Menu principale
Menu

Mostra messaggi

Questa sezione ti permette di visualizzare tutti i messaggi inviati da questo utente. Nota: puoi vedere solo i messaggi inviati nelle aree dove hai l'accesso.

Mostra messaggi Menu

Messaggi - davintro

#466
Tematiche Filosofiche / Re:Dadi e probabilità
20 Febbraio 2017, 21:31:07 PM
Citazione di: Angelo Cannata il 20 Febbraio 2017, 21:15:07 PM
Citazione di: davintro il 20 Febbraio 2017, 20:25:11 PMPer parlare di probabilità è necessario raffrontare una misura di casi in cui la probabilità si verifica e una "totalità", una serie FINITA di casi che effettivamente sono realizzabili nel contesto della previsione. Se ho di fronte un sacchetto con 100 cioccolatini di cui 90 alla nocciola, ha senso dire che razionalmente ho il 90% di possibilità che scegliendo a caso dal sacchetto di prendere un cioccolatino alla nocciola. Posso farlo perché la totalità dei casi possibili ha un limite ben definito, i 100 cioccolatini totali del sacchetto. Non è il caso del lancio dei dadi, nel quale l'induzione presume di ricavare previsioni, ma in modo del tutto irrazionale, perché nel caso del lancio dei dadi non esiste una totalità conclusa, ma per compiere previsioni è necessario ripetere in continuazione all'infinito l'esperienza del lancio dei dadi.
Non vedo differenza tra situazione dei dadi e situazione dei cioccolatini: anche nei dadi c'è una serie finita, costituita dal numero di facce del dado: 6. Anche nei cioccolatini hai una possibilità di infinito, perché ogni volta puoi rimettere il cioccolatino nel sacchetto, rimescolare il tutto e ripetere la pesca. Nei due esempi, quindi, il numero di cioccolatini corrisponde al numero delle facce del dado. Gettare il dado sul tavolo equivale a rimettere il cioccolatino nel sacchetto e ripescare. Così come puoi gettare il dado sul tavolo infinite volte, allo stesso modo puoi infinite volte riporre il cioccolatino nel sacchetto e ripescare.

sì, me ne ero già accorto.  Mi ero più concentrato sul rapporto fra induzione e giudizio probabilistico, che comunque nel corso della discussione era anch'esso emerso come problema. Chiedo venia! Comunque almeno per ora confermo le mie idee sulla parte epistemologica dell'induzione...
#467
Tematiche Filosofiche / Re:Dadi e probabilità
20 Febbraio 2017, 20:25:11 PM
il punto fondamentale della questione mi pare sia quello di mantenere una coerenza tra un certo modello metodologico di ricerca nello svolgere le previsioni e la pretesa di scientificità (o razionalità) dei risultati a cui si ritiene di pervenire. L'induzione non solo, sulla base della celebre argomentazione del tacchino, è secondo me impossibilitata a fondare verità apodittiche, ma neanche probabilistiche. Per parlare di probabilità è necessario raffrontare una misura di casi in cui la probabilità si verifica e una "totalità", una serie FINITA di casi che effettivamente sono realizzabili nel contesto della previsione. Se ho di fronte un sacchetto con 100 cioccolatini di cui 90 alla nocciola, ha senso dire che razionalmente ho il 90% di possibilità che scegliendo a caso dal sacchetto di prendere un cioccolatino alla nocciola. Posso farlo perché la totalità dei casi possibili ha un limite ben definito, i 100 cioccolatini totali del sacchetto. Non è il caso del lancio dei dadi, nel quale l'induzione presume di ricavare previsioni, ma in modo del tutto irrazionale, perché nel caso del lancio dei dadi non esiste una totalità conclusa, ma per compiere previsioni è necessario ripetere in continuazione all'infinito l'esperienza del lancio dei dadi. L'esperienza non è un sistema chiuso ma infinitamente aperto, e non si arriverà mai a concepire una serie chiusa, un 100% da cui ricavare una percentuale vicina o lontana. Sono dunque d'accordo con il primo post di Apeiron. La vera razionalità non può che essere deduttiva, perché se razionale un discorso lo è in quanto giustificato da argomenti che hanno in loro stessi la loro validità fondativa epistemica, allora solo la razionalità che parte da un'evidenza stabile, un punto fermo di cui si è riconosciuta l'indubitabilità (come nel dubbio metodico cartesiano o nella riduzione fenomenologica) può fondare la pretesa di verità dei discorsi, non l'ingenua osservazione induttiva dei casi particolari dell'esperienza, metodo adeguato e vincolato alla contingenza dei contesti empirici verso cui si rivolge, e tale contingenza si rispecchia inevitabilmente nei risultati. Senza l'apodissi si perde anche la probabilità, dato che questa è solo un'approssimazione verso la certezza indubitabile, tolta questa cade anche l'altra. Non è certo un caso che nella modernità razionalismo ed empirismo erano visti, mi sembra, come fra loro contrapposti
#468
Tematiche Filosofiche / Re:La giustizia e il caso
14 Febbraio 2017, 14:43:22 PM
invece secondo me proprio il rapporto che poniamo tra il concetto di "vendetta" e di "giustizia" è il punto focale della questione, se i due concetti vadano identificati o separati. Per "vendetta" intendo l'atto mirante a realizzare una proporzionalità fra il male che una persona commette e il male che subisce, e questo è proprio il nostro caso, aggravare la pena in base a degli effetti non dipendenti dalla responsabilità del soggetto (casuali appunto), vuol dire che in nome della "proporzionalità" si infligge alla persona un male maggiore del minimo necessario strumentale ad impedire che possa ripetere il reato. Questa per me è vendetta, o meglio diritto ispirato da una visione della "giustizia" molto vicina al concetto di "vendetta". Non esiste solo la vendetta privata. I sistemi penali che prevedono la pena di morte agli assassini o il taglio delle mani ai ladri non sono dal mio punto di vista meno vendicativi dei gesti di privati, singoli o gruppi, che spinti dalla disperazione o dalla rabbia cercano di vendicarsi delle persone che hanno loro fatto del male, come nel caso recente di Vasto, solo perché quelle sono sanzioni emanate da uno stato di diritto. In quei casi lo stato viene ispirato da una mentalità, da una cultura che identifica (o collega strettamente) "giustizia" e "vendetta", di cui il diritto è solo una formalizzazione. Non ci deve interessare che esplicitamente lo stato non presenti, con una certa dose di ipocrisia, le motivazioni delle norme come "vendetta", di fatto la vendetta c'entra, e anche considerando che stiamo discutendo nella sezione di filosofia, l'obiettivo penso dovrebbe essere quello di interpretare lo spirito, la visione del mondo che muove i processi, anche quelli giuridici, leggendo fra le righe e non fermandoci alla lettera. Lo spirito vendicativo agisce nel tentativo di realizzare la proporzionalità negli effetti ("occhio per occhio"), mentre a livello di proporzionalità nelle cause, dove cioè si valuta solo l'incidenza diretta della responsabilità del reo e non si considerano gli effetti legati al caso, si emette un giudizio sulla personalità: la pena è proporzionale alle possibilità che il reo possa in futuro ripetere il reato, in base alla sua volontà, salute psichica, razionalità ecc. In quest'ultimo caso la giustizia trascende l'accezione vendicativa e si pone nell'ottica di un laico pragmatismo, l'obiettivo è evitare nuovi mali futuri senza aggiungere male non necessario e gratuito
#469
Tematiche Filosofiche / Re:La giustizia e il caso
13 Febbraio 2017, 23:09:55 PM
non direi che la pena "sostituisce" la vendetta, perché sono due atti rivolti a fini tra loro nettamente diversi. La vendetta desidera mantenere un equilibrio tra il male che si fa e il male che si subisce, in una sorta di visione "religiosa" delle cose, per cui bisogna preservare una sorta di armonia universale che sarebbe turbata dai reati. La pena, in senso razionale e liberale, è un "male necessario", uno strumento finalizzato a infliggere un male minimo necessario ad impedire ragionevolmente a qualcuno che si è manifestato come socialmente pericoloso, di riprodurlo nuovamente. Poi non nego che per molti, e come accade purtroppo ancora oggi in molte culture non toccate dai principi illuministi e razionali, "pena" e "vendetta" finiscano con l'essere interpretati come concetti molti simili tra loro se non pienamente sovrapposti. Ma se devo considerare le cose in base al concetto di "giustizia" che mi sembra personalmente più valido e razionale, non l' "occhio per occhio" che finisce solo per l'aggiungere male a male, ma la giustizia come massimizzazione del bene complessivo all'interno di una comunità o minimizzazione del male, allora trovo logico non considerare a livello penale gli effetti delle azioni non legate alla responsabilità del soggetto,  il cui essere gravato da pene che vanno al di là del suo reale grado di pericolosità sociale, è solo un  vendicativo, irrazionale, infusione di un male gratuito, non necessario in vista del concreto bene comune. Del resto, se il principio della proporzionalità della pena ai danni fosse anteposto a quello per cui ci si limita a fare in modo che il reo non ripeta più il reato, non avrebbe senso un capisaldo fondamentale  e sacrosanto del nostro sistema penale come la riduzione della detenzione carceraria "per buona condotta" (a prescindere dai vari possibili abusi di questo istituto). Se si ritiene che il colpevole ha mostrato di essere pronto nella reintegrazione nel buon vivere civile, la necessità della "proporzionalità della pena" cade in secondo piano
#470
Tematiche Filosofiche / Re:La giustizia e il caso
13 Febbraio 2017, 15:49:02 PM
sono perfettamente d'accordo con questa osservazione. Trovo che differenziare le pene sulla base di conseguenze che accadono al di là della responsabilità effettiva del reo sia una sorta di residuo (probabilmente inconsapevole) di una mentalità che intende la giustizia in senso quasi "vendicativo", la punizione come finalizzata alla ricostruzione di una sorta di un "equilibrio cosmico", per cui la pena dovrebbe in qualche modo somigliare ai danni effettivamente causati. Se invece si entra, come secondo me si dovrebbe, nell'ottica di un'idea di diritto di tipo liberaldemocratico, per il quale la pena non deve essere una "vendetta", ma deve essere calibrata sulla base del grado di pericolosità sociale dell'individuo, la punizione deve solo essere uno strumento che serve a ridurre al minimo le possibilità che il reato commesso possa ripetersi in futuro. Ora, è chiaro che le conseguenze di un azione casuali, che accadono a prescindere dalla volontà o dalla condizione psichica del reo, non possono incidere come criterio di giudizio sul suo livello di pericolosità sociale, quindi non ha senso che aggravino la pena. Credo che queste differenziazioni  siano assolutamente una stortura del sistema giudiziario che andrebbe quanto prima eleminata, per rendere il sistema sempre più coerente con i principi liberali che scindono il concetto di "pena" legale e di" giustizia" da quello, primitivo e barbarico di "vendetta" o comunque di "punizione etica"
#471
dovessi identificare un tratto peculiare della mentalità borghese, che dalla modernità poi ha nelle società occidentali soppiantato il ceto nobiliare-feudale non solo dal punto di vista politico-economico, ma anche culturale, non lo individuerei in un generico materialismo che fa coincidere la dignità della persona in ciò che possiede. Certamente la lotta per il possesso dei beni materiali  è sempre stato un elemento costantemente presente nella società e, al di là che tali interessi fossero più o meno camuffati presentando la ricchezza e i privilegi come legittimari da giustificazioni mitologiche o teologiche, già nell'antichità il dominio politico veniva fatto esplicitamente coincidere con la ricchezza, più che con i titoli nobiliari, aristocratici, si veda la progressiva evoluzione delle costituzioni delle poleis greche e l'antica Roma in senso censitario. Eppure qui ancora non siamo propriamente nella mentalità borghese, nel senso moderno in cui la si intende. Perché la modernità borghese esalta eticamente la ricchezza, sì, ma non nel senso di possesso statico, ma come frutto del lavoro e dello spirito imprenditoriale dell'uomo. Qua sta la cesura vera tra la mentalità aristocratica, antica, medievale, preindustriale, e il capitalismo borghese. Nella prima mentalità nessuno si sognava di colpevolizzare il nobile per aver ereditato le ricchezze senza averle prodotte attraverso il lavoro. Ragione di vanto non era il modo in cui la ricchezza era stata raggiunta, ma il modo in cui una volta ottenuta veniva utilizzata. Motivo di vanto era compiere attività mecenatistiche, culturali, abbellire i propri palazzi, dimore, con opere d'arte, sovvenzionare artisti, scrittori, letterati, oppure finanziare attività caritatevoli, legate alla religione, costruzioni di chiese... ricordiamo che Platone e Socrate consideravano un onore il non farsi pagare per tramandare i loro insegnamenti filosofici e disprezzavano i sofisti, che invece si facevano pagare. Possiamo dire che la mentalità borghese è la rivincita dei sofisti... l'industriale borghese non sembra, come il nobile o il sovrano, essere interessato al lusso, alla cultura, alla manifestazione delle sue ricchezze, ma è appagato nel percepire la sua ricchezza come frutto del lavoro. Evidente il salto di qualità in chiave materialistica della cultura borghese: il denaro non è più strumento, da utilizzare per vivere una vita comoda, confortevole, nel benessere e nelle possibilità che permettono a chi lo possiede di potersi dedicare ai cosiddetti "ozi letterari", ma diviene in un certo senso il "fine ultimo" dell'esistenza, espressione tangibile del lavoro umano, che "nobilita" ciò che si ottiene, la ricchezza diviene specchio delle capacità imprenditoriali dell'uomo, capacità che finiscono col divenire le uniche davvero da prendere in considerazione in termini di valore dell'agire umano. Non è corretto dire che per la borghesia l'uomo si identifica in ciò che ha, ma si può dire che si identifica in ciò che gli ha premesso di produrre ciò che ha. Il carattere materialistico di tale visione è ancora più presente, sottile, subdolo, profondo. Ciò che rende degno l'uomo è ciò che gli consente di ottenere il successo economico, le conseguenze del successo, il lusso, il benessere, passano in secondo piano rispetto alle cause che lo hanno prodotto.
Stando così le cose non si dovrebbe nemmeno parlare di "atomismo", "individualismo" come corollari dello "spirito borghese", in quanto non è la libertà individuale, la libera espressione della personalità, delle sue inclinazioni naturali (come era ad esempio nell'etica classica, soprattutto aristotelica dove il guadagnare denaro era solo strumentale, meno nobile, rispetto alla vita contemplativa, e la virtù coincideva con l'attualizzazione delle potenzialità connaturate nell'uomo) che rende degna la vita umana, ma al contrario tale dignità viene reificata, oggettivata, misurata in relazione al successo economico raggiunto attraverso il lavoro, la dignità dell'uomo coincide con il lavoro che svolge, cioè con la collocazione in ruolo sociale, in una categoria collettiva, proprio l'opposto dell'individualismo che invece dovrebbe rivendicare il valore della libertà del singolo a prescindere dall'imposizione di qualunque ruolo. L'individualismo borghese è un individualismo "spurio", che valorizza dell'individuo solo quelle facoltà adeguate all'ottenimento del profitto e del successo economico, squalificando tutto ciò legato alla creatività spirituale dell' individuo stesso
#472
Citazione di: donquixote il 24 Gennaio 2017, 14:55:19 PMLa critica, lungi dall'essere umile (nel senso di humus, terreno fertile da cui possa sbocciare una qualche certezza), è invece la più becera forma di arroganza: è l'arroganza tipica degli ignoranti, che invidiosi della sapienza altrui non sanno fare altro che metterla in discussione nei modi più risibili e vergognosi; è una forma di parassitismo fra le più diffuse nel mondo moderno, tipica della vigliaccheria intellettuale di coloro che non sanno e sono infastiditi da coloro che invece, magari a volte non sapendo, hanno comunque il coraggio di esporsi e di rischiare con l'onesto intento di sapere di più o di meglio. Esistono critici di ogni materia: dall'arte alla religione, dalla gastronomia allo sport, dalla politica al diritto, e tutti sono accomunati dall'arroganza di chi, dal basso della propria insipienza, giudica senza correre il rischio di poter essere a sua volta giudicato. Vi sono critici d'arte che assegnano a chiunque patenti di artista senza aver a loro volta mai prodotto un'opera d'arte; vi sono critici gastronomici che assegano o tolgono "stellette" ma non sono in grado di cuocere un uovo senza bruciarlo; vi sono critici di calcio che redigono "pagelle" senza aver mai tirato un calcio ad un pallone; vi sono centinaia di critici della politica che a sentirli parlare i problemi sarebbero tutti risolti in un attimo, poi non si sa come mai nessuno di loro è disponibile a dimostrarlo sul campo; vi sono critici delle religioni che si costruiscono una religione come pare a loro e completamente differente da quel che è per poi poterla confutare con successo. La maggior parte dei giornalisti è passata dal ruolo di cronista a quello di critico, e costruisce la propria carriera su parole perlopiù campate in aria, senza mai avere la necessità di dimostrare di essere in grado di fare meglio di coloro che critica, o di avere un pensiero più vero di quello che mette in discussione. Tutti che si vantano di fare i critici "di mestiere" e nascono tali dal nulla, ma non sanno che il critico è colui che ha una grande sapienza ed esperienza in un mestiere e sono proprio queste che lo promuovono al ruolo di critico. Se uno non ha mai fatto politica come può criticare la politica? Se uno non ha mai studiato e capito la metafisica, la religione, la teologia ma ha fatto tutt'altro nella vita su quali basi può criticarle? E poi la critica moderna, a differenza di quella antica che era almeno più onesta, è anche intellettualmente truffaldina, perchè non offre alternative al pensiero che si permette di criticare: se si pensa che una affermazione è falsa è perchè, ovviamente, si dovrebbe conoscere quella vera, ma invece la critica moderna anzichè sostituire affermazione vere a quelle false si limita a contestare qualunque affermazione, sic et simpliciter, limitandosi a formulare fantasiose ipotesi alternative o domande del tipo "ma non potrebbe essere invece...?". Anche l'ultimo degli ignoranti è in grado di contestare qualunque affermazione basandosi sulla propria immaginazione e dunque è l'ignoranza, sotto le spoglie "colte" della critica, a dominare l'intellettualità moderna. E poi, quando anche l'immaginazione fa difetto e non hanno più argomenti, i critici ignoranti (o gli ignoranti critici, che è lo stesso) spostano la loro critica dal merito alla persona, contestando il solo fatto che qualcuno si possa dichiarare sicuro di ciò che afferma, tacciandolo per ciò stesso di superbia e arroganza, quindi di fatto dimostrando viceversa la loro superbia e la loro arroganza. Questi soldati del dubbio che fanno professione di umiltà sempre dichiarata e mai esibita dovrebbero innanzitutto porsi il dubbio se sia sensato criticare un pensiero, un'opera, un comportamento, un'idea senza avere un'alternativa migliore da proporre (come facevano del resto i critici "seri" e onesti, anche se molti di questi hanno proposto alternative false e peggiori), e magari andarsi prima a studiare il concetto stesso di critica che presuppone una profonda conoscenza della materia che ci si propone di criticare.

Condivido pienamente questo pensiero. Aggiungo che a mio avviso il dubbio per il vero filosofo deve essere un percorso, uno strumento di ricerca, non la meta finale, qualcosa che ha in sé il proprio fine. Razionalità vuol dire non accettare di dare per scontato nessuna affermazione fintanto che sono ipotizzabili obiezioni, alternative credibili, mentre nel momento in cui la critica giunge all'obiettivo di isolare delle verità evidenti le cui obiezioni appaiono assurde o autocontraddittorie, ostinarsi a dubitare diviene un dogmatico impuntarsi che non accetta pregiudizialmente di riconoscere l'evidenza, e la critica si manifesta non più come costruttiva, tesa a far emergere qualcosa di positivo, ma distruttiva. Ciò che fa sorgere nell'uomo lo stimolo alla ricerca è l'affrancamento da una condizione di negatività, di smarrimento, di assenza di punti di riferimento intellettuali e morali, che emerge a un certo momento all'interno del corso della nostra esperienza del mondo ordinaria ingenua e affidiamo alla scienza ed alla filosofia il tentativo di trovare nuove risposte, nuovi valori, nuovi criteri da porre come stabili riferimenti della nostra vita al posto delle arbitrarie credenze da falsificare. Una volta che la ricerca e il dubbio divengono autoreferenziali e viene rimosso l'orizzonte teleologico del raggiungimento delle verità, delle risposte, delle certezze, la ricerca finisce col ridursi ad un gioco intellettualistico del dubbio che si crogiola nel perpetuare sé stesso all'infinito, e viene rimossa la drammaticità della condizione esistenziale concreta da dove sorge l'esigenza della ricerca e del dubbio: trovare delle risposte più solide di quelle del senso comune pre-filosofico e pre-scientifico

Direi che la critica è una componente della spiritualità ma che non ne esaurisce la complessità della struttura. Spirito è ciò che nell'uomo lo porta ad ergersi al di là del caos, della contingenza del divenire, che lo porta cercare un ordine all'interno del quale tale divenire acquisisca un senso per la nostra vita, ricondurre la molteplicità delle cose all'unità di un sistema ordinato di concetti, criteri, principi, valori, verità. Il compito della critica razionale è quello di demistificare l'arbitraria pretesa di verità degli ordini, dei sistemi ideologici, religiosi che nell' immediatezza ingenua del senso comune presumono che la loro visione sia la più adeguata a rappresentare il reale, demistificare per lasciare il posto non al vuoto, ma a sistemi, modelli interpretativi più validi. Ma perché la volontà metta in moto la critica in questo senso necessita di essere guidata da una fede, un fede nella possibilità dell'esistenza della verità, di una realtà che incarni un'idea di bene, soprattutto una fede nelle possibilità umane di raggiungere la loro conoscenza, o quantomeno avvinarcisi ponendo tali principi come ideali regolativi della ricerca. Questa fede non è irrazionalità, piuttosto a-razionale presupposto della messa in moto della razionalità stessa per il tramite della volontà, razionalità che privata di tale elemento di fede vedrebbe il suo criticare, dubitare immotivato, senza scopo, insensato, un autoreferenziale girare su se stessa slegato dalle esigenze vitali della persona, privato da un oggetto a cui applicare la sua criticità. Spiritualità è proprio questa dinamica integrale della persona in cui fede nella verità, bene, (aggiungerei nella bellezza) e ragione si richiamano vicendevolmente attraverso il medium della volontà.
#473
tra "multiculturalismo" e "multirazzialità" c'è secondo me una distinzione netta e fondamentale. La cultura non coincide con la razza. Per razza andrebbe intesa l'unità di un ceppo biologico, che si manifesta attraverso caratteri fisici che si ereditano geneticamente (colore degli occhi, della pelle, taglio degli occhi...), mentre la cultura è un complesso di oggetti prodotti dalla libertà spirituale degli individui appartenenti a una certa comunità di popolo. Quindi la razza (o l'etnia) è un concetto meramente materiale e biologico, mentre la cultura è un fatto spirituale perché può solo essere un prodotto di persone dotate di libero arbitrio, capaci, in nome di tale libero arbitrio, di andare al di là dei contenuti, delle idee che vengono ricevute nell'ambiente familiare, l'ambiente che si condivide con dei nostri compagni di etnia, criticali, metterli in discussione, cosicché i modi con cui il singolo diviene soggetto culturale non coincidono con i modi inculcatigli all'interno dell'etnia di partenza. Un ebreo di sangue può tranquillamente, in linea teorica, venendo a contatto con altre culture, sviluppare un senso di appartenenza culturale assolutamente distinto dall'ebraismo, rinunciando ad esempio alla fede abramitica, convertendosi ad una nuova religione, sostituire l'uso della lingua ebraica con la lingua socialmente dominante nella cultura a cui decide di aderire, adottando diversi usi, costumi, riti... Ciò attiene alla sua libertà. Come si evince da ciò la cultura è un fatto dinamico, aperto alla luce della libera creatività degli individui e non si identifica con la trasmissione dei caratteri biologico-etnici, che si tramandano in modo estremamente più statico.

Detto questo, personalmente non avrei nulla contro la società multietnica (la convivenza di persone che differiscono solo per tratti fisici) mentre riconosco i rischi della società multiculturale, una società dove si trovano a convivere persone con diverse visioni del mondo, diversi sistemi di valori, cioè l'espressione della spiritualità delle persone. Ovviamente non tutti i sistemi di convinzioni morali sono tra loro conciliabili e compatibili e il rischio di una frantumazione dell'omogeneità valoriale come collante di una società c'è. Ma, in virtù del principio di dinamicità, cioè della trasformabilità delle culture, una pacifica convivenza non è impossibile, e il dialogo interculturale serve proprio a vagliare i margini di tale possibilità. Ci sono rischi ma anche opportunità. A me pare che su tale tema i due estermismi, la xenofobia dell'estrema destra e dei leghisti, e l'eccessivo ottimismo di certe frangie della sinistra sulla multiculturalità siano approcci evidentemente antitetici, eppure, in modi diversi finiscono paradossalmente col fondarsi sullo stesso errore, proprio la confusione tra "multirazzialità" e "multiculturalità". Da un lato la destra confonde le culture con le etnie, proiettando sul suo concetto di "cultura" la staticità propria dei caratteri fisici e biologici della razza, considerando la cultura come un sistema chiuso, e dunque vede la preservazione dell'identità culturale di un popolo come aprioristicamente escludente la possibilità di un contatto con culture diverse, viste necessariamente come ostili, distruttrici della nostra, di fronte a cui occorre barricarci il più possibile, dall'altro la sinistra confonde le differenze culturali (che riguardano le differenti sensibilità valoriali) con differenze etniche (di per sé riconoscibili come fra loro compatibili all'interno di una stessa società, alla luce del fatto che la personalità di un uomo non coincide con il colore della pelle) e deduce dalla assoluta compatibilità tra le seconde, l'assoluta compatibilità tra le prime, sottovalutando i rischi presenti nel cercare di integrare nella stessa società persone con differenti concetti di "bene", "giustizia", "libertà" ecc., che in realtà non sono certo riducibili a mere differenze esteriori, costituendo la molla motivazionale delle azioni sociali
#474
rispondo a Phil:


Un conto è descrivere, constatare la situazione attuale del clima culturale individuando gli orientamenti dominanti, ed in questo senso, purtroppo a mio avviso, tali orientamenti consistono soprattutto nello scetticismo e nel materialismo che tenta di riportare in auge l'assolutizzazione dell'ambito delle scienze naturali tipica del positivismo ottocentesco, che era stato superato proprio dagli sviluppi dell'epistemologia novecentesca (penso ad esempio a un Popper), un altro dedurre dal riconoscimento di tali orientamenti come dominanti l'idea che essi possiedano un valore teoretico superiore rispetto ad orientamenti che furono dominanti nel passato ma oggi marginali. Tale deduzione è scorretta ed arbitraria. Il filosofo deve avere il coraggio intellettuale di difendere le sue opinioni fintanto che le ritiene razionali e vere non curandosi di quali posizioni sono egemoni nella sua epoca. Se così non fosse la filosofia si ridurrebbe dogmaticamente a senso comune. Io non me la sento di rinunciare a portare avanti le mie modestissime idee, in buona parte ispirate alla metafisica classica, Platone, Agostino, Tommaso, Cartesio ecc., poi personalmente rielaborate, o almeno ci provo, perché nell'epoca in cui mi è capitato vivere questi orientamenti hanno da tempo ormai perso l'egemonia culturale e sembrano dover finire nel dimenticatoio o al museo. Eventualmente andrò nel museo anch'io! E chissà che fra qualche tempo ciò che ora si trova al museo non esca fuori a riconquistare l'egemonia e ciò che ora è egemone non entri al museo... Del resto la decostruzione della metafisica classica è tutto da dimostrare sia stata davvero un valido e razionale superamento. Tra l'altro non direi che la contemporaneità (per intenderci, il novecento), sia così caratterizzata dalla scomparsa dalla scena del modello della metafisica classica o della filosofia di impronta essenzialista o trascendentalista. Pensiamo a tutta la corrente dello spiritualismo neoagostiniano in Italia e in Francia (a proposito, sono reduce dalla visione su Youtube di una bella lezione del compianto Reale sull'attualità del pensiero di Agostino), alla neoscolastica che riprende e riattualizza Tommaso in autori come Maritain, Fabro, Bontadini, quest'ultimo grande maestro del così tanto citato in questo forum Severino. Pensiamo alla ripresa del tema dell'ontologia classica e delle prove dell'esistenza di Dio nella filosofia analitica anglosassone, superficialmente considerata una roccaforte del positivismo. Soprattutto pensiamo alla centralità che ha rivestito la fenomenologia husserliana, tutta protesa alla polemica contro i positivisti, "gli uomini di fatto", in favore della considerazione della filosofia come "scienza di essenze", dell'idea di riduzione trascendentale, di un certo ritorno a Cartesio, dell'Io puro, della messa tra parentesi delle scienze naturali e che poi trova tra le sue ramificazioni proprio il ripristino dell'ontologica classica su base fenomenologica in autori come Scheler, la Stein, la Conrad Martius... esiste oggi un'intera area di ricerca universitaria dedicata all'analisi di un possibile recupero della metafisica e di un'antropologia classica che si giova di spunti fenomenologici. E Siamo nel novecento, non nel paleolitico!

 

L'epistemologia non può mandare in soffitta la metafisica perché la prima di fatto è una ramificazione, una conseguenza della seconda. Un'epistemologia, una riflessione filosofica sulla scienza è possibile nella misura in cui l'epistemologo, che è sempre un filosofo, sa qualcosa che la scienza che diviene oggetto della riflessione non può possedere nella sua immanenza, è in possesso di un punto di vista ulteriore, trascendente. Riflettere sulla scienza, mettere in discussione le sue pretese conoscitive, stabilirne i limiti e le possibilità rientra nell'acquisizione di un complesso di significati che la scienza non possiede in sé, ma riceve da qualcosa di esterno ad essa, il punto di vista del sapere riflettente. Come potrebbe la scienza da sola criticare sé stessa senza mediarsi in una prospettiva ad essa esterna? Sarebbe assurdo e lo sarebbe alla luce del principio per cui la condizione di soggetto riflettente determina sempre un'irriducibilità, un margine di autonomia nei confronti di ciò che si pone nella condizione di oggetto, che subisce passivamente l'atto riflessivo. In altre parole, ogni riflessione presuppone sempre uno scindersi tra soggetto ed oggetto. Non potrebbe dunque la stessa scienza oggetto della riflessione epistemologica lo stesso punto di vista che opera tale riflessione, altrimenti ogni epistemologia cadrebbe nel circolo vizioso argomentativo: il sapere riflettente per mettere in discussione la scienza e coincidendo esso stesso con la scienza da mettere in discussione dovrebbe mettere in discussione se stessa all'infinito senza mai trovare criteri di giudizio intrinsecamente validi che blocchino la necessità del ricorso all'infinito, il classico cane che si morde la coda. Tali criteri intrinsecamente validi l'epistemologia non può trovarli nelle scienze che mette in discussione ma deve per forza attingerli ad una dimensione trascendente, filosofica: l'epistemologo non ha bisogno di essere scienziato, ma filosofo, e la riflessione sulla fisica dovrà porsi in atto a partire da un punto di vista che per essere valido non può coincidere con la fisica ma la deve trascendere, cioè un punto di vista metafisico. La metafisica resta così la necessaria base fondativa della possibilità dell'epistemologia, della filosofia della scienza

La fisica non può essere la base dell'ontologia, perché la fisica, occupandosi di realtà materiali, di cui possiamo avere solo un'esperienza sensibile, corporea, non potrebbe avere mai  gli strumenti per analizzare concetti aventi un significato intelligibile e dunque spirituale. Come è possibile che pensare di sezionare in laboratorio concetti come "Essere", "ente", "essenza"? Qua saremmo in una chiara ed evidente inadeguatezza del metodo, l'esperienza sensibile valida per l'apprensione di una parte limitata dell'Essere, la parte degli oggetti fisici, nei confronti degli oggetti al cui studio ci si rivolge, ciò che è universale, la totalità del pensabile, non riducibile a ciò che cade sotto i 5 sensi, e che possiamo considerare solo attraverso uno sforzo di astrazione dal sensibile, per il quale la sensibilità più che essere un supporto è un'impiccio, in quanto ostacolo l'elaborazione di una visione eidetica e intelligibile adeguata all'intelligibilità dei concetti ontologici. Dunque l'ontologia resta pieno appannaggio della filosofia. Mi parrebbe eccessivo sostenere che senza il vincolo della fisica l'ontologia sarebbe rimasta a Parmenide. A parte il fatto che andrebbe ancora dimostrato che Parmenide abbia avuto tutti i torti, dopo di lui l'ontologia ne ha fatta di strada, c'è stato Platone, Aristotele, la scolastica medievale, Cartesio, Spinoza, l'idealismo hegeliano, Rosmini, la fenomenologia husserliana, Heidegger, tutti orientamenti che nelle loro differenze hanno provato a impostare il discorso sull'Essere senza che siano identificabili con la fisica, quantomeno come la si intende comunemente in senso stretto 
#475
Phil scrive:

 

"Forse la fine della ontologia e della metafisica trascendentalista non è la fine della filosofia, ma un suo sviluppo ("evoluzione" sarebbe termine

adeguato?) che consente alla filosofia di dialogare meglio con le altre discipline... il "senso peculiare" della filosofia, dopo il '900, non credo possa più essere "la ricerca dei principi primi" o "la fondazione del vero" o "l'indagine dell'essere"; se è una disciplina viva, deve adattarsi (darwinianamente                   ) al cambiamento del suo habitat (lo scibile umano), altrimenti resterà "antiquata" (e "antiquaria" come diceva un baffuto filosofo tedesco...)."

 

 

 

Non condivido questa visione "progressista" (non in senso politico) del sapere. Non condivido l'idea che l'aggiornatezza debba essere un criterio epistemico e metodologico di scientificità. O meglio, è un criterio che ha un senso fondamentale se si parla di discipline che si occupano di realtà temporali e mutevoli, in questo caso, è ovviamente indispensabile aggiornare lo stato delle ricerche e delle conoscenze acquisite parallalemente alla variabilità della natura degli oggetti a cui tali discipline si rivolgono. Non è questo il caso della filosofia e della metafisica, il cui obiettivo, a mio avviso, resta quello di elaborare, con una propria metodologia specifica, di tipo prevalentemente deduttivo e non induttivo, una visione ordinata delle essenze, dei principi, delle leggi della realtà sovratemporali, immutabili, necessari, eterni, ed anche nel caso di una negazione dell'esistenza di tali entità sovratemporali, tale negazione dovrà comunque essere il portato di una visione a sua volta mirante a illuminare il livello sovratemporale del reale, una visione eidetica, in quanto per negare qualcosa chi nega deve pur sempre riferire il suo discorso allo stesso punto di vista entro il quale ciò che viene negato avrebbe dovuto presentarsi secondo chi lo affermava. La filosofia non deve rincorrere il susseguirsi delle mode intellettuali, ma deve solo sforzarsi di mantenere una metodologia di ricerca adeguata ai suoi oggetti. La rinuncia ad un suo proprio spazio peculiare di indagine non sarebbe uno "sviluppo" ma la sua morte, in quanto una certa forma di sapere merita di essere coltivata fintanto che offre una conoscenza di un piano della realtà che tutti gli altri saperi non potrebbero offrirmi. Altrimenti è solo tempo perso dato che quello che essa potrebbe dirmi sulla realtà lo potrei conoscere dalle altre discipline, in quanto  non ci sarebbe alcuna eccedenza o trascendenza rispetto ad esse

 

Per quanto riguarda il "dialogo" con le altre discipline... devo dire che a me tutta la retorica sull'interdisciplinarietà, (non dico che Phil o qualcun altro del forum facciano retorica, è una annotazione generale!) che oggi va molto di moda, e viene ribadita in ogni occasione a me ha sempre lasciato perplesso. Più che di dialogo penso si abbia bisogno di rispetto, rispetto reciproco dell'autonomia degli ambiti di ricerca delle varie scienze, da fondarsi a partire dalla distinzione dei molteplici campi della realtà a cui è correlata la varietà delle metodologie di ricerche. Utilizzare diversi e spesso conflittuali metodologie per cercare di rispondere alle stesse questioni, rivolgendosi agli stessi ambiti provoca solo confusione e sovrapposizioni di concetti, punti di vista, impostazioni. Gli oggetti a cui si rivolge il sapere filosofico non sono gli stessi a cui si rivolgono le altre scienze, e pretendere che la filosofia abbandoni il suo terreno per farsi imporre dalle scienze naturali i loro ambiti (mentre non mi risulta che nessuno chieda al fisico o al chimico di occuparsi di anima, Dio, soggetto trascendentale, e giustamente) non è dialogo ma sottomissione, la filosofia dovrebbe snaturarsi per adeguarsi alle scienze naturali, come nel medioevo si cercava di sottometterla alla teologia ed alla dottrina della chiesa. Ma questa pretesa, che assolutizza l'ambito delle scienze naturali che assorbirebbero la filosofia ponendola al loro servizio, non è una pretesa scientifica, ma SCIENTISTA, materialista. E lo scientismo, assolutizzazione non scientifica delle scienze "positive", naturali, come tutte le assolutizzazioni è una metafisica, una filosofia, che maschera sè stessa. A riprova che qualunque tentativo di superamento della metafisica non può che svolgersi se non alla luce di un'altra metafisica, cosicché di fatto lo spirito metafisico non può mai morire
#476
Tematiche Spirituali / Re:Gettarsi da un muretto.
15 Gennaio 2017, 23:27:36 PM
A me pare che la religiosità in un Dio trascendente il mondo e al contempo benigno non potrebbe essere criticata nel senso di far notare il male e la sofferenza nel mondo, in quanto l'atteggiamento coerente di chi crede in una trascendenza dovrebbe essere quello, non di svalutare, ma comunque subordinare e relativizzare i concetti umani di "bene", "male", "giusto" "ingiusto" rispetto alla volontà di Dio. Voglio dire, nel momento in cui si giudica "ingiusto" un Dio alla luce di ciò che in questo mondo l'uomo reputa "male" e "ingiustizia" si finisce di fatto con l'assolutizzare l'uomo, il mondo, il suo metro di misura etico e relativizzando il valore di Dio, alla cui bontà si è disposti a credere solo nella misura in cui rende felice l'uomo IN QUESTO MONDO, considerando Dio non il bene assoluto, ma un servo, uno strumento del mondo, che così diviene il valore primario. Si aspetta, per credere nella bontà divina, che renda felice questo mondo, e se questo mondo non è felice allora Dio non esiste o se esiste è un Dio malvagio e sadico. Un discorso chiaramente antropocentrico e cosmocentrico. Ora, come è evidente, tale atteggiamento mentale per quanto di per sé legittimo (non intendo entrare nel merito ora) è l'antitesi della vera religiosità, che invece dovrebbe credere nella bontà di Dio, incondizionatamente, indipendentemente dall'alternarsi delle fortune e delle sfortune che accadono in questo mondo, non per fideismo, cecità, ignoranza, ma in coerenza con l'idea di un Dio trascendente il mondo. La vera religiosità è di chi dice di fronte al male del mondo, non che questo escluda la bontà divina, ma piuttosto rimanda la fine del male ad una dimensione trascendente, escatologica, perché la vera giustizia non è  (e non potrebbe essere) di questo mondo. Questo è un discorso teocentrico, cioè autenticamente religioso. Dunque la critica alla fede nella bontà divina a partire dalla presenza del male nel mondo è solo una critica estrinseca e dunque non realmente efficace e rilevante, in quanto poggia su premesse radicalmente diverse, capovolte, (antropocentriche) rispetto a quelle da cui parte il discorso autenticamente religioso (teocentriche). Una vera critica dovrebbe invece cogliere le autocontraddizioni del discorso che si vuole criticare, e per farlo dovrebbe per forza partire dalle stesse premesse
#477
La nozione di "ente" credo meriti una centralità e una fondamentalità filosofica nel suo intenderla distintamente dal concetto di realtà, o di esistenza. Cioè per "ente" andrebbe inteso tutto ciò che di cui è possibile predicare qualcosa, qualcosa che renda l'ente, appunto, una vera sostantivizzazione dell'Essere, cioè un "non nulla". L'unicorno non esiste ma è un ente, è pur sempre qualcosa di cui posso dire, pensare, giudicare qualcosa, oggetto di una potenziale intuizione. L'ente è l' "intuibile", e ciò in virtù della struttura intenzionale del pensiero, che è sempre pensiero "di qualcosa" La distinzione tra "essere" e "reale" segna l'eccedenza del pensiero nei confronti della fattualità mondana, in quanto la pensabilità (intesa come intuizione) di ciò che rientra nell'Essere, i cui limiti non coincidono con i limiti del reale permette all'uomo l'accesso all'esperienza di cose non attualmente esistenti tramite l'immaginazione. E come è evidente, è proprio l'immaginazione che costituisce il carattere di libertà e creatività della persona: immaginando oggetti, situazioni non attualmente presenti, l'uomo elabora ipotesi scientifiche, progetta creazioni artistiche, teorizza programmi di rinnovamento politico, sociale, economico. In pratica, la distinzione del piano ente-Essere rispetto al piano della-realtà-fattualità è il presupposto ontologico della condizione dell'uomo come soggetto culturale

Per il livello più strettamente filosofico, mi viene da dire che l'intenzionalità che determina l'"horror vacui", il rigetto del Nulla da parte del pensiero, il fatto che il pensiero miri sempre a "riempirsi" di una presenza oggettiva, che sia attuale o solo potenziale, fa sì che ogni atto di pensiero presupponga l'intuizione fondamentale dell'idea dell'Essere. Per pensare qualcosa, per predicare categorie, giudicare, occorre utilizzare le nozioni di "essere", e di "ente", altrimenti l'oggetto del nostro pensiero sarebbe un "niente" assoluto, quindi qualcosa di impossibile da concettualizzare, verso cui poter attribuire significati. La presenza dell'idea dell'Essere al nostro pensiero è una presenza originaria, universalmente e necessariamente oggettivata, possiamo pensare al di fuori della realtà, non dell'essere. La presenza dell'Essere al pensiero, sotto forma di idea attiene cioè al livello trascendentale, non empirico, è necessariamente correlata alla struttura intenzionale che costituisce il pensiero in modo essenziale. La domanda che si apre, individuare l'origine di tale presenza, dell'Idea dell'essere come contenuto intuitivamente presente al pensiero, domanda di natura metafisica e teologica, finisce col coincidere con la domanda sull'origine, sul perché fondamentale dell'esistenza di una soggettività pensante generalmente intesa. La risposta a tale questione apre alla filosofia uno spazio ben distinto non confondibile con il piano verso cui la soggettività e la coscienza vengono considerate dai sapere empirici sperimentali, antropologia, sociologia, linguistica, neuroscienze ecc. Interrogarsi sulla natura dell'ente e dell'essere vuol dire considerare la struttura universale, trascendentale (trascendentale qui inteso in senso diverso da come poteva intenderlo Kant), del pensiero, una considerazione che trascende qualunque altra che studi il pensiero all'interno di un particolare contesto storico, spaziotemporale, relativo alla specifica natura del soggetto pensante, trascende cioè ogni punto di vista empirico, perché se l' Essere trascende la fattualità reale, allora lo studio dell'Essere non può strutturarsi come metodologia empirica, adeguata solo a ciò che si darebbe in un certo hic et nunc, ma come sapere eidetico, universalistico, vale a dire filosofico. La trascendenza dell'Essere sulla realtà coincide con la trascendenza e l'autonomia della filosofia rispetto a tutte le altre scienze. La rinuncia della possibilità di una speculazione razionale sull'ente, e sull'Essere non sarebbe solo la fine dell'ontologia, ma la fine della filosofia tout court come sapere portatore di un senso peculiare
#478
Tematiche Filosofiche / Re:Tempo ed eternità
10 Gennaio 2017, 00:23:16 AM
credo che tutti aspirino all'eternità, se questo assunto lo si interpreta come il fatto che ciascuno di noi è intenzionalmente rivolto a raggiungere una condizione caratterizzata dalla sospensione del tempo. Ogni agire diretto dalla volontà e dalla razionalità presuppone sempre un dinamismo, un mutamento che non è mai fine a se stesso ma mirante al raggiungimento di un fine, un acquietamento nel quale il fine è stato raggiunto, e il mutamento perde la sua ragion d'essere. Contro tale assunto può muoversi l'obiezione che in molti casi l'uomo tragga piacere non nel raggiungimento di una meta statica, ma nel divenire stesso. Quante volte si gode nel viaggio, nel percorso intermedio tra l'inizio e la fine, nello sforzo stesso tendente al fine più che nel raggiungimento del fine stesso? Tuttavia anche in questi casi l'eternità non viene scalzata dalla sua posizione di oggetto delle aspirazioni, a costo però di operare una formalizzazione, una generalizzazione del concetto. Quando il divenire diviene oggetto di per sè di godimento, si vorrebbe che ciò che si sta facendo lo si continui a fare PER SEMPRE. Il divenire diviene il fine a cui tende il desiderio a condizione che sia un "eterno divenire". Il concetto di "durata" è una declinazione di quello di "eternità", qualcosa tanto più dura quanto più si approssima all'ideale di "eternità". Insomma intesa in un'accezione più formale, intesa cioè a prescindere dalla determinatezza del contenuto, del quid che costituisce la realtà che dura senza più finitezza temporale,  l'eternità è la prospettiva che le nostre inclinazioni mirano a raggiungere, insita nella struttura teleologica di tutto ciò che accade. Dunque l'orizzonte finalistico dell'eternità è un dato universale al di là delle differenti tradizioni religiose, mitiche, intellettuali che cercano di "riempire" l'indeterminatezza dell'idea di eternità con certi sistemi di rappresentazioni, di dogmi, di concetti filosofici. Non solo nel modello teista cristiano lineare dove l'eternità coincide con la eterna durata dalla beata contemplazione della visione divina da parte delle anime, ma anche in quello ciclico come nell' Amor fati nicciano dove, se ben interpreto, l'uomo, divenuto ora  Oltreuomo, rinuncia alla speranza di un'escatologia trascendente il mondo e gode dell'idea dell'Eterno ritorno, l'oggetto verso cui si rivolgono i nostri desideri, il valore sommo, è qualcosa che dura eternamente, sia esso un ente trascendente il mondo, Dio, o lo stesso susseguirsi degli eventi mondani. Anche se non è poi da sottovalutare il fatto che nel modello lineare il valore dell'eternità è da considerarsi più accentuato, in quanto l' eterno non sarebbe solo la forma della realtà, ma anche il contenuto finale, il godimento dell'eternità divina, un'eternità ipostatizzata, che si costituisce come realtà per sè, mentre nel modello ciclico l'eterno resta presente in modo formale, l'ordine delle successioni di un contenuto che però si identifica con ildivenire, con la molteplicità di enti ciascuno dei quali, preso in se stesso non è eterno, ma diveniente e finito. E questa riduzione all'accezione formale comporta a mio avviso anche un certo depotenziamento valoriale dell'eternità

Trovo un pò ambigua l'idea di "comprensione dell'eternità". Cosa si intende per "comprendere" in questo contesto? Se si intende omprendere un concetto  come un coglierne il senso generale, definirlo, utilizzandolo per collocarlo in un'analisi, in una discussione come ora stiamo facendo, allora si può dire che l'eternità è comprensibile, o quantomeno ci proviamo a comprenderla. Tuttavia, vivendo  nella storia, nella temporalità, non avendo un'esperienza concreta di qualcosa di eterno, questa comprensione resta per noi qualcosa di astratto, generico, intellettualista, ma di non vissuto. Sintentizzando, vivendo nel mondano, l'eternità la possiamo comprenderla ma non viverla. E tuttavia proprio tale scarto tra vita e comprensione può essere vista come la manifestazione della non riducibilità della nostra coscienza intellettale alla contingenza temporale del mondo...
#479
Tematiche Filosofiche / Re:Quell'Astrattista di Kant
09 Gennaio 2017, 16:17:07 PM
Citazione di: maral il 06 Gennaio 2017, 10:35:54 AM
Citazione di: davintro il 05 Gennaio 2017, 20:14:48 PMPerchè una visione parziale dovrebbe essere in quanto tale errata?
Perché esclude il contesto di cui è parte e che la determina per come si manifesta vera, ossia esclude proprio la ragione della sua verità, ponendosi nella sua parzialità fuori e sopra il contesto che ne costituisce la radice per immaginare di poter vedere la verità in oggetto. E qui è proprio la verità di una totalità la questione, ma la verità della totalità ovviamente non può essere colta da alcuna versione parziale, non è qualcosa che si costruisce pezzo per pezzo spostandosi da una parte all'altra e poi sommando il tutto, non è una questione additiva proprio perché il rapporto tra parti e tutto non è semplicemente quantitativo, ma è dato da una qualità radicalmente diversa. Proprio il concetto di "totalità dei finiti" è qualitativamente diverso da un numero espresso per sommatoria contabile. Per questo l'infinito non è solo qualcosa di quantitativamente diverso da finito, ha una qualità e un significato diverso anche se riferito allo stesso tipo di cose, esprime una qualità diversa che si riferisce a quell' "oggetto" qualitativamente diverso che è appunto la totalità di quelle cose. E non trovo nemmeno vero che il pennello di Van Gogh resti lo stesso se lo usi tu o Van Gogh, resta lo stesso solo nei termini di una pura astrazione, ossia prendendo l'idea-significato di quel pennello come del tutto separabile dal modo di usarlo e da chi in un determinato momento della giornata, del tempo e dello spazio (fisico e culturale) lo usa. Beninteso, questo di considerare le cose come oggetti perfettamente separabili, anziché come modi di accadere, è quello che facciamo sempre, automaticamente ogni volta che le concepiamo, ma proprio per tale motivo restiamo, pur partecipandovi, estranei alla reale totalità che in esse si presenta. I confini discreti sono fondamentali per poter pensare, ma fanno parte delle mappe, della lettura e utilizzo della realtà (ovvero del sogno di poterla utilizzare in questo o quel modo), non della realtà. Ed è proprio questa realtà che si colloca sopra il piano spazio temporale che è il piano della mappa perché solo su questo piano ogni mappa può essere e viene tracciata, ma ciò che in essa è tracciato non è la realtà, ma appunto le sue infinite rappresentazioni di significato e queste variano continuamente per poter dare ragione della realtà che è la loro eterna, immutabile, sempre presente (un presente che non è semplicemente il presente che sta all'incrocio tra passato e futuro), totale e unica (che non è l'unicità contrapposta ai molti, ma l'unicità che è i molti, plurale) entità. Per questo il mondo cambia e nulla in esso è definitivo e ogni definizione presa in sé, per quanto utile, lo falsifica arbitrariamente, per questo non vi è altro mondo al di fuori di questo: immutabile nel suo essere, ma sempre mutevole nel suo venire a rappresentarsi nella forma dei suoi tanti significati e dei suoi tanti simboli (divinità comprese).

Sono il primo ad ammettere che ogni realtà complessa, non solo Dio, non sia riducibile a "somma delle parti", ma si costituisca olisticamente come un organismo fatto di un insieme di relazioni, rapporti logici che legano i singoli elementi (a questo punto continuare a parlare di "parti", di una ripartizione spaziale è fuorviante) tra loro. Comprendere le relazioni che legano un singolo elemento all'intero approfondisce la conoscenza della sua natura, tuttavia non si dovrebbe cadere nell'errore di dedurre dalla necessità di considerare le relazioni come necessario fattore costitutivo del reale l'idea che la visione globale di un fenomeno debba tradursi nell'indifferenziato, nella "notte in cui tutte le vacche sono nere" nella quale non è possibile cogliere le distizioni semantiche tra un singolo aspetto e un altro. Questo perchè non tutte le relazioni hanno lo stesso significato, e non tutte contribuiscono a determinare l'essere di tutti i termini che collegano allo stesso modo. Cioè ogni relazione approfondisce il senso dei loro termini solo per alcuni aspetti e non per tutti. Perciò non è necessario che io conosca tutte le possibili relazioni che legano un ente alla totalità del reale per poter emettere particolari giudizi di verità su quell'ente. Per sapere quale corso di studi sta frequentando una certa persona devo conoscere la relazione che la lega alla struttura universitaria mentre mi è indifferente conoscere le sue relazioni familiari, i suoi genitori. Nel caso di cui stavamo parlando, ciò a cui la ragione può arrivare, il riconoscimento dell'onniscienza di Dio e ciò che in virtù dei nostri limiti storici è precluso al nostro sapere, l'effettivo contenuto della mente divina, non si pongono come termini di una relazione causale, non è che l'effettivo contenuto della mente divina "causi" la sua onnipotenza, o viceversa(qua utilizzo il concetto di "causa" nel senso più comune, quello di causa efficiente). Si tratta di una relazione di specificazione, ciò che concretamente Dio conosce specifica, "riempie" di un determinato contenuto la categoria di per sè formale e generale di "onniscenza" che però, proprio in quanto formale è riconoscibile a prescindere dai contenuti Quindi io non ho bisogno di condividere lo stesso contenuto del sapere divino per poter emettere giudizi sulla categoria formale a cui quel contenuto si riferisce, perchè categoria generale e specifico contenuto attengono a due livelli ontologici distinti, ontologia formale e ontologia materiale a cui corrispondono distinte metodologie, distinti ordini di verità, distinte "regioni dell'essere". Ogni relazione arricchisce di significato gli enti che li collegano, ma ciascuna per differenti aspetti. Certamente, a livello esistenziale tali aspetti interagiscono fra loro ma a livello logico-gnoseologico la molteplicità degli aspetti è correlata a una molteplicità di questioni nei cui confronti possiamo emettere giudizi di verità, senza che un certo giudizio di verità sia necessitato dalla conoscenza della verità circa altre questioni. Tornando all'esempio di prima: può essere che quel ragazzo segua quel corso di studi universitario in quanto convinto dai propri genitori (interazione esistenziale degli aspetti che entrano in relazione), ma io posso comunque emettere un giudizio di verità sul fatto che egli frequenta un certo corso di laurea senza che tale presunzione di verità sia compromessa dall'ingoranza delle cause familiari che lo hanno portato a scegliere in quel modo (isolamento logico delle singole questioni riguardo la natura delle cose e dei singoli valori di verità dei vari aspetti). L'analisi logica, pur coi suoi limiti, resta cioè lo strumento valido di conoscenza indipendentemente dal carattere olistico,organico e globalistico dei  fenomeni: la conoscenza di un singola verità rivolta ad una singola questione  non è necessitata dalla conoscenza della verità di tutte le questioni circostanti. La non contrapposizione di analisi logica e olismo ontologico riflette proprio la distinzione mappa-territorio. Il suo non essere "territorio" non inficia il valore interpretativo-teoretico della mappa proprio perchè  la ragion d'essere della mappa non si identifica con il senso d'essere del territorio, e non può essere da questo contraddetto, attenendo i due sensi a distinti piani dell'essere non tra loro sovrapponibili e dunque non confliggenti
#480
Tematiche Spirituali / Re:Mi bolle l'inferno!
06 Gennaio 2017, 17:52:44 PM
Dovessi associare una parola all'inferno sceglierei "dispersione". Dispersione: la condizione esistenziale di chi ha smarrito la consapevolezza del proprio centro interiore, di ciò che è più importante nella nostra vita, e si disperde all'esterno, vive meccanicamente sballottato dagli stimoli esterni, senza riviverli interiormente, senza dare loro un senso, una ragione, in quanto abbiamo smarrito la percezione dei criteri stabili dei nostri giudizi, criteri fondamentali in base a cui giudichiamo qualcosa come "vero", "falso", "giusto", "sbagliato", "bello", "brutto", e di conseguenza punto centrale d'orientamento del nostro agire nel mondo.Questi criteri, questa scala di valori costituisce il contenuto della nostra identità profonda e originaria, quanto più il nostro essere, pensare, agire è coerente con essa tanto più avvertiamo il piacere dell'autorealizzazione, dell'espressione della nostra natura individuale, quanto più si perde questo centro interiore, tanto più le nostre azioni sono solo un insensato, caotico muoversi senza che non avvertiamo come manifestazione della nostra identità. L'identità diviene una vuota astrazione, impossibilità ad esprimersi in forme concrete nel mondo, il mondo diviene un luogo di estraniamento, un luogo ostile, minaccioso, dove ci percipiamo in balia di forze sconosciute, perchè non riconosciamo più intorno dei punti di riferimento, il mondo diviene qualcosa in cui non riscontriamo la testimonianza della nostra presenza, non c'entra nulla con noi

Per questo non mi piace nulla quello che va molto di moda oggi, prescrivere modi di fare del tipo "decentrarsi", "uscire fuori da sè stessi"... queste sono proprio gli atteggiamenti "infernali" che porterebbero l'uomo a disperdere l'unità della propria personalità e rinunciare a dare un proprio senso personale al mondo esterno, condizione perchè tale mondo sia un luogo di autentica manifestazione di sè, luogo accogliente e benevolo. Al contrario per dare valore alla vita occorre il più possibile entrare in profondità in se stessi, trovare nell'interiorità le risorse individuali, la coscienza dei nostri valori, di chi"siamo veramente" e solo dopo aprirsi al mondo, un'apertura che non sia dispersione, ma arricchimento, arricchimento di sè, e del mondo che diviene migliore quando agiamo in esso rendendolo più simile alla nostra idea di bellezza e giustizia. L'egocentrismo è una condizione irrinunciabile e al contempo bellissima in quanto senza egocentrismo, non c'è libertà. L'egocentrismo è infatti la condizione dell'Io che è il centro unitario delle sue esperienze vissute che lo legano al mondo, esperienze vissute che corrispondono alla nostra libertà in quanto esprimono un modo d'essere costituente dell'Io, il tratto distintivo della nostra individualità. Il concetto di Io inteso così è prevalentemente formale, attiene alla sfera trascendentale, ma proprio questa formalità consente di non identificare l'egocentrismo a un particolare specifico atteggiamento concreto. Cioè l'egocentrismo non è disprezzo del mondo, degli altri, perchè è una condizione esistenziale formale e indeterminata, il modo d'essere per cui i nostri atti provengono da un centro che li tiene uniti nell'unità della persona, l'Io. E l'altruismo altro non è che una delle possibilità dell'egocentrismo, che si realizza quando i valori dell'Io comprendono la considerazione del bene altrui, oltre che del proprio. Un altruismo non egocentrico sarebbe forzatura, conseguenza di un imposizione esterna ai valori interiori dell'Io: "non uccido non perchè non sia giusto uccidere ma perchè altrimenti finisco in galera" è l'esempio più evidente di un'attenzione all'altro che non corrisponde ai valori dell'io, dunque non egocentrico. Tutto dipende dal concetto di "Ego" che si ha in mente, trascendentale o empirico