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Messaggi - davintro

#451
l'essere favorevoli o contrari al vincolo di mandato rimanda a una questione classica e più ampia: la politica è un mestiere o no? Cioè, il fare politica, cioè il saper adeguatamente rispondere alle istanze della comunità presuppone delle doti particolari, un certa formazione culturale, gli inglesi direbbero background, oppure è sufficiente un sapere generico, tanto che a fare carriera politica in modo più o meno brillante, si sono succeduti economisti, avvocati, imprenditori, filosofi, persino calciatori... Nel primo caso il vincolo di mandato andrebbe respinto in quanto sovrapporrebbe alla necessità per un politico di prendere decisioni impopolari ma giuste, decisioni che fanno nel lungo periodo bene alla comunità, ma che la comunità potrebbe nell'immediato non capire, gli umori e gli istinti spesso irrazionali della maggioranza. Nel secondo caso invece sarebbe necessario introdurre il vincolo: cioè nel momento in cui viene negata alla politica un proprio sapere specifico che ne funga da base, l'unico criterio per valutare il bene della politica è il consenso maggioritario quantitativo, dunque se un politico finisce con l'agire in contrasto con il programma con cui è stato eletto a maggioranza allora tradisce il mandato con gli elettori e dovrebbe essere rimosso. Personalmente pur avendo dubbi sulla legittimità della definizione di "mestiere", credo che la politica un proprio sapere tecnico specifico lo abbia, che non possa essere fatta da tutti, (se così non fosse non ci sarebbero politici migliori di altri, che cosa farebbe la differenza?) che spesso le decisioni migliori finiscono con l'essere quelle nell'immediato più impopolari, e quindi che sia necessario, nella dinamicità delle situazioni storiche, che un politico si trovi costretto a modificare il proprio programma elettorale iniziale per garantire il bene comune in modo più efficace che una rigida fedeltà a quel programma, oppure il politico può valutare a posteriori che alcuni punti di quel programma iniziale era in partenza errato e quindi cerchi di approntare delle modifiche. Senza contare che potrebbe essere lo stesso corpo elettorale a cambiare idea rispetto al programma che aveva inizialmente sostenuto a maggioranza, e in questo caso sarebbe proprio la fedeltà al programma che condurrebbe il candidato a non essere più rappresentativo della volontà popolare! Insomma  il vincolo di mandato sarebbe un'inutile stress che intralcerebbe il lavoro del politico che consiste nel prendere decisioni che sono razionali ma a volte impopolari. Io credo che regolari elezioni al termine di un intero mandato, 4 o 5 anni, sia un compromesso sufficiente tra due princìpi entrambi basilari in una democrazia matura, rappresentatività da un lato e rispetto di alcune competenze che il politico dovrebbe possedere e che potrebbero portarlo ad agire per il bene comune meglio di quanto potrebbe nell'immediato concepire la maggioranza della comunità dall'altro. 4, 5 anni dovrebbero essere un periodo sufficiente perché il popolo possa rendersi contro in modo sufficientemente razionale delle competenze di chi ha eletto, un buon equilibrio che eviti gli errori estremi e tra loro opposti della demagogia e della tecnocrazia
#452
Percorsi ed Esperienze / Re:La (mia) fuga
08 Aprile 2017, 02:30:49 AM
in linea generale direi che la fuga, in una certa accezione, non vada vista come vigliaccheria, bensì come espressione di un dato reale fondamentale, la libertà della persona, l'idea di una singolarità irriducibile all'identificazione della persona nei vari ruoli sociali, in cui si trova a vivere, familiari, lavorativi, politici..., si fugge nel momento in cui si avverte che una certa situazione, un certo ruolo ci sta stretti, ci sembra che pretenda di assorbire una carico eccessivo di energie interiori, pretenda di identificarsi totalmente con il nostro Io, senza che l'Io non potrebbe più riconoscersi come autentico anche in altri contesti, e la libertà si ribella a ciò. E allora si sente il bisogno di stare soli, concentrarsi in se stessi per ritrovare piena consapevolezza delle proprie qualità individuali, e partire da tale consapevolezza rientrare nel "mondo", cercare di esprimere in modo nella maggior pienezza possibile noi stessi. Il sogno stesso è un'altra espressione di questa irriducibilità del soggetto ad ogni situazione oggettiva, immaginiamo perché percepiamo lo scarto tra le potenzialità interiori del vivere e il vivere come fatto reale, che non ci appaga, e questa insoddisfazione è la ragione del nostro essere dinamici e creativi. Ecco che questi tre concetti, distacco, sogno, solitudine finiscono con l'essere tra loro legati e implicati Da un certo punto di vista allora, meno male che ogni tanto si "fugge", si sogna, si sta da soli! La fuga diviene condizione paralizzante nel mom.ento in cui paralizza l'azione, ci porta a distaccarsi da un certa situazione ritenuta oppressiva senza però lasciare che l'Io, dopo essersi raccolto in sé stesso, ritrovi l'energia sufficiente per reagire e a trasformare la realtà adeguandola ai propri valori. La fuga è l'elemento "notturno", negativo della nostra libertà, la pars destruens, necessaria ma insufficiente, che richiede di essere seguita dalla fase positiva, la pars costruens nella quale riusciamo a realizzare in forme concrete la nostra personalità, il nostro talento che ci caratterizza come singolarità dotata di un'interiorità irriducibilmente libera rispetto alla società e al mondo esterno, una nuova "mattina" che segue alla notte.
#453
Dal mio punto di vista il rifiuto del riduzionismo è legittimabile prima di tutto in sede epistemologica, cioè nella necessità di ammettere un soggetto attuale cosciente come condizione di ogni presa di posizione scientifica, comprese le prese di posizioni riduzioniste. La strategia argomentativa più critica e seria è, come sempre, ammettere in via ipotetica una tesi e rilevarne l'assurdità o quantomeno le incongruenze delle conclusioni a cui si giunge seguendo la coerenza interna della tesi. In particolare, ad interessare è la dialettica soggetto-oggetto. Non esiste scienza senza l'uomo, cioè senza un Io cosciente che si dirige intenzionalmente verso gli oggetti, i temi che a tale scienza interessano. La posizione riduzionista (e materialista) di identificare la coscienza come una semplice conseguenza di eventi fisici neuronali di per sé necessari e sufficienti per la produzione della mente, è una posizione frutto, a sua volta, dell'attività della coscienza, soggetto della conoscenza del cervello. La posizione riduzionista fa coincidere il soggetto che la rende possibile e attuale, l'Io cosciente, con il suo oggetto di indagine. Quanto è legittima tale operazione? Nella dialettica soggetto-oggetto il primo termine costituisce una condizione di attività, dinamicità, l'essere soggetto è ciò che mi porta ad agire, essere responsabile di eventi causali, io penso, io agisco, io ballo ecc., il secondo una condizione di passività, ciò che subisce l'attività, io colpisco la palla, io in quanto soggetto agisco, la palla, in quanto subisce l'azione è l'oggetto. Dunque il riduzionismo considererebbe la coscienza, soggetto delle sue stesse prese di posizione, come un oggetto fra gli altri, scambiando l'attivo per il passivo, il dinamico per lo statico, lo statico che fermo attende una mente che si rivolga dinamicamente verso di lui è lo interpreti. Una "riduzione", dunque, ridurre l'attivo al passivo, di fatto fraintendendolo necessariamente.

Eppure il riduzionista potrebbe trovare una difesa dall'accusa rivendicando, non senza ragione, la distinzione tra piano logico-formale e ontologico-materiale: potrebbe cioè rivendicare il carattere meramente astratto e concettuale della distinzione soggetto-oggetto da cui sarebbe scorretto dedurre una distinzione ontologica, reale, tra ciò che consideriamo oggetto di studio scientifico, il cervello, e il soggetto dello studio, la coscienza. Dunque l'identificazione materiale delle due cose dovrebbe ancora reggere. Questa difesa non è del tutto insensata. Effettivamente la stessa cosa può essere, per aspetti diversi soggetto ed oggetto. Se gioco a calcio in una giornata ventosa sono contemporaneamente "soggetto" ed "oggetto", soggetto attivo che calcia la palla, ed oggetto passivo colpito dal vento. Una distinzione logica concettuale che non compromette l'unità sostanziale della mia persona. Tra l'altro, paradossalmente, il riduzionista in questa difesa potrebbe trovare una sponda teologica. Ci sarebbe un ente, il cui concetto nella visione teista si pone proprio come coincidenza di soggetto ed oggetto, Dio, Autocoscienza, in cui il soggetto pensante, volente, amante, coincide pienamente con l'oggetto pensato, voluto, amato. Anche qua lo stesso ente rimane identico realmente al di là dell'opposta accezione semantica delle categorie "soggetto" "oggetto". Ma nel piano che qua ci interessa, il piano umano e mondano, su cui si situa il dibattito sul rapporto mente-corpo questa difesa non è valida. Noi siamo uomini, non dei, la nostra finitezza ci impedisce di possedere la condizione di coincidenza soggetto-oggetto. Non siamo Atti puri, ma sintesi di attualità e potenzialità, cioè attività-passività. E ciò che di noi è oggettivabile in una conoscenza scientifica riguarda l'aspetto di potenzialità, di passività, ma in ciò non può rientrare il suo opposto, il nostro carattere di attualità, ciò che si pone come Io, come soggetto, che nel momento in cui lo si pretende di ridurre a oggetto, passività, lo si falsifica e  lo si oscura, in quanto lo si coglie nell'accezione opposta a quella che ne definisce il concetto, l'essenza. La nostra condizione di finitezza fa si chi che in noi non si possa minimizzare la dualità soggetto-oggetto riducendola a distinzione concettuale formale priva di risvolti concreti ed esistenziali. La distinzione resta sempre prima di tutto concettuale, sì, ma ha implicazioni anche ontologici e reali, cioè soggetto ed oggetto in noi corrispondono a distinti elementi della nostra realtà, distinzione che, se non va estremizzata come separazione sostanzialistica, comunque resta una distinzione che dovrebbe impedirci di "ridurre" un elemento all'altro. Il paradosso è che il riduzionismo monista tratta l'uomo come fosse Dio, la realtà dove non esiste distinzione reale tra soggetto ed oggetto, facendo coincidere la coscienza (soggetto che intenzionalmente si dirige verso lo studio di un oggetto dandogli un significato) e cervello (oggetto studiabile dall'esterno); (ma in fondo la stessa teologia cristiana, con un notevole spunto di acutezza filosofica ha considerato, non so con quanta autoconsapevolezza, la distinzione soggetto-oggetto come non puramente formale ma foriera di implicazioni esistenziali, anche in Dio, con l'idea della struttura trinitaria, distinguendo il Padre, soggetto, e il Verbo, contenuto oggettivo della mente soggettiva creatrice, come distinte persone, persone, non solo concetti, seppur all'interno della stessa sostanza, ma tutto questo meriterebbe una discussione a parte ovviamente...). Tutto sta nel concepire il piano logico-formale della distinzione soggetto-oggetto né come separato e indifferente al piano reale-ontologico, né come identico e sovrapposto ad esso, ma pensando i due piani in un rapporto, per dirla alla Michele Federico Sciacca, di "implicanza e distinzione"
#454
Tematiche Filosofiche / Re:Relativismo/Assolutismo
13 Marzo 2017, 01:04:31 AM
Phil scrive:

"Credo che il relativismo praticabile (e praticato) non sia quello radicalizzato (e ridicolizzato) secondo cui quando incontro mio zio, lo guardo e sono portato a dubitare che sia davvero lui... il raffronto con l'oggettività empirica, o modello condiviso di riferimento, non è secondo me il nocciolo del relativismo; il relativismo si palesa soprattutto quando c'è la mancanza dell'oggettività e la soggettività diventa problematica: che quella persona sia oggettivamente mio zio è in qualche modo verificabile, ma a quale oggettività mi appello (o tendo) se devo fare una scelta morale o esistenziale? Se mi riferisco ad una gerarchia di valori assoluti meta-individuale allora non sono relativista, se uso solo ciò che ho momentaneamente a disposizione nella mia prospettiva (senza ignorare il contesto in cui agisco), allora sono relativista (e credo in entrambi i casi non ci sia oggettività da rincorrere asintoticamente...).
In breve, mi pare che il non relativista proietti fiduciosamente la solidità del'oggettività anche in altri domini umani, il relativista è invece più sfiduciato e "sperimentale" (e non giudico il migliore o il peggiore fra i due approcci, cerco solo di rispettarne la differenza... se questo mi dipinge come "relativista", in fondo, non mi dispiace   )."



Non va posta una sovrapposizione fra la dicotomia "relativo-assoluto" e la dicotomia "soggettività-oggettività", una sovrapposizione fra i primi termini fra le due coppie da un lato e tra i secondi fra un altro. Dal punto di vista dei giudizi morali i valori che poniamo come fondativi della nostra coscienza morale e delle nostre azioni, questi valori sono degli assoluti nel senso che essendo per noi i più importanti non possono essere soppiantati da altri, dunque restano come permanenti criteri di giudizio e di azione morale in ogni situazione. Quanto più un'azione aderisce a quei valori tanto più  è reputata morale. Eppure non sono identificabili  con delle oggettività, con dei fatti reali, perché non riguardano l' "essere", ma il "dover essere", sono delle idee regolative in relazione a cui reputiamo una cosa, un'azione, un evento come più o meno morale, ideali, dunque prodotti della mente di un soggetto. Eppure non c'è alcun bisogno per il loro porsi come degli ideali assoluti che siano intersoggettivamente condivisi, né che corrispondano a fatti oggettivi, sono assoluti in quanto l'Io li pone come metro di misura dei suoi giudizi morali e del suo agire in ogni situazione in cui si trova, ma in quanto è l'Io che li pone sono soggettivi, soggettivi ed assoluti. Non si parla di assoluto ontologico, ma assoluto trascendentale, criterio regolativo universale per giudicare il particolare, necessaria funzione cognitiva. Ed anche a livello teoretico, della conoscenza, la necessità dell'associazione assoluto-oggettività non sembra reggere. La contrapposizione fra verità "deboli", opinabili e incerte e verità "forti" che pretenderebbero di essere certe e assolute è solo una contrapposizione fittizia. Ogni opinione è sempre opinione di un Io che la sostiene, che la sostiene indipendentemente dal fatto che le opinioni siano intersoggettivamente condivise o corrispondenti alla realtà oggettiva (altrimenti tutti gli uomini avrebbero le stesse opinioni oppure tutte le opinioni sarebbero vere). Dunque ogni opinione, ogni presunzione di verità è sempre soggettiva, nel senso che è sempre il soggetto a sostenerle. Eppure,  come nel caso della morale, anche qua le opinioni e i giudizi non possono che essere ritenute vere se non come raffrontate a criteri di verità posti come assoluti e universali, posti come validi a prescindere dal contesto particolare. Ogni opinione riferita a stati di cose particolari sono riferimenti intenzionali che presuppongono l'utilizzo di criteri di verità, ideali regolativi di verità in base a cui relazionare l'opinione particolare. La verosimiglianza dell'opinione riguardo lo stato di cose particolare dipende dall'adeguazione di questa con l'ideale di verità che vale come assoluto e universale metro di misura per giudicare le verità particolari. Quanto più un'opinione si avvicina a quell'ideale di verità universale tanto più la mia convinzione della verità dell'opinione si avvicinerà alla certezza,  certezza che dovrebbe essere la meta finalistica di ogni scienza. Quest'ideale è posto da un soggetto, ma posto come criterio assoluto, valido per ogni contesto in cui mi trovo a giudicare delle verità particolari, altrimenti sarebbe suscettibile di essere squalificato da altri criteri, cessando di essere fondativo del giudizio: così come non posso reputare come giusta un'azione se non raffrontandola a un'ideale regolativo di giustizia, che colga l'essenza del concetto di giustizia, così non posso reputare vera un'affermazione se non raffrontandola a un'ideale di verità, che coglie l'essenza del concetto di verità e non c'è alcun bisogno che tale ideale rispecchi davvero la verità oggettiva del reale perché venga utilizzato come un assoluto da un soggetto. L'autocontraddizione del relativismo sta nel fatto che le opinioni che esprime presume di averle in assenza di tale criterio assoluto di verità in base a cui riconoscere le verità di esse, finendo con il considerare tali opinioni, assurdamente, come al contempo "vere" e non vere". Quindi i criteri di giudizio sono  soggettivi ed assoluti, in due sensi distinti e non contrastanti, che ho provato maldestramente a spiegare. Credo che  la definizione migliore per descrivere tali criteri sia "trascendentali"
#455
Tematiche Filosofiche / Re:Relativismo/Assolutismo
12 Marzo 2017, 01:16:02 AM
Citazione di: Angelo Cannata il 11 Marzo 2017, 17:50:43 PMForse, per qualche motivo tecnico o involontario, questo mio post a suo tempo non fu letto:
Citazione di: Angelo Cannata il 07 Marzo 2017, 20:14:38 PMSe considerate da un punto di vista metafisico, tutte le affermazioni del relativista sono contraddittorie. Egli non potrebbe dire assolutamente niente, ma parla e pensa lo stesso, perché egli non parla e non pensa metafisicamente. ... Il relativista, per poter parlare, non ha altri strumenti a disposizione che le pietre del castello crollato. Perciò il relativista parla, per lo meno in gran parte, con le stesse espressioni del metafisico, nella speranza che si capisca e che non si dimentichi mai che egli non le intende come affermazioni di principio. Il relativista esprime solo racconti, ricordi, aspettative, opinioni, proposte, emozioni, rabbia, ma per esprimere tutto ciò si serve del linguaggio preso a prestito dalla metafisica; dunque, anche il relativista usa il verbo essere, usa parole come "verità", "bisogna", "si deve", "dobbiamo", "è giusto", "è bene", ma il loro senso va sempre inteso come opinione, racconto di un'esperienza, cioè sempre con un sottofondo di apertura al dubbio e alla discutibilità.

La presunzione di certezza non è requisito imprescindibile per l'utilizzo nei nostri giudizi di criteri e categorie a cui attribuire un valore assoluto e universale. Qualunque giudizio o affermazione, anche quelli che contengono elementi come "mi sembra", " forse" presuppongono tali criteri. La ragazza che incontro per strada, che vedo di fronte a me e che "mi sembra" di riconoscere come una mia vecchia compagna di scuola che non vedo da un po', può essere riconosciuta in questo modo in quanto è presente nella mia mente un'immagine-modello regolativo del riconoscimento della mia vecchia compagnia che coincide con il ricordo che ne ho. Questo modello è un criterio a cui attribuisco una valenza universale trascendentale, un assoluto appunto, in quanto è l'immagine mentale che porrei come criterio di riconoscimento in qualunque situazione spazio temporale mi trovi: dovunque sia, quanto più vedrò una ragazza simile a quell'immagine-modello tanto più sarò certo di riconoscerla come la mia compagna. "Mi sembra" di riconoscere la mia compagna perché opero un raffronto tra le due immagini: l'immagine particolare della ragazza che hic et nunc mi sta empiricamente di fronte e l'immagine-modello regolativo dell'identità della mia compagna e scorgo una somiglianza, cioè devo utilizzare quell'immagine-modello. Non c'è alcuna necessità che la prima immagine coincida pienamente con la seconda perché quest'ultima debba essere dalla mia mente utilizzata, coincidenza che determinerebbe la certezza del riconoscimento. Non sono certo che quella ragazza sia lei, ma "mi sembra" di sì, perché sto ponendo un criterio, a cui attribuisco un valore universale ed assoluto, come pietra di paragone in relazione a cui valutare la somiglianza dell'immagine particolare e noto un certo grado di prossimità che mi fa sembrare probabile, anche se non certo il riconoscimento. Ma sia nel caso di giudizi apodittici che opinabili la mia mente utilizza modelli regolativi assoluti, cioè mantenenti la stessa valenza in ogni contesto particolare possibile, senza tali modelli, presunzioni di verità, nessun giudizio sarebbe possibile, anche quelli opinabili, i "mi sembra" nei quali il relativista crede di potersi limitare. L'errore del relativista sta nel confondere un dato evidente, l'imperfezione e la fallibilità della conoscenza umana con l'idea che sia possibile un pensare, quello del relativista, privo di mire verso l'oggettività del vero. Il relativista non tiene conto del carattere di intenzionalità della coscienza, il fatto che ogni presa di posizione giudicante implica sempre un soggetto che si rivolge verso il mondo, "intenzionato" a rappresentare una verità oggettiva, cioè assoluta, indipendente dai punti di vista soggettivi. Io so che sono fallibile e posso sbagliarmi, ma so anche che, fintanto che penso o giudico qualcosa non posso fare a meno di ritenere che ciò che penso e giudico sia oggettivo, cioè valido non solo per me, ma a prescindere da me. Posso non essere sicuro delle mie convinzioni, ma se le ho è perché valuto un livello di vicinanza tra la rappresentazione del reale sottintesa alle mie convinzioni e un ideale regolativo di verità assoluta, di cui posso avere una visione nitida o confusa, che quanto più si avvicina alle mie convinzioni tanto più le rafforza nella loro pretesa di verità, così come nell'esempio della ragazza, la somiglianza dell'immagine particolare al modello-ideale del mio ricordo determina la convinzione del giudizio di riconoscimento. In ogni pensare e giudicare è implicito un mirare verso l'oggettività, mirare che può fallire il suo scopo ma che comunque non può essere negato a livello di movimento intenzionale. Senza tale intenzionalità il rapporto tra coscienza e mondo andrebbe ridotto al livello basico, bestiale e vegetativo di un soggetto che subisce passivamente il bombardamento di sensazioni esteriori, mentre le funzioni mentali superiori, dalla percezione fino al giudizio presuppongono la capacità dell'Io interpretante di rivolgersi attivamente verso questo caos di sensazioni dandogli una  forma, un ordine, un significato alla luce di categorie estetiche, teoretiche, morali, su cui si formano i nostri giudizi e a cui attribuiamo una validità universale ed assoluta, indipendente dalla contingenza empirica dei contesti verso cui li applichiamo. Conoscere è giudicare e giudicare è sempre ricondurre il particolare all'universale, e questo è un dato che accomuna la mente di tutti, relativisti e assolutisti.

Per quanto riguarda, rispondo soprattutto a Maral, il discorso dei "contesti", credo si possa dire che dalla molteplicità dei contesti derivi la necessità di differenti mezzi e forme con cui realizzare i valori che sono il fondamento della mia coscienza morale, ma non sono i contesti ad inficiare la valenza di universalità che attribuisco ai valori stessi. In certi casi il contesto fa sì che la realizzazione di un certo valore debba passare anche per delle incoerenze, delle infrazioni alla norma del valore stesso, che però sono strumenti necessari per tutelare quel valore in una misura più ampia di quella che sarebbe senza passare per tali deviazioni. Uno stato che pone come valore assoluto la libertà individuale dei cittadini e riconoscerà nella tutela della vita una condizione indispensabile di tale libertà dovrà incarcerare gli assassini. Dovrà cioè limitare la libertà di alcuni, gli assassini, per preservare una libertà maggiore, quella sottintesa alla vita delle persone. Il contesto ha cioè suggerito la necessità di un'incoerenza rispetto al valore, però strumentale alla realizzazione ed alla conservazione del valore stesso, cioè la libertà, che resta così assoluto fondativo della coscienza morale. Nel caso in cui in un certo contesto un certo valore venga non solo tradito strumentalmente per preservarlo a livello più ampio, ma totalmente negato, allora si dovrà arrivare alla conclusione che quel valore già da prima non era per noi il più importante, l'assoluto, ma ad esso è stato anteposto un valore per noi superiore, e il "contesto" è stata solo l'occasione per rendersene conto a posteriori, ma non è stata la causa efficiente di tale cambiamento. Ogni decisione, ogni giudizio, ogni atto libero della nostra coscienza è sempre la conseguenza di un conflitto interno di motivi e valori tra loro confliggenti nel quale il superiore prevale sull'inferiore, ed i contesti sono solo il "campo di battaglia", il luogo di realizzazione dei valori che noi soggettivamente poniamo come superiori, ma non determinano i gradi della gerarchia (a meno di voler negare assolutamente il libero arbitrio). Ogni valore lo si avverte come più o meno importante di un altro all'interno di una gerarchia personale etica, e se tradiamo un valore è sempre in nome di uno superiore. Alla vetta della gerarchia stanno i valori che possiamo definire assoluti e fondativi della coscienza morale, assoluti nel senso che non possono essere vincolati agli altri, che gli sono inferiori per la nostra sensibilità interiore, e fondativi nel senso che tutti gli altri traggono la loro importanza nell'essere simili e adeguati ad essi, e non contrastanti
#456
Tematiche Filosofiche / Re:Relativismo/Assolutismo
11 Marzo 2017, 15:53:13 PM
Citazione di: Duc in altum! il 10 Marzo 2017, 19:52:59 PM** scritto da Angelo Cannata:
CitazioneCiò significa che le affermazioni poste dal relativismo non richiedono di essere garantite da alcuno, perché non si pongono come verità, ma come incertezze, dubbi, sospetti, dubbi che non hanno alcuna certezza neanche di se stessi.
Penso, purtroppo, con sincera umiltà ma in tutta parresia, che il forte sentimento di avversione verso la fede, che ti fa inabissare sempre più nella foschia della follia, man mano che tenti di argomentare con esempi frastornati dal nichilismo, sia solo un comportamento inevitabile per giustificare la scelta del tuo abiurare, per legittimare, a te e agli altri, l'abbandono della tua di fede. Auspico di essere in equivoco. "...se qualcuno ti dice che non ci sono verità, o che la verità è solo relativa, ti sta chiedendo di non credergli. E allora non credergli..." - Roger Scruton

Non conoscevo la citazione, molto bella oltre che pienamente condivisibile!
#457
Tematiche Filosofiche / Re:Relativismo/Assolutismo
09 Marzo 2017, 22:58:21 PM
Non si dovrebbe confondere "violenza" con forza". La violenza è solo una delle possibili declinazioni della forza, la forza che distrugge, provocante sofferenza. Ma esiste anche una forza costruttiva. La casa solida che resiste ai terremoti, alle intemperie, alle bombe è forte, ma la sua forza non si esprime nel distruggere qualcos'altro ma nel conservare se stessa. Relativismo è confondere "forza" e "violenza", sostenendo che il superamento del pensiero violento sia l'avvento di un pensiero "debole", cioè non forte, e non considera che il pensiero "forte" non è necessariamente violento, e che, riprendendo la metafora della casa, trae la sua forza da delle fondamenta che lo rendono solido. Ora le fondamenta del pensiero che lo rendono forte è la razionalità, che consiste nel mostrare l'aderenza del discorso, soggettivo, alla realtà, oggettiva. Come le fondamenta rendono la casa forte, resistente alle varie cause di distruzione, la ragione rende il pensiero forte, resistente alle varie obiezioni tese a smontarlo. In fondo il relativismo ha una sua rispettabile nobiltà, che gli deriva dal nascere da motivazioni etiche apprezzabili e condivisibili: la tolleranza, la tutela del pluralismo, valori che verrebbero messi a repentaglio dalla pretesa di un singolo punto di vista di porsi come l'unico possibile. Il problema è che il relativismo mostra la sua autocontraddittorietà non solo nel senso teoretico, per cui l'affermazione che "tutto è relativo" o "tutto è relazione" sono affermazioni che presumono per la loro validità che siano oggettivamente vere, cioè l'assunzione di un punto di vista oggettivo che smentirebbe il principio di arbitrarietà e soggettività di ogni verità, ma anche nel senso etico, cioè il piano dove il relativismo sente più intensamente le esigenze del suo sorgere. I valori della tolleranza, del rispetto della libertà individuale, della pace sono valori che un relativismo coerente con se stesso dovrebbe negare come ASSOLUTAMENTE validi, limitarli a porli come arbitrari, frutto di preferenze meramente soggettive e sentimentali. Ciò è legittimo ed io stesso ritengo non esista una razionalità oggettiva che ponga un'etica come migliore di un'altra (in questo senso potrei definirmi un relativista etico, mentre sul piano teoretico, conoscitivo, mi considero "realista" ritengo assurdo negare l'esistenza di verità oggettive e assolute). Ora, nel momento in cui il relativismo si impone come visione dominante all'interno di una società, si demanda ai singoli individui di agire in relazione ai propri valor soggettivi senza alcun limite dato da norme universali, da rispettare in assoluto e, inevitabilmente si imporrà la legge del più forte, chi ha maggiori mezzi materiali per imporre i suoi principi finirà inevitabilmente con lo schiacciare chi ne ha meno. Per evitare ciò è necessario che i valori di tolleranza che ispirano il relativista vengano assolutizzati, non nel senso, come invece dovrebbe essere a livello teoretico, di essere giustificati dalla ragione che ne mostri una presunta oggettività, ma nel senso di porli come valori universalmente normativi all'interno di una società, ed in nome di tale normatività ispirare una giurisprudenza, un complesso di leggi teso a proteggere le persone dalla violenza, la discriminazione, l'intolleranza. Cioè le esigenze etiche che ispirano il relativismo presuppongono il superamento del relativismo stesso, fintanto che si resta in esso qualunque giudizio di condanna riguardo atti di violenza e intolleranza resterebbe insensato in quanto mancante di criteri di giudizio riconoscibili come assoluti e universali. Quando si parla di "assoluto", di nesso tra assolutismo e violenza cioè occorre distinguere tra il piano formale e quello contenutistico del concetto di assoluto: quello formale è necessitante per qualunque giudizio o affermazioni, comprese le asserzioni etiche del relativista: giudicare implica sempre applicare criteri e categorie a cui si attribuisce un significato universale all'interno di cui riconduciamo l'esperienza dell'oggetto particolare che giudichiamo: non si può reputare un massacro come "ingiusto" se non si pone un criterio universale di giustizia che funga come riferimento, modello regolativo in relazione a cui raffrontare come "più o meno" giusto un evento storico particolare.. Qui assoluto è una forma, un modo d'essere di qualcosa. L'associazione assolutismo-violenza diviene questione sensata nel momento in cui l'assoluto si debba "riempire" di un contenuto, di una determinazione particolare. Il cristianesimo, questo era il riferimento originario della discussione, può essere visto come prospettiva ispiratrice di violenza in base al modo in cui lo si interpreta, si riempiono di un certo significato determinato concetti come "Dio", "chiesa". Appare evidente come un credente che vede Dio come entità vendicativa o la chiesa come una comunità chiusa, al di fuori del numero di chi ad essa esplicitamente e ritualisticamente aderisce "nulla salus est" sarà ispirato da un atteggiamento molto più intollerante rispetto al credente che vede Dio come padre amoroso di un' intera umanità in cui ci si  riconosce come reciprocamente fratelli, al di là dei confini visibili della chiesa. Eppure per entrambi Dio e chiesa sono verità assolute. Insomma, trovo piuttosto superficiale e limitativo associare violenza e assunzione di verità assolute senza specificare di quale verità si sta parlando a livello contenutistico. C'è verità e verità come c'è forza e forza e dal modo con cui le si determina contenutisticamente dipende la loro carica di eventuale violenza e intolleranza.

Per quanto riguarda il "dubbio" non credo che il relativista abbia il monopolio del dubbio. Perché il dubitare non si fonda sul soggettivismo arbitrario, bensì dall'OGGETTIVO riconoscimento, razionale, di mancanze o fallacie teoretiche di un certo pensiero. Dubito di qualcosa perché ritengo di avere delle oggettive ragioni per il fatto che ciò verso cui applico il dubito non sia convincente. Il dubbio è fondamentale per ricercatori della verità come Cartesio od Husserl, che certo non erano relativisti, ma miravano alla fondazione di un sapere certo e rigoroso. Tutto sta nel come considerare il dubbio, se come punto di arrivo, gioco intellettualistico fine a se stesso (valore dunque assolutizzato... di nuovo contraddizione del relativismo), oppure strumento di ricerca per smontare discorsi non validi in favore di discorsi più validi. Dove sta l'irragionevolezza nel cessare di dubitare nel momento in cui una certa verità ci appare massimamente evidente? Evidenza che, in un eventuale futuro momento in cui cesserà di apparire tale, potrà di nuovo tornare a subire l'azione critica del dubbio, ciò sta all'onesta intellettuale del ricercatore della verità, una virtù individuale, non certo una proprietà esclusiva di una certa ideologia come il relativismo. Ma fintanto che l'evidenza continua a manifestarsi come tale, continuare a dubitare equivale all'infantilismo del bambino dispettoso che si diverte a calpestare sulla spiaggia i castelli di sabbia senza preoccuparsi di costruirne di più alti e belli. E questo è estremamente più violento della tanto vituperata "certezza", che invece dovrebbe essere la meta a cui l'esercizio del dubbio si orienta, quantomeno nel massimo possibile avvicinarcisi
#458
Citazione di: donquixote il 04 Marzo 2017, 20:41:52 PM
Citazione di: Angelo Cannata il 01 Marzo 2017, 20:37:29 PM
Citazione di: donquixote il 01 Marzo 2017, 10:36:43 AM... gay che si suicida perchè il classe lo chiamano "checca", o quello che lo fa in seguito ad atti di bullismo in rete. Tutti costoro sono semplicemente dei vili ...
Ti rendi conto della gravità di ciò che hai scritto? Secondo te quindi, tra il bullo e la sua vittima, il vile non è il bullo, ma è la vittima!
È noto che se un uomo manifesta paura e debolezza davanti a un cane questo diventa aggressivo, quindi un tempo si insegnava ai bambini a mostrare per primi aggressività di fronte a un cane sconosciuto per evitare di essere aggrediti. Questo insegnamento vale anche per gli uomini, e un vecchio saggio diceva che "Se il codardo corresse contro i nemici con la rapidità che li fugge, li spaventerebbe". Un tempo si insegnava ai bambini che iniziavano la scuola e venivano canzonati dai compagni perché magari erano sovrappeso, o portavano gli occhiali, o erano effeminati a farsi rispettare o quantomeno a non farsi condizionare dallo scherno e dalla derisione altrui facendo leva sul suo orgoglio e sulle qualità che gli altri non possedevano. Si insegnava a non mostrarsi mai fragili in pubblico, a non far trasparire le proprie sensibilità e le proprie debolezze perché gli altri ne avrebbero potuto approfittare a proprio vantaggio, dato che sapevano bene che "il mondo è cattivo". Insegnavano loro ad affrontare la vita per quello che è, e non per quello che loro magari pensavano che fosse nei loro sogni di bambini immersi nelle favole e nei cartoni animati. E questi insegnamenti venivano spesso dalla pratica, dall'impegno di chi era più debole e sensibile a reagire alle angherie dei compagni e trovare dentro di sé la forza per non farsi ferire da quelle che in fin dei conti erano solo ragazzate. Quando un ragazzo tornava a casa e diceva al padre che i suoi compagni lo prendevano in giro quest'ultimo non andava certo a scuola a parlare coi professori per lamentarsi (a meno che non si trattasse di episodi molto gravi) ma era il primo ad accusare il figlio di vigliaccheria per essersi lasciato "mettere i piedi in testa" da ragazzi della sua stessa età. Dai primi anni di scuola (o addirittura di asilo), quando si usciva dalla gabbia protettiva dei genitori per i quali ogni figlio è il più bello, il più bravo e il più intelligente del mondo, si imparava a forgiare il proprio carattere e a trovare il proprio posto nel mondo attraverso il rapporto con persone mai viste prima, e ognuno all'interno di una comunità com'era quella scolastica cercava di mostrare le proprie peculiarità e se magari non era "leader" in qualche attività sportiva lo era nello studio della matematica oppure nella conquista delle ragazzine. Si creavano così naturalmente delle gerarchie nei vari ambiti in cui ognuno era rispettato per quello che era, e se qualcuno scherniva qualcun altro perché era arrivato ultimo alla corsa campestre questo si sarebbe magari "vendicato" al successivo compito in classe. Adesso invece si insegna tutto l'opposto: i ragazzi devono imparare che è cosa buona e giusta mostrarsi deboli, esprimere le proprie emozioni, raccontare a tutti i fatti più intimi della propria vita, fare "coming out", piangere in pubblico eccetera, esponendosi così ad ogni sorta di prevaricazione di coloro che, certo vigliaccamente, vorranno approfittare di questa situazione per esercitare una sorta di "potere" o di condizionamento su qualcun altro facendo leva sui loro punti deboli. Ora si esalta la debolezza anche negli adulti e si fa di tutto per proteggerla e mantenerla anziché trasformarla in forza, e così si farà da un lato il gioco dei vigliacchi che essendo un po' meno deboli potranno prevaricare gli altri senza alcuna fatica e divertirsi alle loro spalle, e dall'altro si costringerà i "deboli" che rimarranno tali vita natural durante a subire la più totale dipendenza dalle forze dell'ordine, dai magistrati, dalle istituzioni, dalle varie associazioni più o meno filantropiche, da ogni sorta di psicologi o pseudotali nonché da amici e parenti a cui dovranno rivolgersi ogni volta che si sentiranno prevaricati. Se prima si tendeva ad adottare in pubblico un comportamento improntato al buongusto, alla consuetudine, al senso della misura e del pudore per fare in modo di evitare i giudizi altrui e se qualcuno adottava comportamenti diversi se ne assumeva la responsabilità, oggi si predica che ognuno può fare quel che vuole, quando vuole e dove vuole, e tutti gli altri sono costretti a non esprimere alcun giudizio che non sia di approvazione altrimenti si grida come aquile alla "discriminazione". Si è ormai abituati a pensare di avere tutti i diritti e nessun dovere, nessuna responsabilità, o meglio noi abbiamo i diritti e tutti gli altri hanno i doveri; così accade che le ragazze hanno il diritto di passarti davanti ammiccando mentre indossano una ridottissima minigonna e tutti gli altri hanno il dovere di tenere a bada i loro ormoni; il gay eccentrico ha il diritto di passeggiare sculettando avvolto in un boa di piume di struzzo e tutti gli altri hanno il dovere di mantenere un'espressione seria e distaccata; l'anziana signora di cento chili ha il diritto di postare sui "social" una propria foto fasciata in un paio di leggins animalier e tutti gli altri hanno il dovere di evitare commenti ironici; la ragazza disinvolta ha il diritto di diffondere le sue foto osé con un ragazzo diverso tutte le settimane e tutti gli altri hanno il dovere di risparmiarle gli ovvi epiteti; il pseudointellettuale ha il diritto di fare discorsi senza capo né coda e tutti gli altri hanno il dovere di rispettare e magari riverire il suo "pensiero". Ogni diritto implica un corrispondente dovere, ovvero quello di assumersi la responsabilità delle conseguenze che dovessero determinarsi dal godimento di tale diritto, e se non si è in grado di farlo perché si è troppo deboli o insicuri e non si ha il coraggio delle proprie azioni, o dei propri comportamenti, o di mostrarsi semplicemente per quello che si è, e questa è a tutti gli effetti dimostrazione di viltà, se ne prenda semplicemente atto e non si cerchi l'impossibile eliminazione di tali conseguenze, che può avvenire solo congedandosi (in un modo o nell'altro) dalla società. P.S. ho risposto a questo messaggio poichè sollecitato dalle "forze dell'ordine" del forum a cui ci si è rivolti come la bimba si rivolge alla maestra lamentandosi che il suo compagno di classe gli ha tirato i capelli...

per quanto riguarda il nesso tra diritti e responsabilità sarebbe meglio specificare, quali responsabilità dovrebbero essere dedotte dai diritti. Se si parla di assumersi la responsabilità delle proprie scelte svolte in piena libertà e coscienza, lo trovo un discorso eticamente condivisibile e ineccepibile. Perché devo scaricare i meriti e le colpe che riguardano la mia personalità e le mie azioni che dalla mia personalità conseguono sua altri che non avrebbero agito come ho agito io? Se si invece di parla di accollarsi doveri e responsabilità che io non avverto come costitutivi della mia libertà ma come imposti esteriormente, dalla tradizione familiare, dalla società, allora non lo accetto. Auspicherei un mondo dove ciascuno si assume le responsabilità delle proprie scelte, perché solo così ci si impegnerà a valutare le conseguenze di ciò che si fa senza presumere che ci sarà qualcun altro che pagherà al posto tuo, a cui far pesare colpe non sue, non auspico un mondo di infelici frustrati e repressi che sacrificano i propri desideri e le loro istanze di felicità perché costretti a seguire doveri di cui non riconoscono interiormente il valore e il senso, perché sottomessi a qualcuno. Nel contesto che si sta discutendo, l'atto adulto e lucido di chi suicida, il soggetto è consapevole delle conseguenze del suo gesto, sa da cosa si libererà, ma anche da ciò che dovrà abbandonare, sa che la sua scelta ha un costo, e questo costo lo pagherà lui principalmente, la scelta libera accompagnata dalla consapevolezza delle conseguenze che ricadono su chi la compie è sempre rivelazione di una certa forza
#459
la questione circa il fatto che il suicidio sia un atto di vigliaccheria o di coraggio, di debolezza o di forza credo sia fuori luogo, sia dal punto di vista politico, che da quello più propriamente morale. Dal punto di vista politico, dato che non viviamo, per fortuna, in uno stato etico, che legifera in nome di personali giudizi morali, ma che dovrebbe (dovrebbe, in teoria) limitarsi a rispettare il pluralismo dei punti di vista etici, intervenendo a sanzionare le azioni che procurano concreti danni ad altri, considerando il suicidio come atto rivolto contro il soggetto stesso e non contro altri,  dunque non suscettibile di pena. Dal punto di vista morale personalmente non considero il coraggio e la forza come una virtù a sé stante. La forza è qualcosa che si può orientare verso un'azione buona o malvagia, la cui qualità morale deriva dall'intenzione, dal fine a cui l'azione tende. Se la forza fosse di per sé qualcosa di positivo qualunque evento storico, che è sempre il risultato di una forza che si impone contro una tendenza contraria più debole, dovrebbe considerato bene, accettando in modo acritico come moralmente giusta la legge del più forte. Il rispetto della libertà delle persone credo debba comprendere anche il rispetto del diritto di essere deboli, di aver paura, di non voler soffrire oltre un certo limite, in nome del differente grado e orientamento della sensibilità che contraddistingue l'unicità di ciascuno
#460
Citazione di: donquixote il 02 Marzo 2017, 20:48:17 PM
Citazione di: davintro il 02 Marzo 2017, 19:22:57 PMla sofferenza nobilita l'uomo? Possiede una sua nobiltà intrinseca? La mia personale risposta è: assolutamente no. La sofferenza non ha nulla di nobile, è un male e dunque va il più possibile ridotta. Il che non vuol dire che non sia lecito sopportarla in certi casi, ma mai come valore in sé, ma come "male necessario", o meglio negativo effetto collaterale di un bene maggiore che ripaga (con gli interessi) tale negatività. Certamente la ricerca di ciò che nella vita ci rende felici, "benestanti" in senso fisico-psichico, comporta fare dei sacrifici, sicuramente l'atleta che si prefigge l'obiettivo di vincere la medaglia d'oro alle olimpiadi mette in conto lo sperimentare la sofferenza, la fatica degli allenamenti, ma non pone la sofferenza come valore in sé, ma come un costo necessario per ricavare qualcosa di più grande, la soddisfazione della futura eventuale vittoria. Ogni nostra decisione, la decisione di un essere razionale, porta sempre con sé un aspetto di economicità, calcolo dei costi e benefici, agire sempre in modo che il benessere che ragionevolmente ritengo di avere la possibilità di raggiungere sia maggiore della sofferenza che ora sopporto per raggiungerlo, ed è inevitabile che tale calcolo non possa che essere svolto dalla libertà riflessiva del soggetto che soppesa il valore delle cose, e decide di sacrificare un bene minore per un bene maggiore, e lo soppesa perché è in nome della sua sensibilità morale che attribuisce alle cose un valore. Nel caso in cui il soggetto si rende conto che la sofferenza che prova ha raggiunto un livello o una ineluttabilità tale da non poter essere più accettata e sopportata come costo strumentale per un bene maggiore, ma diviene condizione definitiva ed escludente beni più grandi di essa, allora non vi è nulla di irrazionale nel desiderio di annullare la sofferenza rinunciando a una vita che quella sofferenza non potrebbe più ripagare
Praticamente hai enunciato la ricetta della perfetta infelicità, e il mondo moderno lo mostra quotidianamente. Da un lato abbiamo coloro che anelano all'american dream (che potrebbe essere la medaglia d'oro alle olimpiadi): questi sono disponibili a sopportare un certo livello di sofferenza a fronte di una gioia maggiore da conseguire in futuro realizzando il proprio "sogno": ma quanti sono quelli che effettivamente raggiungono l' "american dream" raccontato nei romanzi e nei film? Quante sono le "Cenerentole" che sposano il Principe Azzurro? E tutti gli altri che hanno sofferto inutilmente? Dall'altro lato abbiamo coloro che non hanno alcun sogno da raggiungere e si acconterebbero di evitare qualunque forma di sofferenza: che vita sarebbe la loro? Soli sotto una campana di vetro asettica? Il tentativo di evitare ogni tipo di sofferenza avrà come risultato solamente l'abbassamento della soglia di sopportazione della medesima, conducendo gli uomini a soffrire di più anzichè di meno.

l'esempio dell'atleta sportivo era solo un esempio, ciascuno di noi ha delle ambizioni più o meno difficili da raggiungere, diciamo delle condizioni a cui vincolare il loro benessere. Per qualcuno può essere successi nello sport, per altri negli studi, altri nel commercio, nell'industria, in famiglia. Per pochi che ce la fanno molti restano sconfitti e illusi... possibile, ma se uno parte rassegnato in partenza certamente si preclude la possibilità minima di successo, mentre se  si mette alla prova può comunque coltivare le sue speranze. Senza poi contare (peccato che si vada fuori topic perché la questione si fa interessante...) che al di là del risultato finale che si raggiunge nel momento in cui ci si impegna in un ambito che rappresenta bene le nostre inclinazioni e passioni si prova piacere nello svolgere un'attività che risulta piacevole. Così chi ama il calcio può divertirsi nel corso della partita anche se poi viene sconfitto, lo studente pur non raggiungendo la laurea può trarre piacere dall'atto di studiare, seppur non coronato dal riconoscimento ufficiale finale. In ogni caso l'apatia assoluta, la mancanza di obiettivi mi pare una prospettiva poco ragionevole e opportuna. Come poco ragionevole, seppur comprensibile, l'idea della sofferenza come necessario passaggio per non "rammollirsi" ed abbassare la soglia della sopportazione. Poco ragionevole alla luce del principio dell'incertezza del futuro. Cercando di evitare, entro i limiti che indicavo prima, la sofferenza si raggiunge un certo benessere nella sofferenza nel presente, col rischio (non la certezza però) poi di soffrire maggiormente nel futuro, mentre chi ricerca la sofferenza per "fortificarsi" vive male nel presente, mentre non è detto che poi possa riscattarsi in seguito, dato che poi potrebbero accadere eventi così terribili da superare la soglia di sopportazione seppure divenuta alta, finendo così nel vivere una vita nel complesso dolorosa e quasi mai felice. Insomma, nell'incertezza di ciò che può accadere nel futuro, trovo più convincente la strategia esistenziale di mettere al sicuro il benessere del presente, poi si vedrà
#461
Citazione di: donquixote il 02 Marzo 2017, 17:55:46 PM
Citazione di: sgiombo il 02 Marzo 2017, 16:27:44 PMDio (o se si vuole la Natura) provvede sempre a por fine alla vota di chiunque, felice o infelice che sia, del tutto indifferentemente al suo stato di soddisfazione o meno; ma purtroppo talora lo fa dopo lunghissime, insopportabili sofferenze anche senza artificiali interventi per prolungare l' orrenda sopravvivenza in siffatte condizioni.
Dato che sei un medico dovresti poter fare qualche esempio di sofferenze fisiche insopportabili che durano mesi o addirittura anni. A me risulta che il dolore fisico, raggiunto e superato il livello di sopportazione come nei malati terminali, senza intervento medico porta alla perdita dei sensi e alla morte in brevissimo tempo. Se invece si parla di sofferenze psicologiche è un altro discorso perchè queste possono sussistere anche in un corpo perfettamente sano, e la medicalizzazione della vita che, come nel caso del dj in questione o in quello di tanti altri, con artifizi tecnici fa sopravvivere la gente in quelle condizioni, contribuisce certamente ad aumentarle.

Che il livello di sofferenza sia elevato o ridotto, di durata prolungata o ridotta nel tempo, superante o meno la soglia di sopportazione resta sempre un giudizio mai assoluto ma relativo, relativo alla sensibilità soggettiva della persona. Chi stabilisce la soglia discreta oltre cui un certo livello (e quale livello di intensità?), andrebbe considerato eccessivamente prolungato? Una settimana, un mese, un anno? La questione etica fondamentale in questo contesto mi pare riguardi il valore della sofferenza: la sofferenza nobilita l'uomo? Possiede una sua nobiltà intrinseca? La mia personale risposta è: assolutamente no. La sofferenza non ha nulla di nobile, è un male e dunque va il più possibile ridotta. Il che non vuol dire che non sia lecito sopportarla in certi casi, ma mai come valore in sé, ma come "male necessario", o meglio negativo effetto collaterale di un bene maggiore che ripaga (con gli interessi) tale negatività. Certamente la ricerca di ciò che nella vita ci rende felici, "benestanti" in senso fisico-psichico, comporta fare dei sacrifici, sicuramente l'atleta che si prefigge l'obiettivo di vincere la medaglia d'oro alle olimpiadi mette in conto lo sperimentare la sofferenza, la fatica degli allenamenti, ma non pone la sofferenza come valore in sé, ma come un costo necessario per ricavare qualcosa di più grande, la soddisfazione della futura eventuale vittoria. Ogni nostra decisione, la decisione di un essere razionale, porta sempre con sé un aspetto di economicità, calcolo dei costi e benefici, agire sempre in modo che il benessere che ragionevolmente ritengo di avere la possibilità di raggiungere sia maggiore della sofferenza che ora sopporto per raggiungerlo, ed è inevitabile che tale calcolo non possa che essere svolto dalla libertà riflessiva del soggetto che soppesa il valore delle cose, e decide di sacrificare un bene minore per un bene maggiore, e lo soppesa perché è in nome della sua sensibilità morale che attribuisce alle cose un valore. Nel caso in cui il soggetto si rende conto che la sofferenza che prova ha raggiunto un livello o una ineluttabilità tale da non poter essere più accettata e sopportata come costo strumentale per un bene maggiore, ma diviene condizione definitiva  ed escludente beni più grandi di essa, allora non vi è nulla di irrazionale nel desiderio di annullare la sofferenza rinunciando a una vita che quella sofferenza non potrebbe più ripagare
#462
sono un "sostenitore" della libertà individuale fintanto che il carico maggiore delle conseguenze delle scelte ricadano non su altri ma su noi stessi. Quindi la scelta di togliersi la vita la ritengo lecita nel momento in cui la prosecuzione della vita viene percepita come insensata o indegna da parte della coscienza. Questa mia posizione credo possa giovarsi di presupposti spiritualistici, o comunque relativi a una filosofia antropologica antiriduzionista, che non riduce l'uomo al corpo, alla dimensione esteriore. Infatti il principio di autodeterminazione, per cui la coscienza soggettiva che è l'unica che può legittimamente valutare la propria condizione esistenziale e le possibili future risorse di evoluzione di tale vita come vita degna d'essere vissuta, e decidere se vale la pena o no continuare, è un principio che ha come condizione imprescindibile l'irriducibilità dell'intimità, dell'interiorità verso cui rivolgere un'autocoscienza valutante, rispetto ai modi con cui la persona si rivela all'esterno, al giudizio altrui. Cioè se l'uomo si riducesse all'esteriorità, alla corporeità sarebbe lecito per un'autorità esterna, la famiglia, lo stato, la Chiesa giudicare se una vita debba continuare ad essere vissuta o meno, mentre l'idea di un mistero, di un'intimità nascosta dall'esterno è la base per riconoscere che il soggetto che più legittimamente può valutare la ragionevolezza, l'opportunità di una vita è l'individuo che vive in prima persona la vita stessa, ovviamente nel caso che il soggetto sia adulto e capace di intendere e volere con una certa lucidità. Solo io posso sapere se la mia vita è una vita degna di essere vissuta o no, perché la mia vita non coincide con le forme attraverso cui agli altri appaio. Del resto, questa motivazione è la stessa che mi porta ad essere profondamente contrario alla pena di morte, nessuno, tantomeno lo stato, può pretendere di giudicare con certezza se una persona meriti di vivere o meno, se possiede le risorse di espiare nel futuro i suoi errori. In questo senso la legittimità del suicidio è radicale conseguenza coerente con la spiritualità dell'uomo, l'uomo non si riduce alla psicofisicità, ma è spirito, coscienza, la vita non è valore assoluto e incondizionato, la sua conservazione è vincolata a condizioni che qualcosa di superiore alla vita, la razionalità, la coscienza pone, e lo pone alla luce della sua capacità riflessiva che coglie la vita con un'intensità del sentire inarrivabile rispetto a qualunque giudizio o sentire esterno, che può scorgere l'aspetto psicofisico, ma non può sentire lo spirito, il sentire dell' Io che sente se stesso dall'interno. L'uomo è l'unico animale che si suicida perché l'unico animale spirituale, cioè razionale.
#463
credo che l'assunzione del limite entro cui ritenere legittima una violenza contro una categoria di esseri ritenuti di valore inferiore per beneficiare esseri di valore superiore dipenda da una combinazione tra il giudizio sulla portata di benefici e malefici e il giudizio circa il livello di inferiorità o superiorità degli esseri in questione, che può essere sfumato o radicale in base all'intensità del sentimento assiologico rivolto alle varie realtà collocabili in una gerarchia. Non c'è mai un'inferiorità o una superiorità generica e assoluta, ma qualcosa può essere ritenuto più o meno inferiore o superiore moralmente a qualcuno, siamo sempre nell'ambito del "più o meno". Ad esempio, si può ritenere gli animali come moralmente inferiori rispetto all'uomo ma questo non impedisce di provare, di fronte all'ipotesi di mangiare carne di animali nella nostra cultura cari all'uomo come cani o gatti estremamente più indignazione e ribrezzo (anche in casi dove gli uomini soffrono la fame) rispetto a ciò che si prova all'idea di calpestare le formiche mentre si cammina, usare antibiotici che sterminano batteri, schiacciare zanzare col giornale che ci infastidiscono, cioè il giudizio di inferiorità non esclude in certi casi che si possa provare rispetto e rifiuto della violenza contro coloro che, pur reputati inferiori, avrebbero comunque un certo livello di "vicinanza" rispetto al grado gerarchico superiore degli altri, cioè la mia visione è meno rigida e schematica di quello che si può pensare. Certo, pericoli di estremizzazione, di abuso di una certa posizione ci sono sempre, ma io credo si debba anche considerare la pericolosità nel partire dalla premessa opposta, la totale negazione di qualunque gerarchia valoriale, in nome di un'uguaglianza che appiattisce ogni forma di vita riservando a uomini, piante, cani, gatti, zanzare e batteri la stessa considerazione etica (l'antispecismo di cui volevo parlare è questo, niente di meno). Il rifiuto di una gerarchia valoriale porterebbe ad una completa stasi esistenziale, nessuna azione, nessuna scelta potrebbe più essere decisa, in quanto verrebbe meno la legittimità di conseguenze delle nostre azioni, che sono sempre positive per qualcuno, negative per qualcun altro, ogni azione, decisione, verrebbe reputata illegittima in base al timore delle conseguenze su qualcuno, dato che nessuno verrebbe più visto inferiore a qualcun altro, in pratica la vita terminerebbe. Vivere è scegliere, e scegliere è differenziare, piaccia o no. Ed esiste una pericolosità anche nell'eccesso di valore che vedo si tende ad attribuire al concetto di "armonia". La vita, intesa come libertà e creatività presuppone invece, come ben notava Eraclito, un certo margine di disarmonia, di conflitto, di squilibrio, squilibrio tra le esigenze dei soggetti, i loro valori, desideri e il dato oggettivo che la natura offre. Se l'uomo vivesse in totale armonia con la natura finirebbe la scienza, la tecnologia, l'arte, la politica, l'uomo ha avvertito l'esigenza di creare la città di Parigi o la cappella Sistina perché non appagato dall'ambiente naturale, cioè in disarmonia con esso. E non mi piace l'idea che gli antispecisti in nome dell' "armonia" impongano all'uomo di tarpare la sua creatività, il suo piacere, la sua libertà nel presente (libertà che può comprendere, perché no , anche la libertà di mangiare carne) per preservare l'equilibrio uomo-natura e la continuazione di nuove generazioni nel futuro. Voglio essere radicale e provocatorio, spero di non scandalizzare troppo, piuttosto che salvare l'umanità e l'ambiente per qualche altra generazione a costo di imporre sacrifici e rinunce alla libertà
individuale delle persone preferisco che l'umanità termini la prossima settimana, ma fino all'ultimo restando noi stessi, cioè liberi di fare le nostre scelte e seguendo ciascuno di noi le nostre personali gerarchie di valore. Al contrario della mentalità biologista (e materialista) che riduce ogni valore al valore della prosecuzione della vita fine a se stessa, non ritengo la vita un valore sempre fine a se stesso, ma una valore se accompagnata dal valore superiore della libertà, libertà che si realizza nelle scelte che compiono esseri dotati di coscienza, l'uomo, che così dal mio, soggettivo, punto di vista merita un privilegio rispetto alle vite che si riducono agli istinti di autoconservazione e non si realizzano come vite davvero creatrici di libertà.
#464
Citazione di: donquixote il 24 Febbraio 2017, 20:52:39 PMSono d'accordo sul fatto che questo antispecismo così di moda (c'è un filosofo australiano che si chiama Peter Singer che ne ha fatto una ragione di vita) è una forma estremizzata di materialismo, poichè nega le peculiarità umane riducendo tutto alle esigenze biologiche (e tutt'al più emozionali) comuni sia all'uomo che agli animali, ma del resto e per la stessa ragione il medesimo ragionamento riduzionista viene proposto all'interno della stessa specie umana ritenendo nei fatti la cultura come un orpello trascurabile dato che, quando si parla ad esempio di integrazione degli stranieri, si dice solitamente che quando hanno una casa, un lavoro e "pagano le tasse" l'integrazione sarebbe compiuta, riducendo quindi la complessità dell'uomo alla soddisfazione delle sue mere esigenze materiali, e quindi limitandolo di fatto alla sua biologia. Per il resto non mi trovo d'accordo con la tua tesi perchè se è vero che l'uomo può, a differenza degli animali, fare tutte le cose che elenchi, prima di tutto non è detto che gli animali non abbiano anch'essi una vita spirituale (dato che di loro non sappiamo praticamente nulla) e soprattutto trovo del tutto insensato stilare una "gerarchia" fra le specie. La morale, l'arte, la filosofia, la musica eccetera sono attività prettamente umane che possono essere valutate solo in quell'ambito. Se uno pensa di essere "migliore" degli animali perchè è in grado di concettualizzare ciò che vede, un'aquila potrebbe pensare di essere migliore di altre specie (e anche dell'uomo) perchè riesce a volare ad un'altezza stratosferica senza mezzi tecnici e ha una vista acutissima, e così via. Ogni specie è a suo modo utile all'equilibrio complessivo e si comporta di conseguenza, ma se vogliamo guardare l'unica specie che non contribuisce all'equilibrio ambientale ma lo distrugge è proprio l'uomo (basta pensare che non si concede alla terra nemmeno dopo morto), e dunque ognuna di esse merita rispetto per quello che è. L'etica è una caratteristica peculiare dell'uomo, per cui non vedo come si possa, partendo da questa, fare una classifica coinvolgendo le altre specie che non la possiedono (o forse la possiedono in modo talmente profondo da comportarsi istintivamente in modo etico senza doversi porre il problema di "pensarci su"). L'unico modo morale, a mio avviso, per comportarsi con gli animali è rispettarli per quello che sono (la famosa "regola d'oro" è valida nei confronti di qualunque ente dell'universo), dunque trattarli da animali e non da uomini e cibarsi di loro esattamente come molte specie animali si cibano di altre specie animali, conseguentemente alla loro natura. Sempre perà salvaguardando l'equilibrio complessivo e non ad esempio eliminando milioni di animali della foresta spianandola per allevare qualche migliaio di vacche di cui una grande percentuale finirà nei cassonetti cittadini. Una gerarchia di importanza delle specie stilata sulla base di criteri morali è sempre molto pericolosa perchè dato che non è possibile "moralizzare" gli animali l'unico modo per moralizzare il mondo sarebbe dunque quello di eliminare le specie ritenute più immorali (e poi su su fino all'uomo), che non mi pare esattamente il modo corretto di rapportarsi con l'ambiente.


"ma del resto e per la stessa ragione il medesimo ragionamento riduzionista viene proposto all'interno della stessa specie umana ritenendo nei fatti la cultura come un orpello trascurabile dato che, quando si parla ad esempio di integrazione degli stranieri, si dice solitamente che quando hanno una casa, un lavoro e "pagano le tasse" l'integrazione sarebbe compiuta, riducendo quindi la complessità dell'uomo alla soddisfazione delle sue mere esigenze materiali, e quindi limitandolo di fatto alla sua biologia."

su questo sono pienamente d'accordo. Una certa mentalità agisce sempre in forme ed ambiti diversi, la squalifica della dimensione spirituale come peculiarità umana nel confronto con gli animali si esprime anche nei rapporti di stima all'interno della specie umana, limitando la dignità e il livello di integrazione delle persone agli aspetti materiali ed economici. Per il resto penso che l'assunzione di una gerarchia etica sia qualcosa di imprescindibile, una sorta di trascendentale, per ogni scelta che compiamo nella vita. La vita è fatta di scelte e le scelte presuppongono sempre una discriminazione, una differenziazione di valore per cui ci sono conseguenze che favoriscono alcuni invece che altri, e presuppongono che i destinatari dei benefici abbiano per chi sceglie un valore superiore nella sua scala gerarchia morale personale rispetto a chi quelle scelte svantaggiano. E questo non solo tra specie diverse, ma tra individui diversi nella stessa specie. Il bene che facciamo ai nostri cari, parenti, amici, conoscenti, che a totali estranei non faremmo è espressione di questa gerarchia valoriale, per cui cose e persone occupano differenti livelli di considerazione, ed in virtù di tali differenze possiamo operare scelte che inevitabilmente favoriscono alcuni e sfavoriscono altri. Questo non vuol dire che ogni gerarchia implica violenza nei confronti di chi occupa livelli inferiori, perché poi questa inferiorità è solo relativa, poniamo qualcuno inferiore rispetto a chi poniamo ai livelli superiori, ma poi questo qualcuno è sempre superiore ad altri. Porre gli animali come inferiori nella gerarchia etica agli uomini non vuol dire odiarli e operare gratuitamente violenza su di loro, ad esempio posso dire che trovo lecito nutrirmi di animali (anche molto per golosità, spero di non esagerare...), ma che trovo immorali cose come maltrattamenti inutili o la caccia per sport., "moralizzarli" poi lo trovo assurdo, perché il moralizzare avrebbe senso nei confronti di chi una coscienza morale l'avrebbe quantomeno a livello potenziale, ma se così fosse dovremmo riservare agli animali lo stesso livello di spiritualità degli uomini, affiancandoli di fatto nella gerarchia, cosicché non ha senso porre la "moralizzazione" come implicazione delle differenze gerarchiche. La gerarchia agisce nel senso, ad esempio, di porre come lecita moralmente oltre che scientificamente necessaria, la sperimentazione animale per testare farmaci per malattie che colpiscono l'uomo, la sperimentazione ha legittimità nella misura in cui si ritiene che le cavie occupino un livello inferiore nella nostra scala di valori rispetto agli uomini, non c'entra nulla l'odio, si tratta di anteporre il bene di una specie a un'altra nel momento in cui sorge un conflitto, si tratta di un rapporto di subordinazione. Non a caso gli antispecisti che contestano l'idea della superiorità etica dell'uomo sugli animali sono contrari anche alla sperimentazione, vedi la serie di offese, insulti, minacce di qualche anno fa contro quella povera ragazza malata che rivendicava come necessaria la sperimentazione sugli animali per i farmaci che la tenevano in vita ma non per questo si può dire quella ragazza tutto fosse una nemica degli animali, anzi...
#465
Tematiche Culturali e Sociali / cultura antispecista?
24 Febbraio 2017, 17:30:19 PM
ci sono modi di dire, comportamenti apparentemente banali, ma che se interpretati con una certa profondità possono svelare implicazioni significative dal punto di vista della mentalità, dei modelli etici e teorici delle persone. Frasi come "gli animali sono meglio delle persone", "i miei gatti per me sono come miei figli", "dovremmo imparare dagli animali" ecc., modi di rapportarsi agli animali sempre più simili ai modi di rapportarsi tradizionalmente riservati alle persone (consulenze psicologiche per i cani, come se i cani avessero una psiche complessa come quella di un umano al punto da meritare di essere studiata da professionisti, vestitini per animali, feste di compleanno per cani o gatti con torta e regali come fossero bambini umani...). Per non parlare dell'aumento del numero di vegani, persone che rifiutano di mangiare alcunché derivi da animali, in nome della preservazione della vita degli animali che viene considerata avente lo stesso diritto di quella umana. Sempre più  sta prendendo  l'idea secondo cui gli animali siano depositari dello stesso identico valore morale delle persone, e chi sostiene tale idea spesso si ritiene depositario di una cultura, di un nuovo modello etico teso a raggiungere sempre più una posizione dominante nella società, l'antispecismo che dovrebbe in futuro soppiantare lo "specismo antropocentrico" che riserva all'uomo una posizione etica superiore rispetto alle altre forme di vita. Quello che qui mi interessa è considerare alcune implicazioni conseguenti a questo modo di pensare, che a mio avviso dovrebbero impedire di interpretarlo come "cultura" nel senso autentico del termine.

Omologare il valore degli animali a quello delle persone presuppone necessariamente la squalifica di tutto ciò che differenzia l'uomo dagli animali, la ragione, l'essere soggetti creatori di cultura, creatori di arte, letteratura, musica, teorizzatori di teorie scientifiche, filosofiche, dottrine politiche ecc, tutte forme di creatività che agli animali sono precluse, non si è mai visto un cane, un gatto, una mucca scrivere (o almeno leggere) un libro, dipingere un quadro, comporre una melodia, discutere le implicazioni filosofiche-scientifiche di una certa teoria  o di un sistema etico-politico. Tutte queste cose dal punto di vista dell'antispecista perdono necessariamente di valore, in quanto non sono ritenuti criteri sufficienti per giustificare una superiorità morale dell'uomo sulle altre forme di vita, vengono ignorati, se non limitando a considerarli come neutri dati di fatto, cioè si sa che l'animale non potrebbe creare cultura come l'uomo ma ciò cade nell'irrilevanza etica. Il valore dell'uomo viene appiattito e uniformato a quello delle altre forme di vita, non considerando come fattore di distinzione valoriale la dimensione propriamente spirituale-razionale peculiare all'uomo, il suo pensiero astratto che lo porta a distaccarsi dal seguire acriticamente gli istinti biologici, a ricercare il senso profondo delle cose, ad esprimere le loro idee di senso, le loro visioni del mondo nelle varie forme di cultura, e ponendo il fatto di "vivere" come un assoluto, un indifferenziata "notte in cui tutte le vacche sono nere" senza porre tra le varie forme di vivere delle distinzioni (vita razionale, vita meramente sensitiva ed istintuale) a cui far corrispondere differenti gradi di una scala etica. L'antispecismo, l'animalismo si pongono come visioni che, al di là dei alcuni toni romantici che alcuni suoi sostenitori utilizzano (l'esaltazione retorica dell'armonia fra le forme di vita, il rispetto per la natura), di fatto sono la riproposizione di motivi materialisti, che negano il valore peculiare della spiritualità umana, un vitalismo irrazionalista (perché non pone la razionalità umana come fattore di superiorità etica), e non può presentarsi come cultura, in quanto necessariamente fondato sulla squalifica della cultura stessa. Come si può infatti attribuire valore all'arte, alla scienza, alla filosofia se non si pensa che gli animali, che queste cose non potranno mai crearle(nella creatività faccio rientrare anche la stessa sensibilità verso queste cose di persone che non sono necessariamente i creatori materiali di esse) non siano da questo punto di vista limitati nella loro eticità rispetto all'umanità che rende possibile l'esistenza di queste cose? Come si può apprezzare qualcosa senza che il soggetto creatore di questo qualcosa non venga per questo rivestito di un valore in particolare, che un altro soggetto non avrebbe? Ecco perché è assurdo concepire una "cultura antispecista", l'antispecismo si regge proprio sulla svalutazione della cultura stessa, ritenuta insufficiente a fondare una gerarchia etica delle forme di vita, sarebbe una cultura che nega il proprio stesso valore di "cultura", una cultura priva di autocoscienza, un'assurdità, o meglio una "pseudocultura"

In conclusione, ci tengo a precisare che il mio obiettivo qua non è fornire argomenti oggettivi riguardo i torti o le ragioni degli antispecisti, in quanto ritengo che le visioni etiche, i giudizi di valore, non possano essere dedotti dalla conoscenza razionale oggettivante, ma il frutto della sensibilità soggettiva, in nome della distinzione fra "fatti" e "valori", "essere" e "dover essere". Trovo però razionale ricavare delle implicazioni necessarie a partire dalla coerenza con le premesse da cui il discorso etico si fonda, la ragione non può fondare una morale, ma può assolutamente valutare la coerenza interna di un certo discorso che parte da premesse morali, e questo mi interessava ora. Così come tengo a precisare che non considero assolutamente l'alternativa all'antispecismo, all'idea dell'uguaglianza morale di tutte le forme di vita, necessariamente una visione che disprezza gli animali senza loro riconoscere alcun valore o dignità, ma semplicemente una gerarchia etica nella quale gli animali, pur amati e rispettati, non sono posti allo stesso livello di considerazione dell'umanità e da questa distinzione discenderebbe differenti modi di relazionarsi, nonché per esempio la liceità per gli uomini di nutrirsi di carne animale senza dover per questo essere associati al disprezzo che tutti provano per assassini o cannibali