Trovo fortemente discutibile l'idea per cui altruismo, amore per gli altri, ed egoismo, amore di sé, debbano vedersi come contrapposti, quando invece a mio avviso sono reciprocamente implicati. L'idea della contrapposizione avrebbe ragion d'essere considerando l'uomo come una macchina, una specie di calcolatrice che può rendere un buon servizio agli altri limitandosi a recepire passivamente gli input provenienti dall'esterno, finalizzati ad ottenere da esso delle prestazioni, senza che sia presente una volontà, un piacere di compiere tali prestazioni: un computer, una calcolatrice funziona al meglio nella misura in cui nulla intralcia l'applicazione di un programma che queste macchine non hanno autonomamente elaborato, ma è stato imposto loro dalle persone che per il loro interesse li hanno progettati. Non c'è alcun bisogno che a un computer "piaccia" l'esecuzione del programma per funzionare al meglio, proprio perché la soddisfazione del proprio ego non rientra tra gli elementi per cui può essere progettato. Ma l'essere umano non è una macchina, non è capace di scindere l'efficacia delle sue attività rivolte al bene della società dall'energia scaturente dalle motivazioni legate al fatto che l'attività che si svolge viene, prima di tutto, recepita dal soggetto stesso come piacevole in relazione alle sue preferenze soggettive. Non si può far nulla di buono per gli altri (altruismo) se prima di tutto le forme del nostro contributo non siano percepite come piacevoli per se stessi (egoismo, ma preferirei parlare di "individualismo"), determinanti la felicità del soggetto, nel senso in cui Aristotele vedeva la felicità come tutto ciò che esprime la natura interna dell'ente a cui la felicità è riferita, il fine naturale di questo ente. Quindi, pensare a un'idea di altruismo per cui l'amore per gli altri viene intensificato a scapito di quello di per sé, vuol distruggere questa idea stessa, per il motivo che imbarcarsi in attività che non riflettono la nostra personalità, le nostre soggettive passioni, interessi, insomma che non determinano un'egoistica soddisfazione individuale, vorrebbe dire svolgerle con poca motivazione ed energia, cioè a svolgerle male, con la conseguenza di rendere un cattivo servizio e di danneggiare gli altri, anziché aiutarli. Non è l'oggettività del contributo sociale che determina la possibilità di fare il bene altrui, ma le motivazioni soggettive derivanti dalla coscienza che ciò che si sta facendo è ciò che c'è di più attinente alla nostra vocazione individuale, al nostro carattere, qualcosa che ci piacerebbe fare anche indipendentemente dai vantaggi che ne ricaverebbero altre persone. Nella persona, che senza avere una vera predisposizione o interesse per la medicina, decidesse di fare il medico missionario in Sierra Leone, solo aspirando alla possibilità di salvare vite, senza chiedersi quanto quel lavoro piaccia lui come singolo, l'altruismo è solo apparente: quella persona finirà per svolgere male quel lavoro, perché lo svolgere un'attività per puro senso del dovere, condizionata da quanto quel tipo di professione venga socialmente, esteriormente, reputata nobile e altruistica, priva di qualunque carica piacevole data dal fatto che quell'attività incontra i propri autentici interessi, giungerà prima o poi a determinare una perdita di motivazione col conseguente inaridimento della carica energetica necessaria alla gravosità dell'impegno, col risultato, per quanto involontario, di danneggiare le persone che dovrebbe salvare invece di aiutarle. L'errore è stato quello di far condizionare la sua scelta da un'idealizzazione del ruolo, perché visto come socialmente "eroico", senza considerare la cosa più importante, quanto quel ruolo fosse davvero attinente alle sue corde, alle sue qualità, ai suoi interessi soggettivi, lasciando che l'adeguazione al prestigio sociale dell' "eroe" fosse sovrapposto alla coerenza alla sua autentica personalità. Sarebbe stato molto più altruista se avesse rinunciato a ruoli di responsabilità troppo gravosi per la sua personalità per guardarsi dentro e ripiegare su delle attività apparentemente meno giudicabili come necessarie per la società, ma dove avrebbe avuto molte più chances di dare un contributo positivo, anche se meno appariscente, meno riconoscibile come tale.