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Messaggi - cvc

#451
Citazione di: Riccardo il 14 Settembre 2016, 00:49:23 AM
Se ti riferisci nello specifico ai guerrafondai, non credo che abbiano nè voglia nè tempo di andare dallo psicologo per farsi analizzare. Semmai quello che gli interessa è come usare la psicologia per colpire emotivamente l'avversario.

L'imbarbarimento dei rapporti è da dividere in istintivo e morale, a mio avviso. Gli uomini preistorici erano cannibali, più barbari di così si muore e sul piano istintivo non credo siamo tanto più barbari oggi di quanto non lo fossimo prima, vedi le svariate guerre per il possesso di terre e risorse.
Per quanto riguarda l'imbarbarimento morale addosserei la colpa a chi sta ai cosidetti vertici, a chi potrebbe inviare messaggi più positivi attraverso i canali di comunicazione di massa. Questo eleverebbe la morale di tutta la società. Se ci fai caso oggi diventa più famosa una velina che mostra il seno piuttosto di un filosofo che scopre il senso della vita. Se si elevano i soggetti più beceri ad esempio per la collettività e si oscurano le menti che potrebbero inviare messaggi di evoluzione all'umanità, certamente l'imbarbarimento morale, e quindi sociale, non potrà mai svanire.
Proprio stamattina ho letto sul sito Ansa che una donna di 31 anni si è suicidata dopo che un suo video a luci rosse è finito in rete. Credo che in questo ci sia un eccezione a quella che sembrerebbe la regola resa imperante da una certa psicologia: non vergognarsi di niente, non provare rimorso di niente. Ho detto che questo caso è l'eccezione, avrei dovuto dire un'esagerazione in senso opposto. Secondo me la donna ha commesso prima una leggerezza, mancando un po' di rispetto verso sé e fidandosi di altri quando ciò comportava un grave pericolo. Però la scelta di suicidarsi è stata eccessiva, anche se ha dimostrato il  forte riscatto del suo senso dell'onore. Ma, come dicevo, la psicologia freudiana, di cui non sono certo un esperto e tuttavia mi sento di dirne qualcosa, tutta incentrata sulla libido, sulla liberazione dai freni inibitori, sulla liberazione degli istinti, come se la coscienza non fosse altro che un tetro carceriere, questa psicologia che ci ha resi più libidinosi e sprezzanti di ogni inibizione e scarsamente riflessivi (parlo in generale, come società), non se lo fa mai un vecchio e sano esame di coscienza.
Secondo Freud l'uomo avrebbe barattato la felicità per un po' di sicurezza. Il che equivarrebbe a dire che gli uomini primitivi, le belve feroci e i criminali dovrebbero essere felici.
#452
Citazione di: baylham il 13 Settembre 2016, 10:56:58 AM
La morale, il porsi il problema di ciò che è bene o giusto fare, è inseparabile da qualunque scelta umana, sia che riguardi la politica che l'economia. Non ritengo che ci sia un principio, un metro, da cui far derivare le giuste scelte, ma che la morale costituisca un problema la cui soluzione sia individuale.
La massima "il fine giustifica i mezzi", che riassume l'interpretazione canonica del Machiavelli, è comunque una scelta che lascia aperto ed irrisolto il problema sempre morale della scelta del fine e dei mezzi che non siano univocamente determinati.
C'è la favola dello scorpione che chiede alla rana di aiutarlo a traversare il fiume, rassicurando che non l'avrebbe punto. Poi però, giunti sull'altra sponda, la punge. La rana chiede:"Perché l'hai fatto?". E lo scorpione: "È la mia natura". Qui non c'è morale, è l'istinto, è la ferocia che muove l'azione. Se noi non riconosciamo una morale nell'animale, la morale è solo dell'uomo. Machiavelli dice infatti che ci sono due modi di combattere: con le leggi e con la forza. Il primo è proprio dell'uomo, il secondo delle bestie. Ma siccome spesso il primo non basta, occorre ricorrere anche al secondo. Il che vuol dire che per vincere bisogna saper accantonare il proprio giudizio morale. Inoltre Machiavelli invita apertamente alla doppiezza, e nella doppiezza non può esserci morale che tenga. Credo non ci siano dubbi sul fatto che il Principe sia un'opera immorale, indipendentemente dai tempi. Quel che volevo approfondire è come interpretare tale immoralità. Se bisogna condannarla tout court, o se c'è una parte immorale insita nell'uomo che non si potrà mai sopprimere del tutto. In questo senso dunque, se l'immoralità è inseparabile dall'uomo, allora in qualsiasi morale è compresa anche una parte di immoralità. Non credo al contrario, che non si possa essere del tutto privi di morale.
#453
Citazione di: baylham il 12 Settembre 2016, 15:02:44 PM
"Realpolitik significa politica che mira dritto allo scopo, preoccupandosi in secondo luogo o affatto dell'etica."

Non credo affatto che la politica sia separabile dall'etica, dalla morale, che i due campi siano autonomi. Semplicemente il Principe di Machiavelli ha una morale diversa da quella comune perché il Principe, la politica, si occupa di problemi che non sono comuni. Ciò spiega lo scandalo che produsse quell'opera: considerare per esempio la religione instrumentum regni è notevole. Essere cinici o spregiudicati o realisti è già avere una forma morale.
Si però un conto è fondare le decisioni politiche su presupposti morali, un altro puntare prima allo scopo e poi mascherarlo con pretesti morali. Infatti Machiavelli fa la distinzione fra essere e sembrare, ossia essere cinico e sembrare morale. Anche se questo è ciò che in effetti faceva anche la Chiesa, difatti cita anche vari papi come modelli da emulare. Si potrebbe dire che forse Machiavelli ha semplicemente teorizzato ciò che avevano già messo in pratica molte "anime belle".

Non credo che essere cinici nel senso de "il fine giustifica i mezzi" sia un comportamento che possa definirsi morale, quale fine può garantire di essere sempre giusto qualsiasi sia il sacrificio di mezzi che comporta?
#454
Citazione di: paul11 il 12 Settembre 2016, 13:08:56 PM
Cvc,
l'ho letto parecchi anni fa il Principe di Machiavelli, ma non l'ho trovato cinico, ha ragione Rousseau a parer mio, asseconda la natura umana .In effetti è stato scritto da Machiavelli per  rientrare nelle grazie del potere fiorentino.
L'Arte della guerra di Sun Tzu è più cinico, ma sono scritti in maniera saggia.
Sono due grandi autori di epoche diverse che insegnano l'arte del governo degli uomini.

Il problema fra realpolitik ed etica non è solo il mezzo che dovrebbe essere coerente con lo scopo, (lo scopo giustifica il mezzo è il famoso detto machiavellico) ma dove chi governa dovrebbe avere come scopo non la conservazione del suo potere, ma la crescita del popolo in senso materiale ed etico.L'utopia quindi si scontra con la realpolitik. Anche perchè, "è poi davvero vero che il popolo ambisca  una crescita morale, oppure gli interessa il vil denaro, ricchezza e potere?"
Anch'io penso sia uno straordinario spaccato sulla realtà della natura umana, come trovo interessante rileggerlo nell'otica attuale, dove le decisioni istituzionali vengono prese in base ai dati macroeconomici e statistici nonché a quelli degli ideali libertari, mutuati perlopiù dal cristianesimo e dalla rivoluzione francese o dell'illuminismo in generale, ma si avverte lo spettro del vuoto di potere. Vuoto dato dalla mancanza di leader carismatici, dove l'incubo dei vari culti delle personalità novecentesche ci ha lasciato in eredità la fobia dei caratteri forti. Da questo potrebbe dipendere, in parte o molto, la mancanza di personalità che si lamenta nella classe politica e dirigente, in Italia e all'estero. Si cerca di risolvere tutto con la tecnocrazia e non si pensa più a coltivare l'arte della gestione del potere.
#455
Citazione di: anthonyi il 12 Settembre 2016, 12:09:34 PM
Direi che sono per la realpolitik, i vincoli morali sono un problema per il politico, consideriamo quando devi contrattare con un dittatore, magari con uno che cerca di avere la bomba atomica, non conviene apparire rispettosi di principi, ma è meglio apparire temibili e vendicativi. In politica i vincoli morali si pesano, quello che è importante è avere una strategia che pesi i vincoli insieme alle opportunità. Un altro esempio è l'atteggiamento nei confronti degli immigrati, apparire disponibili ad accogliere per ragioni umanitarie implica un'esplosione del fenomeno e di tutti i problemi connessi, essere duri comporta invece una riduzione del fenomeno.
Giustamente i grandi dittatori leggevano Macchiavelli, il problema e che gli altri politici lo fanno troppo poco. :'(  :'(  :'(
Purtroppo, penso io, l'etica è si una cosa fondamentale, ma si muove nel campo dell'astratto. I principi etici che giustamente appaiono indubitabili nella loro accezione concettuale, ovvero giustizia, libertà, uguaglianza, ecc., poi quando devono essere applicati, fanno i conti con l'imperfezione della realtà. Certamente conta la visione, ma anche il fine che adotta come mezzo tale visione. Un conto è essere macchiavellici per perseguire scopi egoistici, un conto è esserlo in quanto aventi una visione disincantata del mondo, dove per risolvere i problemi occorre ricorrere al vituperato cinico pragmatismo. Non per soddisfare una latente brama di potere, ma per essere in grado, con occhi disincantati,  di scegliere, nel caso, il male minore.
#456
Il Principe di Machiavelli, è un vademecum della realpolitik, oppure un faro sul lato oscuro della natura umana? Si dice che Mussolini, Hitler e Stalin non andavano a letto la sera senza aver letto un qualche passo del principe, un po' come fa il buon cristiano con la bibbia. È anche vero che c'è chi ha scritto  "l'antimachiavelli", ovvero Federico il Grande con la supervisione non di meno che di Voltaire, le cui azioni però risultarono poi assai poco anti-machiavelliche.
Realpolitik significa politica che mira dritto allo scopo, preoccupandosi in secondo luogo o affatto dell'etica. Una interpretazione del Principe, la più condivisa, è quella del Macchiavelli funzionario caduto in disgrazia, che offriva di mettere la propria astuzia e spregiudicatezza politica al servizio di un qualche signore potente dell'epoca. Ma c'è anche l'interpretazione di Rousseau, il quale intimava ai suoi contemporanei di smettere di indignarsi per quell'opera, perché in essa vi è lo specchio della natura umana. Homo homini lupus, direbbero i latini.
#457
Citazione di: paul11 il 11 Settembre 2016, 01:40:52 AM
Maral,
vuoi dire che se la logica formale non è certezza, pensavi che la linguistica lo fosse?Nulla mi insegna di più di ciò che già sapessi Deridda e compagnia briscola. mai avuto illusioni di CERTEZZA nel mondo  e come umano ma questo me lo ha insegnato prima la religione e solo nel Novecento filosofie, logiche, linguistiche si autodistruggono comprendendone il limite.
Io non mi fermo alla logica formale che trova le verità e falsità da semplici confronti proposizionali  e quindi particolari, questo perdersi in infiniti ambiti di sottosistemi di intellettuali non mi dicono assolutamente nulla di come è il mondo e l'essere.

Ma proprio perchè la potenza non implica nessuna verità che sostituisce con il funzionale e l'utile che la filosofia è ridotta oggi a chiacchiera, ma proprio perchè è stata a sua volta potenza quando si è illusa di trovare nell'uomo e nel mondo la CERTEZZA.

Phil,
non stiamo parlando di intellettuali al tempo di Euripide, ma di meno di una generazione fa e praticamente quasi tutti francesi almeno d'adozione.Vuoi che parliamo del livello culturale attuale in Francia? Che cosa hanno prodotto nelle prassi, che testimonianza ci hanno lasciato? Sono persone intelligenti che hanno detto cose anche interessanti: punto.

A Maral, Phil e tutti quanti.
L'uomo si è illuso già dai tempi dei Greci di arrivare a CERTEZZE.
Il conoscere implica la relazione fra un agente conoscitivo e l'oggetto del sapere,Basta che uno dei due o il sistema di relazione sia implicitamente e fondativamente non certo che diventa impossibile che una verità diventi certezza.
La filosofia ha di propria volontà voluto consegnarsi alla scienza e per una semplice ragione Maral, che la prassi è ben più potente della teroretica. Intendo dire che mentre tutti i sistemi non sono certi, l'uomo, la realtà del mondo, i sistemi di relazione e i filosofi piangono il loro destino......il mondo è andato avanti nelle pratiche perchè 2+2=4 e lo era mille anni fa e lo sarà fra un milione di altri anni.
Perdersi nell'analisi della fallibilità umana è autocompiangersi di non arrivare alla verità significa non aver capito che il mondo andava avanti quando l'uomo pensava la Terra fosse  piatta e adesso che spediamo satelliti su Giove,E intanto i problemi nelle prassi umane incancreniscono.
Ho preso atto da decenni che l'uomo è fallibile, la realtà per quello che è non è nemmeno percepibile dai nostri sensi, che la nostra mente può fallire che i sistemi essendo creati da un fallibile non potranno mai dirci nulla di più della nostra fallibilità.  E allora? Intanto la tecnica che utilizza i linguaggi formali funziona ed è utile soprattutto ai potenti, intanto stuoli di cattedratici e arconti della scienze determinano il potere culturale.
Ma come avviene tutto questo se l'uomo è fallibile, come fanno   a sostenere e giustificare le pratiche se postulati ed enunciati sono falliti e tutto è assiomatizzazione?
Noi continuiamo a scrivere e comunicare, nonostante non siano linguaggi certi, Mosè era un balbuziente e si dice parlasse con Dio, De Saussure scriveva del fallimento fra concetto ed espressione fra segno e significato e intanto scalava il Monte Bianco.
Spero che almeno queste metafore siano comprese.
Io mi trovo per adesso benissimo con la logica dialettica che è oltre e le comprende queste contraddizioni.
Quoto molto questo tuo intervento volendo aggiungere, nel caso, che ci furono tempi in cui la conoscenza era considerata più uno stato dell'anima che una questione di nozioni e architetture razionali. Socrate giunse in ritardo al celebre Simposio perché si era perso nelle sue meditazioni. Platone ha poi idealizzato Socrate e anche un po' tradito, perché il primo predicava l'interiorità, la scoperta dello stato di grazia dell'anima attraverso la catarsi del dialogo. Platone invece col mondo delle idee ha proiettato la ricerca della realtà al di fuori dell'animo umano. Opera completata da Hegel che col titolo Fenomenologia Dello Spirito, colloca il sapere dell'anima sotto la lente scientifica, sistematizzando anche questo ambito. Così la nostra conoscenza più intima, quella che ci tocca più nel profondo, diventa anch'essa un ingranaggio strutturato, soggiogato dalle leggi spazio-temporali. La comunicazione della conoscenza dello spirito non è un aggregato di
proposizioni vero/falso, dove una minima imprecisione fa crollare tutto il sistema. A differenza della comunicazione sistematico-razionale scientifica basata sulla scrittura, la comunicazione della conoscenza spirituale basata sull'oralità è  molto più flessibile. Il suo scopo è individuare un sentimento e comunicarlo, e non una composizione di domino dove basta spingere una tessera per farle cadere tutte.
#458
Citazione di: maral il 17 Luglio 2016, 11:04:36 AM
Riprendo qui una parte del discorso di Jean, in "Percorsi ed esperienze", "La nostra riserva indiana...":

CitazioneScienza..?
Noi comperiamo 1,300.000.001 (l'uno finale è il mio, però almeno quadriennale...) smartphone all'anno, usiamo il pc quotidianamente (o quasi), abbiamo sotto gli occhi le devastazioni crescenti a causa di cambiamenti climatici... e Fukushima, dove una lega di uranio e zirconio (corio) da 700 tonnellate fondendo dopo il vessel d'acciaio di 20 centimetri anche i quattro metri di calcestruzzo sottostante... è sprofondato e scende... e se incontra un deposito d'acqua... preghiamo che non accada...

Comunque scienza è anch'essa un viaggio... tra poche ore Juno se tutto andrà bene entrerà in orbita attorno a Giove... ma l'avete visto 2001 odissea nello spazio? Un gigante gassoso, un potenziale (secondo qualcuno) secondo sole... e le foto delle galassie, delle nebulose (la mia preferita, l'occhio di gatto della mia icona...), dei pianeti... e Curiosity, il rover della Nasa su Marte che si avvicinerà per documentare a mezzo fotografie la presenza dell'acqua, altro che ipotesi di vita extraterrestre...
Partendo da qui vorrei porre la seguente questione: ci rendiamo conto (e in che misura ciascuno di noi) dell'impatto enorme che hanno sul nostro modo di pensare, di concepire il significato di noi stessi e del mondo, le scoperte scientifiche e gli stessi strumenti tecnologici che utilizziamo? Oppure pensiamo che la tecnologia che usiamo è indifferente, che potremmo pensarla e comunicare (influenzandoci reciprocamente) esattamente allo stesso modo con o senza di essa, che questa strumentazione elettronica che abbiamo davanti non ha alcuna influenza sul nostro "spirito" e dunque sul nostro modo di dialogare, pensare, credere, sperare o disperare?
Lo chiedo perché ritengo che sia fondamentale capire il ruolo dello strumento tecnologico (a partire dall'età della pietra) nella percezione prima o poi inevitabile del significato delle cose, ben più che in quello di una descrizione con pretese "oggettive" (nel senso di indipendente dalla posizione dell'osservatore) della loro realtà. 
Jean, ha ragione, gli strumenti tecnologici ci mettono in viaggio, e nel viaggio il panorama di cui partecipiamo muta e muta sempre più rapidamente e, che lo vogliamo o no, in questo panorama noi finiamo sempre con il finirvi inclusi, qualsiasi intima resistenza o ragione ci illudevamo di poter porre a questa inclusione per conservare un rifugio stabile per lo spirito.   
Credo che il discorso sulla tecnologia debba avere degli spartiacque. C'è la tecnologia primitiva degli utensili, lo sviluppo della meccanica dei romani grazie alle scienze dei greci, poi le invenzioni che rivoluzionarono il mondo. La polvere da sparo nel '300, la stampa nel '500, il metodo scientifico nel '600, il motore a vapore e l'energia elettrica nel '700, la fotografia e il telegrafo nell'800, fino ad arrivare al '900 con le automobili ed il computer. Ecco, qui c'è lo spartiacque fondamentale. Perché prima dell'avvento dell'informatica, tutte le nuove rivoluzioni tecnologiche potevano essere assimilate dall'uomo, perché per quanto una macchina potesse lavorare meglio, all'essere umano rimaneva sempre la prerogativa del pensiero. Ma i computer ci hanno sbattuto in faccia una pretesa arrogante: non solo le macchine lavorano meglio di noi, possono addirittura pensare meglio di noi. Così vedo l'uomo smarrito del ventunesimo secolo, sbattuto fuori dal suo regno. Quello del pensiero.
Ma non è solo questione di macchine che pensano al posto dell'uomo, è la tecnocrazia che ha sostituito la democrazia.
#459
Tematiche Filosofiche / Re:Perché fare filosofia?
29 Agosto 2016, 15:29:39 PM
Sgiombo: "Se non si crede nell' esistenza di un' anima soprannaturale, immortale non necessariamente si cade nel relativismo (in fatto di etica, come suppongo intenda):
per me non é affatto vero che "se Dio é morto tutto é lecito"

La coscienza e l' autocoscienza sono fatti reali, che si può magari cercare di ignorare, ma non annulare".

.............................


A me risuona ancora nelle orecchie una frase di Pavlov, secondo cui il concetto di anima per lo scienziato è un fastidio. È un fastidio, presumo, perché lo scienziato non può spiegare l'anima, e nemmeno partire da solide basi cui applicare il suo metodo e giungere a teoremi e dimostrazioni. Per Pavlov la personalità umana è questione di riflessi, riflessi condizionati, associazioni e abitudini. Io sono anche d'accordo con Pavlov sul fatto che l'anima non sia materia scientifica, ma non sul fatto che l'approccio scientifico sia l'unica lente da cui osservare i fenomeni umani. L'anima emerge dall'arte, dalla letteratura, da quella parte dei rapporti umani che è difficile esprimere col linguaggio e filtrare con la logica. Io non credo che tu neghi l'anima, infatti parli di coscienza e autocoscienza. Sono concetti solo più tecnici, ma che si riferiscono allo stesso problema: dare un senso alla vita, al fatto che sto pensando, a quella faccia che vedo allo specchio, alla voce del mio discorso interiore che non mi abbandona mai. Certo, la logica non può dimostrare l'esistenza o meno dell'anima. La logica inizia a funzionare dal punto in cui si dice l'anima esiste o dal punto in cui si dice che non esiste. La logica funziona in entrambe le prospettive. Però qui non si tratta di dare un senso giusto o sbagliato, prerogativa, questa, della logica. Si tratta di dedurre intuitivamente un senso in quanto valore, non misurabile in termini quantitativi, ma in quanto riconosciuto da quella parte di noi che giudica ad un livello più profondo di coscienza. Oppure, per farla breve, l'anima può esistere o non esistere, ma per me la vita è il mondo hanno più senso se faccio come se esistesse. Il punto è se per quelli secondo cui l'anima non esiste la vita abbia un senso oppure no. Non dubito che l'abbia per te e per quelli che come te non si soffermano alla superficie delle cose. Ma una volta che il mondo, come inconscio collettivo, intuisce che può fare a meno di questa presenza fastidiosa dentro di sé, il senso lo trova? Se non lo trova, vive alla giornata. Se lo trova, come nel tuo caso, si ritrova con un senso non facilmente condivisibile con altri, sicuramente non universalmente condivisibile. Perché l'anima ha un suo significato tradizionalmente condiviso, venendo meno questo si cade nel relativismo. Ma il relativismo cos'altro è se non individualismo? E l'individualismo, se da un lato promuove la creatività e ci permette di giungere a conoscenze che migliorano enormemente le nostre vite; d'altra parte ci porta inevitabilmente a rompere con i valori tradizionalmente condivisi. Quello fra individualismo (o relativismo) e perdita dei valori (tradizionalmente condivisi: etica, giustizia, pace, solidarietà, libertà, ecc..) pare un conflitto perenne che non si vede come possa spegnersi.  E mi fermo qui, con in mente Eraclito e l'armonia dei contrari.
#460
Tematiche Filosofiche / Re:Perché fare filosofia?
28 Agosto 2016, 08:20:13 AM
Citazione di: Phil il 27 Agosto 2016, 20:53:16 PM
Citazione di: cvc il 27 Agosto 2016, 19:00:44 PMassumere un atteggiamento, un modo di pensare troppo astratto che faccia perdere di vista l'importanza pratica del filosofare
Questa considerazione mi ha fatto venire in mente due episodi, riguardanti Talete, che ben descrivono i due stereotipi della filosofia, quello della "testa fra le nuvole":
«Come successe a Talete, o Teodoro, che mentre osservava le stelle e guardava in alto cadde in un fosso, ed una serva tracia, si dice, si burlò di lui molto spiritosamente, domandandogli come potesse pretendere di osservare le cose del cielo quando non sapeva vedere quel che aveva davanti ai piedi»
(Platone, Teeteto)

e quello della "saggezza", anche in senso pratico:
«Raccontano dunque che qualcuno, rinfacciandogli la sua povertà, asserisse che la filosofia non era di alcuna utilità pratica; allora Talete, che, grazie alle sue conoscenze astronomiche, prevedeva una grossa raccolta di olive, prese in affitto fin dall'inverno i frantoi di Mileto e di Chio a condizioni vantaggiose perché nessuno ne offriva di più, dando come caparra un po' di denaro di cui disponeva. Al momento opportuno, quando la richiesta divenne forte e urgente, li cedette di nuovo al prezzo che voleva e ne trasse molto denaro» (Aristotele, Politica)

In entrambi i casi il filosofo ha scrutato il cielo, ma quanto è stato differente il risultato!  ;D
La filosofia sembra aver perso proprio la ricerca della saggezza, e il filosofo è diventato un cumulo di conoscenze. Per cui la cosa importante è aumentare la propria cultura e non la capacità di trarne frutto. Anche perché o si pensa che esiste un anima o ci si perde nel relativismo, quindi anche il frutto (il bene) è sempre un qualcosa contingente ed effimero. E la conoscenza pare sempre più impegnata a cercare di dimostrare che non esiste un'anima, concetto anacronistico per la civiltà della tecnica. Al massimo si riconosce l'esistenza di una coscienza, ma anche questa appare come una concessione provvisoria, in attesa che si trovi un algoritmo che ci liberi anche da quest'altra presenza imbarazzante.
#461
Tematiche Filosofiche / Re:Perché fare filosofia?
27 Agosto 2016, 19:00:44 PM
Penso si debba fare filosofia per imparare a pensare in modo ordinato, per far sì che la propria mente non sia un guazzabuglio di idee che cozzano l'una contro l'altra. Poi il termine filosofia si presta a varie interpretazioni e usi. Il pericolo maggiore, sempre secondo me, è quello di assumere un atteggiamento, un modo di pensare troppo astratto che faccia perdere di vista l'importanza pratica del filosofare: la serenità che ne deriva. Poi c'è anche chi vive la filosofia in senso drammatico, la filosofia è proprio questo: la libertà di estrarre il senso delle cose districandosi nella jungla dei pre-concetti.
#462
Il mio discorso voleva partire da delle premesse prese per vere senza un esame troppo rigoroso ma che, credo, se non altro intuitivamente, abbia ragion d'essere. Tali premesse sono l'aumento di violenza nella nostra società ed una certa influenza della psicologia in tale fenomeno. Ovviamente, se cadono le premesse, cade anche il resto del discorso. Proverò quindi a dire qualcosa in più riguardo a tali premesse, cosicché si possa attaccare o difendere la tesi del fallimento dell'attuale psicologia, agendo su ciò che la sostiene.
Riguardo all'aumento della violenza nella nostra società, piuttosto che tanti esempi, mi limiterò a pochi, per quanto cruenti (e un po' anche per pigrizia). Ritornando indietro a 10/20 anni fa, mi vengono in mente casi di omicidi familiari che travolsero letteralmente la quiete delle nostre coscienze. Parlo dei casi di Erika ed Omar o quello di Pietro Maso, per esempio. Allora si aveva l'impressione di assistere ad una brutalità mai vista, tanto più in quanto rivolta ai componenti stessi della propria famiglia, e per futili motivi oltretutto. Ricordo lo sgomento di quei momenti, gli stati d'animo agghiaccianti, la fatica di psicoterapeuti e uomini di chiesa nel trovare le parole giuste, per mettete insieme un barlume di spiegazione (infatti la mente umana pare temere assai più ciò che non può comprendere rispetto a ciò che, seppur cruento, riesce a motivare). Ora invece, senza fare la storia del crimine, fatti di analoga efferatezza (poco importa se invece dei genitori ora si preferisce ammazzare i partner sentimentali o addirittura i figli) ci lasciano quasi indifferenti.
Per quanto concerne invece l'influenza della psicologia, in quanto scienza applicata, su tale escalation, anche qui preferisco prendere un punto su tutti, per quanto possa anche non essere il più importante. Mi riferisco alla spettacolarizzazione della violenza attraversi i media che rendendoci assuefatti alla vista del sangue (poco importa se vero o finto, la mente in virtù di "fare come se" citato da Jung, ad un certo strato di coscienza non fa differenza), ci rende indifferenti ai crimini. E di fatti nella maggior parte degli omicidi per futili motivi si sente parlare della totale insensibilità dei carnefici. Ora, mi domando, di fronte a questo inquietante spettro della spettacolarizzazione della violenza, forse ancor più vile di quella degli antichi anfiteatri romani, il silenzio degli psicologi al riguardo è assordante. Si è mai sentito uno psicologo affrontare a spada tratta il problema? Forse sono sordo io.
Ma credo anche che se la psicologia studia tutti i fenomeni psichici separatamente, senza trovare quel trade d'union che si chiama anima, può muoversi solo nella limitata coerenza dello spazio offerto dal singolo fenomeno (per quanto analizzato statisticamente), e non in quello assai più vasto e potente del senso.
#463
Citazione di: Jacopus il 03 Agosto 2016, 23:50:43 PM
CitazioneBuongiorno Jacopus. La psicologia non è solo nel rapporto medico-paziente, il quale è per altro facilmente verificabile, nel senso che si può vedere se una certa cura è efficace o meno nel guarire una certa malattia diagnosticata, in modo che il successo o meno di una cura ne decreta la validità. Ma è estremamente riduttivo limitare l'influenza della psicologia al solo ambito medico. La psicologia permea ogni ambito della nostra vita: la formazione nel lavoro, la persuasione nelle nostre scelte economiche, le indagini che riguardano la giustizia, la formazione dei giovani. In particolare, la psicologia con le sue teorie è salita in cattedra quanto al ruolo di educatrice. Fino a poco tempo fa, l'educazione dell'individuo era suddivisa fra il ruolo dei genitori e quello della scuola. I genitori si preoccupavano che i bambini fossero educati nel senso in cui intendeva la tradizione tramandata di generazione in generazione: rispetto dei più grandi, della legge, saper fare di conto, un certo senso del pudore. Alla scuola spettava invece il ruolo di istruire il giovane, educarlo alle lettere e alla scienze, dando per scontato che i valori della tradizione infusi dalle famiglie fossero dei buoni valori. Ora però, se non è una mia impressione, il fatto di conoscere in modo teorico questo o quel meccanismo psicologico autorizza l'educatore istituzionale a dare ai giovani messaggi prevaricanti nei confronti dei genitori. Ad esempio un insegnante potrebbe illustrare agli alunni una tale nuova valida o presunta teoria psicologica di cui gli indaffarati genitori sarebbero ignari, e questo suona come un dire "avete visto? I vostri genitori sbagliano perchè non sanno...". Dopodichè l'alunno solerte se ne va a casa a psicanalizzare il padre o la madre, e la reverenza genitoriale se ne va a farsi benedire. Senza dire che la validità della tale teoria resta tutta da verificare, dato la difficoltà della sperimentazione (a volte ridixola in quanto basata su simulazioni e non sulla realtà, dove l'onestà di chi si offre alla sperimentazione è tutta da vedere) in ambito psicologico. Appunto, chi dice, ad esempio, che la condiscendenza nei confronti dei giovani irrequieti e prepotenti - tesi che mi pare vada per la maggiore in ambito educativo – sia realmente efficace? E che un genitore che da un sano scapaccione sia un criminale?
Sulla maggiore violenza nelle altre epoche ho già detto, basterebbe senza andare troppo lontano, leggere le statistiche sui reati di inizio XX secolo per essere ben contenti dei nostri "pochi" omicidi quotidiani. Ma la differenza e che ora, rispetto ad allora, il tasso di istruzione è molto più alto, come lo sono il reddito pro capite e le condizioni generali di vita. La psicologia dovrebbe fors riflettere anzitutto sull'origine del proprio nome. Psiche significa non solo mente, ma mente in quanto sede dell'anima. Il concetto di anima dovrebbe essere centrale quando si parla di individuo, di personalità, di formazione. E non di una vuota ed astratta giustapposizione di meccanismi psicologici.

RIparto da qui perchè poi il discorso ha preso le vie più disparate. E' vero, la psicologia si è frammentata: esiste lo psicologo del lavoro, lo psicologo di comunità, lo psicologo applicato alla pubblicità e all'industria, lo psicologo sportivo, lo psicologo sociale o socio-psicologo il criminologo e così via. Le specializzazioni così settarie sono un aspetto della rivoluzione industriale e non riguardano solo la psicologia. Forse solo la filosofia più astratta, l'arte e la religione riescono ancora ad avere uno sguardo "olistico".
Poi, CVC, ti concentri sul ruolo educativo della psicologia. Ovviamente esiste anche una psicologia declinata alla pedagogia, ma il campo del sapere umano che si dovrebbe interpellare è appunto la pedagogia e non la psicologia. Semplicisticamente la psicologia ha come oggetto la dialettica continua fra interno/esterno: quelli che tu chiami anima, si può chiamare coscienza, Io, identità. E' quell'insieme di sensazioni e di percezioni che ci fa dire io esisto, che ci mette in contatto con la parte più oscura della nostra esistenza, con il "Perturbante", con il significato della vita, con la morte, con il futuro, con la speranza, con i sogni. E' il nostro interno. Una parte che esisterebbe anche se fossimo soli su un'isola deserta. Quell'interno però dialoga continuamente con una comunità di soggetti, anche nell'isola deserta. Quando uno dice "cosa farebbe mio padre al mio posto", mette in atto questo dialogo continuo fra interno ed esterno.
La pedagogia è più rivolta all'esterno, al comportamento a come rendere funzionali le persone e farle vivere serenamente in società. Ed è una certa pedagogia degli anni '60 quella che ha fatto sì che si creasse questa "leggenda" del permissivismo. Esistono studi anche sulla cosiddetta pedagogia "nera", ovvero quella pedagogia fondata sulla sottomissione al pater familias, tipica del mondo occidentale fino a due generazioni fa.
Quella pedagogia è stata considerata anche una facilitatrice dello scoppio delle guerre mondiali. Guarda in proposito il film "il nastro bianco" di Michail Haneke premiato a Cannes se non ricordo male qualche anno fa.
Sono però d'accordo con te quando dici che questo mondo è "permissivo", ma non sono gli psicologi o i pedagogisti a volerlo. Tutt'altro: se leggi Freud ti rendi conto ad esempio che per lui l'abnegazione e il senso del dovere che potevano portare al miglioramento della società sono esattamente il contrario del permissivismo. La tanto nota teoria del Super-Io, una sorta di vigile urbano interno che ci dice continuamente "ti arresto se non fai come dico io" (sto semplificando) mi sembra esplicativa. Il permissivismo nasce da una esigenza economica: se ascolto il senso del dovere magari penso a risparmiare per i miei figli o per me stesso. Posso iniziare a pensare che consumare troppo inquina il mondo. La società è invece permeata di valori no-limits, dove occorre raggiungere la performance, consumare, sfogarsi, sfrenarsi, drogarsi di sostanze, di automobili, di soldi, di nasi rifatti, di tatuaggi. Tutto va permesso perché tutto va consumato.
Secondo punto. Occorre però anche superare, a mio avviso, una pedagogia del "rispetto dei grandi" come scrivi. Il rispetto, anche i grandi, se lo devono conquistare sul campo. Altrimenti cosa cambia fra il rispetto dovuto e la raccomandazione o il sistema feudale? Una pedagogia moderna insegna anche ad avere una visione critica delle cose, a capire "cosa significano le posizioni dei soggetti, delle classi, quali sono i nostri diritti e quelli degli altri ed anche i nostri doveri e quelli degli altri".
Tutto questo, nello stesso tempo, non significa neppure che un insegnante si deve far bello e dire agli studenti "fatevi beffe dei vostri ignoranti genitori". Avrebbe molto più senso allora fare degli incontri con i genitori per informarli a seguire delle linee, tipo "Sos Tata". Ad ogni modo dalle cronache si legge di solito esattamente il contrario: sono i genitori che si fanno beffe o sono aggressivi nei confronti di quegli insegnanti che magari vorrebbero sequestrare i telefonini, o non vedere le studentesse in classe con pantaloncini-mutanda o vogliono impartire qualche simulacro di regola.
Gli insegnanti spesso sono stanchi di predicare nel deserto, di fronte ad una società che si fa beffe della cultura e che valuta le persone da quando guadagnano e non da quanto sanno e allora si ritirano, diventano indifferenti. Evitare di dover far rispettare le regole è più semplice per tutti, del resto, ma scaricare la croce sulla psicologia o sulla pedagogia o sugli insegnanti mi sembra davvero simile alla ricerca di un capro espiatorio ideale per problemi strutturali che permeano la nostra società da  almeno 70/80 anni.
L'ultimo mio pensiero è rivolto allo scapaccione. Se penso a me stesso posso dire di aver ricevuto tante sane botte da mia madre con il battipanni, con le mani, con gli zoccoli e sono cresciuto anch'io più o meno normale ma ai miei figli ho dato qualche scapaccione solo fino a tre/quattro anni, perchè a quella età i discorsi talvolta non servono. Poi ho adottato le punizioni che continuo ad adottare tuttora: telefonino requisito, non si esce il sabato, paghetta dimezzata, e così via, spiegando anche il senso di quello che si fa e concordando con mia moglie la strategia prima. Insomma non credo che le botte siano necessarie, mentre le punizioni sì e proprio le punizioni sono avversate da questo sistema, perché significa che magari non faccio il regalino, non compro il motorino, non prendo il pantaloncino....
(Scusa per il ritardo, anche se può sembrare strano essere indaffarati in questo periodo)

Certo, si può parlare solo di coscienza e seppellire il problematico concetto di anima, come in effetti si sta facendo, ma questo significa anche buttare alle ortiche oltre 2000 anni di tradizione culturale occidentale. Nessuno dice che non ci si debba evolvere e staccarsi dalle tradizioni quando risultano antiquate. Però, se più di 2 millenni della nostra cultura si reggono sul concetto di anima, togliendo ora questa pietra angolare, si sprofonda nel vuoto. Tanto più che non si parla di elaborare, modificare o sostituire questo concetto, ma di asportarlo e mascherarne l'assenza allargando quello di coscienza. Se togli il concetto di anima, crollano 2000 anni di cultura. Se si trattava di un castello di carte, poco importa. Ma se, al contrario, il nostro retroterra culturale è qualcosa di solido, allora stiamo precipitando nel vuoto. E credo tu indovinerai per quale delle due tesi io propendo.
Certo, la psicologia  ha detto molte cose interessanti. Ma a che mi servono se non ho un'anima da salvare? A che mi servono se ho solo una coscienza che mi spiega che i demoni che ho in me sono solo fantasie più o meno spiegabili, ma che la vita sembra avere molto più senso se li considero reali, se penso cioè che ci sia un demone benigno da guadagnare e uno maligno da evitare?
E come mai, tornando al tema, ci si ammazza per cose da due soldi? Dov'è la nostra anima? Abbiamo fatto come i soldati che per fuggire meglio gettano armi e armature, e poi si ritrovano impossibilitati a difendersi da qualsiasi nemico. E nemmeno hanno più qualcosa da vendere per un pezzo di pane. Io non baratto l'anima per una coscienza allargata.
#464
Senza occuparsi dell'anima non si va lontano. Come mi pare dice Socrate nell'apologia, non può essere che ci siano cavalli domati senza che ci siano domatori di cavalli. Ugualmente non possono esserci buoni processi psicologici senza un'anima che li istruisce. Il problema è che la psicologia non è una scienza, è un'arte. E lo stesso vale per l'educazione dell'individuo. L'educazione può insegnare la scienza, ma l'educazione non è una scienza. È un'arte, e l'arte è una manifestazione dell'anima. E un'anima violenta è, se non sempre, nella maggior parte dei casi un'anima indifferente. La scienza tende a eliminare i problemi, in un mondo senza problemi, o con qualcuno che li risolve al posto nostro, la vita è indifferente. Non bisogna delegare i propri problemi agli altri, allo specialista di turno. Occorre qualcuno che ci insegni a combattere, perché vivere è combattere, e non il Mr Wolf di turno che risolve i nostri problemi al posto nostro.


Grazie a tutti per le interessanti risposte.
#465
Citazione di: Jacopus il 02 Agosto 2016, 23:55:42 PMBuonasera CVC. Noto un tono leggermente polemico contro gli psicologi e direi che fai bene ad essere polemico se ti riferisci a quegli psicologi che pensano di avere la verità in tasca e che pontificano e danno indicazioni ai poveri pazienti facendo invece nascere in loro delle intenzioni omicide.
Effettivamente di tanto in tanto capita anche che uno psicologo o uno psichiatra venga fatto fuori da un suo paziente e quindi c'è del vero in quello che dici.
Però un fenomeno come quello della escalation della violenza ha tante concause e in primo luogo bisognerebbe anche verificare se davvero c'è questa escalation della violenza. Baudelaire più di un secolo fa affermava che i "giornali puzzavano di crimine", perché solo facendoci credere di essere immersi nella violenza riuscivano a vendere qualche copia in più. Nel '500 era molto più facile di ora uscire di casa e non tornare più perché si era incontrato un bravo, un inquisitore, un semplice malfattore. Pensa a Caravaggio. Potresti immaginare un pittore come Andy Warhol che passa la sua vita fra creazioni pittoriche maestose e duelli e omicidi?
Detto questo la psicologia ha molti nemici perché ti mette all'angolo, ti impone di "conoscere te stesso", una frase molto antica, così come molto antiche sono le radici della psicologia. Chi vuole fare bene questo lavoro deve conoscere le basi biologiche del corpo umano, la neurologia ma anche e forse soprattutto la cultura umana, humani nihil a me alienum puto dovrebbe essere il motto degli psicologi.
Quindi a questo punto ho un pò spaiato le carte. Intanto non è detto che vi sia una escalation di violenza e inoltre un pò di psicologia, anche se non si chiamava così, c'è sempre stata.
Continuate voi, se volete....
Buongiorno Jacopus. La psicologia non è solo nel rapporto medico-paziente, il quale è per altro facilmente verificabile, nel senso che si può vedere se una certa cura è efficace o meno nel guarire una certa malattia diagnosticata, in modo che il successo o meno di una cura ne decreta la validità. Ma è estremamente riduttivo limitare l'influenza della psicologia al solo ambito medico. La psicologia permea ogni ambito della nostra vita: la formazione nel lavoro, la persuasione nelle nostre scelte economiche, le indagini che riguardano la giustizia, la formazione dei giovani. In particolare, la psicologia con le sue teorie è salita in cattedra quanto al ruolo di educatrice. Fino a poco tempo fa, l'educazione dell'individuo era suddivisa fra il ruolo dei genitori e quello della scuola. I genitori si preoccupavano che i bambini fossero educati nel senso in cui intendeva la tradizione tramandata di generazione in generazione: rispetto dei più grandi, della legge, saper fare di conto, un certo senso del pudore. Alla scuola spettava invece il ruolo di istruire il giovane, educarlo alle lettere e alla scienze, dando per scontato che i valori della tradizione infusi dalle famiglie fossero dei buoni valori. Ora però, se non è una mia impressione, il fatto di conoscere in modo teorico questo o quel meccanismo psicologico autorizza l'educatore istituzionale a dare ai giovani messaggi prevaricanti nei confronti dei genitori. Ad esempio un insegnante potrebbe illustrare agli alunni una tale nuova valida o presunta teoria psicologica di cui gli indaffarati genitori sarebbero ignari, e questo suona come un dire "avete visto? I vostri genitori sbagliano perchè non sanno...". Dopodichè l'alunno solerte se ne va a casa a psicanalizzare il padre o la madre, e la reverenza genitoriale se ne va a farsi benedire. Senza dire che la validità della tale teoria resta tutta da verificare, dato la difficoltà della sperimentazione (a volte ridixola in quanto basata su simulazioni e non sulla realtà, dove l'onestà di chi si offre alla sperimentazione è tutta da vedere) in ambito psicologico. Appunto, chi dice, ad esempio, che la condiscendenza nei confronti dei giovani irrequieti e prepotenti - tesi che mi pare vada per la maggiore in ambito educativo – sia realmente efficace? E che un genitore che da un sano scapaccione sia un criminale?
Sulla maggiore violenza nelle altre epoche ho già detto, basterebbe senza andare troppo lontano, leggere le statistiche sui reati di inizio XX secolo per essere ben contenti dei nostri "pochi" omicidi quotidiani. Ma la differenza e che ora, rispetto ad allora, il tasso di istruzione è molto più alto, come lo sono il reddito pro capite e le condizioni generali di vita. La psicologia dovrebbe fors riflettere anzitutto sull'origine del proprio nome. Psiche significa non solo mente, ma mente in quanto sede dell'anima. Il concetto di anima dovrebbe essere centrale quando si parla di individuo, di personalità, di formazione. E non di una vuota ed astratta giustapposizione di meccanismi psicologici.