il superlativo di "inferus" e denota ovviamente ciò che sta in basso, negli inferi, dunque per estensione ciò che ha meno valore, mentre infinitesimo ha relazione con "infinitus" = senza limite (in=non e finis=limite). Se entrambi i termini denotano qualcosa di estremamente piccolo, il primo (infimo) si riferisce ad un ambito qualitativo mentre il secondo (infinitesimo) ad uno quantitativo, materiale.
#52
Citazione di: Socrate78 il 26 Gennaio 2019, 13:06:49 PMUn quesito più importante è semmai un altro: come mai non si concede a chi è "razzista" ( significa per me sostenitore della superiorità morale o intellettiva di un gruppo etnico) la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero? Chi dice di esserlo o lo fa capire in maniera evidente è spesso accusato di barbarie, vede il suo pensiero censurato, viene sanzionato dai dirigenti scolastici o dai rettori se è un insegnante, bannato dai forum di discussione. In una reale democrazia tutte le tesi meritano di essere argomentate e discusse, anche l'ipotesi razzista non dovrebbe essere oggetto secondo me di una censura a priori. In realtà non esiste nessuna dimostrazione logica che la tesi razzista sia FALSA, nessuno ha mai dimostrato che in realtà non esista realmente una superiorità intellettiva o anche morale tra i diversi gruppi etnici. Anzi, potrebbero forse persino esserci indizi del contrario, infatti a me sinceramente non risulta che un africano (dell'Africa nera) abbia mai conseguito un Nobel per meriti scientifici, il continente nero non mi sembra abbia prodotto molte menti geniali. Estendendo il discorso all'aspetto morale, io ritengo che non si possa dire, allo stato attuale almeno, che tutte le civiltà siano allo stesso livello etico: una tribù islamica ad esempio che ammette e anzi considera l'infibulazione cosa buona e giusta, assieme ai matrimoni imposti, all'emarginazione della donna, secondo me è molto indietro moralmente da un popolo che condanna tali pratiche, ora non è detto che quella tribù non si sviluppi eticamente, ma dire che è allo stesso livello di chi condanna tali cose è semplicemente falso.

Allo stesso modo molti popoli del mondo sono convinti che vincere un Nobel per meriti scientifici non sia nota di merito ma di demerito, perché ritengono che il loro dovere sia di conservare il mondo così com'è per i propri figli e non hanno la pretesa di renderlo un "posto migliore in cui vivere" riducendolo nei fatti nelle penose condizioni odierne,  e nessuno in quei popoli si sognerebbe mai di lavorare per ottenere un tale "riconoscimento", e ritengono inoltre che trattare le donne come fa l'occidente attuale sia segno di profonda decadenza e non certo di civiltà. Ognuno è razzista a modo suo, e se un popolo si organizza in una certa maniera è perché è convinto che quella sia la migliore possibile e dunque quelle diverse sono necessariamente peggio. Come ha spiegato chiaramente Claude Levi-Strauss nei suoi lavori non può esistere alcuna superiorità morale di una cultura (o di una etnia) rispetto ad un'altra perché ogni cultura trova in se stessa le proprie giustificazioni e i propri equilibri per cui paragonare aspetti particolari di culture diverse è cosa senza senso. Se dunque ogni popolo è, a suo modo, razzista, la diversità con il razzismo occidentale sta nel fatto che l'occidente, con la sua secolare ossessione di voler "migliorare il mondo", trasforma quella che è una normale caratteristica culturale in un "progetto" che prevede la "conversione" di coloro che non si adeguano a ciò che l'occidente ritiene essere "il meglio" oppure la loro eliminazione. Con l'intenzione di esportare la "civiltà",  a partire dalle idee razziste di Voltaire e Kant e da quelle dei loro seguaci si sono eliminate intere popolazioni appartenenti a cosiddette "razze inferiori" che appunto non volevano "convertirsi" o "evolversi", e se si condanna il razzismo nazista perché voleva purificare la "razza ariana" si continua però a praticare il razzismo che intende purificare la "razza umana" assimilando tutti i popoli del mondo al modello occidentale della democrazia liberale di mercato e dei "diritti umani". D'altronde se si vuol parlare di "superiorità intellettuale" bisogna ammettere che le più elevate speculazioni filosofiche vengono dall'oriente (a cui anche i greci e Platone hanno attinto copiosamente) e per quanto riguarda quella morale basterebbe guardare quanto la morale in occidente sia cambiata negli ultimi decenni per farsi sorgere più di qualche dubbio.
#53
Percorsi ed Esperienze / Re:Nun Me Scuccia'
14 Gennaio 2019, 20:30:50 PM
Un tempo, fra i riti insegnati dai genitori ai figli come il lavarsi le mani prima di mangiare e i denti prima di dormire, ve n'era uno particolarmente significativo e importante, che precedeva la preghiera e il bacio della buonanotte: l'esame di coscienza. Questo era solitamente rivestito di una particolare solennità, poiché si trattava di ripercorrere con la memoria la propria giornata al fine di capire se durante la medesima ci si era comportati correttamente, se si aveva adempiuto al proprio dovere, se si erano mantenute le promesse e gli impegni e insomma se non ci fosse niente da rimproverarsi e di cui eventualmente chiedere scusa al Signore impegnandosi, nel caso, a rimediare il giorno successivo. Una sorta di processo in cui il giudice e l'imputato coincidevano, e proprio per questa ragione l'autogiustificazione e la menzogna dinnanzi al tribunale della propria coscienza assumevano una particolare gravità, creando sensi di colpa maggiori di quelli provocati dal mentire ad altri poiché in quel caso si tradiva se stessi. 

Era un esercizio difficile, impegnativo, serio, che se compiuto con lealtà e rigore poteva risultare molto utile ai fini della crescita individuale, morale e sociale, contribuendo a sviluppare quelle doti che dovunque e da sempre vengono esaltate e rispettate nell'essere umano: la sincerità, la lealtà, l'onore, il senso di responsabilità e quello del dovere, il rispetto della parola data. Questa buona e sana abitudine ha col tempo perso d'importanza, ed è stata progressivamente sostituita da una diversa, più moderna, più adeguata a questi tempi di ipertrofia dell'ego ed esaltazione di quel processo psicologico moderno che si chiama autostima (e che una volta, più correttamente, veniva chiamato vanità ed inserito nei peccati capitali) che porta alla costante autoassoluzione e contestualmente alla ricerca di un capro espiatorio per le difficoltà o i problemi incontrati durante la giornata. Così il vecchio esame di coscienza si è trasformato nell'esame delle coscienze altrui e nella colpevolizzazione di chiunque, per i più svariati motivi, non si sia occupato di dare soddisfazione al proprio ego e alle sue pretese. E il senso di frustrazione che ne deriva viene espresso quotidianamente con gli insulti, il livore, il rancore, l'astio e il risentimento nei confronti di chiunque abbia un minimo di potere o di visibilità e che si pretende debba utilizzare per fare il "nostro" bene, incuranti della contraddizione insita in tale pretesa: se ormai chiunque non riesce a vedere al di là del proprio ego malato e non riesce a dargli soddisfazione da sé come si può pretendere che altri come loro possano farlo? Come si può credere che il senso di responsabilità e del dovere che ormai è andato perduto possa essere rimasto solo a coloro che più di altri sono stati contagiati da questa forma di egolatria e sono disposti a fare di tutto per alimentarla? 

E le parole ignoranti, odiose, grette e volgari che la "libertà di espressione del pensiero" garantita a chiunque e consentita dalla apparente interazione diretta veicolata dai cosiddetti "social" permette di indirizzare ai più svariati personaggi rimarranno patetica testimonianza di un'invidia sociale che il mondo dell'individualismo e della libertà per tutti e da tutto (a cominciare da quella dal concetto di "Verità") ha partorito, cresciuto e ingrassato; un mero sfogo bilioso che lungi dall'avere qualche utilità non potrà che distrarre ulteriormente dalla responsabilità che ognuno deve avere innanzitutto nei confronti di se stesso e della propria vita. Si vantano e si esaltano "progresso" ed "evoluzione" umana, ma il risultato è stato quello di tornare nuovamente ai tempi di Adamo ed Eva, ove il primo accusava la seconda di avergli offerto il frutto proibito mentre Eva incolpava il serpente di averla tentata, e nessuno voleva prendersi la responsabilità dell'atto che aveva compiuto.
#54
Tematiche Spirituali / Re:Ciò che Dio vuole da noi
23 Dicembre 2018, 14:20:09 PM
Citazione di: Socrate78 il 23 Dicembre 2018, 10:40:15 AM
@Donquixote: Se fosse vero quello che dici esisterebbero scopi molto diversi tra gli umani a seconda delle diversità di temperamento, poiché appunto le attitudini e le caratteristiche divergono molto: ad esempio un carattere altruista che sente solidarietà per gli altri concluderà che il suo fine è amare il prossimo, mentre un'altra persona attaccata al denaro e al potere concluderà all'opposto che il suo scopo è quello di accumulare beni egoisticamente e mantenere le posizioni di potere raggiunte, concedendo ben poco alla solidarietà! Non porta a questo la tua riflessione?

Solo chi adotta una visione estremamente superficiale e semplicistica può arrivare a tale conclusione, perché riflettendoci un poco si comprende come il "conoscere se stessi" sia un'operazione più complessa e totalmente diversa. Tu stai citando esempi di persone che anziché tentare di conoscere se stessi si specchiano negli altri e a seconda delle caratteristiche del loro ego superficiale decidono per una attività piuttosto che per un'altra. Conoscere se stessi e diventare ciò che si è o, detto in altri termini, "fare la volontà di Dio", prescinde totalmente dalla soddisfazione personale egoistica come siamo abituati a conoscerla oggi, ma è una sublimazione del senso del dovere, un senso del dovere che non proviene da una richiesta sociale, ma da una intima conoscenza di sé, del proprio destino in questo mondo, anche se per avventura la società in cui uno vive si trovasse a rifiutarlo in quanto non conforme alle regole o alle norme vigenti in quel dato momento. Gesù Cristo disse: "sono venuto a fare la Volontà di Colui che mi ha mandato", e lo fece sino a finire in croce, come fece del resto Socrate a suo tempo e tantissimi altri personaggi meno famosi di loro, che espressero se stessi e i loro talenti a prescindere dal giudizio della società di riferimento; anche Nietzche disse, in un suo famoso aforisma, "Forse che io aspiro alla mia felicità? No, io aspiro alla mia opera". Per conoscere se stessi è necessaria la solitudine, il silenzio, e il chiacchiericcio sociale è il luogo meno adatto per compiere questa operazione, mentre è quello più indicato per allevare le scimmie di un determinato ideale, sensato o meno che sia e impersonificato o meno che sia. L'egoismo moderno (a volte ammantato di filantropismo) è l'opposto dell'individualismo mistico che è necessario per conoscere se stessi e contestualmente, seguendo il testo dell'ammonimento di Delfi, "conoscere il mondo e gli dei", e una volta fatto ciò risulta tutto più chiaro. Lo stesso S.Tommaso diceva, giustamente: "noli foras ire, in te ipsum redi; in interiore homine habitat Veritas".
#55
Tematiche Spirituali / Re:Ciò che Dio vuole da noi
22 Dicembre 2018, 15:47:06 PM
Il problema è innanzitutto comprendere chi è Dio, e poi da questo partire per cercare una risposta alla tua domanda. E la risposta più semplice, più ovvia, ma forse anche la più difficile da comprendere per la mentalità umana la si può intuire ponendosi la domanda in un modo differente: cosa vuole Dio da tutti gli enti? Se Dio è il creatore di ogni cosa ogni cosa avrà un compito da eseguire, se si suppone che anche noi ne abbiamo uno. Se l'uomo, come diceva Gesù Cristo, deve fare "la volontà di Dio" ogni ente creato dovrà fare lo stesso e dunque basterà osservare il comportamento degli altri enti per farsi un'idea di questa volontà. Cosa fanno gli altri enti? Niente di particolare, ma esattamente quello che devono: dal filo d'erba all'ippopotamo ognuno sa quel che deve fare, e lo fa senza problemi; se solo l'uomo si pone un problema del genere significa quantomeno che è ignorante, non sa chi è e nemmeno quel che deve fare nella sua vita. Per questa ragione i saggi di ogni tempo hanno sempre tradotto il concetto di "Volontà di Dio" con due semplici e celeberrimi ammonimenti: il primo è il "Conosci te stesso" scritto sul frontespizio del tempio di Apollo a Delfi, e il secondo, logicamente conseguente, è "Diventa ciò che sei" proclamato da Pindaro e reso celebre nell'attualità da Nietzsche. Se ogni ente, secondo le proprie caratteristiche, partecipa dell'attività creatrice del mondo che si rinnova attimo dopo attimo anche l'uomo, in quanto ente creato e non dissimile essenzialmente dagli altri, dovrà partecipare a tale attività secondo quelle che sono le sue attitudini e caratteristiche, che deve prima conoscere e poi esprimere al massimo delle proprie possibilità.
#56
Tematiche Filosofiche / Re:Cos'è la verità
06 Novembre 2018, 10:26:19 AM
Citazione di: Jacopus il 06 Novembre 2018, 00:26:13 AMNietzsche, da qualche parte, sosteneva che l'epoca moderna è l'epoca in cui si è persa la stessa idea di verità, conformemente a quanto sostenuto da Bobomax in una recente discussione. Ma cos'è filosoficamente "verità"?

La Verità è la roccia sulla quale costruire un pensiero filosofico che possa reggere. La Verità è il fondamento, l'ipostasi plotiniana, a cui è necessario ricondurre ogni ragionamento che possa avere un senso filosofico e una validità "erga omnes". Verità quindi è l'archè, il principio primo da cui tutto dipende e a cui tutto può essere rapportato. Verità è la misura  e la fondatezza di ogni discorso, e ogni filosofo serio ha sempre avuto l'ambizione di misurarsi con essa. Nietzsche aveva perfettamente ragione a dire che ormai si è persa l'idea di verità, per il semplice fatto che nei tempi del materialismo (di fatto se non "de iure") filosofico imperante la verità, che non ha nulla a che fare con la materia, è stata prima incompresa e poi semplicemente negata. Nietzsche, fra i filosofi occidentali degli ultimi 3/4 secoli, è l'unico che è stato a tratti in grado di esprimerla, ed è proprio per questa ragione che risulta anche il più incompreso.
#57
Citazione di: 0xdeadbeef il 05 Novembre 2018, 19:28:11 PMCiao Donquixote Non entro tanto nel merito di quanto esprimi (già ho risposto, e già ti ha risposto Paul11, sulle cui considerazioni io concordo), quanto vorrei fare un appunto sulle premesse a quanto esprimi. Prima di tutto non puoi dire: "a me dell'economia non interessa nulla (volevo trattare questo argomento dal punto di vista filosofico)", perchè se la filosofia è quel che è allora di essa fa parte l'economia, che quindi è in tutto e per tutto filosofia. Distinzione capziosa? Ritengo non tanto; perchè se, soprattutto nel caso in questione, si vuole parlare della filosofia di Marx si è costretti anche a parlare di economia (che nel suo caso in particolare è parte integrante della visione filosofica). Quando parli di "efficienza" del sistema capitalistico come "mera produzione di ricchezza materiale" dici a mio parere una cosa troppo generica (oltre che molto discutibile). Se la definizione di "efficienza" è questa (Treccani): "capacità di rendimento e di rispondenza ai proprî fini", allora io ti dico che il sistema capitalistico produce ricchezza materiale per pochi mentre affama i molti. Questo vuol ancora dire che per i "molti" il sistema capitalistico non è affatto efficiente. saluti


Ciao Mauro

Certo che l'economia, vista nel suo complesso, fa parte della filosofia, ma la maggior parte dei filosofi non si sono mai occupati di economia se non in modo del tutto marginale sino a quando questa non è diventata la "filosofia stessa", scalzando dal suo ruolo il pensiero dell'universale per mettere al centro un "particulare" tutto sommato irrilevante. Le parole essenzialmente migliori sull'economia, sempre che si sia in grado di interpretarle correttamente in tutti i loro risvolti, rimangono per me ancora quelle che qui mi permetto di riportarti:

 

Matteo 6,25-34

25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.

 

per quanto Marx sia conosciuto per l'analisi del sistema di produzione capitalistico e quindi sotto il profilo economico questo è un aspetto che filosoficamente ritengo marginale, poichè le idee non si misurano dal numero di pagine che sono servite per esprimerle ma dalla loro "universalità", ovvero dalla loro validità in periodi di tempo che non siano nell'ordine di qualche decennio o magari di qualche secolo, e se Marx è ancora citato e il suo pensiero economico rimane in vita può ringraziare proprio il capitalismo, che se fosse stato superato non avrebbe più senso. Rimane invece in piedi a mio avviso la questione filosofica di fondo, quella del comunismo come "movimento reale che abolisce lo stato di cose presente", dunque una ininterrotta rivoluzione guidata dalla dialettica hegeliana applicata al movimento della storia, vista come campo di battaglia delle idee. Dopo che i suoi predecessori, a cominciare da Cartesio, avevano rifiutato l'idea di un ordine naturale delle cose, di un senso intrinseco nelle medesime, Marx rifiuta anche quello "sovrastrutturale", quello umano, negando ogni esistente che per porre al suo posto un "nuovo ordine" derivante dalla sintesi dialettica, per poi successivamente rimetterlo di nuovo "dialetticamente" in discussione e così via, a tappe, fino alla completa distruzione di ogni ordine, di ogni "logos" e quindi alla liberazione dell'uomo da ogni "catena" per giungere ad una umanità di "liberi, uguali e fratelli", che sia detto di sfuggita sembra preso paro paro da Rousseau che affermava che le disuguaglianze fra gli uomini erano determinate dalle strutture sociali (le "sovrastrutture" marxiane) e quindi la demolizione progressiva di queste ultime (obiettivo ultimo appunto di Marx e soci, non di Rousseau) avrebbe condotto l'uomo ad un nuovo, idilliaco, "stato di natura". Sempre nel "Manifesto" i suoi autori affermano che "Tutto ciò che è istituito, tutto ciò che sta in piedi evapora, tutto ciò che è sacro viene sconsacrato, e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con sobrietà il loro posto nella vita, i loro rapporti reciproci."

Come altro si può interpretare questo pensiero se non come una irresistibile tensione verso il nulla? Verso il nichilismo planetario? L'uomo è tale perché esprime cultura, perché comprende (o determina) un ordine delle cose, perché cerca di trovare il proprio posto nel mondo e pone dei limiti a ciò che può o non può fare. La "liberazione" dell'uomo auspicata da Marx e compagnia altro non è che la riduzione dell'uomo a bestia, a "bruto" dantesco, condizione non certo paragonabile alla mera animalità poiché gli animali sono dotati intrinsecamente di un proprio equilibrio, che all'uomo manca e che ha dovuto sostituire con ogni sorta di orpelli di cui mena tanto vanto.

Senza contare peraltro che, in ossequio al principio di realtà, questa condizione per quanto auspicata e perseguita sarà impossibile da raggiungere almeno finché sulla terra vi saranno uomini che possono definirsi tali, con pregi e difetti che ognuno può giudicare a modo suo, per cui il fallimento di una siffatta idea era del tutto prevedibile da chi avesse guardato con occhio disincantato la realtà per quella che è e non per quella che pensava, o sperava, che fosse.

Per quanto concerne la questione dell'efficienza dei sistemi il socialismo, in estrema sintesi, intendeva perseguire (utopicamente guidato dalla moderna, e sbagliata, idea di uguaglianza) "il massimo benessere di tutti", mentre il capitalismo liberale, sulla scorta delle idee di Stuart Mills, si accontenta del "massimo benessere per il maggior numero" sapendo bene peraltro che tale "massimo benessere" non è oggettivabile dunque per coloro che "rimangono indietro" resta comunque, come nel vaso di Pandora, Elpis, la speranza di un domani migliore guardando e tentando di imitare quelli che "ce l'hanno fatta". Tenendo dunque presente la natura umana abbiamo da un lato popoli interi di derelitti senza alcuna possibilità intrinseca al sistema di cambiare la propria condizione, e dall'altra popoli che per quanto alta possa essere la disuguaglianza economica da un lato stavano comunque economicamente meglio degli altri, e dall'altro potevano trascorrere l'intera vita con l'idea che, prima o poi, sarebbe arrivato il loro momento. Questo trucchetto psicologico è la chiave di volta della differenza fra i due sistemi dal punto di vista della conoscenza della natura umana, che rende molto più sopportabile il secondo rispetto al primo.
#58
Io volevo trattare questo argomento dal punto di vista filosofico, ovvero dal punto di vista delle idee che poi hanno ispirato i vari tentativi di costruzioni di società ispirate da quelle idee, e non certo parlare di mera organizzazione dei rapporti economici e gestione dei mezzi di produzione, perchè allora il discorso essenziale si fa più semplice e verte solo sull'efficienza dei due sistemi, e indubbiamente il sistema capitalistico è ben più efficiente, economicamente parlando (ovvero di mera produzione di "ricchezza" materiale) di quello socialista.

Ma siccome a me dell'economia non interessa nulla intendevo contestare i principi sui quali si basano le idee di Marx e mostrare come questi siano talmente sganciati dalla realtà da non essere affatto diversi da quelli dei "socialisti utopisti" che lo stesso Marx criticava e tentò di superare con un preteso approccio "scientifico".
In ogni caso, nel "Manifesto" Marx ed Engels tracciano inizialmente un elogio sperticato alla borghesia che ha ispirato la Rivoluzione Francese, dicendo fra le altre cose che essa: "ha giocato nella storia un ruolo altamente rivoluzionario" distruggendo i rapporti feudali e patriarcali precedenti. Gli autori affermano inoltre che "Con grande dispiacere dei reazionari essa ha sottratto all'industria il suo fondamento nazionale. Antichissime industrie nazionali sono state distrutte e continuano a esserlo ogni giorno. Nuove industrie le soppiantano, industrie la cui nascita diventa una questione vitale per tutte le nazioni civili, industrie che non lavorano più le materie prime di casa ma quelle provenienti dalle regioni più lontane, e i cui prodotti non vengono utilizzati solo nel paese stesso ma, insieme, in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, soddisfatti dai prodotti nazionali, se ne affermano di nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti delle terre e dei climi più lontani. Al posto dell'antica autosufficienza e delimitazione locale e nazionale si sviluppano traffici in tutte le direzioni, si stringe una reciproca interdipendenza universale fra le nazioni. E ciò sia nella produzione materiale che in quella spirituale. Le conquiste spirituali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la delimitazione nazionale diventano sempre meno possibili e dalle varie letterature nazionali e locali si costruisce una letteratura mondiale." Cos'altro mai è la "globalizzazione" moderna se non l'ovvio e naturale sviluppo di queste idee così esaltate a metà dell' ottocento dai fondatori del comunismo?

Scriveva Gramsci nel 1918, dopo aver esaltato la rivoluzione bolscevica (definita "rivoluzione borghese") e un anno prima di fondare il Partito Comunista d'Italia: "L'economia borghese ha così suscitato le grandi nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all'interno la pratica liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla lotta e alla concorrenza, ha discentrati gli Stati, li ha sburocratizzati: la produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è sviluppata con un respiro d'ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e del mondo." Nello stesso articolo, scritto per esaltare la costituzione della "Lega delle Nazioni" da parte del presidente USA Wilson (che non era essenzialmente diversa dagli attuali ONU, WTO etc.), afferma: "Rappresenta, la Lega delle Nazioni, un superamento del periodo storico delle alleanze e degli accordi militari: rappresenta un conguagliamento della politica con l'economia, una saldatura delle classi borghesi nazionali in ciò che le affratella al di sopra delle differenziazioni politiche: l'interesse economico. Ecco perché l'ideologia si è affermata vittoriosamente nei due grandi Stati anglosassoni, liberisti e liberali." La sua avversione agli stati nazionali è ben evidenziata inoltre in questo brano: "[la nazione] non è alcunché di stabile e di definitivo, ma è solo un momento dell'organizzazione economico-politica degli uomini. [...] Essa si è allargata dal Comune artigiano allo Stato nazionale, dal feudo nobilesco allo Stato nazionale borghese. [...] Tende ad allargarsi maggiormente, perché le libertà ed autonomie realizzate finora non bastano più, tende a organizzazioni più vaste e comprensive: la Lega delle Nazioni borghesi, l'Internazionale proletaria."
Poi prosegue: "Noi crediamo che dei fatti politici di straordinaria grandezza siano in maturazione e crediamo che la discussione del problema dei superstati ne sia appunto il sintomo esteriore. In seno a tutte le singole nazioni del mondo esistono energie capitalistiche che hanno interessi permanentemente solidali tra loro: queste energie vorrebbero assicurarsi garanzie permanenti di pace, per svilupparsi ed espandersi. Esse cercano di rivelarsi e cercano di organizzarsi internazionalmente: la Società delle Nazioni è l'ideologia che fiorisce su questa solida base economica [...]
"Gli inglesi hanno incominciato ad attuare nel loro impero la forma nuova di società, trasformando il territorio dei loro domini in una colossale federazione di nazioni - poichè le colonie inglesi sono ormai diventate delle vere nazioni, a sviluppo economico notevole, e tra gli indigeni sono sorte le classi sociali, e la borghesia indigena sente di essere unita da vincoli di solidarietà con la borghesia della madre-patria. Gli inglesi hanno risolto il problema delle nazionalità, hanno cercato con la federazione di evitare la secessione, di veder sfasciarsi la formidabile concentrazione di capitali che rappresenta l'Impero britannico."
Siamo 70 anni dopo il "Manifesto", e il più celebrato autore marxista italiano, a cui ancora oggi molti si ispirano, scriveva queste cose...  Alla faccia del presunto antimperialismo dei suoi eredi... Ognuno tragga da ciò le considerazioni che gli paiono più opportune.

Ma quanto sopra dimostra, ripeto filosoficamente, una cosa sola: che l'essenza del marxismo (o della filosofia marxista) non è affatto in opposizione alle idee liberali e borghesi, anzi le abbraccia tutte,  solo ritiene il potere della borghesia sui mezzi di produzione una fase da superare con l'abolizione della proprietà privata e lo stato socialista, anch'esso peraltro considerato come passo successivo verso la completa liberazione dell'uomo da ogni vincolo per il raggiungimento di un idilliaco "stato di natura" in cui gli uomini saranno spontaneamente e consapevolmente "liberi, uguali e fratelli".
Filosoficamente parlando il marxismo ha incarnato la più radicale idea di rivoluzione a cui si potesse pensare, e questa è la "cifra" peculiare di questa ideologia. Il fondatore della socialdemocrazia tedesca, Eduard Bernstein, divenne famoso per la massima "Il movimento è tutto, il fine è nulla", e al crollo del comunismo sovietico lo stesso Gorbaciov si rifece a quella massima per denunciare l'errore dell'Unione Sovietica nella cristallizzazione sulla lotta al capitalismo mentre avrebbe dovuto avere come obiettivo la realizzazione di quella che Trotsky chiamava "rivoluzione permanente". Lezione che evidentemente deve aver appreso l'attuale presidente cinese, uno dei più agguerriti alfieri della globalizzazione e del "libero mercato", che alla celebrazione del bicentenario della nascita di Marx affermò nel suo discorso: "La Cina continuerà ad innalzare la bandiera del marxismo", senza provare evidentemente alcun disagio.
Peraltro, se come si tende a pensare il marxismo nasce e si sviluppa in contrapposizione allo strapotere capitalistico borghese, non si comprende come mai esso si sia politicamente affermato in luoghi ove tale potere era meno presente, ovvero quelli meno industrializzati (la Russia, la Cina, la penisola indocinese, il sud America) mentre ove lo sfruttamento del lavoro era maggiore (Europa occidentale e Stati Uniti) nessuno si è mai sognato di compiere una "rivoluzione proletaria".

Forse la migliore e definitiva essenza del marxismo l'ha tracciata proprio un filosofo marxista, il greco Kostas Axelos, che aveva una conoscenza molto dettagliata dei testi di Marx e scrisse fra gli altri un saggio intitolato "Marx pensatore della tecnica" uscito in Italia nel 1963. In questo saggio Axelos afferma: «in Marx v'è ciò che nessuno osò vedere: una straordinaria passione per il nulla» e il suo pensiero sarebbe pertanto la «forma avanzata di un grandioso nichilismo, di un nichilismo planetario»
#59
Ho letto un po' velocemente i vari messaggi e a parte forse un accenno di Oxdeadbeef mi sembra che nessuno abbia evidenziato il punto centrale della questione, che è filosofico e non certo economico, mentre si discute esclusivamente di modi di produzione trascurando totalmente ciò che vi è alla base.  La semplice, essenziale e banale ragione per cui il comunismo ha fallito sta a mio avviso nel suo tentativo di imporsi come mera utopia completamente sganciata da qualsiasi senso della realtà, a dispetto della pretesa "scientificità" marxiana che appunto dalla realtà così com'è non dovrebbe prescindere. Soprattutto dalla realtà dell' "essere umano" che se già Kant, Voltaire e compagnia illuministica, sulla scorta del precedente "umanesimo", avevano già sopravvalutato con Marx si è giunti ad una idealizzazione totalmente al di fuori di ogni sia pur superficiale osservazione che chiunque era in grado di compiere.
Altrove avevo tracciato dei parallelismi fra il pensiero liberalcapitalista e quello comunista (con particolare riferimento ovviamente a quello espresso da Marx ed Engels che pare ancora essere, filosoficamente, imprescindibile); l'ovvia conclusione è che il comunismo ha perso, ma il pensiero di Marx ha vinto, sia pur sotto mentite spoglie. Li ripropongo qui.
Quella di Marx è "filosofia della prassi": nell'undicesima tesi su Feuerbach, che è stata riportata anche sulla sua lapide, afferma che più che interpretare il mondo bisogna trasformarlo. Il liberalcapitalismo esalta proprio l'azione, la trasformazione e l'innovazione costante, lo spirito d'impresa, il lavoro, la "cultura del fare", il progresso, lo sviluppo, la crescita, quindi condivide questa impostazione.
Marx auspicava l'abolizione delle classi: il liberalcapitalismo la sta realizzando trasformando progressivamente l'umanità in un'unica classe di sfruttati a fronte di un numero sempre più esiguo di sfruttatori, che essendo fra l'altro in competizione fra loro non potranno certo sviluppare una "coscienza di classe".
Marx auspicava l'abolizione dello Stato in quanto garante degli interessi delle classi più abbienti: il liberalcapitalismo la sta realizzando dato che gli stati nazionali sono sempre meno autorevoli e quella che il marxismo chiamava "internazionalizzazione" adesso si chiama "globalizzazione", ove uomini ma soprattutto merci e capitali godono della più completa libertà di movimento (ognuno ha la possibilità di andare ovunque per realizzare il proprio "american dream" se in patria non ha l'opportunità di farlo).
È vero che Marx criticava l'individualismo, cardine dell'ideologia liberale, ma non si comprende come questa critica si possa coniugare con l'auspicata e programmata abolizione dello stato; senza stato e senza "ideologie" (dato che Marx criticava anche quelle) ogni individuo fa per sé, e dunque non vi può essere valore superiore al proprio ego e alla sua soddisfazione, a maggior ragione nel mondo della "praxis".
Marx auspicava l'abolizione delle religioni (che nei paesi ispirati dal suo pensiero erano proibite per legge). Il liberalcapitalismo l'ha realizzata svuotandole completamente di senso e riducendole a mero "entertainment", quindi di fatto abolendole in modo "soft" o convertendole al proprio verbo (nessun Papa è mai stato più marxista e quindi liberalcapitalista quanto quello attuale).
L'economia era per Marx la scienza della soddisfazione dei bisogni umani, e la questione fondamentale della sua prassi era tale soddisfazione e le modalità per raggiungerla, la cosiddetta "struttura", mentre criticava le "sovrastrutture" ovvero le ideologie che giustificavano una situazione di fatto (nella fattispecie lo sfruttamento del lavoro umano) e che doveva essere rivoluzionata attraverso la prassi. Il liberalcapitalismo fa la medesima operazione occupandosi essenzialmente di far funzionare la "struttura" (l'economia) e variando di volta in volta le "sovrastrutture" per adeguarle al funzionamento della medesima.
Dunque gli obiettivi del marxismo e del liberalcapitalismo sono identici: essendo ambedue materialisti, progressisti, industrialisti, auspicano entrambi il raggiungimento della felicità del genere umano, la soddisfazione dei suoi bisogni, attraverso l'acquisizione di oggetti, di "merce" ottenuta con il lavoro, quindi di fatto il primato dell'economia sulla politica (tanto criticato, evidentemente a torto, marxianamente parlando, dai neomarxisti di oggi)  o su qualunque altra "sovrastruttura" portatrice di valori "astratti". La differenza sta nel metodo con cui si tenta di raggiungere tale obiettivo, e il metodo dipende dalla visione più o meno corretta dell'uomo che hanno tali sistemi: il liberalcapitalismo ha puntato sulla competizione, facendo proprio ed esaltando il motto hobbesiano "homo homini lupus", mentre il marxismo teorizzava una umanità di "liberi, uguali e fratelli" come proclamato dalla Rivoluzione francese (e da Voltaire, un altro che ci "vedeva lungo"), che non è mai esistita nella storia conosciuta e mai esisterà in futuro.
In linea generale, e a maggior ragione in una cornice materialista ed economicista, gli uomini non saranno mai liberi, né uguali, né tantomeno fratelli, e voler imporre con la violenza una sostanziale condizione di uniformità (che è l'opposto dell'uguaglianza) come avvenuto nei paesi che si sono ispirati al marxismo significa opprimere la loro più profonda natura, che prima o poi non potrà che ribellarsi. Oltretutto in tali paesi era di fatto mortificata anche la speranza poichè coloro che si sentivano oppressi non avevano alcuna possibilità di cambiare tale condizione, mentre nei paesi di tradizione liberalcapitalista sebbene l'oppressione paia a volte insopportabile tale speranza rimane sempre viva e anzi viene alimentata (ancora appunto il famigerato "american dream"), e questa è una delle principali ragioni per cui nonostante ai tempi di Marx lo sfruttamento del lavoro umano fosse molto più insostenibile di oggi il "socialismo reale" si è diffuso paradossalmente in zone ove questo sfruttamento era meno presente, ovvero nei paesi meno industrializzati.
Questa mi pare la ragione essenziale del fallimento (filosofico e quindi pratico) dell'idea comunista, senza ovviamente tralasciare altri aspetti importanti come la semplice definizione di "comunismo" fornita da Marx ed Engels ne "L'ideologia Tedesca" che risulta per loro essere "Il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente" ovvero in pratica la "rivoluzione permanente" di Trotzskiana memoria che in definitiva altro non è che l'opposto di ciò che l'uomo ha sempre cercato fin dal suo apparire all'onor del mondo, ovvero tranquillità, serenità, sicurezza e, se possibile, beatitudine.
#60
Attualità / Re:Coraggio o temerarietà?
30 Settembre 2018, 03:10:36 AM
In attesa di conoscere nel particolare i provvedimenti che verranno adottati e di leggere i commenti di chi la sa lunga sull'eventuale "effetto moltiplicatore" che questi dovrebbero avere in termini di "crescita, sviluppo ed occupazione" vorrei soffermarmi su una questione meramente filosofica di questa manovra. A me sembra che nonostante i proclami sia dei 5s che della Lega in questi anni e il tanto sbandierato ritorno al "sovranismo" ci sia un errore di fondo assai grave.
Se infatti tornare ad essere sovrani significa ridurre la dipendenza da fattori esterni alla nostra nazione e da noi non controllabili (siano questi l'Europa o i "mercati" poco importa) allora questi provvedimenti vanno nella direzione esattamente opposta, dato che aumentare il debito significa appunto aumentare la dipendenza da coloro che ti prestano i soldi che quindi ti potranno ricattare come a loro farà più comodo. Inoltre la critica dei 5s in questi anni alle istituzioni finanziarie (banche in primis) e l'enfasi posta dalla Lega sui fattori culturali avrebbe dovuto a mio avviso portare alla riconsiderazione dell'economia come attualmente strutturata su base esclusivamente finanziaria per tentare di seguire altre strade che filosoficamente potrebbero avere un impatto ben diverso (solo a mo' di esempio buttato lì: non aumentare le pensioni minime ma sollecitare magari un moto di solidarietà di popolo del tipo "adotta un pensionato con la minima" per ospitarlo a casa propria e fornirgli sussistenza ove lui/lei sia carente).
Insomma una ulteriore iniezione di denaro in un mondo già sommamente  drogato dal medesimo innanzitutto farà alla fine confluire tale denaro nelle solite pochissime tasche, e contestualmente aumenterà sempre più la dipendenza dei cittadini dallo Stato che sarà sempre più sovrano su di loro, e quella dello Stato dai "mercati" riducendo vieppiù il tanto sbandierato "sovranismo".