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Messaggi - davintro

#46
Trovo fortemente discutibile l'idea per cui altruismo, amore per gli altri, ed egoismo, amore di sé, debbano vedersi come contrapposti, quando invece a mio avviso sono reciprocamente implicati. L'idea della contrapposizione avrebbe ragion d'essere considerando l'uomo come una macchina, una specie di calcolatrice che può rendere un buon servizio agli altri limitandosi a recepire passivamente gli input provenienti dall'esterno, finalizzati ad ottenere da esso delle prestazioni, senza che sia presente una volontà, un piacere di compiere tali prestazioni: un computer, una calcolatrice funziona al meglio nella misura in cui nulla intralcia l'applicazione di un programma che queste macchine non hanno autonomamente elaborato, ma è stato imposto loro dalle persone che per il loro interesse li hanno progettati. Non c'è alcun bisogno che a un computer "piaccia" l'esecuzione del programma per funzionare al meglio, proprio perché la soddisfazione del proprio ego non rientra tra gli elementi per cui può essere progettato. Ma l'essere umano non è una macchina, non è capace di scindere l'efficacia delle sue attività rivolte al bene della società dall'energia scaturente dalle motivazioni legate al fatto che l'attività che si svolge viene, prima di tutto, recepita dal soggetto stesso come piacevole in relazione alle sue preferenze soggettive. Non si può far nulla di buono per gli altri (altruismo) se prima di tutto le forme del nostro contributo non siano percepite come piacevoli per se stessi (egoismo, ma preferirei parlare di "individualismo"), determinanti la felicità del soggetto, nel senso in cui Aristotele vedeva la felicità come tutto ciò che esprime la natura interna dell'ente a cui la felicità è riferita, il fine naturale di questo ente. Quindi, pensare a un'idea di altruismo per cui l'amore per gli altri viene intensificato a scapito di quello di per sé, vuol distruggere questa idea stessa, per il motivo che imbarcarsi in attività che non riflettono la nostra personalità, le nostre soggettive passioni, interessi, insomma che non determinano un'egoistica soddisfazione individuale, vorrebbe dire svolgerle con poca motivazione ed energia, cioè a svolgerle male, con la conseguenza di rendere un cattivo servizio e di danneggiare gli altri, anziché aiutarli. Non è l'oggettività del contributo sociale che determina la possibilità di fare il bene altrui, ma le motivazioni soggettive derivanti dalla coscienza che ciò che si sta facendo è ciò che c'è di più attinente alla nostra vocazione individuale, al nostro carattere, qualcosa che ci piacerebbe fare anche indipendentemente dai vantaggi che ne ricaverebbero altre persone. Nella persona, che senza avere una vera predisposizione o interesse per la medicina, decidesse di fare il medico missionario in Sierra Leone, solo aspirando alla possibilità di salvare vite, senza chiedersi quanto quel lavoro piaccia lui come singolo, l'altruismo è solo apparente: quella persona finirà per svolgere male quel lavoro, perché lo svolgere un'attività per puro senso del dovere, condizionata da quanto quel tipo di professione venga socialmente, esteriormente, reputata nobile e altruistica, priva di qualunque carica piacevole data dal fatto che quell'attività incontra i propri autentici interessi, giungerà prima o poi a determinare una perdita di motivazione col conseguente inaridimento della carica energetica necessaria alla gravosità dell'impegno, col risultato, per quanto involontario, di danneggiare le persone che dovrebbe salvare invece di aiutarle. L'errore è stato quello di far condizionare la sua scelta da un'idealizzazione del ruolo, perché visto come socialmente "eroico", senza considerare la cosa più importante, quanto quel ruolo fosse davvero attinente alle sue corde, alle sue qualità, ai suoi interessi soggettivi, lasciando che l'adeguazione al prestigio sociale dell' "eroe" fosse sovrapposto alla coerenza alla sua autentica personalità. Sarebbe stato molto più altruista se avesse rinunciato a ruoli di responsabilità troppo gravosi per la sua personalità per guardarsi dentro e  ripiegare su delle attività apparentemente meno giudicabili come necessarie per la società, ma dove avrebbe avuto molte più chances di dare un contributo positivo, anche se meno appariscente, meno riconoscibile come tale.
#47
Tematiche Filosofiche / Oltre Cartesio
31 Dicembre 2020, 00:07:03 AM
Penso sia fuori discussione che il timore di aver problemi con i poteri e le autorità dell'epoca abbia significativamente influenzato le espressioni pubbliche del pensiero degli intellettuali, tuttavia trovo forzato l'ipotesi che dipinge Cartesio più o meno come una sorta di ateo o positivista ante litteram che avrebbe solo simulato una posizione teista per paura del rogo. Perché, tra tutte le attività possibili immaginabili, una persona timorosa di aver problemi nel trovarsi tacciato di eresia, avrebbe dovuto proprio impicciarsi di filosofia, e proprio di argomenti così inerenti al campo teologico, al punto d intitolare una delle sue opere principali "Meditazioni metafisiche", quando avrebbe potuto, per amor di comodità, limitarsi unicamente a trattar argomenti puramente naturalistici e cosmologici in un contesto in cui sarebbe stato molto più semplice evitare, limitandosi di pervenire a tesi contrastanti con il Magistero dell'epoca? Quest'ultimo approccio era pienamente fattibile (mica tutti i scienziati del 1600 erano Copernico o Galilei... Pascal si è dedicato anch'esso a studi naturalistici senza, a quel che so, incappare in conflitti con la sua fede, intendo in relazione questi studi naturalistici, non mi sto riferendo ora alla questione del Giansenismo). Oppure si sarebbe potuto godere la vita dell'aristocratico che impiega il tempo in occupazioni non teoretiche, considerando come non certo la scelta di dedicarsi alla Scienza o alle Lettere fosse per lui una costrizione necessaria al guadagnarsi da vivere... Perché un timoroso del rogo avrebbe dovuto scegliere un campo di indagine così contiguo alla teologia col rischio di vedere le sue tesi, anche involontariamente, scrutate dai teologi alla ricerca del cavillo a partire da cui imbastire una processo di eresia? Non sarebbe un pò come se un cinofobo invece di allontanarsi alla vista di un pitbull ringhiante, gli si avvicinasse cercando di abbracciarlo? Perché un uomo ostile o indifferente alla metafisica o alla teologia e al contempo timoroso di aver problemi con l'autorità, avrebbe dovuto dissimulare un teismo, con la duplice conseguenza, da un lato, di umiliare la sua buona coscienza esprimendo tesi a cui lui stesso non credeva, e dall'altro di ricadere comunque, ripeto, suo malgrado, in sospetti di eresia, sulla base di interpretazioni delle sue opere da parte di teologi, abili a cogliere tra le righe del teismo dissimulato l''autentico pensiero eretico che emerge contro la stessa volontà dell'autore? La soluzione più logica non sarebbe stata quella di non scherzare col fuoco ed evitare ogni riferimento esplicito a concetti come "Dio" o "anima" dedicando i suoi studi ad ambiti il più possibile neutri rispetto ad essi?
#48
Tematiche Filosofiche / Re:Was ist Mitgefuhl
27 Dicembre 2020, 23:02:44 PM
Ricondurre le forme di violenze e di oppressione ad un eccesso di razionalismo che avrebbe sovrastato l'importanza delle emozioni mi pare una tesi implicante l'idea che le emozioni siano necessariamente positive, improntate alla solidarietà e al reciproco rispetto, cosa che non è, considerando che ci sono emozioni orientanti l'agire verso la distruttività, penso alla paura, al disgusto, alla rabbia. Se un'etica non può fondarsi primariamente sulla ragione, è anche vero che non è la ragione a far discendere i contenuti, positivi o negativi che siano, che caratterizzano i nostri comportamenti. La ragione struttura l'agire dando ad esso un ordine mirante all'efficacia, a valutare i mezzi più adeguati al fine che si vuole realizzare, fine che invece è suggerito da qualcosa di arazionale, sentimenti ed emozioni. Dunque, i fini, anche quelli distruttivi sono indicati emotivamente, non razionalmente. Una maggiore o minore razionalità incide sull'efficacia dei mezzi, ma resta neutra nei confronti della positività o negatività degli orientamenti morali. Che poi l'emotività sia il motore anche di orientamenti negativi trova una conferma empirica e attuale nell'indicare come bersaglio privilegiato delle forme di propaganda populista, xenofoba, razzista, cioè la pancia, l'emotività, non certo la logica dell'opinione pubblica. La Bestia salviniana-morisiana non ha di mira il convincimento di fini ragionatori e accademici cartesiani ed hegeliani, ma i "laureati all'università della vita" che compongono la massa social, le cui pulsioni all'odio non vengono alimentate con trattati scientifici sul nazionalismo, ma accendendole di cieca rabbia di fronte a notizie, più o meno verificate o manipolate, di immigrati che orinano per le strade e stuprano ragazze di pura razza bianca e italica. Detto questo, direi che un'etica della fratellanza più che di "emozioni" possa maggiormente giocarsi di una valorizzazione dei sentimenti: se le emozioni sono impulsi in parte influenzati dalla potenza evocativa di stimoli esteriori che possono portare l'agire a deviare dalla coerenza con i valori profondi del "Sè", i sentimenti sono ciò che resta stabile, la percezione di tali valori profondi intorno a cui si forma la personalità. Maturare una forte disposizione a stare a contatto con i propri sentimenti, più che con le emozioni, è ciò che contribuisce a rafforzare il senso della propria personalità, del sistema di valori che ai sentimenti sono correlati, e, di conseguenza anche, empaticamente a riconoscere le altre persone come propri simili, "fratelli" in un certo senso, condividenti con me questa stessa struttura antropologica, in quanto per riconoscerli come simili necessito di partire dal percepire la mia soggettiva personalità, come riferimento a partire da cui valutare le affinità (fermo restando che il riconoscimento empatico di una somiglianza DI FATTO tra la mia personalità e quella altrui non è sufficiente a determinare una certa disposizione etica, occorre un giudizio di valore sulla positività morale di tale somiglianza, passare dall'empatia, mero "mettersi nei panni di" cognitivo, alla simpatia, autentica condivisione valoriale). E proprio in questo spostamento di attenzione dalle emozioni ai sentimenti si restituisce alla ragione un ruolo, non nel fondare la legittimità dei sentimenti, ma nell'analisi delle emozioni, nel discernere quanto in esse vi sia di riconducibile all'influenze di circostanze esteriori e accidentali in cui ci troviamo a vivere, rispetto a quanto invece vi sia di espressivo dei sentimenti, del nostro carattere e identità originaria, supportando l'Io nella formazione di una adeguata autopercezione dell'identità.
#49
Tematiche Filosofiche / Esiste il bene/male concreto?
27 Dicembre 2020, 17:21:06 PM
Benvenuto a Bonizza anche da parte mia. Bene e male esistono come categorie del giudizio morale, non come proprietà oggettivamente riconducibili a un mondo reale, considerato indipendentemente da una coscienza che lo interpreta. Si può dire che "esistono" solo in relazione alla premessa di un punto di vista soggettivo in cui la coscienza morale attribuisce un significato a queste categorie. Se così non fosse, se Bene e Male fossero dei fatti reali slegati dal giudizio della coscienza soggettiva, allora la conseguenza sarebbe che l'idea di Bene non potrebbe essere modello regolativo in base a cui ispirare le azioni: considerando Bene e Male come fatti oggettivi, i giudizi morali diventerebbero giudizi di fatto e non solo di valore, e dato che i giudizi di fatto si limitano a rappresentare le cose per come sono, e non come vorremmo che fosse, allora Bene e Male diventerebbero categorie del tutto inutilizzabili per ispirare l'azione. L'agire presuppone da parte del soggetto l'idea di uno scarto tra realtà com'è e ideale della realtà come vorrei che fosse, dunque è necessario che Bene e Male siano concetti applicabili a giudizi riguardo a ideali di realtà non attuali, ma intesi come modelli in relazione a cui agire per trasformare la realtà attuale, mirando a renderla il più simile all'idea di Bene e più dissimile a quella di Male, definiti però soggettivamente. Se il Bene fosse un fatto oggettivo, sarebbe insensato agire in vista di esso, perché tutto ciò che si realizza attualmente sarebbe Bene senza bisogno di intervenire sulla realtà, se il Male fosse un fatto oggettivo la conseguenza sarebbe esattamente la stessa, sarebbe inutile impegnarsi ad evitarlo, in quanto in ogni circostanza ogni evento che si realizzerebbe sarebbe realizzazione del Male. Da qui la distinzione tra etica e teoretica.
#50
Tematiche Filosofiche / Credete nel libero arbitrio?
26 Dicembre 2020, 00:58:27 AM
Intendendo "libero arbitrio" come assoluta assenza di determinismo, cioè come assenza di una causa qualunque, immanente o trascendente che sia, che determina il nostro agire, il libero arbitrio non potrebbe essere qualcosa di reale, dato che la realtà consiste nel complesso di fattori causali che interagiscono fra loro. La negazione di una causa a rendere ragione della realtà di un fenomeno comporta il precluderci la possibilità di dare una spiegazione di questa realtà, cioè ammettere la nostra ignoranza a tal proposito. Considerando come sia del tutto evidente che l'ammissione di ignoranza circa una questione non possa mai essere la soluzione della questione, ma al contrario l'ammissione del fallimento nel trovare una risposta, allora il caso, l'assenza della riconduzione di un fenomeno a una causa o a un complesso di cause, esprime solo un nostro limite conoscitivo, non una mancanza nella realtà oggettiva, per definizione indipendente dall'essere adeguatamente o meno rappresentata dalla nostra mente. E dunque, ogni nostra azione è riconducibile, al netto dei limiti della nostra visione, a uno o più fattori causali, rendendo inaggirabile il determinismo. Intendendo invece diversamente il "libero arbitrio", non come assenza di cause determinanti, ma come condizione in cui ciò che determina è interiore al soggetto a cui il libero arbitrio è riferito, attiene all'essenza, all'identità in base a cui il soggetto è definibile, allora un certo margine di libero arbitrio è presente, anche se limitatamente considerando la finitezza ontologica dell'uomo, che non è Soggetto Assoluto, ma esistenza sempre in relazione con un'esteriorità che lo limita. Noi siamo tanto più liberi quanto più il nostro agire esprime la nostra personalità interiore e originaria, non lo siamo nella misura in cui l'agire è influenzato dall'esterno. Anche se deterministicamente necessitante, il contenuto della nostra libertà sarebbe pur sempre una necessità che l'Io stesso darebbe a sè, in quanto questo principio necessitante è se stesso, considerato indipendentemente dalle influenze esterne, per quanto poi queste sopraggiungano sempre sovrapponendosi a questo "nucleo originario". E solo in questo senso il libero arbitrio, o forse per meglio dire a questo punto "libertà", è ciò a partire da cui poter valutare in termini di giudizio di valore la persona, riconoscendola come soggetto responsabile: la persona è libera in quanto esprime il proprio sè autentico, solo che tutto ciò non implica affatto accantonare il determinismo, bensì affiancare a un determinismo esteriore, quello tramite cui il mondo influenza il soggetto, quello interiore con cui il soggetto realizza nel mondo una propria vocazione predefinita e necessaria.
#51
Varie / Auguri di buon Natale al forum.
25 Dicembre 2020, 15:30:57 PM
Tanti auguri di buon Natale e buone feste a tutti i membri del forum e alle loro famiglie, e con gli auguri mi sento anche di ringraziare questa comunità virtuale gli stimoli costanti alla riflessione, all'elaborazione dei propri punti di vista. Queste discussioni, resteranno, al di là dei disaccordi e consonanze delle idee, per sempre un arricchimento umano e intellettuale prezioso. Devo dire che in questa comunità mi son sempre sentito rispettato e bene accolto, cosa non così scontata considerando, onesatamente, un mio carattere non facilissimo e soprattutto le mie ataviche insicurezze personali. Anche di questo, grazie davvero.
#52
Le argomentazioni teologiche che muovono dalla premessa della bontà divina rischiano di risultare fallaci, in quanto, a differenza di altre proprietà divine come "Sapienza" o "Potenza" che, essendo teoretiche, possono predicarsi di Dio e dell'uomo mantenendo un univoco significato (in Dio si realizzerebbero nella pienezza del loro essere a differenza che nell'uomo, ma resterebbe una differenza quantitativa, di grado, senza che cambi il senso qualitativo di come questi concetti si definiscono), la bontà, nel modo in cui la si predica di Dio, non si può avere la certezza abbia lo stesso senso per come la intende l'uomo. Non si tratta di contestare la bontà di Dio, ma di contestare l'idea che la bontà divina sia vincolata a manifestarsi sulle basi del concetto umano di bontà, sulle nostre aspettative riguardo essa. Pensare cha la bontà divina implichi necessariamente la salvezza dell'anima umana, l'evitamento delle pene infernali, eterne o provvisorie che siano, vuol dire assumere un'idea di Dio come asservito alle esigenze umane. In Dio la bontà coincide con la sua giustizia, vedere una contrapposizione tra le due proprietà vorrebbe dire considerarlo essere imperfetto, essere che non riuscirebbe ad armonizzare due sue componenti fondamentali, mentre invece, essendo Perfetto, i due aspetti coincidono, e tanto più è buono, tanto più è giusto e viceversa. Ora, pretendere che la sua bontà e giustizia siano vincolate all'assolvimento di ciò che umanamente siamo portati a ritenere buono e giusto, ossia la salvezza della nostra anima, vuol dire sovrapporre i nostri criteri morali a quelli divini, considerando Dio come essere al nostro servizio, cioè inferiore a noi. Paradossalmente, si cade nella stessa fallacia logica di quegli atei che contestano l'esistenza di un Dio buono sulla base del male presente nel mondo: se un Dio buono esiste deve realizzare il bene per come noi umani lo riteniamo tale, dato che non lo fa, allora non esiste. In tutta evidenza, tale ragionamento è fallace: vincolando la bontà divina alla realizzazione del concetto umano di "bene" si parte già dalla premessa che il Dio che si ha in mente sia un essere subordinato al mondo e all'uomo, mentre se si riconosce che l'autentico concetto di Dio è quello di un Essere infinitamente superiore all'uomo, va da sè che la sua bontà e giustizia non possa essere misurata con un metro umano, altrimenti lo si è già negata nella premessa dell'argomento, cioè si tratta di un ateismo pregiudiziale. Ma penso che questo ateismo pregiudiziale, che immagina un Dio chiamato a soddisfare aspettative umane di bene, un Dio che non è Dio, sia lo stesso per chi ritiene di ricavare dalla bontà divina come implicazione necessaria qualcosa che solo umanamente si può considerare in tutta certezza un bene, cioè la salvezza dell'anima (gli stessi Vangeli predicano che "chi cerca di salvarsi l'anima la perderà"), mentre se si ammette la superiorità di Dio sull'uomo si dovrebbe anche ammettere la possibilità teorica di una giustizia divina (e di una bontà) che consiste nella condanna infernale.


Detto questo, anch'io penso a qualcosa di simile a dei livelli di purificazione, non credo, ma non mi considero un cristiano ortodosso, coltivo una mia personale concezione spirituale, all'Inferno inteso come luogo di totale assenza di contatto con Dio, in quanto, considerando l'anima come entità spirituale, essa non potrebbe mai annullarsi, degradarsi come materia, ma manterrebbe, come spiritualità, la facoltà di apprendere conservare, seppur sempre come forma di un contenuto materiale, mai come puro spirito, Atto puro, una propria energia ricavata da fonti spirituali (valori morali, religione, arte, scienza, amicizia) da cui nel corso dell'esistenza avrebbe acquisito una disposizione ad alimentarsi, che le consentirebbe di accedere a livelli di vicinanza maggiore o minore alla pura spiritualità divina, sulla base di quanto sia riuscita a formare questa disposizione nel corso della vita. La totale separazione dell'anima da Dio implicherebbe una totale condizione di assenza di spiritualità che contraddice la definizione stessa di anima, che come "spirito" è sempre in qualche modo a contatto con le fonti di energia spirituali, nulla di "new age", bensì il complesso delle motivazioni, di tutto ciò a cui riconosciamo valore, in base a cui ispiriamo le nostre libere attività
#53
Tematiche Filosofiche / Ordine e Disordine
21 Dicembre 2020, 17:21:19 PM
Non vedo creazionismo ed evoluzionismo come tesi tra loro contrapposte, una volta che si riconosce la distinzione tra piano metafisico e piano fisico che evita la sovrapposizione di prospettive, che invece possono convivere in quanto applicabili a diversi livelli del reale. Il creazionismo non è in antitesi con l'evoluzionismo se inteso come tesi filosofica/teologica e non scientifica, nell'accezione delle scienze naturali. Il piano metafisico è quello entro cui cui collocare il principio creatore divino della Causa prima, il piano fisico quello delle cosiddette "cause seconde" indagabili naturalisticamente, che governano le leggi dell'evoluzione. Si può cioè tranquillamente ammettere l'esistenza di un Dio creatore come ipotesi che risponde alla domanda sull'origine della realtà intesa nella sua generalità, che poi delega a delle leggi biologiche il "compito" di definire le condizioni entro cui una certa forma di vita possa adattarsi al punto da attualizzare la sua esistenza, cioè le corrispondenze tra un certo complesso di fattori ambientali e lo sviluppo di una certe specie biologica. Pensare che la questione sul "come", sulle condizioni necessarie all'attualizzarsi dell'idea di una certa specie sia vincolante per quella sull'origine, sul Principio primo che non rimanda a princìpi ulteriormente preesistenti ad esso, sarebbe come, per fare un esempio, pensare che si possa rispondere al perché io abbia deciso di mettermi a cucinare per degli ospiti, parlando della ricetta che avrei seguito per preparare il cibo: una è la questione della prima spinta del cucinare, che sarebbe di natura psicologica/motivazionale (la volontà di far una bella  impressione agli gli ospiti), altra quella dei mezzi necessari per la realizzazione dell'intento, mezzi che però non possono rispondere alla domanda sul punto di partenza dell'intento. Dio risponde alla domanda sul perché l'Universo esista, l'evoluzione risponde a quella sul come, una volta riconosciuta l'esistenza dell'Universo, le varie forme di vita si sarebbero sviluppate. Una volta distinti questi due piani cade, direi, anche la contrapposizione tra ordine e caos: si può ammettere l'esistenza di una Mente divina onnisciente creatrice che avrebbe sin dall'eternità la visione sovratemporale di un piano complessivo sul destino dell'universo, la cui realizzazione sarebbe poi progressivamente svolta sulla base delle leggi dell'evoluzione, la cui casualità sarebbe solo apparente, solo relativamente ai limiti della conoscenza umana, inadeguata ad accedere allo stesso livello di pura spiritualità del pensiero divino, ma che invece dal punto di vista di tale pensiero divino, non sarebbe casuale ma esprimente un Disegno preesistente, un pò come il risultato del lancio dei dadi, che apparirebbe frutto del caso solo per la nostra mente, incapace di calcolare la traiettoria del lancio e di indovinare la serie dei rimbalzi il cui complesso determina il modo in cui i dadi si fermano, mentre non sarebbe affatto casuale per una mente divina capace di intuire la risultante della serie delle "microcause". Ma in realtà, anche volendo tralasciare il piano metafisico, l'ipotesi del caso sarebbe assolutamente distruttiva per la scienza naturale stessa e la teoria dell'evoluzione. Se l'obiettivo di ogni scienza, ricordava Aristotele, è l'essere "sapere di cause", allora il caso, cioè l'arbitrio totale di ogni rapporto causa-effetto, segnerebbe l'impossibilità di ogni tentativo di individuare delle leggi entro cui la natura possa essere, entro certi limiti, studiata e resa oggetto di previsione. Se l'evoluzionismo implicasse la casualità, non avrebbe senso parlare di "leggi" dell'evoluzione, cioè non avrebbe senso considerare l'evoluzione come teoria scientifica: l'idea del caso dovrebbe essere vista col fumo negli occhi dal fisico non meno che dal metafisico o dal teologo.


Evoluzionismo e creazionismo possono entrare in conflitto solo intendendo il secondo come tesi fondata sull'interpretazione letterale delle Sacre Scritture, tipica di alcune confessioni protestanti come gli Evangelici, non è un caso si tratti di una diatriba tipicamente americana, mentre la Chiesa Cattolica, filosoficamente ben più "scafata" di groppuscoli staunitensi stante il suo millenario retaggio di tradizione culturale, già da moltissimo tempo ha correttamente riconosciuto l'evoluzionismo come teoria scientifica non antitetica alla dottrina teologica, distinguendo il piano ontologico entro cui esso sarebbe legittimo, distinto da quello inerente la teologia. E del resto la stessa interpretazione letterarie delle Scritture l'ho sempre trovata incompatibile con l'idea stessa della Trascendenza, in quanto, riconosciuta la parola di Dio come inadeguabile per la comprensione umana, perché ad essa infinitamente superiore, sarebbe assurdo pensare possa essere intesa semplicemente associando il linguaggio umano, fatto di segni fisici, della Scrittura con significati spirituali costituenti il sapere divino. Chi pensa di poter comprendere Dio letteralmente in base a segni umani finisce con l'immanentizzarlo, tradendo l'assunto trascendentista che si vorrebbe sostenere.
#54
Quello che mi frena nel considerare l'allucinazione come "concezione", è che il concetto di concezione attiene all'ambito dei giudizi, delle opinioni, che però è un livello di relazione coscienza-mondo distinto da quello a cui la possibilità dell'allucinazione è riferita. L'allucinazione non implica di per sé un giudizio di esistenza attribuito al suo contenuto: posso giudicare l'oggetto dell'allucinazione come reale (errando, in questo caso), ma anche negarne l'esistenza, cioè riconoscere l'allucinazione come tale, oppure sospendere provvisoriamente tale giudizio di esistenza (per l'appunto, la riduzione fenomenologica). Si può dire che l'allucinazione inneschi una tendenza a far credere alla realtà del suo oggetto, in quanto in essa, a differenza che in una fantasia scientemente prodotta, il contenuto si presenta reale proprio come in un'autentica percezione, ma questa tendenza non determina necessariamente il giudizio di esistenza: l'Io resta libero di rielaborare il contenuto allucinatorio, valutando l'inerenza del predicato di esistenza al soggetto, cioè il contenuto allucinatorio. Nell'allucinazione questa rielaborazione non c'è, il contenuto  si presenta nella sua pura datità fisica (anche se in realtà non è fisicità in carne e ossa) senza la categoria, intelligibile, di esistenza che la ragione giudicante valuterà poi se attribuire o meno al contenuto nella sua unità, in quanto l'Io recepisce il contenuto dell'allucinazione ad un livello di passività che è lo stesso di ogni percezione di oggetto reale (anche se un certo margine di attività già qui comincia, e ciò distingue la percezione della sensazione). Il giudizio "ciò che sto vedendo esiste davvero oggettivamente" attiene a un livello successivo (non "successivo" nel senso cronologico, ma logicamente distinto, nel senso che da A "l'allucinazione" non discende necessariamente B "il giudizio di esistenza", cosicché perché si dia B è necessario introdurre una nuova specie di atti di coscienza, gli atti della ragione), un  livello in cui l'Io acquisisce una maggiore autonomia nei confronti dell'oggetto al punto da rielaborarne le visione, valutando se attribuire la categoria intelligibile di esistenza al contenuto manifestatosi come complesso di proprietà sensibili. Il giudizio implica una superiore libertà dell'Io che mette in relazione predicato e soggetto, mentre nell'allucinazione, come nella percezione, l'Io lascia che sia l'oggetto a presentarsi immediatamente con tutte le sue proprietà sensibili, essendo il concetto di esistenza intelligibile e non sensibile, la categoria di esistenza non viene valutata né nella percezione né nell'allucinazione: l'oggetto ci si presenta come fosse reale, ma non al punto da determinare necessariamente l'attribuzione dell'esistenza in un giudizio vero e proprio, la ragione giudicante segna un incremento qualitativo della libertà interpretativa della coscienza rispetto ai suoi oggetti.


In questo senso trovo molto illuminante e chiarificatore il messaggio 15 di Lou, al di là di voler definire la percezione come apprensione di una cosa reale e l'allucinazione come prodotto della fantasia, dal punto di vista dell'intenzionalità, che è quello che in fenomenologia interessa, la coscienza si rapporta in entrambi i casi allo stesso modo: si limita a visualizzare un contenuto sensibile, che nella percezione corrisponde a un oggetto realmente esterno che impatta sui campi sensoriali del corpo e nell'allucinazione no, ma che nell'intenzionalità, cioè nel modo in cui il fenomeno è vissuto nella coscienza dell'Io, è recepito allo stesso modo, un dato sensibile ancora privo di attribuzione di categorie intelligibili come l'esistenza, attribuzione che segna il sorgere del giudizio. In quest'ultimo senso l'allucinazione ha molto più a che fare con la percezione che con il giudizio o "concezione".


Tra l'altro, anche la possibilità di stimolare allucinazioni tramite semplice infusione di sostanze tossiche, mentre la manipolazione del giudizio implicherebbe tecniche di controllo mentale molto più sofisticate e complesse, conferma quanto l'allucinazione presenti una componente di passività della coscienza ben maggiore di quello dell'Io giudicante: le tecniche di manipolazione del giudizio, delle opinioni son più sofisticate perché debbono superare una resistenza soggettiva ben maggiore rispetto al puro provocare allucinazioni, senza che l'Io modifichi i suoi parametri consueti di valutazione.
#55
Tematiche Filosofiche / Re:Oltre Cartesio
11 Dicembre 2020, 16:32:49 PM
Citazione di: Jacopus il 11 Dicembre 2020, 08:25:04 AM
Per Davintro. Se fosse vero quello che dici, Cartesio, invece di essere il fondatore di un nuovo pensiero, non sarebbe altro che un decadente e poco interessante epigono della filosofia medievale. La cosa non mi sembra realistica. Cartesio leggeva molto più gli scritti scientifici della sua epoca che i testi metafisici dei padri della Chiesa. La sua attenzione al pensiero dell'uomo è il primo attestato di autonomia dell'uomo rispetto a Dio e della filosofia rispetto alla teologia. Il suo cogito e la sua metafora sulla "realtà allucinata" vanno letti in relazione al resto della sua opera, che sottolinea l'importanza delle leggi meccaniche e della matematica. Quest'ultima interpretata come modello per indagare il mondo fisico e no di certo come dimostrazione teorica della perfezione del cielo come preferiscono fare i pitagorici di ogni tempo. Cartesio, lo ripeto, era un ingegnere che cercava di fondare l'ingegneria con la filosofia.


Individuare un carattere metafisico che accomunerebbe Cartesio ai pensatori antichi e medioevale non implica il negarne la qualifica di pensatore originale, riducendolo a mero ripetitore, in quanto questo carattere resta un'indicazione generica che poi ogni autore formula sulla base delle sue personali riflessioni. Altrimenti, dovremmo considerare un Tommaso d'Aquino mero epigono e prosecutore di Agostino, solo perché entrambi condividevano il fatto di incentrare il loro pensiero sull'approdo teologico cristiano. L'attenzione al pensiero dell'uomo, fintanto che lo si intenda come punto di partenza metodologico di una riflessione atta poi al riconoscimento di una realtà esistente oggettivamente, al di là dell'essere pensata da un uomo, non implica l'assolutizzazione di tale pensiero e, conseguentemente, del mondo in cui l'uomo si trova a esistere. Un conto è l'individuazione del luogo, della dimensione da eleggere come punto di partenza della ricerca, un altro la conclusione della ricerca, che può essere il riconoscimento di un' ulteriorità rispetto l'ente da cui il metodo prende le mosse. La matematica è a tutti gli effetti espressione della metafisica, essendo i termini che le sue proposizioni relazionano entità intelligibili e non sensibili, e il fatto di applicarla alla fisica non comporta la sua materializzazione, anzi conferma quello che scrivevo nel messaggio precedente, la dipendenza delle scienze naturali da presupposti epistemici di natura intelligibile, cioè metafisici, tra cui per l'appunto, le astrazioni matematiche. Cosa che peraltro non vale all'inverso: mentre la fisica (materialità) necessita di una matematica (spiritualità), questa può sussistere anche senza questa, se non dal punto di vista dell'apprensione, dello studio per una mente umana (questione di un innatismo più o meno forte), quantomeno dal punto di vista dei criteri fondativi delle pretese di verità. Esiste una metafisica esplicita, tematizzata dalla filosofia, oggetto specifico delle sue speculazioni, e una metafisica implicita, complesso di nozioni intelligibili di cui ogni altra scienza ed esperienza quotidiana si serve, che applica, anche senza porla come oggetto di attenzione e riflessione, ammesso e non concesso che a Cartesio non interessasse la prima accezione di metafisica, certamente ribadisce la necessità della seconda, e per questo vede la matematica, ramo della metafisica, come modello di evidenze a cui vorrebbe far ispirare la filosofia. A porre la fisica, empiria sensibile come modello per la filosofi, sarà invece piuttosto Kant (da qui i limiti speculativi della sua Critica, a mio parere), che non a caso considererà le preposizioni matematiche come sintetiche, cioè pensabili a partire dalle intuizioni estetiche tramite cui esperiamo il mondo fisico, cosa su cui non credo proprio Cartesio avrebbe concordato.[/size]
#56
Tematiche Filosofiche / Re:Oltre Cartesio
10 Dicembre 2020, 23:07:12 PM
L'appartenenza di Cartesio alla metafisica è argomentabile dal fatto che il metodo del dubbio iperbolico, teso a ipotizzare l'allucinazione come setaccio selezionante la certezza del pensiero, è proprio ciò che nessuna scienza naturale potrebbe applicare pena la squalifica di ogni affermazione circa la verità dei propri risultati: i contenuti sensibili sono assumibili come rappresentanti la realtà oggettiva a condizione di concepire le facoltà percettive del soggetto come adeguate a rispecchiare tale realtà, l'ipotesi dell'allucinazione è sufficiente a mettere in discussione ogni risultato sperimentale. Perciò le scienze empiriche utilizzano, senza tematizzarla e discuterla, la nozione filosofica di corrispondenza tra percezione soggettiva e realtà oggettiva, cioè l'efficienza delle facoltà percettive, "senza tematizzarla e discuterla" in quanto tale operazione è impedita dall'essere la sensibilità il canale di apprensione dei contenuti di tali scienze: la sensibilità non può mettere in discussione se stessa e giudicarsi criticamente adeguata a valutare la corrispondenza dei suoi contenuti con la realtà, perché, come è evidente, per farlo dovrebbe mettere in discussione anche il suo mettere in discussione e così via all'infinito, senza mai giungere al punto di trovare un criterio fondante la valutazione esterno a ciò che si valuta. La corrispondenza percezione sensibile-realtà oggettiva è invece ciò che tramite il dubbio Cartesio intende mettere in discussione, per quanto solo metodologicamente, tramite l'ipotesi dell'allucinazione, alla luce dunque di un approccio non naturalistico, ma metafisico, rinvenendo e tematizzando esplicitamente il presupposto filosofico che le scienze empiriche utilizzano implicitamente per sostenersi, senza però poterlo legittimare.
#57
L'Io puro husserliano supera la particolarità delle esperienze individuali nel senso che, mentre queste ultime sono riferite a modi di valutare la soggettività la cui pretesa di verità può essere contestata o lasciata in sospeso (epochè) senza che la coscienza, intesa genericamente, scompaia, l'Io puro resta il residuo incancellabile necessario al darsi di tale coscienza, in quanto, recuperando in parte Cartesio, esso consiste nel soggetto cosciente inteso unicamente come "soggetto" degli atti di esperienza vissuta, che restano tali, indipendentemente dalla corrispondenza del loro contenuto immanente con la realtà oggettiva. L'Io empirico riguarda il nome che porto, il luogo dove sono nato, dove vivo, il tempo in cui sono collocato, il complesso delle opinioni circa me stesso e il mondo circostante, le cui pretesa di verità posso mettere in discussione, cioè le componenti accidentali del soggetto, di cui l'Io puro costituisce il livello essenziale. Essenziale, non esistenziale. Per questo il fatto che anche il livello di soggettività che l'Io puro indica non potrebbe mettersi in atto senza che esista in concreto un Io empirico che in un certo tempo e spazio lo produce, non contesta l'autonomia dell'Io puro nel suo senso corretto: questa autonomia non consiste in un'autonomia di una realtà che esisterebbe senza quella dell'Io empirico (genere di rapporto in cui invece rischia di cadere il Cogito cartesiano, sostanzializzato come "Res"), la sua autonomia è di tipo concettuale, consiste nell'indipendenza della verità dell'autocoscienza rispetto all'accidentale valore di verità che riferiamo alla nostra realtà empirica: perché si dia un Io puro è necessario che esista un Io empirico in generale che lo esistenzi, non è necessario che ciò che si afferma specificatamente circa tale Io empirico coinvolga la verità dell'Io puro. L'Io puro non è Io reale, è una dimensione concettuale, non nel senso di inutile astrazione, ma che assume un'importanza fondamentale metodologicamente, in quanto il suo riconoscimento è la premessa a partire da cui la fenomenologia muove ogni sua analisi sulla coscienza soggettiva, e, correlativamente, alle varie tipologie di Essere, di campi dal sapere, a cui le diverse specie di esperienze coscienti corrispondono, all'interno dei rapporti soggetto-oggetto, coscienza-mondo.
#58
Tematiche Filosofiche / Re:Oltre Cartesio
07 Dicembre 2020, 17:14:08 PM
Citazione di: green demetr il 07 Dicembre 2020, 15:53:13 PM
Citazione di: davintro il 03 Dicembre 2020, 16:17:05 PM

Non so cosa tu intenda precisamente con "canone occidentale", provando a ipotizzare, considerando il contesto della discussione (si parla del rapporto Cartesio-filosofia cristiana), si tratti della tradizione metafisica antica e medievale di stampo trascendentista, si potrebbe intendere Cartesio come momento di snodo della modernità, interpretabile in ottiche tra loro contrapposte. Ci starebbe bene la citazione della lettura di Cartesio fatta da Del Noce (non l'ho ancora letto direttamente, ma è sempre un costante ed esplicito riferimento del mio professore di Filosofia Morale, che è uno dei principali studiosi del suo pensiero), per cui da Cartesio discendono due percorsi opposti. Il primo, germanico, prosegue con Kant, Hegel e gli epigoni di quest'ultimo, compreso Marx, questo filone intende il Cogito, principio fondativo e vincolante ogni realtà e ogni pretesa di verità che lo presuppone, come Cogito umano, vede dunque l'uomo come arbitrio ultimo della verità, ed essendo il mondo il limite entro cui un pensiero e un agire umano, sono possibili, ne discenderà l'assolutizzazione del mondano, un esito immanentista e antireligioso. C'è però un secondo filone della modernità, "latino", che da Cartesio fa derivare istanze spiritualistiche presenti in autori moderni come Pascal, Vico, Rosmini, che vede nel primato epistemologico del Cogito, non l'assolutizzazione dell'uomo, in quanto il Cogito non è propriamente l'uomo nell'insieme delle sue dimensioni, ma la sua componente interiore e spirituale, certamente presente all'uomo, ma distinta dalla componente materiale ed esteriore, che è il riflesso della finitezza umana, e dunque vede il Cogito come indicatore di una realtà responsabile della possibilità per l'uomo di giungere alla certezza della propria esistenza, ma che non si identifica con l'uomo, sintesi di materia e spirito, ma con Dio puro spirito: se la verità di cui l'uomo non può dubitare attiene alla sua componente spirituale, allora la Verità assoluta, fondativa di tutte le altre dovrebbe identificarsi con la verità di un Pensiero, puramente spirituale, cioè divino. Siamo in pieno agostinismo.


Capire in che misura i due filoni contrapposti siano legittimati a porsi come prosecutori della lezione cartesiana è collegata all'annosa questione della distinzione interiorità-immanenza. Identificando i due concetti dovremmo dar ragione, da un lato al filone immanentista/idealista che fa coincidere l'idea dell'autocoscienza come punto di partenza metodologico assolutamente valido di ogni conoscenza, con l'idea dell'uomo misura di ogni verità, escludendo ogni verità trascendente i limiti del suo sapere, e di contro, a quella corrente del pensiero cattolico più rigidamente ancorata alla scolastica tomista, che vede pensiero moderno e metafisica classica e cristiana come acerrimi nemici senza possibilità di integrazione. Se invece, come sarebbe corretto dal mio punto di vista, immanenza e interiorità vanno distinte, allora l'interiorizzazione del luogo da assumere come punto di partenza della ricerca della verità non comporta alcuna assolutizzazione della conoscenza umana, nessun immanentismo, perché la verità che abita in interiore homine non coincide col pensiero del soggetto a cui l'interiorità è riferita, dato che è il soggetto stesso, l'uomo, ha essere sempre, in buona parte, "fuori di sé", condizionato dalla materia e dalle distrazioni del mondo esterno. Il Dio agostiniano è più intimo all'uomo di quanto l'uomo sia intimo a se stesso, la sua interiorità è lo spazio che, percorso, porta al riconoscimento di un'Oltre, e non ha nulla a che vedere con l'immanenza dell'idealismo moderno.


Il canone occidentale è quello che viene riportato in fin dei conti dalle antologie letterarie.
Certamente è quello della metafisica prima classica e poi cristiana.

Concordo con il tuo professore che ha voluto dare una piega al discorso che si concentri sulla priorità del discorso politico.
Naturalmente Del Noce, ovvero Rosmini.
Quello che mi piace di Rosmini è l'aver distinto tra concetto di persona (politica dell'individuo sociale), e concetto di Dio. Laddove l'etica è la politica cristiana applicata al sociale.
(molto in soldoni). Ossia la chiave latina.
Quello che non mi piace del buon Rosmini, è il fraitendimento del soggetto.
Infatti per Rosmini il soggetto è già l'esser uomo integro, naturale.

Della chiave tedesca invece adoro il lungo cammino per raggiungere la consapevolezza del soggetto come costruzione. Dove la politica è di tipo storico-sociale legata proprio a quella concezione di soggetto.

Come però abbiamo già detto, entrambe hanno caratteristiche di trascendenza.
Non sono così distanti come si vorrebbe far credere.

Sono felice che sei passato dalla parte di noi metafisici. (anche se suppongo questo epiteto non ti piacerà ;) ).
E quindi dopo anni di incomprensione ci troviamo molto vicini.  ;)


Non hai risposto al problema della postmodernità invece. Ossia come la politica da individuale passi a quella statale (ossia la riduzione di qualsiasi individuale sotto il dominio dellla macchina sia a livello generale che della macchina statale in senso stretto). Prova a discuterne con il tuo prof.
;)


Beh, considerato che penso di essere tra i pochi nel forum a difendere l'idea di una conoscenza razionale della metafisica e della dimensione intelligibile del reale, in contrasto con le posizioni di tipo materialista e relativista, imperanti nel panorama attuale filosofico, anche fuori del forum, la qualifica di "metafisico" non può che farmi piacere... probabilmente avevamo, e abbiamo, concezioni di cosa significa "metafisica" differenti (posso sbagliarmi, eventualmente correggimi pure... immagino che nella tua accezione non sia prevista la fondazione razionale, almeno non nel senso della tradizione platonica-aristotelica, e poi degli argomenti teologici della filosofia cristiana). Poco male, considerato che le definizioni sono convenzioni, e che i fraintendimenti possono almeno in parte essere superati, recuperando l'intenzione di significato dell'interlocutore riguardo un singolo termine, contestualizzandolo all'interno del discorso nel suo complesso. Almeno spero sia così fra noi, se avverti una maggiore vicinanza mi fa piacere.


Per quanto riguarda il problema dell'asservimento dell'individuo nella macchina statale, proprio in questi giorni pensavo appunto che prima o poi mi piacerebbe aprire un topic apposito sul tema di come la secolarizzazione, intesa come immantentizzazione dell'idea di Assoluto, trasferita da Dio alle strutture di potere mondane sia la base culturale dell'idea di uomo come essere il cui valore vien fatto coincidere con la sua appartenenza e utilità alle strutture, con tutte le implicazioni immaginabili in sede politico. Mi interesserebbe approfondire la discussione in una discussione ad hoc, qua mi limiterei a scrivere che ben prima del Postmoderno, già la traiettoria "tedesca" (per restare nello schema di Del Noce),  moderna, dell'idealismo, per cui l'Assoluto si risolve nell'insieme delle forme in cui l'uomo interagisce col mondo e con la storia, sia l'origine di tale trasferimento della coscienza della dignità dell'uomo, da un fondamento trascendente a uno coincidente con gli interessi di un potere mondano come può essere, tra gli altri, lo Stato, con legittimazione ideologica dei vari totalitarismi novecenteschi annessi a tutto ciò.
#59
Tematiche Filosofiche / Re:Oltre Cartesio
06 Dicembre 2020, 20:09:04 PM
Citazione di: Jacopus il 06 Dicembre 2020, 19:07:31 PM
Citazioneil procedimento tramite cui Cartesio perviene alla certezza del "Cogito ergo sum" ricalca quello agostiniano in cui, in polemica con gli scettici, portando il dubbio alla sua massima radicalità, vengono meno le certezze legate alla conoscenza del mondo esterno ma non la certezza circa il proprio esistere, che per quanto erri, esiste come soggetto errante, "Si fallor, sum". Probabilmente, il significato di soggettività agostiniano si distingue per essere più ampio di quello cartesiano, che si limita all'essere pensante, ma al di là delle differenze, resta comune il principio per cui quanto più lo sguardo si fa "introverso", si rivolge all'interiorità spirituale distogliendosi dall'esperienza sensibile dell'esteriorità, tanto più si avvicina a un livello di verità certe e fondative di quelle empiriche, condizionate alla fallibilità dei sensi (ipotesi dell'allucinazione). Il principio per cui l'idea il sapere di Dio, puro spirito, è il criterio di verità su cui poggiano tutte quelle parziali e limitate della scienza umana è lo stesso per cui, come nella tradizione platonica-agostiniana le verità della matematica hanno un grado di necessità e certezza superiore a quella delle scienze dell'esperienza sensibile, proprio alla luce dell'intelligibilità, immaterialità dei termini che i giudizi matematici mettono in relazione, quella matematica che proprio Cartesio ha in mente come modello a cui la filosofia dovrebbe ispirarsi il più possibile. Quindi andrebbe fatta una distinzione fondamentale: se si parla di puro fideismo e dogmatismo, certamente il metodo cartesiano è di fronte a esso puramente alternativo, ma se si intende una metafisica di ispirazione cristiana che sceglie di mettere da parte la fede (non per negarla beninteso, ma di non tenerne conto in una epochè metodologica) per affidarsi alla pura ragione filosofica, allora a me pare che in Cartesio gli elementi di continuità sian molto più importanti di quelli di rottura.


Buonasera Davintro. Con i miei tempi cerco di stare dietro alla discussione. L'interpretazione che poni è stata lungamente dibattuta. Sinceramente a me sembra il tentativo di ogni "tradizione" di far rientrare nei suoi canoni anche gli eretici e gli apostati, meglio se in articulo mortis.
Cartesio fa parte di quel gruppo di pensatori che rischiarono l'autodafè per porsi contro il pensiero della tomistica scolastica. Cartesio da questo punto di vista fu molto prudente ma anche lui subì una conseguenza pesante rispetto alla sua libertà di pensiero, risultando impresentabile come docente presso qualsiasi università dell'epoca. Farlo rientrare nel novero della tradizione è poco realistico.
Racconto un episodio buffo quanto noto. Un giovane seminarista che diverrà a sua volta filosofo, Malebranche, si racconta che svenne alla lettura della prefazione de "L'uomo", l'ultima opera di Cartesio, pubblicata postuma, se non ricordo male. Lo svenimento, in realtà fu dovuto alla grande ispirazione che Malebranche trasse, credendo che quel sistema rendeva la sostanza dell'anima pura e indipendente da ogni manipolazione relativa al pensiero magico e contadino.
In essa Cartesio fa quello che viene considerato il primo "esperimento mentale scientifico". Suppone che Dio costruisca un automa, in tutto e per tutto uguale all'uomo, da lui creato in precedenza, e da questa supposizione trae la conclusione, molte pagine dopo (dove sperava che la commissione dell'index librorum prohibitorum non sarebbe mai giunta) che quell'automa è esattamente l'uomo, che si muove, si agita, ha passioni, sulla base dei suoi componenti "meccanici". Ma non solo l'uomo, Cartesio va oltre, perchè dice esplicitamente che le leggi "del fuoco" che agitano il cuore dell'uomo sono le stesse che governano tutti gli altri corpi animati e inanimati.
Insomma, Cartesio lascia a Dio lo spazio del creatore iniziale, ma è solo una captatio benevolentiae nei confronti dei domenicani controriformisti. La cosa non lo interessa minimamente. Le leggi della natura (e l'uomo rientra nella natura, in quanto res extensa) vanno studiate senza alcun condizionamento teologico.
Si racconta anche che in un altro libro fu l'editore a pregare Cartesio di aggiungere un capitolo su Dio, perchè altrimenti sarebbe stato difficile venderlo.
Insomma Cartesio, ben lungi da essere un prosecutore della tradizione scolastico-aristotelica, era però un uomo prudente. Nel discorso sul metodo si appella al pubblico per dire che se si pongono degli ostacoli alla scienza si mettono degli ostacoli alla libertà e al progresso dell'umanità. Insomma mette le mani avanti, perchè in odore di eresia. Ed è possibile interpretare anche in questo senso la distinzione netta fra res cogitans/Dio e res extensa/uomini. Dio viene in qualche modo accettato, diplomaticamente, ma sterilizzato da ogni condizionamento sulla comprensione del mondo.
In questo modo si parla di "scolastica cartesiana", ovvero di un sistema filosofico che tende a tranquillizzare l'ordine cristiano affinchè la ricerca scientifica non sia vista come un nemico. E' questo anche il significato del dualismo cartesiano.
Ma l'etica di Cartesio è evidente. Per lui la realtà è la realtà della scienza e la morale non può illudersi di non doversi confrontare con essa. A Dio e alla religione viene lasciato uno spazio di rappresentanza, come ai re nei governi democratici moderni, ma ha il solo scopo di non essere perseguitato.
Per allargare lo sguardo si può dire che vi sono due direzioni del pensiero, alla vigilia dell'epoca moderna, una tende a sviluppare teorie sincretistiche ancora intrise di credenze magiche, astrologiche, alchimistiche, di neoplatonismo. Cartesio invece è straordinario perchè abbandona tutto ciò. E' un ingegnere, che eventualmente si rifà a Leonardo, perchè comprende che la matematica può essere applicata alla realtà. la matematica non è più un gioco per iniziati, che richiama nella sua perfezione alla metafisica. Invece attraverso l'algebra può permettere uno studio della realtà che è una realtà meccanica. Le scienze meccaniche, la fisica e la matematica sono le discipline cartesiane per eccellenza.
Una delle grandi intuizioni di Cartesio è stata inoltre quella di considerare l'unità di tutte le discipline scientifiche perchè tutte rispondono allo stesso metodo investigativo. Una intuizione che ha attraversato i secoli fino a giungere a noi, nell'epoca dell'interdisciplinarietà, dove risulta evidente come non sia possibile studiare la biologia senza conoscere la genetica e l'antropologia o la sociologia senza conoscere la psicologia e la teoria politica.


Buonasera Jacopus
Non a caso hai citato, in riferimento all'opposizione a Cartesio, tomismo o scolastica aristotelica-domenicana, che costituiscono l'orientamento teologico prevalente nella Chiesa cattolica, ma non sono, fortunatamente, l'unico filone interno al complesso della tradizione metafisica cristiana. Accanto ad essi troviamo la via platonico-agostiniana, che, per l'appunto, gran parte degli aderenti alle posizioni tomiste o scolastiche hanno sempre visto con occhio sospettoso, timorose che, erroneamente a mio modesto avviso, ma ciò non conta nulla, la via dell'interiorità conducesse ad esiti immanentistici, per i quali le verità teologiche finirebbero relativizzate all'interno della soggettività umana che rivolgendosi a se stessa le ricerca. E proprio a questo filone agostiniano dell'interiorità pensavo soprattutto riguardo l'analogia con Cartesio, e non, almeno non primariamente, all'impostazione tomista, scolastica, o a un certo modo di intenderla. Certamente il Dio cartesiano non è a tutti gli effetti quello agostiniano, non è il Dio che si invoca, a cui ci si rivolge come un padre, nella Confessioni, è un Dio che rientrerebbe nell'ambito di una metafisica razionalista che anche un Voltaire, anticlericale ma non ateo, non avrebbe problemi a concepire, ma comunque un Dio trascendente. Quindi, prima di stabilire quanto l'esito teista sia conclusione necessaria del pensiero di Cartesio bisognerebbe accordarsi sull'accezione con cui intendere l'idea di Dio, quella della fede nelle Scritture, nelle rivelazioni storiche, dei dogmi, oppure il Dio dei filosofi a cui il deismo si ferma, il Dio Causa Prima incausata che rende ragione della realtà dell'uomo, in particolare nella componente spirituale attestata dal Cogito. Il risconto di un disinteresse, di una tematizzazione forzata, atta a evitare problemi con il clima culturale dell'epoca, non aiuta più di tanto a sbrogliare la questione. Cartesio formula diverse prove dell'esistenza di Dio. Ora, un conto è riconoscere come motivo principale di questo impegno dei condizionamenti esterni alla propria volontà piuttosto che un sincero interesse personale, un altro arrivare a pensare che lo stesso merito dell'argomentazione e le conclusioni che ne derivino siano stati viziati per giungere a un esito che la stessa ragione cartesiana, in piena libertà, non avrebbe condiviso: cioè, il fatto che Cartesio si sia sentito forzato a occuparsi del tema teologico, inteso in generale, senza che gli interessasse poi così tanto, non implica che nell'effettivo approccio al tema egli abbia formulato argomenti e conclusioni della cui logica egli non fosse convinto. E se, accettando la sua buonafede, la convinzione in merito c'era, allora sarebbe corretto dire che comunque Dio è l'esito necessario della sua filosofia, in quanto conclusione coerente con le sue premesse, indipendentemente dal fatto che, fuori dal contesto politico e culturale dell'epoca, immaginandolo in piena libertà intellettuale, avrebbe preferito non occuparsene.
#60
Citazione di: Jacopus il 05 Dicembre 2020, 18:40:42 PM
Questo post mi sembra molto più catalogabile come discussione spirituale che filosofica. Detto questo, dopo l'intervento di Socrate del 4 dicembre, l'anima è andata a farsi benedire e si è perso il filo del discorso (salvo qualche timido tentativo). Vi chiederei di tornare al topic di Socrate, anche perchè vi giuro che non vi farò pagare un euro se aprirete una nuova discussione.


Se mi è concesso, ritengo che dovunque si discuta di "dimostrazioni" si parla sempre di filosofia, che in tali dimostrazioni, applicate a temi spirituali come l'anima, si perda il carattere filosofico avrebbe senso solo in un'ottica per cui solo il positivismo e il materialismo avrebbero una dignità filosofica, il che è quantomeno estremamente discutibile. Sarebbe come se, in un'ottica spiritualista, si relegasse ogni discussione in cui si fa riferimento a studi chimici, biologici, fisici, fuori dall'alveo filosofico, per relegarlo nelle "Scienze" (fermo restando che la filosofia è una scienza, anzi la "scienza per eccellenza", nel senso greco dell'Episteme). Per quanto mi riguarda penso che senza spiritualità non ci sia filosofia, in quanto, senza alcuna dimensione spirituale, basterebbero le scienze naturali a render ragione del reale nella sua totalità, senza dover scomodare un sapere autonomo come la filosofia indagante un livello del reale ulteriore rispetto ad esse, ma è solo una mia opinione che non ho problemi a confrontare con altre opposte all'interno dell'ambito di una "Filosofia" aperta a chiunque argomenti razionalmente le proprie tesi, spiritualiste o materialiste che siano.