Andare, col perdono, oltre la perdonabilità: una falsa impossibilità, o una falsa possibilità?
Si veda il contenuto del seguente link:
https://www.avvenire.it/agora/pagine/derrida-e-i-monoteismi-alle-prese-col-perdono
Quando incontrai la tesi di Derrida sul perdono, presentata maldestramente da un relatore durante un incontro culturale, la scambiai sulle prime per la denuncia di una richiesta di troppo. Mi resi poi conto che Derrida indicava il potere creativo dell'amore, apparentemente con irresistibile forza intellettuale e secondo un'etica incontrovertibile. Eppure le cose sono più complicate di quanto sembri. Non tanto e non solo perché il non-perdono non è di per sé una vendetta, ma perché questa categoria, il perdonare, per quanto bella e meravigliosa da pensare ed applicare, non è tutto nella logica della vita e di Dio a fronte della negatività dell'esistenza.
Dimostrerò la cosa, prima con un excursus esplicativo, quindi con una brevissima dimostrazione.
Che valore dare al perdono che tutte le grandi religioni monoteiste affermano con più o meno forza, e che la maggioranza dei teologi cristiani ascrivono soprattutto alla dottrina cristiana?
Molti sono convinti che l'ebraismo sia un movimento religioso votato alla vendetta, pensando che l'uso rigoroso ed esclusivo dei Dieci Comandamenti sia una prerogativa dei cristiani, invece questa era già degli stessi ebrei. Analogamente, sono in tanti a pensare che i musulmani pratichino talvolta la vendetta come regola, specialmente nelle sue forme estreme sconfinanti nella faida; in realtà le rappresaglie violente sono nell'Islam soltanto tollerate per essere moderate. In questo la Torah e il Corano non differiscono: nella prima il potere di moderazione, sotto opposta apparenza, è di Dio; nel secondo, pur senza apparire come tale, esso è della comunità. In entrambi i casi i valori fondanti sono altri, deducibili da elementi piuttosto semplici: generosità verso gli stranieri cioè gli altri; la elemosina, ovvero l'azione gratuita. In queste due religioni il perdono è descritto secondo questi due elementi: atto di generosità, atto di gratuità.
Nel cristianesimo il perdono ha funzione e prerogativa diversa ma non differente. Questa si può cominciare a comprendere valutando l'apparentemente assurdo invito evangelico ad offrire l'altra guancia a chi ha percosso e vuole ancora colpire. Non si tratta di doversi sottoporre o dover rischiare un'altra percossa, ma di agire secondo un potere diverso, non fondato su una semplice intuizione ma su un evento in cui una particolare fede unisce il credente con il Dio che è amore. Un potere dovuto all'unione umano-divina, che consente di amare il nemico e di perdonarlo illimitatamente. Il perdono cristiano è un atto di potere e amore, la carità.
C'è da chiedersi però se, anche nel caso del cristianesimo, si debba tributare al perdono assoluta centralità e necessità. Per quanto Dio in tutti e tre i casi conferisca delle facoltà particolari, restano le situazioni umane confinate, anche nel caso della unione teandrica (uomo-Dio). Accanto al perdono, queste religioni annoverano una azione parallela, la possibilità ultima di un cambiamento. Nell'ebraismo è rappresentata dalla partenza, l'esodo o l'esilio, diversamente che una vera sconfitta; nell'Islam dallo sforzo, contrasto ("Jihad"), che non va confuso con la reazione violenta; nel cristianesimo da una rivelazione definitiva, la 'Apocalisse', che non va identificata in una catastrofe.
Il filosofo che si accinge a dire di perdono e di religioni e fedi monoteiste, che invita a 'perdonare oltre la perdonabilità', ha preso davvero in seria considerazione il patrimonio dottrinario di esse? La sua filosofia ha saputo riconoscere di tali dottrine il valore di premesse culturali e spirituali, al di là delle convenzioni distrattamente o ingenuamente diffuse? Se egli parte da una di queste premesse, ha voluto chiarirne tutti i significati o i significati? Se invece ne prescinde, ha coscienza di interagire con un mondo diverso, che è estraneo a una semplice indagine filosofica?
Lo sterminio nazista consente all'ebreo la possibilità di essere generoso coi suoi oppressori, o gli pone innanzi la necessità di abbandonarli? Analogamente, la catastrofe ecologica attuale pone il cristiano in grado di fare un gesto risolutivo di carità per i suoi autori, o gli impone solamente una nuova consapevolezza per un radicale mutamento delle condizioni? E il musulmano potrebbe reagire allo stesso evento con un atto di generoso convincimento e inibizione, o non avrebbe soltanto da impegnarsi in contrarietà?
Mauro Pastore
Si veda il contenuto del seguente link:
https://www.avvenire.it/agora/pagine/derrida-e-i-monoteismi-alle-prese-col-perdono
Quando incontrai la tesi di Derrida sul perdono, presentata maldestramente da un relatore durante un incontro culturale, la scambiai sulle prime per la denuncia di una richiesta di troppo. Mi resi poi conto che Derrida indicava il potere creativo dell'amore, apparentemente con irresistibile forza intellettuale e secondo un'etica incontrovertibile. Eppure le cose sono più complicate di quanto sembri. Non tanto e non solo perché il non-perdono non è di per sé una vendetta, ma perché questa categoria, il perdonare, per quanto bella e meravigliosa da pensare ed applicare, non è tutto nella logica della vita e di Dio a fronte della negatività dell'esistenza.
Dimostrerò la cosa, prima con un excursus esplicativo, quindi con una brevissima dimostrazione.
Che valore dare al perdono che tutte le grandi religioni monoteiste affermano con più o meno forza, e che la maggioranza dei teologi cristiani ascrivono soprattutto alla dottrina cristiana?
Molti sono convinti che l'ebraismo sia un movimento religioso votato alla vendetta, pensando che l'uso rigoroso ed esclusivo dei Dieci Comandamenti sia una prerogativa dei cristiani, invece questa era già degli stessi ebrei. Analogamente, sono in tanti a pensare che i musulmani pratichino talvolta la vendetta come regola, specialmente nelle sue forme estreme sconfinanti nella faida; in realtà le rappresaglie violente sono nell'Islam soltanto tollerate per essere moderate. In questo la Torah e il Corano non differiscono: nella prima il potere di moderazione, sotto opposta apparenza, è di Dio; nel secondo, pur senza apparire come tale, esso è della comunità. In entrambi i casi i valori fondanti sono altri, deducibili da elementi piuttosto semplici: generosità verso gli stranieri cioè gli altri; la elemosina, ovvero l'azione gratuita. In queste due religioni il perdono è descritto secondo questi due elementi: atto di generosità, atto di gratuità.
Nel cristianesimo il perdono ha funzione e prerogativa diversa ma non differente. Questa si può cominciare a comprendere valutando l'apparentemente assurdo invito evangelico ad offrire l'altra guancia a chi ha percosso e vuole ancora colpire. Non si tratta di doversi sottoporre o dover rischiare un'altra percossa, ma di agire secondo un potere diverso, non fondato su una semplice intuizione ma su un evento in cui una particolare fede unisce il credente con il Dio che è amore. Un potere dovuto all'unione umano-divina, che consente di amare il nemico e di perdonarlo illimitatamente. Il perdono cristiano è un atto di potere e amore, la carità.
C'è da chiedersi però se, anche nel caso del cristianesimo, si debba tributare al perdono assoluta centralità e necessità. Per quanto Dio in tutti e tre i casi conferisca delle facoltà particolari, restano le situazioni umane confinate, anche nel caso della unione teandrica (uomo-Dio). Accanto al perdono, queste religioni annoverano una azione parallela, la possibilità ultima di un cambiamento. Nell'ebraismo è rappresentata dalla partenza, l'esodo o l'esilio, diversamente che una vera sconfitta; nell'Islam dallo sforzo, contrasto ("Jihad"), che non va confuso con la reazione violenta; nel cristianesimo da una rivelazione definitiva, la 'Apocalisse', che non va identificata in una catastrofe.
Il filosofo che si accinge a dire di perdono e di religioni e fedi monoteiste, che invita a 'perdonare oltre la perdonabilità', ha preso davvero in seria considerazione il patrimonio dottrinario di esse? La sua filosofia ha saputo riconoscere di tali dottrine il valore di premesse culturali e spirituali, al di là delle convenzioni distrattamente o ingenuamente diffuse? Se egli parte da una di queste premesse, ha voluto chiarirne tutti i significati o i significati? Se invece ne prescinde, ha coscienza di interagire con un mondo diverso, che è estraneo a una semplice indagine filosofica?
Lo sterminio nazista consente all'ebreo la possibilità di essere generoso coi suoi oppressori, o gli pone innanzi la necessità di abbandonarli? Analogamente, la catastrofe ecologica attuale pone il cristiano in grado di fare un gesto risolutivo di carità per i suoi autori, o gli impone solamente una nuova consapevolezza per un radicale mutamento delle condizioni? E il musulmano potrebbe reagire allo stesso evento con un atto di generoso convincimento e inibizione, o non avrebbe soltanto da impegnarsi in contrarietà?
Mauro Pastore

